L'IDEA MOLISANA umanità/macchina/artificio Maggio 2015
TECO VORREI una disputa tra oralità e scrittura
foto: Paolo Cardone
Foto: Massimiliano Ferrante
EDITORIALE
Di nuovo ●
Adelchi Battista — Sono particolarmente orgoglioso di questo nuovo numero de l'Idea Molisana: primo perché non credevo che avremmo superato il primo scoglio. Poi perché mi pareva talmente buono il numero zero che sembrava complicato riuscire a fare di più e meglio. Ma poi sono arrivati i contributi, e ho dovuto, con grande gioia per la verità, cambiare idea. Intanto, diamo il benvenuto ai nuovi contributors fotografici, e cioè Lello Muzio, Paolo Ricciuti e Giovanni Rosa. Con il loro arrivo il nostro parco immagini, già ben assortito grazie ai maestri Cardone, Di Nonno e Paolantonio, viene integrato da giovani dinamici e con innato istinto verso l'immagine. Potete verificarlo da soli nelle prossime pagine. Ma il mese di Maggio del 2015 è foriero di grandi interventi e tutti di altissimo livello: dall'intervista che il PM Fabio Papa ha concesso al nostro Antonello Lombardi, al magistrale studio sul Teco Vorrei di Matteo Patavino, fino al reportage sui migranti di Massimiliano Ferrante (che oltre a scrivere fa anche le foto), i sei passi per la comprensione di Houellebecq del prof. Giannubilo, l'irriverente ritratto delle sentinelle in piedi di Lucio di Gaetano, l'analisi massmediologica del portaborse Vincenzo di Giuseppe Colella e un fondamentale contributo sull'energia del nostro massimo scienziato Marco Oriunno, per non parlare dell'articolo di fondo (proprio in fondo in fondo, per chiudere in bellezza) di Catharina Sottile. In aggiunta a tutto questo, una nuova firma giornalistica, quella di Alessandro Antonelli, impreziosisce ancora di più questo incredibile parterre di cervelli, con una tagliente riflessione sull'Italia di questo momento storico. Sapevamo che la seconda prova di un esperimento come questo sarebbe stata decisiva per l'eventuale sopravvivenza del nostro magazine. Se davvero l'abbiamo superata sta a voi farcelo sapere, attraverso la nostra pagina facebook, dove potete commentare gli articoli o avviare nuove discussioni. A questo proposito voglio ringraziare tutti i nostri lettori. Le 43.000 pagine visitate in un solo mese di vita sono il viatico migliore per poter continuare a lavorare a questo progetto, che - non fa male ricordarlo - è su base completamente volontaria, senza contributi pubblici e senza pubblicità. Alla prossima!
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© 2015 Adelchi Battista Instagram
Foto: Lello Muzio
il tetro sottoscala del
PADIGLIONE ITALIA
DI
Alessandro Antonelli
E vennero i manager e i banchieri, i professori e i tecnici, gli imprenditori del lusso e quelli del gusto. Ma alla fine tutto tornò in segreteria. Segreteria Pd. Il vangelo secondo Matteo, prontuario della nuova ortodossia, testo unico della liturgia dell'innovazione, ha avuto la forza di surclassare e sussumere gli scritti apocrifi dei vari "capitani coraggiosi" che preesistono all'ascesa di Renzi ed ora lo fiancheggiano e lo accompagnano nei fasti bugiardi del Padiglione Italia. I self made men – tra cui si potrebbe annoverare persino il Berlusconi d'antan – hanno ceduto il passo al selfie made man. Autoscatto di una nazione perennemente in cerca d'autore, affezionata al mito dell'uomo forte che tiri a lustro le vetrine del suo Expo, meglio se astuto e rampante come il cavallino della Ferrari con in sella il primo dei clamorosi bluff del nuovo millennio: Sergio Marchionne, arci-rottamatore in senso letterale, nel senso di sfasciacarrozze della Fiat, papa straniero corteggiato a destra e manca in veste di taumaturgo e ancora oggi ci si chiede perché. Domanda elementare destinata a restare inevasa, dal momento che lo stesso interrogativo senza risposta si affacciò quando sembrava giunta l'ora del suo predecessore, Luca Cordero di Montezemolo, il re tentenna della politica italiana, sempre sull'uscio del partito nuovo all'insegna della misteriosa "innovazione". Sono i maghetti delle stock options, collezionisti di buone entrate negli affari di Stato ma soprattutto di buone uscite, anzi ottime, al momento dell'abbandono delle rispettive aziende. Cosa hanno portato, costoro, al benessere collettivo? Quale profezia di virtuoso mutamento? Il lessico del fare impresa, è cosa nota, contagia il linguaggio della politica da tempo immemore, da quando cioè è saltata la linea di confine tra "progressisti" e "conservatori" e tutti si sono sentiti custodi del verbo del cambiamento. Tutti, anche i più polverosi esponenti della Prima Repubblica, persuasi dalla necessità di gestire la cosa pubblica alla stregua di una holding: il leader come amministratore delegato, i voti come utili d'azienda, le correnti come azioni, la maggioranza come golden share. Abbiamo cominciato ad acquisire familiarità con una inedita idea performativa della politica, sezionando e disegnando sul grafico dell'economia le varie componenti del consenso. Questa è stata l'innovazione in Italia: un update del vocabolario istituzionale senza il bisogno di muovere davvero un passo in avanti, un abuso di futuro senza gli strumenti per affrontare il presente. La comoda vita nell'irreale, plasticamente raffigurata nel camouflage di questi giorni, coi posticci bell'e pronti per mascherare i ritardi nell'allestimento della grande esposizione universale. Da questo punto di vista, Matteo Renzi è il predestinato, colui che in un solo corpo, energico e tarantolato, ha fatto mostra di racchiudere tutte le qualità dei prototipi su descritti. E da quando è asceso tutti gli hanno favorito il passo. Qualcuno, è vero, prova a fargli il controcanto, come Della Valle, ma lì è questione che interroga gli umori personali: un tempo mentore dell'ex sindaco di Firenze, a cui distribuiva consigli paterni ricevendo in cambio ossequiosi cenni d'assenso, Don Diego lo"scarparo" ha fatto mostra di non gradire la sua estromissione dall'intelligence renziana e ora si diverte a togliersi tutti i sassolini dalleTod's. Senza lesinare in complimenti del tipo "non ha mai lavorato quindi non può parlare di lavoro come noi" e definendo la liaison con Marchionne un"incontro tra due sola". (Piccolo inciso: è alquanto significativo che il braccio di ferro su tassi e percentuali di innovazione venga condotto da due epigoni
Il padiglione Italia in uno scatto di Massimo Di Nonno
della vecchia Dc, il primo un margheritino della prima ora, il secondo addirittura in quota Mastella, tanto per dire la rivoluzione).La lista dei salvatori della patria partiti lancia in resta è lunga. Anche Marchionne ha collezionato avances, salvo qualche pungolatura nella fase in cui Renzi, per non scontentare la sinistra, aveva bisogno di unirsi al coro di critiche all'indirizzo dell'ad del Lingotto ("Hai tradito gli operai" disse una volta, mentre l'uomo col maglione gli rispose "sei la brutta copia di Obama"). Anche qui una mera questione di sbrego alla diplomazia, che il tempo ci ha restituito nella sua naturale dimensione di corrispondenza d'amorosi sensi: Marchionne ha infine avuto la benedizione del premier, mentre questi ha letteralmente "marchionnizzato" l'azione di governo, l'ha resa cioè densa di protervia e impermeabile alle obiezioni. Di Oscar Farinetti che dire: è Renzi seduto a tavola. "Bisogna che vada al governo senza passare dal voto" preconizzò ai tempi dell'"Enrico stai sereno". Detto, fatto. Il patron di Eataly ha rintuzzato la religione dell'innovazione con un'altra parola molto in voga ultimamente: eccellenza. E ora si gode da pontefice laico questo Giubileo della gastro-politica. Nell'angoscioso deserto di ricette atte a risollevarne le sorti, si guarda alla cima del Belpaese attaccandosi ai sui migliori prodotti, siano il peperone verde o le griffe dell'alta moda. Come a dire: così ce la possiamo fare. E se Renzi fosse un vino, chiesero a Farinetti, quale sarebbe? "Un Barolo giovane. È un vino importante, ma allo stesso tempo beverino, cioè si fa capire, piace a tutti". Innovare è dunque soprattutto piacere. È una questione di marketing. La qual cosa lascia presagire un bisogno di fiction così esasperato da generare effetti psicotici di massa. Qualche mese fa, a margine di un fatto di cronaca assai brutto, cioè l'accoltellamento fra due dipendenti nel magastore di Eataly a Roma, colpì lo smarrimento di un testimone: "Stanno girando un film?".
Tutto è possibile, se tutto diventa set.L'innovazione, a torto intesa come disinvolta padronanza del mezzo con cui la si annuncia, spesso si ritorce nel paradosso del suo esatto opposto. Così che Renzi viene percepito innovatore persino quando compie gesti che più provinciali e passatisti si muore: mangiare il gelato tricolore a favore di cameraman, accarezzare il pubblico generalista del pomeriggio, recitare gli stanchi urrà per il made in Italy, andare a rimorchio del più bieco politically correct – quello del giovanilismo come ideologia o delle quote rosa come precetto morale – che appunto con l'innovazione, anche del linguaggio, dovrebbero fare a cazzotti. L'innovazione nell'era di Renzi e dei suoi corifei non è avanguardia, inizio coraggioso di un corso avventuroso. È nella migliore delle ipotesi rimozione muscolare di insolentiguastafeste e nella peggiore una mano di vernice sui muri della tradizione. Anzi a volte neppure quella: vedi il rimpasto dei mammasantissima a capo delle principali controllate dello Stato. Moretti, Marcegaglia, De Gennaro... ah quanta freschezza! C'era una volta la parabola del Titanic. Lugubre quanto si vuole, ma con una sua rassicurante rotondità: prima parti, poi sbatti, infine affondi. Oggi che le navi si intoppano già alla prova del varo, anche l'iceberg è diventato un miraggio lontano e l'antica metafora non regge più. Lo sviluppo non c'è, il relativo ministero invece sì, millantato protagonista della "fase due" che dopo il rigore doveva aprire i battenti della crescita e ora neppure si sente nominare. Spalancano la bocca solo gli squali del calcestruzzo, i miracolati dello sblocca-Italia, futuri partner del governo nella costruzione di chissà quali magniloquenti grandi opere che apriranno le porte ai privati attraverso il meccanismo del project financing. Se la ridono i giganti dei multiservizi, in fiduciosa attesa della deregulation del mercato dei trasporti locali e dell'energia (è questa la vera lenzuolata di liberalizzazioni, altro che aspirine e licenze dei taxi). Si sfregano le mani le fondazioni bancarie, finalmente a un passo dal controllo degli atenei e dei centri di ricerca universitari. Insomma, gode l'Italia dei grandi sponsor, mentre il resto del cosiddetto "tessuto produttivo" è un corpo morto: imprese che chiudono o migrano all'estero, lavoratori a spasso, fatturati in picchiata. C'è la crisi, c'è la crisi. Tutto vero, però non bastano i capricci dei mercati azionari ad esaurire la profezia dell'apocalisse, ché qualche responsabilità, gli uomini piazzati sulla tolda di comando, ce l'hanno pure loro. Il punto è che ai piedi dei nostri super-manager si continuano a srotolare tappeti di velluto a prescindere delle loro effettive doti e molto spesso in proporzione inversa ai loro poco lusinghieri risultati. Se l'industria italiana tira meno delle gemelle europee ci sarà o no un problema di investimenti, ricerca e progettazione, management e strategie? Anche i muri sanno che il crollo degli ordinativi non è mai solo frutto dei capricci della Borsa: ci sono aziende che non ce la fanno davvero, altre che non fanno bene il loro lavoro e nella crisi ci sguazzano, chiudono baracca sulla soglia dell'utile massimo o della bancarotta pilotata, magari bussano pure alla porta dei partiti come usava alla belle époque di Tangentopoli. Oppure più semplicemente si sfilano da Confindustria, stracciano accordi sindacali e si tengono le mani libere. Avanza dunque l'esercito dei questuanti, le assemblee delle associazioni di categoria sono oramai pulpiti buoni solo per scagliare anatemi e leggere elenchi di doglianze: difficoltà di accesso al credito, ritardo dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, sgravi fiscali insufficienti, eccetera eccetera. Istanze sacrosante, però il mistero resta: c'è una "razza padrona" che non solo non paga pegno, ma su cui non spirano mai i venti gelidi della rabbia
anticasta, di solito così pungenti nei confronti dei politici di professione. Sarebbe pertanto interessante capire cosa ci sia di innovativo nei consueti giochetti di segreteria consumati dietro le quinte di monologhi liberatori, cosa ci sia di innovativo nelle non-riforme a colpi di fiducia, o nell'afflato vetero del "partito della nazione". L'unica innovazione oggettivamente inconfutabile – che tuttora spiega il magnetismo di Renzi malgrado il retropensiero spesso perplesso dei suoi stessi supporter – è che la sinistra (lasciamo stare per adesso cosa voglia dire questa parola) ha un suo leader vincente e dopo ere geologiche di glaciazioni non se lo vuole lasciare scappare. L'elemento triste di tale constatazione, è che nella fabbrica di cioccolato della Leopolda, vincere è un comandamento che fa benissimo a meno di porsi la naturale domanda di corredo: per fare cosa? O meglio: l'agenda sarebbe anche folta di wishful thinking e slide piene zeppedi "cambiare". Ma anche qui: cambiare per fare cosa? In nome di quale sensibile avanzamento e per conto di quali "innovativi" equilibri sociali? Eppure la politica è irrimediabilmente abbarbicata al totem dell'innovazione, anche quando cambiare rassomiglia a una marinaresca ammuina. E tanta è la voglia di spendere simile ansia di futuro, che il glossario istituzionale si è arricchito perfino di un ministero ad hoc, il ministero dell'Innovazione. Per non parlare di quell'altro lemma, "riforme", che si è piantato nell'orecchio di tutti gli italiani come la vuvuzela dei mondiali in Sudafrica: un rumore fastidioso e di sottofondo a cui ormai non si presta più attenzione. In un siffatto contesto di vaporosi proclami, si capisce come e perché abbiano trovato cittadinanza le incursioni dei mediani dell'ovvio, personaggi vacui sempre in procinto di gettarsi in politica al preciso scopo di non si sa cosa. Che poi in politica ci sono già e con tutte le scarpe, anche senza scranni in Parlamento, con i loro think tank, le loro lobbies, le loro fondazioni cresciute all'ombra delle segreterie. E sono sempre gli stessi. Innovare, sì, ma con juicio.
Alessandro Antonelli
NANDO MASSARELLA
L'IDEA MOLISANA
SUMMUM IUS SUMMA INIURIA
CAMPOBASSO? LA MONTAGNA INCANTATA intervista esclusiva al PM Fabio Papa
di Antonello Lombardi
L'idea (molisana) di tradurre in un articolo della rivista una delle lunghe e stimolanti chiacchierate che, periodicamente, io e Fabio facciamo è nata a tavola, passione che condividiamo, oltre a quella per la squadra del cuore. Fabio Papa, Sostituto Procuratore del capoluogo molisano per oltre venti anni, non necessita di presentazioni. Abbiamo, ovviamente, deciso di tenere fuori dalla nostra chiacchierata le questioni che riguardano la vicenda che lo ha da ultimo coinvolto, alla base del suo temporaneo trasferimento d'ufficio presso il Tribunale per il Riesame di Ancona, di cui tanto si è parlato ed ancora si parlerà nelle sedi competenti. - Sei magistrato da venti anni, quale evoluzione e cambiamenti hai riscontrato all'interno della magistratura ed in che modo è mutato nel tempo l'approccio dei cittadini nei confronti della magistratura dall'inizio della tua carriera ad oggi? Premesso che, ahimè, i venti anni di servizio li ho già superati, non posso che ricordare che sono entrato in magistratura ai tempi, e sull'onda di entusiasmo collettivo, dell'inchiesta c.d. "tangentopoli", oggi rispolverata come sfondo di una serie televisiva; devo notare come, nonostante il periodo intercorso sia tutto sommato non estesissimo, sembra ora di essere in un altro mondo. La società è divenuta, probabilmente a causa di una certa omologazione "al ribasso", meno diversificata e più cedevole rispetto alle ideologie ed ai valori classici, anche riflessi nelle diverse appartenenze politiche, meno conflittuale e meno sensibile a certi paletti irrinunciabili propri delle dette ideologie. Al tempo stesso, soprattutto per il progressivo deterioramento delle condizioni economiche e del grado di benessere, e per le incertezze e paure che ne derivano, c'è più rabbia, più tensione, che si sono spostate da una contrapposizione di schieramento ancora molto fatta di idee confliggenti sul terreno invece dell'intolleranza verso quelle che, a torto o a ragione, sono state individuate come caste privilegiate. Questo è accaduto anche nei confronti della magistratura, a quei tempi forse troppo illusoriamente individuata e esaltata come il rimedio all'abuso e alla corruzione, circondata da aspettative eccessive e destinataria di speranze che mal si conciliavano con il servizio invece da essa assicurato, che è pur sempre quello di applicazione della legge e di risoluzione dei conflitti e non di guida e di conduzione politica amministrativa e sociale. Ora invece, grazie soprattutto alla classe politica, che si è vista messa in pericolo dalla magistratura e che ha messo per molti anni in campo una efficace campagna, anche mediatica, tesa al ridimensionamento, sul piano delle riforme, e a una delegittimazione, sul piano dell'immagine, si assiste non solo all'identificazione, frequente presso la collettività, dei magistrati come facenti parte anch'essi di una casta di intoccabili che godono di privilegi eccessivi, ma anche allo spettacolo di una magistratura che non trova modi efficaci né per risalire come immagine e come modello positivo da parte dei consociati né per controbattere riforme che, contrabbandate sotto bandiere di efficientismo e di giustizia, sono mirate invece a rendere sempre più vano e difficoltoso il controllo di legalità. E le riforme hanno fatto sì, a mio giudizio, che anche all'interno della magistratura, al di là del ricambio generazionale, che pure ha contribuito a rendere meno compatta la comunità di intenti e la forte identità di una magistratura da sempre consapevole dell'assoluta necessità di salvaguardare la propria autonomia e la propria indipendenza, che sono a presidio esclusivo dell'equilibrio e dell'interesse sociale, si assiste ad un indebolimento di tale connotazione e della consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie prerogative. - Come giudichi i fatti di recente accaduti presso il Tribunale di Milano e che interpretazione ne dai? Risparmio le notazioni più ovvie, ma non per questo meno vere, in ordine alla scarsità di risorse e di attenzioni che vengono dedicate non solo al funzionamento, ma persino alle esigenze di sicurezza di luoghi ove si svolge un servizio sociale del massimo rilievo e densamente e necessariamente frequentati. Voglio invece sottolineare, senza troppo spingere ideologicamente sul punto, in quanto si tratta pur sempre di una vicenda e di una reazione personali drammatiche, come appaia crescere in ogni caso l'intolleranza e la rabbia nei confronti di un'istituzione verso la quale è quotidiana la delegittimazione costante
e crescente da parte della componente politica e di significativa parte del mondo civile. Al fatto tragico si sono sovrapposti infatti commenti abbastanza diffusi in ordine ad una certa "solidarietà" nei confronti di chi ha scelto un modo assai tragico di farsi giustizia e di protestare contro certi torti subiti nelle aule di giustizia, sempre sulla scorta di un'immagine del magistrato che viene contrabbandata in prevalenza come negativa. Vi è comunque da riflettere anche per noi magistrati, che, schiacciati da un sistema che ci sta soffocando in favore della quantità e della produttività ad ogni costo, rischia di farci perdere la consapevolezza e la comprensione dell'umanità dolente e sofferente che vi è in ogni vicenda sottoposta al nostro vaglio. - Che idea hai della recente riforma sulla responsabilità civile dei magistrati e quali riflessi avrà la riforma su un ruolo delicato come quello del PM? Tralascio gli aspetti troppo tecnici, che però sono quelli attraverso i quali si è compiuta, a mio parere un'ennesima pessima riforma, che non si era riuscita a concretizzare neanche nel periodo massimo di attacco alla magistratura, che in realtà sembra ormai essere proprio l'attuale, contrabbandata come al solito con specchietti (per le allodole..) di facciata come la maggior efficienza e la maggior equità per ottenere un facile consenso sociale all'insegna del facile slogan "chi sbaglia paga". E' invece evidente che ancora una volta si è mirato ad indebolire il magistrato per indebolire le garanzie dei cittadini, , come del resto fatto in altri ambiti. A nessuno infatti gioverà, anche se molti fanno fatica a rendersene conto, avere un magistrato impaurito e preoccupato di essere considerato responsabile senza alcun filtro non solo di errori palesi e gravi, ma perfino della normale interpretazione della legge e persino nel corso del processo.
L'IDEA MOLISANA
SUMMUM IUS SUMMA INIURIA L'effetto, come da molti sottolineato, sarà probabilmente quello non solo di un maggior conformismo delle decisioni giudiziarie, che tenderanno ad appiattirsi e ad uniformarsi soprattutto sul dictum della Cassazione, con la perdita dell'autonomia di giudizio e del diritto vivente che ciascun magistrato poteva esercitare per "adattare" le regole al caso specifico, all'interesse da tutelare e al mutamento degli assetti sociali, ma soprattutto quello dell'accentuarsi possibile di una giustizia meno autonoma e indipendente dai poteri forti e dai "clienti" più facoltosi. Infatti, è logico che costoro, che in genere si avvalgono anche di avvocati costosissimi e molto bravi e agguerriti, tenderanno a intimidire maggiormente il magistrato che deve decidere mediante l'esercizio probabile della denuncia di responsabilità. Inoltre, e ciò fa capire come anche in termini di efficienza e di velocità sia una riforma del tutto discutibile, ciò potrà accadere, e senza alcun filtro, anche durante un processo, con il risultato che i processi potranno fermarsi ancora più spesso e che tanto più un magistrato sarà autonomo e indipendente, caratteristiche che non rappresentano dunque privilegi, ma garanzie per tutti, tanto più sarà oggetto di simili mezzi di "dissuasione" ad esercitare il proprio giudizio in maniera imparziale. Per quanto riguarda l'attività delle Procure, già messa a dura prova dalla avvenuta gerarchizzazione, che ha certamente reso maggiormente controllabili le stesse e meno autonomi e indipendenti i sostituti procuratori, vi sarà probabilmente ancora maggior timore ad esercitare il controllo di legalità sui colletti bianchi, sui politici, sui ricchi, mentre ci si sentirà più tranquilli nel continuare ad applicare la legge nei confronti dei "peones". Il problema è che ormai basta far passare il concetto che sono riforme contro le caste per far perdere al cittadino la consapevolezza che si attacca e si indebolisce il magistrato per indebolire e diminuire le garanzie del cittadino comune a fronte di classi che si stanno assicurando in tal modo maggior terreno per soprusi e impunità. Spero di sbagliarmi. - Sei, come me e tanti altri colleghi, un utente di social network. Quali sono, secondo te, le modalità e dinamiche di comprensione, interpretazione e commento delle vicende giudiziarie nel contesto dei nuovi media? Partecipo a tali nuove forme di comunicazione perché sono convinto che un magistrato non possa e non debba, a cagione del proprio ruolo, essere e apparire rinchiuso in una turris eburnea e confinato in un iperuranio che non gli consenta di partecipare a forme di interazione sociale che sono parte non secondaria nell'atteggiarsi contemporaneo della collettività. Certamente, come sappiamo, sui social c'è di tutto, il che rappresenta forse anche il fascino e al tempo stesso l'orrore di tale forma di comunicazione molto popolare, e, per un magistrato, vi sono delle regole che impediscono la piena partecipazione a commenti e discussioni che possono nascere anche su vicende giudiziarie, la cui trattazione sui detti social è fatalmente soggetta a ogni possibile "maltrattamento" derivante dall'estrema libertà e possibilità per chiunque di formulare, molto spesso del tutto arbitrariamente, giudizi a ruota libera. La sede più idonea a discutere di vicende giudiziarie in maniera "seria" non è certamente il social network, ma si può solo sperare che ciascuno sia consapevole proprio di tale considerazione. Certo, il fatto che ognuno sia del tutto libero di "spararle grosse" su vicende spesso molto delicate contribuisce in qualche modo alla complessiva delegittimazione degli operatori di giustizia, che ben sanno quanto sia differente il vaglio giudiziario dal giudizio spesso troppo beceramente "popolare" e comunque poco informato e non attrezzato tecnicamente. - Sei pescarese di nascita e campobassano di adozione, quali sono le principali caratteristiche antropologiche e culturali della società molisana ed in che modo si riflettono sull'aspetto criminogeno? Molto brevemente, secondo me appare indiscutibile che vi è un'antica, e ancora resistente, e del resto molto meridionale, abitudine anche mentale, in Molise, a "portare rispetto" verso le cosiddette Autorità, circondate e blandite da favori, materiali e di cortesia, in realtà, per una vecchia saggezza molto pragmatica e popolare, nella speranza di trarne delle utilità. Ciò fa sì che sia abbastanza diffusa una tendenza alla tolleranza dell'abuso, della collusione e dello scambio anche illegittimo di utilità reciproche e al perseguimento tenace di propri interessi molto concreti, fatti prevalere rispetto a quelli degli altri, sempre "avversari" in questa costante lotta verso la "sistemazione". Tali aspetti, sempre con il limite delle rappresentazioni troppo generali, rischiano spesso anche di alterare i rapporti umani, la cui autenticità viene spesso sacrificata e mortificata dall'ipocrisia e falsità che possono conseguire a questa concezione troppo interessata dei rapporti medesimi.
La circostanza poi del permanere dell'importanza del ruolo centrale della famiglia, ancora intesa in senso molto allargato comprensivo anche dei parenti più stretti come un unico nucleo (anche di interessi materiali), e quella della scarsa popolazione, unita alla scarsa dinamicità dei rapporti con gli altri territori hanno fatto sì che il Molise appaia più, come da tanti sottolineato, come un grande condominio in cui tutti, o quasi tutti, risultano in realtà collegati da vincoli più o meno stretti di parentela, o di amicizia, o di conoscenza. Questo ha favorito una comunanza di interessi molto estesa, e di conseguenza una straordinaria omertà, fattori che hanno certamente incrementato la tendenza alla tolleranza nei confronti di abusi e di collusioni e la certa difficoltà per chi dovrebbe ricostruire in sede giudiziaria i reati. Certe forme ancora radicate di struttura sociale e familiare un po' arcaiche hanno inoltre favorito una certa consistenza di reati e di abusi all'interno delle famiglie. Frequenti sono poi gli episodi di reato legati alla proprietà propri di un'economia e di una struttura ancora fortemente rurali. C'è da dire però che rispetto ad altri territori mancano fatti di sangue, e altri gravi reati propri di collettività e di individui che hanno perso ogni rispetto e considerazione per la vita umana e per valori, che in Molise invece sono ancora fortemente radicati così come c'è da notare che anche il Molise appare terra in trasformazione piuttosto rapida. - Sei attualmente coinvolto in un procedimento disciplinare. Tralasciando gli aspetti di merito della tua vicenda, che riflessioni generali puoi, in virtù della tua esperienza, operare sul potere disciplinare del CSM? Come forse non tutti sanno, i magistrati sono soggetti ad una fittissima serie di regole anche di comportamento, peraltro indicate ancora in maniera troppo generica, e dunque in modo tale da permettere arbitrii, e come forse non tutti sanno, sono moltissimi quelli che finiscono nel "tritacarne" del sistema disciplinare. Paradossalmente, proprio nei confronti di coloro che sono tenuti ad applicare le regole, e le garanzie, del nostro moderno apparato processuale, si continua invece a seguire, soprattutto nella fase cosiddetta cautelare e provvisoria, un sistema che, per la rapidità e per la sommarietà del rito, e per la scarsa se non nulla considerazione degli elementi difensivi, sembra mortificare del tutto la legalità e sembra permettere autentiche e colossali ingiustizie nei confronti di magistrati che invece eventualmente non siano venuti meno ai loro doveri. Per tali caratteristiche che contraddistinguono un sistema per certi versi "feudale" risulta allora possibile, come lo è stato ed è frequentemente, che un magistrato che sia per qualcuno scomodo o ingombrante o che sia temuto o avverso il quale si voglia coltivare una vendetta, e che si desidera allontanare, possa fungere da vittima sacrificale di una costruzione anche magari solo inventata o abilmente prospettata, senza che nell'immediatezza, lo stesso possa avere speranza e reale possibilità di dimostrare l'infondatezza delle accuse, e che possa intanto essere trasferito per "incompatibilità ambientale" anche a notevole distanza, con ogni conseguenza morale e materiale, sulla base di prospettazioni accusatorie, la cui reale consistenza sarà valutata a distanza di molto tempo, a "cose fatte". A ciò deve aggiungersi che il CSM è un organo "politico" nel senso sia che in parte è di diretta designazione politica, sia che in parte, per la componente togata, è composto da magistrati che vengono eletti dai magistrati e che dunque sono coloro in genere ai vertici delle correnti in cui parte significativa della magistratura è divisa, e che qualcuno sostiene essere troppo contigui alla politica stessa. Non posso aggiungere altro, sperando solo che mi si dia la possibilità di esporre le mie ragioni e che qualcuno legga le carte. - Sei un appassionato di letteratura, quale romanzo descrive meglio la tua esperienza umana e professionale a Campobasso? Mah, verrebbe voglia di riparare sul sommo poeta, perché per me Campobasso, che è La montagna incantata di Mann o anche La montagna dell'anima di Gao Xingjian, è stata sia Inferno, sia Purgatorio sia Paradiso! Ma penso anche, ovviamente ai miei esordi come Lo straniero di Camus e a Delitto e castigo di Dostoevskj e al Processo di Kafka, se non altro per l'oggetto della mia attività, alle Mille e una notte (per i fascicoli, eh...), e purtroppo, se penso al provvisorio epilogo, in ordine sparso e a vario titolo, a un classico dell'infanzia come Incompreso di Montgomery, ma anche ai Miserabili di Hugo e agli Indifferenti di Moravia... quanto al clima di Campobasso, beh, necessariamente Il sergente nella neve di Rigoni-Stern; per il futuro penso a Per chi suona la campana di Hemingway.. e, quanto al cibo, che in Molise è sacro, genuino e abbondante, al Gargantua di Rabelais.
Foto: Massimo Di Nonno
Foto: Massimo Di Nonno
Immagini PAOLO CARDONE NICOLA PAOLANTONIO MASSIMO DI NONNO PAOLO RICCIUTI
Riferimenti: Bindi L., Volatili misteri. Festa e cittĂ a Campobasso e altre divagazioni immateriali, Armando Editore, Roma, 2009. De Simoni E., Patrimonio immateriale del Molise, numero monografico della rivista Conoscenze, Betagamma, Viterbo, 2009. Lortat-Jacob B., Canti di Passione, Libreria Musicale Italiana, Lucca, 1996. Pergolesi G. B., Stabat Mater, (Abbado C.) CD, Deutsche Grammophon, 2009.
foto: Nicola Paolantonio
TECO VORREI UNA DISPUTA TRA ORALITÀ E SCRITTURA
di MATTEO PATAVINO I riti del Venerdì Santo nel Molise si contraddistinguono per la grande partecipazione. Alle motivazioni fideistiche e devozionali tout court si aggiungono altri aneliti. Questi fenomeni paraliturgici sono atti di appartenenza, neppure semplici da comprendere e da raccontare. La loro complessa articolazione drammaturgico-simbolica e i loro codici preparatori, la loro funzione espiatoria, sono le certificazioni di stratificazioni, declinate su passaggi, di tempo, di epoche storiche, di culture dominanti, che risentono della contiguità territoriale con la Campania, con il basso Lazio, con la regione garganica. Sono profonde manifestazioni che resistono, allo spopolamento e alle recenti spettacolarizzazioni delle Passioni introdotte ex novo, di stampo post-zeffirelliano o post-gibsoniano nel caso in cui debba prevalere l'iperrealismo. E qui davvero nessuno scandalo. I processi culturali si alimentano, si autoalimentano, muoiono oppure trovano nuove forme espressive. Nel Venerdì Santo del Molise è ancora il piano storico a mantenere il primato della centralità espressiva e socializzante. La processione degli "Incappucciati" a Isernia o quella de "i Fratièllə" a Santa Croce di Magliano, sono solo due esempi dove il saio bianco significa bisogno di purificazione. Sono ritualità ben strutturate, composite dal punto di vista espressivo e dal punto di vista poetico. Sembrano quasi un ingranaggio meccanico che a ogni primavera rigenera il richiamo del gruppo, il senso sociale dell'appartenenza, l'abbattimento degli steccati. Al massimo vige il ricordo del distinguo tra donne e uomini. Un tempo passato era netto, ora non più: tutti uguali davanti al sacrificio umano. Almeno per un giorno. Sono azioni rituali la cui matrice passa per l'oratorio filippino e per i drammi spirituali secenteschi e risale fino alle laude del Medioevo post-tridentino, epoca in cui nacquero le confraternite. Si reggono sulla compartecipazione sinestetica di parole, suoni, gestualità, mimiche, somatizzazioni, simboli. Sono codici culturali e sociali non scritti che connotano i luoghi, le comunità, i campanili. E, in questa polistratificazione di valori ereditati, il segnale per il sincrono sociale non può che provenire dal suono. Già, perché le parole non ci mancano, per tutto il corso dell'anno, e ci stancano, e le azioni sono altrettanto consolidate nella prassi degli schemi sociali. Serve la scossa per farti girare verso l'altro, verso quello che vorresti continuare ad evitare. Serve il richiamo che demolisca vecchie ruggini e diffidenze acquisite. La musica indirizza il sentimento religioso, qualifica il senso della comunità, determina l'intensità della partecipazione collettiva. Il più immateriale tra gli strumenti della comunicazione, il suono, rimaterializza le dinamiche sociali. Benché queste poi, puntualmente, torneranno ad atomizzarsi dal giorno dopo, fino a quando lo stesso richiamo l'anno successivo non rimette insieme i frammenti della polverizzazione individualista. Così funziona il suono organizzato, così funziona la musica.
TECO VORREI una disputa tra oralità e scrittura
Se cerchi un significato nella sua natura, potresti impazzire di luoghi comuni e di banalità. Ma se le dai un compito, diventa implacabile. I riti del Venerdì Santo sono forse le maggiori espressioni devozionali legate alla musica. Nel paesaggio sonoro molisano della Passione, centrale è il canto del "Teco vorrei, Signore" a Campobasso. La processione del Venerdì Santo a Campobasso, come quelle degli altri centri molisani, come tante del Sud dell'Italia, sembra scorrere nel tempo uguale a se stessa, ben fissata dalla comunità di riferimento al solco della tradizione. Sembra ripetersi tutto secondo natura. Ed è così: i codici comportamentali e formali per resistere all'oblio devono essere ben piantati nella terra che li ha generati, tanto che si confondono con essa. Poi, nella realtà, la processione appartiene a un processo trasformativo che le ha permesso di sopravvivere, modificando perfino gli orari. In passato si partiva alle sei del mattino, ci si è dovuti adattare ai tempi moderni. Per fortuna, secoli di commistioni e aggiustamenti fanno sempre effetto sulla coscienza collettiva. Al punto che l'istituzione del "Teco vorrei, Signore", conosciuto anche come "Inno all'Addolorata", una composizione della fine dell'Ottocento (1890) musicata da Michele De Nigris (1832-1912), maestro di Campobasso, su testo di Pietro Metastasio (1698-1782), ha trovato l'humus fertile in un campo coltivato nel XVII (1626). L'aspetto storico ha bisogno di altri approfondimenti. Provo a fare un ragionamento sul piano sincronico attraverso le relazioni che intercorrono fra tradizione scritta e tradizione orale, tra forma culta ed espressione popolare. Teco vorrei o Signore oggi portar la croce nella tua doglia atroce io ti vorrei seguire ma sono infermo e lasso donami tu coraggio acciò nel mesto viaggio non m'abbia da smarrire. Quattro strofe di quartine di settenari, i primi tre di ogni strofa sono piani, l'ultimo è tronco; il primo verso è libero, il secondo rima col terzo, il quarto rima con l'ultimo della seconda strofa, l'ultimo della terza con l'ultimo della quarta, lo schema è ABBC ABBC. Il verso di sette sillabe, molto usato da tutti - ricordate La nebbia agli irti colli - si presta bene a essere musicato in forma strofica. Per via della sua duttilità nella distribuzione degli accenti, assieme all'endecasillabo, è il verso prediletto nei libretti d'opera. Mozart-Da Ponte, nel Don Giovanni, lo utilizzarono indistintamente per le leggerezze delle piume al vento (Don Giovanni: Là ci darem la mano) e per la profondità infernale del finale (il Commendatore: Tu m'invitasti a cena). La rima tra secondo e terzo verso e la rima ricorrente sull'ultimo verso di ogni strofa, danno già un'impronta ritmica molto precisa. Il canto è affidato a un coro di 700 persone che precede il corteo con le statue del Cristo morto e dell'Addolorata.. Una banda, appena dietro, lo segue lungo in tragitto della processione. Si tratta di un organico allargato, composto da più bande molisane. Le dimensioni del coro e la lunghezza del corteo durante il percorso cittadino richiedono una potenza sonora adeguata. Il "Teco" è preceduto da un'introduzione strumentale il cui stile ricorda quello delle overture d'opera italiane. Durante la processione, l'intro della banda serve soprattutto a scandire il ritmo sul quale poi i "700" dovranno sincronizzarsi.
PAOLO CARDONE
Nella tonalità di Re minore, è un canto polifonico omoritmico, cantato a due parti parallele per voci maschili e femminili. La stessa linea melodica è eseguita su due altezze, a una costante distanza di intervalli di terza, omoritmicamente, nota contro nota. Soprani e tenori eseguono la melodia, cioè la parte più acuta, contralti e bassi armonizzano le stesse durate alla terza inferiore. La polifonia del "Teco" ha una condotta accordale. La tonalità percepita è mobile poiché è dovuta alla posizione che si ha rispetto alle voci e alla banda. Se si procede vicino alle voci si percepiscono i rivolti tonali (prevalenza del 5° grado in prossimità di soprani e tenori, prevalenza del 3° grado in prossimità di contralti e bassi); l'impianto tonale del Re minore lo si coglie vicino alla banda, ma lì si perde il suono delle voci. Di fatto si crea una sorta di tonalità oscillante che contribuisce non poco al coinvolgimento emotivo per chi ascolta. La polifonia, proprio intorno ai canti del Venerdì Santo, era diffusa anche in altre parti del Molise. Per esempio nella particolare processione del Venerdì Santo a Colletorto, dove le statue del Cristo morto e dell'Addolorata partono da due chiese diverse per poi ricongiungersi al centro del paese. Gli uomini che seguivano Cristo morto, eseguivano il ritornello di "Perdono mio dio" a due voci omoritmiche, la seconda cantava alla terza superiore. Purtroppo questa pratica vocale, completamente affidata all'oralità e sostenuta da un numero molto più esiguo di cantori, è andata perduta. Per le stesse cause, a Campobasso il canto a due voci ha resistito: l'elevato numero di cantori - stimati tra i 600 e i 700 benché in un contesto prettamente orale, è di per sé una specie di polizza a garanzia della memoria a lungo termine; poi le prove, dirette da un maestro di musica e ben distribuite per tutto l'anno, hanno cementato e continuano a solidificare la struttura musicale. Quest'anno, a ogni prova, si sono stimate 600 presenze. Una scuola di canto a tutti gli effetti. A certificare l'incontro di culture nella ritualità campobassana non è tanto la scelta dei versi di Metastasio, innanzitutto perché il testo della Via Crucis era già usato nella liturgia quaresimale, poi perché i repertori italiani del Venerdì Santo sono pieni di testi presi a prestito dalla letteratura aulica, se non direttamente dal latino. Per De Nigris si è trattata quasi di una scelta obbligata, perfetta per il contesto devozionale dell'epoca; poi l'impianto ritmico del settenario, duttile per ogni evenienza musicale, ha fatto il resto.
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È la musica invece che presenta alcuni elementi d'analisi molto interessanti. La versione correntemente eseguita è giunta attraverso il manoscritto originale: una marcia funebre per gruppo strumentale bandistico. Se volete, fate una controprova: prendete la Marcia Funebre di F. Chopin e cantateci i versi di Metastasio con la melodia di De Nigris, oppure fatelo rallentando quella della Prima Sinfonia di Mahaler. La Marcia Funebre dell'Eroica di Beethoven calza addirittura meglio. Su questo nessun dubbio. De Nigris in testa aveva una marcia funebre. Immagino che la scelta di De Nigris, scrivere solo le parti strumentali, sia dovuta al fatto che i musicisti della banda, evidentemente in grado di leggere la musica, per eseguire la tessitura polifonica, segnata da qualche passaggio contrappuntistico più difficile da ricordare, avessero bisogno del riferimento stabile, fissato appunto dalla scrittura. E non già perché alle voci fosse dato un ruolo e un'organizzazione estemporanea. Anzi, vista l'importanza della parola anche nei contesti paraliturgici, si vedano i dettami del Concilio di Trento (XVI secolo), si può ritenere che la pratica del canto nell'ambito della processione campobassana sia antecedente al "Teco". E per questo De Nigris potrebbe aver pensato la marcia funebre proiettando le parti strumentali sullo schema della tradizione vocale preesistente, consapevole che i cantori sfruttavano l'ascolto della banda come gancio mnemonico; a loro era concesso di non saper leggere la musica. D'altra parte, all'epoca, in analoghi contesti paraliturgici di matrice popolare, per le parti cantate ci si affidava alla memoria e alla trasmissione orale. Non dimentichiamo che la processione risale 1626. Dunque è presumibile che De Nigris pensò alla marcia funebre proprio in funzione di una tradizione popolare già consolidata. E questo è coerente con i documenti storici in nostro possesso. La prima parte del "Teco", corrispondente alla prima quartina di versi, è perfettamente aderente al tempo di marcia: il testo è scandito in maniera lineare dalla prima all'ultima parola, allo stesso modo il tema musicale che asseconda gli accenti delle parole, non ci sono riprese; metrica del testo e modello ritmico della musica sono ricalcati l'uno sull'altra. Tuttavia la seconda parte del brano suggerisce altri spunti che portano in altre direzioni. Il trattamento della seconda strofa sembra essere stata mutuato più da un'aria d'opera: i versi si ripetono, così la melodia, prima di arrivare alla cadenza (la formula musicale finale); parole melodia indugiano su se stessi. Insomma, tutt'altro che un rapporto testomusica che intenda concepire una soluzione ritmica fluida a sostegno di cantori in cammino. Le ripetizioni hanno il tipico carattere dell'artificio retorico finalizzato all'introspezione lirica. La seconda strofa riporta più alle forme musicali del melodramma che alla funzionalità di una banda in giro per la città. Stilisticamente gli arpeggi degli ottoni sono una figliazione dell'orchestrazione utilizzata per esempio da Bellini nella "Casta diva". Inoltre, a un ascolto più attento, si nota che non è solo l'accompagnamento a rifarsi a quel brano d'opera: proprio nell'attacco del tema strumentale, quello che fa da ponte agli interventi cantati, si coglie un frammento melodico preso dall'aria della Norma. Insomma, questi elementi invece portano direttamente al contesto più accademico del bel canto. Tanto che, a meta '900, Lino Tabasso sentì la necessità di dover trasportare il canto, dall'originario Fa minore al più comodo Re minore per una vocalità mediamente dotata, per essere più in linea con la processione. Una vera ri-funzionalizzazione per permettere di cantare a passo di marcia. In origine erano cantanti lirici a eseguire le parti vocali, vista la competenza tecnica richiesta? In origine fu pensata per essere eseguita al chiuso di una chiesa? Domande legittime, ma sono solo la conseguenza delle specifiche scelte poetico-estetiche dell'autore. E non basta a giustificare la
Foto: NICOLA PAOLANTONIO
composizione in sé neppure il fatto che De Nigris fosse un maestro di musica. Il "Teco" rappresenta una scelta stilistica dettata da un preciso contesto socio-culturale, la sua struttura formale rivela il campo su cui è avvenuto lo scontro e l'integrazione delle due culture, orale e scritta, già nel momento del concepimento del brano. Poi non passa inosservata l'attuale condotta melodica delle voci usata per la cadenze finale (la formule di chiusura del secondo verso). L'originario modello polifonico a due parti si moltiplica in tre o addirittura in quattro voci a causa delle soluzioni melodiche differenti adottate liberamente anche all'interno della stessa sezione di cantori. È lo stesso maestro Antonio Colasurdo, attuale direttore musicale del "Teco", a sottolinearlo ai coristi, durante l'ultima prova a piazzetta Palombo, quando il coro, la banda e il maestro si riuniscono per mettere a punto gli ultimi dettagli, le ultime prescrizioni, e soprattutto per ritrovare il senso del gruppo, prima della processione. È lo stesso maestro che invoglia i cantori a sentirsi liberi di scegliere la formula cadenzale che preferiscono: "visto che le note ricadono tutte nell'ambito della consonanza tonale". La cadenza finale è davvero indicativa sulle relazioni che nel "Teco" intercorrono tra tradizione scritta e tradizione orale. La cadenza finale rappresenta un importante elemento di congiunzione tra cultura popolare e cultura accademica. Da una parte questa soluzione è giustificata dal contesto orale nel quale la maggior parte dei cantori esercita le proprie competenze tonali, per cui ciascuno trova la propria via alla consonanza, almeno da quando il riordino della tonalità attuato da Tabasso favorì l'ampia partecipazione popolare. Dall'altra, anche sul versante colto le cadenze erano improvvisate dalle dive e dai divini dell'aria col da capo, fino a quando Gluck e Calzabigi, con l'Alceste (1767), non misero mano alle degenerazioni del teatro d'opera, proprio contro Metastasio. Sul piano dei ruoli, la processione del Venerdì Santo a Campobasso prevede una figura specifica: il maestro. Dal secondo dopoguerra, si sono avvicendati Lino Tabasso, Domenico Fornaro, don Antonio Murena, Luigi Aurisano, don Armando Di Fabio, fino ad Antonio Colasurdo, maestro d'organo al Conservatorio Perosi e maestro di cappella in Cattedrale, Il maestro e il coro: un rapporto che modifica le dinamiche pertinenti alle partecipazioni corali di massa e alle logiche del gruppo nella ritualità popolare diffusa in Italia. Ho assistito a tanti fenomeni performativi musicali che prevedono un leader durante l'azione rituale, o anche durante le prove, estemporanee o organizzate che fossero. A volte tocca a quello più dotato musicalmente, a volte al più anziano, altre volte alla figura più carismatica.
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Nel Venerdì Santo campobassano, invece la figura del maestro del coro è un ruolo specifico e istituzionalizzato. E questa è una condizione che genera di suo una lotta titanica tra il comando del singolo e la resistenza del gruppo. E già, perché lì, durante il ciclo delle prove, è il maestro che impone la sua prospettiva poetica e la sua visione estetica. Il maestro regola la prassi del canto. Il coro deve eseguire. Nel fenomeno musicale del "Teco" si dipanano, anche con una precisa simbologia (per es. l'impermeabile indossato dai coristi) e con precise gestualità (tenersi per il braccio durante il percorso), l'incontro e lo scontro tra l'innovazione portata dal maestro e la resistenza che tenta di perpetrare il coro. Uno contro settecento. Il maestro porta con sé la sua visione poetica, la suo senso delle proporzioni. Il coro gli contrappone la tradizione, e il senso quantitativo del potere del canto: maggiore è il volume della voce, più grande è la fede. Il maestro deve lavorare prima sull'etica poiché prima deve superare la diffidenza dei coristi nei confronti del novizio. I ruoli sono ben definiti, ma il podio deve essere guadagnato sul campo. All'esordio, il maestro, è un corpo estraneo e deve incidere su un monolite ancora legato al suo predecessore. È cosi, nella vita funziona così. Gli affetti contano, contano molto. Solo in seguito la musica saprà produrre i suoi. E la musica produrrà i suoi effetti perché il buon senso del maestro e il suo tatto, sapranno fare in modo che poi anche il suo tocco, più o meno delicato, più o meno innovativo, scioglierà gli affetti dei "700", fino a permettersi di prescrivere di non fumare, di indossare tutti gli stessi colori, di non parlare durante la processione, di non selfare. Insomma, questioni di forma e sostanza. Il maestro riesce a dettare il decalogo perché diventa autorevole. Il ruolo lo prevede, ma non è automatico. Bisogna anche lasciare certe libertà. Per esempio la possibilità di scegliersi il posto da occupare durante la processione. Infatti, nel rispetto della prassi esecutiva, le donne a destra e gli uomini a sinistra, soprani e tenori davanti, contralti e bassi dietro, gli elementi del coro sono liberi di mettersi dove vogliono, vicino a chi vogliono. E sì che regna il senso del gruppo ritrovato, ma hai visto mai? Qui, nell'ordine dei posti, il maestro non entra; vige
l'autodeterminazione. Anche la prima fila deve essere una conquista, e non è legata alla bravura dei cantori né alla loro intonazione; a tutti è data una possibilità.Il coro rappresenta realmente l'intero tessuto sociale della città. Si canta per fede o perché lo facevano in famiglia, si entra nel coro perché il maestro è così bravo a coinvolgerti. È indubbio che cantare il "Teco" è una forma di prestigio sociale. E lì, sul terreno del prestigio, il maestro poi amplifica il suo potere persuasivo. La processione del Venerdì Santo è talmente radicata a Campobasso che sarebbe disdicevole non farne più parte. L'innovazione val bene la devozione. Poi, superata la fase di assestamento tra maestro e coro, che si manifesta ovviamente in concomitanza degli avvicendamenti dei direttori, i quali durano sine die, bisogna cantare e suonare per chi ascolta. L'imponente coro, la banda composita, sono di per sé motivi di attrazione. È noto, la musica funziona così. E poi che importa se, tra gli scalini dei Monti e il centro murattiano, il maestro si limita a dare gli attacchi e a decidere quando e quanto cantare. Così il canto diventa poliforme, monostrofico o polistrofico. In alcuni punti dell'itinerario cittadino assume l'aspetto di un loop, la cui reiterazione risulta davvero ipnotica. La forma finale del canto sarà opera del maestro, è in suo potere plasmarla. Ma è un potere che si mimetizza nel suono, è la forma che la musica assume a rappresentarlo. Lì, nella cornice rituale, il maestro deve convivere con altri poteri, di ben altra portata. Anche sul campo gli tocca guadagnarsi il proprio spazio di rappresentanza. Ho parlato a lungo col maestro Colasurdo, sulla sua visione, sui suoi obiettivi. Mi ha parlato della sua poetica, dell'attenzione che riserva all'intelligibilità del testo, alla necessità di rispettare gli accenti metrici delle parole, all'esigenza di dover rivedere la condotta delle parti degli strumenti: la scelta di Tabasso, se ha favorito la partecipazione di massa al coro, ha reso più difficile la vita ai musicisti per via del limite dell'estensione degli strumenti. Ho percepito la consapevolezza di sentirsi libero nel rispetto di un'eredità culturale. Sembra una contraddizione. È soltanto un altro dei piani della contesa.
MAS S IMILIA NO FERRA NT E
MAS S IMILIA NO FERRA NT E
L'IDEA MOLISANA
I CONTI SENZA L'OSTE Immagini di Nicola Paolantonio Paolo Cardone Giovanni Rosa
Lucio Di Gaetano
foto: Nicola Paolantonio
SENTINELLE IN PIEDI a guardare che?
La calata a Campobasso del movimento delle Sentinelle in Piedi ci ha regalato la possibilità assai preziosa di riflettere di un vecchio e inestirpabile vizio dell'essere umano. No, non parlo della sodomia. Parlo della tendenza irrefrenabile dell'Homo Sapiens a verificare meticolosamente le abitudini sessuali dei propri simili, quasi che l'uso degli orifizi di ciascuno possa essere l'argomento di una discussione degna di nota. Evidentemente non lo è, o meglio non lo è se non per i titolari degli orifizi in discussione: ognuno si faccia gli orifizi suoi, insomma. E tu scrivi un articolo su una roba del genere? Ma non scrivevi di economia regionale? Beh si, in effetti, dovrei occuparmi d'altro, lo ammetto. Eppure non posso esimermi dal prendere una posizione netta sui temi dell'omofobia e della libertà sessuale e questo per precise motivazioni di carattere economico. Le elencherò brevemente sperando di riuscire convincente: 1) Un'attività sessuale gratificante, conseguita attraverso la libera soddisfazione delle proprie spontanee inclinazioni, meglio dispone alle attività non ludiche (ivi incluse quelle professionali) con ovvia positiva ricaduta sul dato macroeconomico regionale; 2) Lo spreco di risorse connesso al controllo delle abitudini sessuali altrui (ore spese a spettegolare dal parrucchiere, agenti di polizia dediti alla "buoncostume", alberi abbattuti per ogni uscita di "Libero" e "Il Giornale") è tale da consigliarne l'immediato abbandono, altro non fosse che per impiegare il tempo guadagnato nelle attività di cui al n. 1);
Foto: Paolo Cardone
Foto: Giovanni Rosa
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3) Secondo la stima ritenuta più attendibile dall'OMS, la percentuale di omosessuali sul totale della popolazione mondiale è del 5%-10%: se diamo per scontato che la nostra Regione non è diversa dal resto del mondo (in realtà lo è per numerosi motivi, tipo la cretinissima idea di reintrodurre i vitalizi per i consiglieri regionali, ma non in ragione delle abitudini sessuali), in Molise ci sono 16.000/32.000 omosessuali, i quali producono 285/570 milioni di Euro di reddito l'anno. Non me li farei nemici, coi tempi che corrono. Ciò premesso chiediamoci: cosa vogliono esattamente le Sentinelle? Il movimento nasce dalla protesta di alcuni organi d'informazione di matrice cattolica contro tre disegni di legge presentati in questa legislatura: 1) Il D.d.L. Scalfarotto, che rende penalmente rilevante l'istigazione all'odio anche quando questa è rivolta agli omosessuali (ad oggi è punita la sola istigazione all'odio razziale e religioso); 2) Il D.d.L. Fedeli, che introduce l'insegnamento della "parità di genere" nella scuola dell'obbligo; 3) Il D.d.L. Cirinnà, che introduce una prima regolamentazione delle c.d. "unioni civili", estendendo ad esse molte delle norme che disciplinano il matrimonio e aprendo anche alle unioni tra omosessuali. Devo dire che, eccezion fatta per il D.d.L. Scalfarotto, che introduce nell'ordinamento un nuovo reato d'opinione (adottando, dunque, uno strumento piuttosto improprio per combattere una battaglia di libertà), sia il D.d.L. Fedeli sia il D.d.L. Cirinnà costituiscono un evidente passo in avanti verso la civiltà dei rapporti interpersonali. Ed è proprio qui che casca la Sentinella: i nostri simpatici attivisti cercano di spacciare per battaglia di libertà proprio il suo contrario, ovvero la protesta contro dei progetti di legge pensati per proteggere i diritti dell'individuo. Il diritto di condividere la propria esistenza con chi si ama, il diritto di succedergli nell'eredità o di nominarlo/a erede, il diritto di percepire una pensione di reversibilità o di mantenere in locazione un'immobile, il diritto di imparare, sin da piccoli, che la propria vita non sarà ineluttabilmente segnata dalle lettere di San Paolo ai Corinzi.
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Ecco, questo è ciò contro cui lottano le Sentinelle in Piedi: la libertà di vivere la propria vita come più ci garba. E non è dato sapere perché mai il loro punto di vista sull'altrui esistenza, sulla altrui vita sessuale, sulla altrui ripartizione dell'asse ereditario dovrebbe rivestire il benché minimo interesse per la comunità, perché dovrebbe essere così rilevante da consentire l'occupazione (sia pur pacifica) del suolo pubblico. Le Sentinelle, furbamente, tacciono, non si preoccupano di argomentare le proprie posizioni se non ciarlando di "famiglia tradizionale" e altre amenità ispirate dalla paura di scoprire che il proprio modello di riferimento, semplicemente, non esiste. E non è mai esistito davvero. Questo assurdo logico per il quale il nostro stile di vita più intimo dovrebbe essere oggetto dell'insindacabile giudizio di qualche associazione di baciapile, del resto, non è per niente singolare: secondo il rapporto Istat sull'omofobia più del 55% degli italiani ritiene che se gli omosessuali fossero più discreti, sarebbero meglio accettati... Da chi non fa altro che impicciarsi degli affari degli altri, evidentemente.
Lucio Di Gaetano
Foto: Giovanni Rosa
Foto: Massimo Di Nonno
L'IDEA MOLISANA
MARE NOSTRUM
STORIE di Massimiliano Ferrante
Special guests: Anwar Luigi Mosca
Mare nostro che non sei nei cieli e abbracci i confini dell'isola e del mondo sia benedetto il tuo sale e sia benedetto il tuo fondale accogli le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde pescatori usciti nella notte le loro reti tra le tue creature che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati Mare nostro che non sei nei cieli all'alba sei colore del frumento al tramonto dell'uva di vendemmia, Che abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste tu sei più giusto della terra ferma pure quando sollevi onde a muraglia poi le riabbassi a tappeto custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale fai da autunno per loro da carezza, da abbraccio, da bacio in fronte di padre e di madre prima di partire - Erri De Luca -
Anwar è un ragazzone alto e forte come l'ebano. Ha i dreads che gli coprono la nuca, ammassati sotto un cappuccio di lana grigia, e incolta la barba. Spalle a quattro ante, trattenute a stento dalla camiciola a quadri. Mani lunghe e affusolate, che muove come stesse disegnando le ombre cinesi. Mentre parla. Anwar è nero. Nero come la notte che ha attraversato. Nero come il mare in cui ha rischiato di finire. Nero come quei neri che, a sentire qualcuno, vengono qua a toglierci il pane di bocca, a occupare alberghi extralusso, a intascare chissà quanti mila euro al giorno. Senza far nulla. Pancia all'aria. E chissà cos'altro. Di bianco, Anwar ha solo i denti, nascosti da labbra che le starlette di casa nostra nemmeno con barili di botox riusciranno mai. E gli occhi. Bianchi come due stelle polari di chi conosce la strada che ha percorso e vorrebbe tanto immaginare quella che ancora ha da percorrere. Trasparenti e lucidi come l'acqua delle oasi nel deserto. Vivi, di chi vuol vivere. O, almeno, ci spera. Anwar lavora nella fattoria del padre. Coltivano radici di zenzero. Quando non ha da fare, s'incanta a osservare un amico di famiglia che dipinge. Elefanti e giraffe, donne snelle e ossute come ragazze di Gauguin travestite da Schiele, tramonti di fuoco. Colori. Soprattutto colori. Ad Anwar piace guardarlo mentre stende le linee di colore sulla superficie. Gli piace perdersi in quel colore che, a poco a poco, invade tutta la superficie. Perchè la sua è una vita colorata di foreste verdi e spiagge dorate. Profumata di cedro e cacao.
L'IDEA MOLISANA
STORIE Finchè, sui passi della madre, non decide di abbracciare la croce di Cristo. Diventa cristiano, Anwar. E tutto cambia. La famiglia di suo padre, musulmana, non può accettare questo affronto. I rapporti si deteriorano fino a disintegrarsi e il ragazzone alto e forte come l'ebano decide di andar via, lasciandosi alle spalle le radici di zenzero, le ragazze di Gauguin travestite da Schiele, le foreste e le spiagge, il cedro e il cacao. Anwar è in Libia. E' andato là a cercar fortuna come molti altri. Lavora in un autolavaggio e le cose, tutto sommato, gli vanno bene. Ha di che vivere senza render conto a nessuno, e questo è già tanto. Un bel giorno, un amico lo invita ad andare a trovarlo a casa sua. Anwar prende un taxi e viene fermato a un posto di blocco. I miliziani lo arrestano e, invece di portarlo in questura, lo tengono segregato per due giorni. Due giorni di paura fottuta e lacrime, tanto copiose da prosciugare, quasi, le oasi nel deserto dei suoi occhi. Due giorni in cui le radici di zenzero, le ragazze di Gauguin travestite da Schiele, le foreste e le spiagge, il cedro e il cacao gli sembrano ricordi lontani una vita fa. Anwar piange così tanto da impietosire la donna di uno dei suoi aguzzini che, a rischio della vita, lo aiuta a fuggire. Corre Anwar, mulinando i rami di ebano che si ritrova al posto delle gambe. Corre come stesse correndo una maratona da vincere a tutti i costi. In palio c'è la libertà. Non ha fatto, però, i conti con la caotica situazione che, ormai già da un po', regna in città. Si ritrova nel mezzo di un conflitto a fuoco tra contendenti ignoti. Altri miliziani lo braccano, finiscono per catturarlo e lo pestano a sangue. Sviene Anwar. Per il dolore e la stanchezza. Quando si risveglia è su un barcone diretto chissà dove, ammucchiato ad altri ragazzoni alti e forti come lui, a donne terribilmente somiglianti alle ragazze di Gauguin travestite da Schiele che aveva visto solo sui quadri. A bambini infagottati come sacchetti di patate scure, divertiti come fossero alle giostre. Un barcone sospeso tra mare e cielo, tra sangue e disperazione. Tutt'intorno il buio.
Luigi Mosca è nato a Campobasso. Ha studiato Lettere e Filosofia, laureandosi in indirizzo antropologico nel 2005. Nel 2010 ha concluso, presso l'Università degli Studi di Perugia, in cotutela con l'Université Libre de Bruxelles, un dottorato di ricerca in antropologia ed etnologia, incentrato su un'analisi dei problemi di salute tra i migranti privi di permesso di soggiorno nelle Provincie di Caserta e Napoli. Contemporaneamente, ha lavorato con l'Associazione Jerry Essan Masslo, a Castelvolturno, come mediatore e operatore dell'unità di strada, nell'ambito del programma di riduzione del danno e assistenza ai tossicodipendenti. Dal 2011 al 2012, ha lavorato come operatore dell'accoglienza e dell'integrazione per l'Associazione Dalla Parte degli Ultimi, di Campobasso, e, dal 2014, è operatore dell'accoglienza e dell'integrazione per la stessa associazione nel Progetto POLIS della Provincia di Campobasso, finanziato dal Ministero degli Interni nell'ambito del bando SPRAR 2014-2016. Ha pubblicato diversi articoli su riviste scientifiche e divulgative sui temi della migrazione, del diritto d'asilo e dell'assistenza socio sanitaria. Faccio due chiacchiere con lui per provare a capirci qualcosa. Una volta per tutte. Luigi, qual è la situazione reale in Molise? Il Molise vede attualmente una presenza di circa 1400 richiedenti asilo. Gli arrivi, iniziati nei primi mesi del 2014, sono continuati fino a qualche tempo fa, alimentati dai flussi consistenti di sbarchi verificatisi lo scorso anno. Ultimamente, stiamo assistendo a un nuovo tipo di flusso: quello di afgani e pakistani che arrivano da altri paesi europei. Si tratta di cittadini rimasti sospesi, a volte per lunghi periodi, a causa del regolamento di Dublino (quello che determina il paese di competenza delle domande di asilo), che hanno vissuto mesi o, addirittura, anni senza un documento, in Francia, Svezia, Inghilterra ecc. Se nel primo caso, quello degli sbarchi, è il governo, attraverso le Prefetture, a suddividere i migranti per "quote regionali", nel secondo, il flusso è totalmente spontaneo. In altre parole c'è uno strano passaparola secondo il quale qui,
in Molise, ci sarebbe disponibilità di accoglienza. Al momento non saprei dirti meglio... Per quanto riguarda le accoglienze, esistono, al momento, due circuiti. Il primo è quello delle cosiddette "accoglienze temporanee", gestite per conto della Prefettura da Enti Pubblici, come i Comuni, e privati, come gli albergatori. Questo circuito è stato attivato dalla Prefettura che, tramite forme diverse, affida i servizi ed eroga i fondi a questi soggetti. Il secondo è quello della rete SPRAR. Nel 2013, a ottobre, c'è stato l'ultimo bando per l'allargamento della rete nazionale per l'asilo e, attraverso questo bando, diversi Enti Locali molisani hanno attivato progetti di accoglienza, finanziati attraverso uno specifico fondo europeo e, in parte, attraverso fondi pubblici. Attualmente, ci sono, all'incirca, una quindicina di questi progetti, con diverse tipologie abitative e di servizi. Il nostro progetto, POLIS, vede come ente capofila
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STORIE la Provincia di Campobasso e come enti partner i Comuni di Campobasso, Ferrazzano, Pietracatella. In ognuno di questi comuni ci sono delle strutture di accoglienza con diverse tipologie abitative, dall'appartamento alla struttura comunitaria, e ospitano 44 richiedenti asilo o beneficiari di protezione internazionale. A queste si aggiungono le strutture di Ripalimosani per altri 32 posti previsti da progetto come aggiuntivi: i singoli progetti devono, infatti, garantire un numero ulteriore di posti da sfruttare durante le emergenze. Attualmente, i nostri posti sono tutti occupati e gli attuali ospiti sono giunti nel corso dell'estate e dell'autunno del 2014. Spesso, capita che vi siano passaggi di ospiti dal primo sistema al secondo, decisi dalla Prefettura di Campobasso. Più di qualcuno snocciola, quotidianamente, cifre relative ai soldi, volgarmente detti, che andrebbero a finire nelle tasche dei migranti e che proverrebbero direttamente dalle nostre tasse. Ti va di chiarirmi, una volta per tutte, qual è la realtà? Come dicevo, si tratta di fondi europei, dei quali solo una piccola parte è riferibile a fondi nazionali. Il bando SPRAR prevede un finanziamento di 35 euro pro die pro capite. Di questa somma, la massima parte è destinata ai servizi. Il migrante percepisce 2,5 euro al giorno per le sue spese personali. Il resto va a coprire i costi dei servizi, dall'accoglienza all'educazione, dal vitto all'integrazione ecc. Quello che, però, vorrei sottolineare è un fatto spesso sottovalutato ma, a mio parere, di sostanziale importanza: questi fondi, ove usati come si deve, hanno una profonda incidenza sull'economia reale dei comuni. Per esempio, noi, a Pietracatella, facciamo quasi tutta la spesa in paese e siamo in ottimi rapporti con i commercianti. In molte situazioni, addirittura, si è creata occupazione, visto che la presenza dei migranti ha richiesto la necessità di assumere persone con mansioni varie. A fronte dei gravi casi nazionali di cui siamo venuti a conoscenza negli ultimi mesi, penso in particolare a quelli di Roma e Mineo, ci sono realtà nelle quali questi fondi, se utilizzati bene, producono servizi per individui che hanno necessità di assistenza e aiutano l'economia locale. Un altro tema che mi sta particolarmente a cuore: come sono i rapporti con le popolazioni locali? I rapporti, in generale, sono eccellenti. Nei piccoli comuni, poi, sono ancora più stretti: vista la realtà dei paesi molisani, è più facile che si stringano relazioni quotidiane. I nostri ospiti sono stati invitati a prender parte ad attività di volontariato e non, organizzate dai locali. A Ripalimosani, ad esempio, sono stati chiamati a partecipare ai mercatini di Natale e a diverse attività sportive (due di loro giocano stabilmente nella squadra di calcio). A Pietracatella, con Legambiente, abbiamo organizzato diversi eventi e manifestazioni che hanno coinvolto i migranti, i quali, tra l'altro, si sono resi utili presso la mensa parrocchiale domenicale per gli anziani, alle volte cucinando anche piatti del loro paese. Ciò avviene grazie sia all'associazionismo locale che all'interesse di amministrazione e cittadinanza.
Che prospettive hanno questi ragazzi? Difficile dirlo. Solo alcuni manifestano l'intenzione di restare in Molise. Coloro che hanno amici e parenti in altre parti d'Italia sperano, prima o poi, di raggiungerli. Sicuramente, molti vogliono ritornare nei paesi europei in cui hanno già vissuto. Mi riferisco soprattutto agli afgani e pakistani che, come dicevo prima, sono transitati per altri paesi prima di venire qui a tentare di regolarizzarsi. Dal punto di vista culturale come siamo messi? Voglio dire, i migranti portano qui da noi una cultura completamente nuova e diversa dalla nostra. C'è interesse da parte loro a farcela conoscere, e, soprattutto, da parte nostra a scoprirla? L'apporto culturale offerto dai ragazzi è potenzialmente enorme. Su questo fronte, però, siamo ancora alle prime armi. Mi riferisco all'intera società. Il Molise sa accogliere come pochi altri ma ancora non c'è una vera e propria curiosità nei confronti di queste persone. È normale che ci sia un po' di diffidenza nei primi tempi, ma speriamo che con il tempo e con il lavoro quotidiano si possano attivare esperienze di vero scambio. Le premesse lasciano ben sperare. Credi possa essere migliorata la situazione in qualche modo? Mi riferisco alla gestione della vicenda. Ci vorrebbe maggiore coordinamento, a livello provinciale e regionale, sia tra i vari centri di accoglienza che tra questi e le istituzioni locali. Grazie Luigi. Ho le idee decisamente più chiare ora. Grazie a te per la chiacchierata!
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STORIE
Anwar vive insieme ad altri tre in una casetta sperduta nella ragnatela del borgo vecchio. Impara l'Italiano. Gioca a basket con i coetanei paesani che lo vorrebbero nella squadra del paese. Un tronco d'ebano come quello può esser senz'altro utile sotto canestro. S'intrattiene nella piazza del centro storico, sperando di incontrare sollievo negli occhi della gente. Preferisce il villaggio alla città, perchè gli ricorda il suo di villaggio. Anche se qua di giraffe neanche l'ombra. La città lo soffoca, lo opprime, lui abituato a coltivare radici di zenzero in una fattoria. E' un ragazzo gentile. Ha tanti amici e ne conquista altri ogni giorno. Solo le vecchine, alle volte, si girano dall'altra parte al suo saluto, e i suoi occhi trasparenti come l'acqua delle oasi nel deserto si fanno ancor più lucidi. Ma lo capisce. Ci può stare. Le nostre vecchine hanno i tratti duri e puntuti di chi ha lavorato una vita intera. Sono diffidenti e difficili da conquistare, ma hanno un cuore grande come un mondo. E una volta che ci si riesce, è per sempre. Ci vuole pazienza. Anwar, soprattutto, dipinge. E lo fa con tenacia e dedizione. Elefanti e giraffe, donne snelle e ossute come ragazze di Gauguin travestite da Schiele, tramonti di fuoco. Colori. Soprattutto colori. Come l'amico di famiglia in Ghana. Acrilico su carta e pietra liscia di fiume. Ora sta iniziando a sperimentare le prime tele. E' straordinariamente bravo e ha trovato nell'amabile signora che gestisce il tabacchino della piazza la sua mentore. E' lei che lo spinge a continuare, a dimenticare il dolore e la stanchezza, il sangue e la disperazione. Dipinge Anwar, e stende i colori sulla superficie a voler costruire un nuovo mondo, più libero, più giusto. Dipinge per sentire vicino a sé le foreste verdi e le spiagge dorate. I profumi di cedro e cacao. La sua terra. Vorrebbe continuare a vivere in Molise, tra la nostra brava gente, magari mangiando della sua arte. Ma le sue stelle polari, che conoscono bene la strada percorsa, non riescono a immaginare quella che hanno ancora da percorrere. Gli chiedo se ha nostalgia di casa. Mi mostra un quadro: due figure sottili ed eleganti, di spalle, si allontanano tenendosi per mano. "Mamma e Papà", dice. I suoi occhi si fanno sospesi tra mare e cielo, tra sangue e disperazione. Tutt'intorno il buio. © 2015 Massimiliano Ferrante Instagram | Twitter
FOTO: NICOLA PAOLANTONIO
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MICHEL, MA BELLE
FAMO A FIDASSE suggerimenti di Pier Paolo Giannubilo
Sei rapidi step per una lettura di Houellebecq, il più importante romanziere di Francia (e non solo) Premessa: sono parecchio di parte. Michel Houellebecq è, con Emmanuel Carrère, lo scrittore vivente che seguo con più entusiasmo. L'intenzione iniziale era proporre un invito alla lettura del suo ultimo romanzo, Sottomissione, ma perché non un invito a più ampio spettro, a questo punto? Del resto, Sottomissione è già fin troppo discusso dappertutto, da qualche mese in qua, per i suoi (costruiti ad hoc dalla stampa) addentellati con la strage di Charlie Hebdo. (Troppo discusso e temo, come spesso avviene, poco letto, visto che generalmente se ne parla ancora in termini di libro islamofobo, mentre anche il più sprovveduto dei lettori, finita l'ultima pagina, si fa all'istante una ragione del fatto che il bersaglio polemico dello scrittore – che immagina l'avvento di una sorta di nuovo Impero Romano in salsa islamica, non letale bensì a suo modo salvifico per l'intera Europa – non è l'Islam, ma il vuoto valoriale occidentale. Aggiungo anche che Sottomissione, che pure è un libro imprescindibile, per comprendere il nostro presente, sotto il profilo artistico mi pare possedere un respiro più corto, rispetto al capolavoro assoluto, La carta e il territorio, vincitore del premio Goncourt 2010, e ad almeno altri due romanzi precedenti...) Dunque. Alcuni appunti – extraslim, ovviamente – per una lettura di Houellebecq. "Se c'è un'idea, una sola, che attraversa tutti i miei romanzi, talvolta fino all'ossessione, è proprio quella della irreversibilità assoluta di ogni processo di degrado, una volta iniziato." L'affermazione, contenuta nello scambio epistolare con Bernard-Henri Lévy pubblicato col titolo Nemici pubblici ("Caro Bernard-Henri Lévy, tutto come dicono ci separa, a eccezione di un punto, fondamentale: siamo entrambi individui piuttosto disprezzabili...") è facilmente verificabile. Non solo i processi di degrado sono irreversibili. Ma non c'è una sola, fra le opere di narrativa di H., in cui non si avverta una lenta e inesorabile vittoria dell'entropia. Più lo leggo più ho l'impressione che ciò che davvero unifichi le sue trame sia una travolgente espansione del disordine interno (emotivo, affettivo, sessuale, relazionale, culturale, politico, economico, morale, storico), che riguarda tanto il singolo (protagonista delle storie di H. è spesso un europeo-medio, un uomo senza qualità, l'"uomo di una normalità assoluta" citato nella quarta di copertina di Sottomissione) quanto l'intero corpo sociale. Gli antieroi di H. assistono tutti, e del tutto impotenti, allo sgretolamento dei valori e delle illusioni di una civiltà al suo crepuscolo – frana avviata secondo il conservatore Michel nel disastro epocale del '68 e accelerata dalla ferocia del liberismo a tavoletta, dalle sue selvagge, ferree leggi, in base alle quali il forte domina e sbanca (winner takes all) e il debole non è più soltanto marginalizzato, espulso dalla vita e dal godimento come un corpo estraneo fastidioso e inutile, ma brutalizzato nello spirito (in ciò che ne resta). Sotto il profilo stilistico, H. è uno di quegli scrittori che (scene erotiche a parte) non sprecano una parola. Proviene da studi non classici ma tecnici, e la sua prosa regolare e per nulla incline a virtuosismi e arabeschi ne reca l'impronta. Le stesse catastrofi annunciate dei suoi personaggi obbediscono alle leggi scientifiche del determinismo. I suoi protagonisti a un certo punto si bloccano, smettono di reagire, cedono a uno spaesamento torpido. Il loro habitat è ostile e privo di senso, pare costruito appositamente per deprimere l'èlan vital di chi ha la sventura di nascervi.
Michel Houellebecq
"Per l'Occidente," si legge in Piattaforma, "non nutro odio, tutt'al più un immenso disprezzo. So soltanto che, dal primo all'ultimo, noi occidentali puzziamo di egoismo, di masochismo e di morte. Abbiamo creato un sistema in cui è diventato semplicemente impossibile vivere; e, come se non bastasse, continuiamo ad esportarlo." La Francia, col suo cinismo laicista, con la sua indifferenza a tutto ciò che non sia riconducibile al principio di piacere, è la metafora perfetta, per H., del fallimento del primo mondo. La sua arte è una nuova, potente declinazione della tradizione del realismo classico transalpino. Perfino le sue trame più futuristiche e distopiche non descrivono mondi di fantasia, ma un futuro che pare già un hic et nunc. È per questo, per questa straniante sovrapposizione, che la pagina di H. risuona sempre così sinistra e inquietante. Realismo, sì. Anche la profusione di scrittura porno, nelle sue pagine – a tratti disturbante perché di primo acchito appare spesso pleonastica o, peggio, commercialmente furbetta – andrebbe ricondotta a questa esigenza di inesausta tensione a una rappresentazione della realtà dal vero. (Breve ma doverosa avvertenza, a proposito delle sequenze porno: non state per accostarvi a un autore libertino e misogino, come qualche sciocco ha scritto. H. insiste fino alla nausea nella descrizione della contemporanea mercificazione totale (corpo e sentimenti compresi) proprio perché valori supremi (e dichiarati), per lui, sono l'amore e la bontà, irrisi invece come una sorta di perversione, nella ipercompetitiva e iperproduttivista società dei nostri giorni. E, a ulteriore scanso di equivoci, per H. sono i "valori femminili" a essere "pieni di altruismo, di amore, di compassione, di fedeltà", come annota Bernard Maris nel suo recente saggio Houellebecq economista, Bompiani, 2015.)
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Ora, chi non l'ha ancora fatto, e intende accostarsi a questo autore, potrebbe procedere così: questa, famo a fidasse, è la mia personalissima scala di priorità:
FAMO A FIDASSE
Step 1 Le particelle elementari, 1999 (e guardate anche il bel film, molto fedele al libro, di Oskar Roehler). Atmosfere houellebecquiane per eccellenza, apocalisse psichica quotidiana e incomunicabilità nella vicenda parallela di due fratellastri (un biologo molecolare destinato a mutare il corso del mondo e un insegnante flippato ed erotomane) accomunati da un destino di solitudine senza redenzione.
Step 2 La carta e il territorio, 2010. Il romanzo a mio giudizio più compiuto e affascinante: la biografia di un singolare artista contemporaneo, Jed Martin, che si fa riflessione sull'umanità tecnologica, il suo rapporto con la natura e il lavoro, e sulla paura dell'autoannientamento della specie. "Romanzo totale, bilancio dello stato del mondo e magnifico autoritratto (già: in questo libro H. mette in scena come personaggio, e fa letteralmente a brandelli, se stesso, ndr), labirinto metafisico di straordinaria maestria", secondo i recensori di "Les Inrockuptibles".
Step 3 La possibilità di un'isola, 2005. Narrazione impegnativa, per la quale si richiede un supplemento di attenzione, dato il continuo avanti e indietro nel tempo basato su un'intuizione geniale: la Terra del futuro è popolata da una gruppi di selvaggi regrediti al mondo semianimale e pochi eletti che, grazie alla clonazione e alla conservazione e al reimpianto della memoria hanno raggiunto, di fatto, l'immortalità. Inutile dire che costoro sono soli e infelici tanto quanto l'umanità di serie B da cui vivono separati – e forse di più. Sul confine fra fantascienza e la solita spietata, lucida analisi delle modalità con cui l'Occidente (negli anni che stiamo vivendo) demolisce se stesso, una storia che o si entra nell'ingranaggio e si ama alla follia, o si detesta perché, se affrontata alla leggera, ci si smarrisce dentro. Io dico: gratificante come altre poche letture di questi ultimi anni. Step 4 Piattaforma, 2001. Raggelante tuffo nell'infernale paradiso del turismo sessuale e in un'iniziativa imprenditoriale di successo: la creazione di una catena mondiale di villaggi vacanze con sesso libero. Una civiltà in cui resta una qualche traccia dell'amore sono nel suo più estremo surrogato fisico. Esito tragico, naturalmente.
Step 5 Gli imperdibili saggi riuniti da Bompiani in La ricerca della felicità, 2008, che offrono una coinvolgente panoramica sulla versatile intelligenza dello scrittore e sulla sua filosofia. (Su gran parte delle poesie antologizzate nel medesimo volume si può invece glissare.)
Step 6 Chi è arrivato a questo punto e vuole ancora proseguire non ha più bisogno di un Virgilio tascabile: vuol dire che ha imparato ad amare Houellebecq. Non può che procedere da solo. Pier Paolo Giannubilo
Foto: Massimo Di Nonno
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IL PORTABORSE VINCENZO è vivo e lotta insieme a noi!
Quando eravamo bambini era tutto più semplice: le notizie le ascoltavi al tg, le approfondivi sui giornali e quando non volevi pensarci più ti guardavi domenica in. Oggi i tg sembrano dei rotocalchi rosa, i giornali sono il corollario dei tg e l'agenda delle notizie la fa Giletti a domenica in. E' una semplificazione paradossale, ma il succo è che la mescolanza dei generi di cui parlava Umberto Eco già nel 1977 è diventata la regola dei mass media italiani. E non solo. La parola chiave è infotaiment che poi non è altro che la crasi di due termini inglesi che definivano i generi prima che la mescolanza divenisse una regola: information e entertainment, informazione e intrattenimento. L'infotainment nasce per ragioni molto diverse tra loro: 1) innanzitutto il calo d'attenzione del pubblico, e non solo del pubblico televisivo: guardare per intero e con partecipazione emotiva un programma di approfondimento può avere senso quando esso è IL programma di informazione; esempio classico: Santoro il giovedì sera negli anni '80 e '90. Ti mettevi lì comodo sul divano già alle 8 e mezza, sparecchiavi la tavola, riponevi il telecomando in frigo, e ti sparavi 2 ore e mezza di dibattito, operai incazzati fuori dai cancelli della fabbrica in crisi e il culo della Costamagna che ondeggiava tra il pubblico in studio alla ricerca dei pareri della società civile invitata in terza fila. Ma quando i programmi di approfondimento iniziano alle 7 meno cinque del mattino e finiscono alle 2 di notte, non è che puoi pretendere lo stesso livello di attenzione. Considerando anche che il culo della Costamagna nel frattempo è migrato in Albania e siede nascosto sulla poltrona di un programma di Agon Channel. Dunque, da qui nasce la necessità di ibridare il genere informazione con qualcosa che tenga alto il livello d'attenzione dello spettatore medio, che è uno che mentre ascolta svogliatamente l'ennesimo sproloquio di Salvini sui campi Rom, sta anche chattando con l'amante su messenger e controllando che il sugo non si attacchi alla pentola anche se sono le 8 del mattino. E quindi, tra un Salvini e un Landini, è meglio inserire una bella inchiesta di 40 secondi sulle dimensioni del pene di Montezemolo come simbolo della crescita del Paese all'uscita dal tunnel della crisi. 2) la crisi economica e la conseguente diminuzione degli investimenti pubblicitari. Fare la tv costa; fare inchieste costa ancor di più perché mandare una troupe in giro per raccontare la realtà
TUBO CATARTICO
di GIUSEPPE COLELLA
in diretta dalla realtà, raccogliendo fonti spesso distanti tra loro e ancor più spesso da scartare o su cui tornare più volte per la necessità di approfondire meglio le notizie raccolte la prima volta (le inchieste, per loro natura, si evolvono e cambiano focus mentre vengono realizzate) significa spendere tanti quattrini per realizzare prodotti di durata residuale rispetto al palinsesto.Tenere aperto uno studio e ficcarci dentro 4 persone che si azzannano per un'oretta, intervallati da un paio di vox populi girati nel mercatino sotto via Teulada è operazione molto più vantaggiosa ed economica. 3) parliamoci chiaro, la sovrabbondanza di notizie ci rende pigri intellettualmente. 10 minuti di ascolto dello stesso tema ci annoia e quindi maggiore è la quantità di notizie che si succedono e migliore sarà la nostra disposizione d'animo nell'ascoltarle. Meglio ancora se dopo 10 minuti di strage in Nigeria ci possiamo rilassare con 10 minuti di pene di Montezemolo. Tutto questo percorso trova la sua plastica rappresentazione nella bacheca di Facebook, che è il nostro quotidiano bignami della realtà: scorrendola dall'alto verso il basso in questo preciso istante, mentre vi scrivo, trovo che Maria posta un video di gattini, Daniela ascolta un pezzo dei Linkin Park, Elena si lamenta della giornata di lavoro, Maurizio condivide una notizia di una Rom (arieccoli!!) che dichiara di rapinare le vecchiette per comprarsi scarpe e un po' d'erba, Francesco pubblica foto del Vicenza Calcio nel 1993 e Irene mostra la sua posizione sulla mappa informandoci che sta "bibiendo sangria" presso La Rambla de Barcelona. Insomma: Informazione, Infotainment ed Entertainment sono un unicum di contenuto che ci rende tutti più informati. Ma il senso di quel "più" è meramente quantitativo.
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TUBO CATARTICO Ora, per uno che si è messo a leggere quest'articolo perché nel titolo c'è Vincenzo il Portaborse e nei fatti si ritrova da 4 minuti in mezzo a Salvini, Rom, bacheche di Facebook, culi di Costamagna e peni di Montezemolo, il senso di spaesamento è più che legittimo. Ma lo scrivente c'ha na mezza idea di come arrivarci. Promesso. Ancora 44 righe e ci siamo! Secondo un sondaggio pubblicato da Demos&Pi, i programmi di "informazione" più credibili sono Striscia la Notizia e le Iene, seguiti a discreta distanza da Ballarò, Matrix, Anno Zero e Report. Tanto per dare due dati, secondo questo sondaggio gli Italiani che hanno fiducia nelle Iene sono il 50%, quelli che hanno fiducia nella Gabanelli solo il 36%. Senza voler fare analisi sociologiche e rimanendo nella pura distinzione digenere televisivo, si evincono due dati: a) le trasmissioni di Infotainment sono più credibili dei programmi di Informazione pura. b) minore è la componente di intrattenimento, minore è anche la fiducia che li accompagna. La conseguenza più ovvia di questo trend è che la politica (e la sua comunicazione) avverte la necessità di apparire e di rendersi trasparente soprattutto quando è chiamata in causa dai programmi di infotainment. Se sono lì, pensano i fini strateghi del consenso a tutti i costi, allora sono credibile anche io. Errore da matita blu. Sì, perché non c'è nulla come i programmi di infotainment che se ne fotta meno dell'oggettività della notizia. Il loro unico faro non è la verità, ma la rappresentazione di una verità. La loro. Facciamo un esempio di scuola: il metodo Stamina raccontato da Le Iene. Un autore, un mio collega, capisce che c'è una tendenza in atto: la gggente non si fida più delle case farmaceutiche, dei professoroni al soldo di Big Pharma, dei baroni universitari che scelgono i propri ricercatori tra i parenti di primo grado o tra i parenti dei politici locali. Sono tutte "piaghe" reali che però hanno un limite: non esistono ovunque né contemporaneamente. Ma a un autore questo non interessa. A un autore interessa semplificare il tema, incanalare gli interessi e dimostrare una tesi per fare ascolto; il più alto possibile. Da qui inizia la ricerca del caso perfetto che, nello specifico,si chiama Stamina: un metodo rivoluzionario per curare malattie rare che la scienza ufficiale non riesce a curare perché (non detto ma sottinteso) gli interessi economici non vogliono che questo accada. E così un autore che fino a tre mesi prima faceva un quiz di preserale (tipo me, insomma) manda un inviato che è si è formato come animatore nei
villaggi turistici (Giulio Golia) a parlare di medicina e di scienza intervistando un tizio laureato in Scienze della Comunicazione che nella cantina di casa sua produce cure miracolose a base di cellule staminali (DavideVannoni). E questo mostro mitologico (l'autore di quiz + l'ex animatore turistico + il laureato in scienze della comunicazione) diventa il caso che coinvolge l'informazione, la politica e l'Istituto Superiore di Sanità peralmeno un anno. Un cortocircuito delle coscienze e della rappresentazione della realtà che, una volta messo in moto, è difficilissimo da fermare. Talmente difficile che arriva possente anche nella nostra regione col caso del Portaborse Vincenzo (contate le righe! Sono giusto 44, vel'avevo promesso). Cos'è il Portaborse Vincenzo? E' il metodo Stamina applicato alla politica: un tema di tendenza (i privilegi della politica), un autore scaltro, un attore in giacca e cravatta nera (in questo caso Paolo Calabresi) e una massa di politici (di maggioranza e di opposizione) completamente in balia degli eventi. E così assistiamo a una pantomima che se non fosse tragica sarebbe esilarante: un Governatore che pensa di poter affrontare il fiume in piena armato di due braccioli arancioni di plastica, un assessore che mette l'orgoglio paesano davanti alla dignità di uomo delle Istituzioni e un poverocristo, il portaborse Vincenzo, che per non far fare brutta figura al suo capo rimedia una figura di merda in mondovisione. Senza che un solo comunicatore o giornalista o cortigiano illuminato consigli ai tre soggetti coinvolti di eludere la "trappola", magari trattando il tema nei luoghi preposti o con interlocutori più appropriati di un attore di serie tv di medio successo.No! Le Iene sono in città, Le Iene posso domarle, Le Iene capiranno e torneranno da dove sono venute con le penne abbassate. Ma le iene, come è noto, non hanno le penne. Hanno, in compenso, un sorriso sardonico stampato in faccia e una ferocia famelica che sfogano sugli animali deboli e indifesi. E non basta: anche l'opposizione, fuori e dentro il Consiglio Regionale, si fa forte dello stesso servizio per dimostrare l'incapacità della maggioranza e la bontà delle proprie lotte. Un cortocircuito, anche in questo caso, in cui la politica regionale tutta mostra la sua essenza e la sua inadeguatezza comunicativa. Giletti, salvaci tu. GIUSEPPE COLELLA
Foto: Paolo Cardone
Foto: Paolo Cardone
L'IDEA MOLISANA
Energia ed Emissioni in Molise, un modello qualitativo.
TECNO/LOGOS di Marco Oriunno
L'aumento di emissioni di gas a effetto è strettamente legato allo sviluppo economico e sociale che resta per sua natura continuo e inarrestabile. Sebbene non esista unanimità sulle basi scientifiche del Global Warming, tutti concordano nella necessità di ridurre tali emissioni. Analizzando le sorgenti di emissione, circa il 70% è dovuto alla crescente domanda energetica. Vogliamo quindi tentare di comprendere qualitativamente il problema utilizzando un semplice artificio matematico con cui si possa descrivere il fenomeno attraverso singoli contributi più intuitivi: Energia = Pop x (PIL/Pro-capite) x (Energia/PIL) Tale relazione è un'identità algebrica e in questo modo le variabili sono ridefinite da numeri il cui trend storico possa essere stimato con sufficiente precisione. La formula ci dice che la domanda energetica è proporzionale alla popolazione, al Reddito pro-capite, all'energia necessaria per produrre PIL (Intensità di Energia). Allo stesso modo le emissioni invece sono proporzionali alla domanda energetica e dal tipo di sorgente utilizzata descritta dalla variabile Intensità emissiva, Emissioni/Energia. Emissioni = Energia x (Emissioni/Energia) Questi modelli qualitativi hanno validità generale e possono essere proficuamente applicati su scala globale ma anche su scale geografiche più ristrette, come il Molise, qualora si abbiano a disposizione serie storiche di dati macro-economici consistenti che qui di seguito proviamo ad analizzare singolarmente. Da una sommaria analisi dei dati demografici, appare evidente come in Molise, in sintonia d'altronde con il quadro nazionale, la popolazione tende a diminuire drammaticamente con conseguente invecchiamento della popolazione e quindi riduzione della forza lavoro. Cosa che metterebbe ancora più sotto stress l'efficienza del sistema produttivo perché la crescita economica deve confrontarsi con una contrazione della forza lavoro e allo stesso tempo la necessità di sostenere quella parte della popolazione non più in grado di lavorare. La questione è complicata e per semplicità si assumerà che il PIL pro-capite continui a crescere e che le emissioni prodotte siano quelle strettamente necessarie a sostenere un aumento della ricchezza secondo il principio per cui i poveri non hanno intenzione di restare poveri e i ricchi non hanno intenzione di impoverirsi a beneficio dei poveri. Il reddito pro-capite è quindi destinato a salire nei prossimi anni e anche qui c'è ben poco da fare al fine di ridurre le emissioni. E' lecito assumere che tale crescita in Molise non sarà spettacolare e che inoltre bisognerà ritenersi fortunati se la derivata non sarà negativa come quella registrata negli ultimi cinque anni. Il termine Energia/Pil è un parametro molto importante, chiamato Intensità Energetica. Esso ci fornisce anche una misura dell'efficienza dell'economia nel trasformare Energia in ricchezza.
Foto: Massimo Di Nonno
L'intensità energetica tipicamente diminuisce con la maturazione dell'economia, principalmente a causa dello spostamento da un'economia manifatturiera a una di servizi. Servirà, infatti, meno energia per produrre lo stesso PIL con una banca che con un'acciaieria. Tale mutazione è avvenuta di recente nel mondo occidentale, a scapito di Cina e India, dove le economie sono di tipo prevalentemente manifatturiero. Sul lungo termine però c'è da aspettarsi che i processi produttivi diventino più efficienti, facendo diminuire l'intensità energetica. L'efficienza energetica è quindi uno dei fattori fondamentali per la riduzione delle emissioni. Essa ha implicazioni di tipo politico e sociale, come l'adozione di stili di vita differenti ma ha anche implicazioni di tipo tecnologico come il miglioramento dei sistemi esistenti di produzione energetica nei trasporti on nell'edilizia. L'economia del Molise è a basso contenuto industriale, inoltre la tendenza su scala nazionale ed Europea è di un'esternalizzazione della produzione e una specializzazione nei servizi finanziari, marketing etc. Per quanti riguarda l'Intensità Emissiva, Emissioni/Energia, che definisce la quantità di emissioni per singola unità energetica prodotta, essa diminuisce con l'adozione di fonti energetiche prive o a basso contenuto di carbonio. Si potrebbe ad esempio rendere una centrale a gas naturale più efficiente, abbassando drasticamente le emissioni o addirittura eliminandole completamente con l'adozione di sorgenti energetiche sostenibili e prive di carbonio come impianti eolici, solari o centrali idroelettriche. Queste tecnologie sono disponibili e stanno già largamente penetrando il mercato, anche se sfortunatamente le cose non sono sempre facili perché la natura intermittente del vento e del sole e la limitazione di sistemi per l'accumulazione di energia, non permettono a tali impianti di esistere da soli, nonostante i progressi tecnologici spettacolari degli ultimi anni dei sistemi di Energy Storage. Da quanto detto sopra si può facilmente concludere che non esiste in Molise un'urgenza ambientale da emissione di gas a effetto serra, almeno non della stessa urgenza come quella dei grandi distretti industriali nel
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TECNO/LOGOS
Foto: Giovanni Rosa
resto del paese. Appare quindi poco giustificato il fatto di come il Molise sia eccessivamente impegnato più della media nazionale e più di quanto la legislazione Europea richieda, nella diversificazione del portafoglio energetico come per esempio attraverso la realizzazione d'impianti eolici, che tra l'altro hanno un altissimo impatto paesaggistico proprio il dove il paesaggio è riconosciuto come una risorsa dalle stesse entità amministrative.E' piuttosto interessante però soffermarsi più a lungo sul ruolo dell'Intensità Energetica (Energia/PIL) e dell'opportunità che essa può offrire a piccole regioni quali il Molise. È stato detto precedenza che l'intensità' Energetica è un indice del miglioramento dell'efficienza energetica ma anche della scelta di stili di vita sostenibili. Volere imporre abitudini virtuose su scala mondiale a larghi aggregati non omogenei di popolazione diventa una sfida impossibile quando si pensa anche alle situazioni geopolitiche contingenti di Stati Uniti, Cina e India. Diventano invece realizzabili quando si pensa alla loro attuazione su una scala macroeconomica ridotta come in Molise, grazie alla popolazione limitata, l'omogeneità culturale e un'economia già in larga parte centrata sui servizi.Il Molise come campione di sostenibilità, oltre ad essere di relativa facile attuazione programmatica e di diretto beneficio per gli abitanti, avrebbe un effetto dirompente nel quadro economico nazionale, tanto più accentuato dal fatto che avvenga in una regione del Centro Sud. Alcuni esempi dovrebbero aiutare a chiarire l'idea: * La limitata estensione territoriale della regione, favorirebbe i trasporti su strada regionali e urbani che potrebbero essere alimentati ad elettricità, con una tecnologia già largamente disponibile sul mercato, magari provvedendo all'installazione di stazioni di ricarica, come ad esempio in molte citta della California.
* L'adozione di unità termiche ad alta efficienza basata su gas naturali, congiunta a un'alta efficienza termica residenziale. Come ad esempio in Giappone. * Reti di distribuzione intelligenti (Smart Grid) equipaggiate con Sensori e intelligenti (Internetof-Things) capaci di monitorare e personalizzare il consumo energetico. * Cogenerazione di energia da scarti esistenti di biomasse dalla filiera agricola Oltre al vantaggio ambientale per gli abitanti, l'effetto aggiuntivo di tale ciclo virtuoso sarebbe anche quello di un ritorno economico diretto per l'economia della Regione, che potrebbe avere accesso a energia a prezzi ridotti rispetto alla media nazionale. Netto sarebbe anche il ritorno in termini di bilancio pubblico perché meno sollecitato dai costi collaterali dovuti alla gestione dell'inquinamento da fonti energetiche tradizionali o più semplicemente meno sollecitato nella spesa sanitaria. Da non sottovalutare anche i rischi legati nell'errata adozione di modelli di sviluppo economico importati e non adeguati alla realtà regionale come ad esempio grandi infrastrutture autostradali, che oltre a essere poco utili a un'economia di servizi, aumenterebbero l'effetto netto delle emissioni legate alla costruzione e all'uso delle stesse. O come gli impianti a biomasse di larga scala, non basate sul processo di scarti pre-esistenti, ma su quelli creati esplicitamente per l'uso di tale filiera energetica. E' noto, infatti, che l'energia rinnovabile da biomasse è non sostenibile a causa della dismisurata richiesta d'acqua per la coltivazione di queste e dell'inquinamento del suolo da parte di fertilizzanti o composti chimici secondari. Il Molise ha il vantaggio di essere un'economia piccola e quindi flessibile. In tal senso ha tutte le caratteristiche per cogliere i frutti nell'essere la prima ad adottare politiche virtuose su scala energetica con Business Models che possano eventualmente poi essere scalate a realtà più grandi. © 2015 Marco Oriunno
FOTO DI MASSIMILIANO FERRANTE
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DA VECCHIO VOGLIO ESSERE MORTO Massimo Cacciari, in un vecchio articolo per l'Espresso (Gennaio 2012) parlava dei giovani come i nuovi schiavi: "Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare". Rimasto inascoltato, ovviamente. Da allora la situazione è semmai peggiorata perchè ai giovani, occupati per finta e senza che potessero costruirsi alcuna rete previdenziale per la vecchiaia, si sono aggiunti i disoccupati anziani, sputati fuori dal sistema produttivo esanime. Scriveva Cacciari: " Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo. Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo...." Non so cosa pensi ora Cacciari del jobs act e non sappiamo quale sarà l'effetto. Sappiamo però che in Italia bisogna aver paura di osare, perchè sarebbe un suicidio annunciato. L'impossibilità di distinguere davvero il pubblico dal privato, il lavoro autonomo dall'impiego statale, è il primo muro contro cui si sbatte. Abbiamo un sistema fiscale che punisce, perseguita e terrorizza chi vorrebbe lavorare autonomamente, anche guadagnando poco. Gli artigiani potrebbero favorire il lavoro degli apprendisti ed assorbire la disoccupazione; potrebbero insegnare ai ragazzi un mestiere vero. Ma assumere un apprendista significa scaraventarsi addosso dei veri e propri raid burocratici. Invece che favorire l'indipendenza economica e il lavoro onesto lo Stato italiano considera i pagatori di tasse dei fessi da stanare. Burocrazia impazzita che fa errori inconcepibili in qualunque parte del mondo tranne che in Italia. Ma l'errore dello Stato e dei suoi burocrati diventa incubo di chi lo subisce.
FUMO BLU di Catharina Sottile
Massimo Cacciari fotografato da Angela Quattrone
I cittadini passano più tempo a rimediare agli errori dei burocrati che a produrre pane per se stessi. In un contesto in cui non creare nulla, non fare nulla, non dare da mangiare a nessuno premia decisamente, quale via d'uscita possiamo mai trovare alla morte sociale? Il più bravo dei falegnami, dei fornai, dei sarti ha molto più paura del fisco di un mediocre imbroglioncello che vive di soldi pubblici e utilizza le tasse di tutti per fare speculazioni da ladri di polli. E poi ci sono i delinquenti grandi e veri, quelli che spacciano, inquinano, imbruttiscono i territori e non hanno certo paura perchè rischiano sicuramente meno di un commerciante che non può pagare le tasse. La mafia al potere non ha molta fantasia! E poi c'è una considerazione più sociologica da fare: la generazione che proviene dal benessere ma non ne ha ereditato la memoria di povertà è una generazione che non sa ancora pretendere equità. La dà per scontata, come una prole privilegiata che è rimasta chiusa fuori di casa e bussa, disperatamente. Il problema è la deflagrazione della classe produttiva, prima che politica. Una generazione intera che sopravvive di stimoli emozionali e non intellettuali crea un contesto schizofrenico in cui si produce conflitto o comunque lavoro ad intermittenza. La classe dirigente, o comunque produttiva, che pensa solo 'io e mio' e non 'cosa, come e fino a quando' è una sterile, non genera nuovo e non programma possibilità. Come quando si è ubriachi e non si riesce a mantenere il controllo della realtà ma si cerca solo di rimanere in piedi. E in prospettiva, la certezza, non il rischio, di non avere alcuna pensione, alcun margine di risparmio che possa garantire il fermo forzato della vecchiaia e della malattia. Come si affronterà questa emergenza terribile di precari che diventeranno vecchi senza aver mai davvero risparmiato per sé e per le generazioni successive? Cosa ci accadrà? E' una prospettiva terrorizzante e non capisco come riusciamo a non considerarlo tema prioritario
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IN QUESTO NUMERO
Alessandro Antonelli Giornalista
Adelchi Battista Scrittore
Paolo Cardone Fotografo
Giuseppe Colella Autore televisivo
Ha scritto per la Repubblica, l'Unità, Liberazione, Apcom, Gli Altri. Adesso studia da sommelier
Ha pubblicato con Rizzoli e Guanda, ha scritto per la Radio, la TV, il cinema e il teatro, collabora con riviste e giornali. Si riproduce con costanza.
Da sempre interessato alla fotografia, ex musicista e fotografo professionista dal 1992. Ha partecipato a esposizioni personali e collettive e ricevuto numerosi premi e riconoscimenti in concorsi fotografici.
Ha una società di comunicazione, lavora per tutte le principali reti generaliste e satellitari (ad eccezione di Rete4), insegna allo IED ed è cintura nera di Ruzzle.Da poco ha anche acceso un mutuo prima casa.
Lucio Di Gaetano Economista
Massimo Di Nonno Fotografo
Ha mosso i suoi primi passi in quel di Milano nel 2001 presso la Banca d'Italia. Da allora molto tempo è passato, molti incarichi, molte amicizie e molti, molti, chili di sovrappeso. Ciò che non passa è l'amore insensato e inspiegabile per le proprie origini sannite.
Cofondatore dell'agenzia Prospekt, contributor per Getty Images. Ha lavorato per le testate italiane ed estere realizzando reportage in Italia e all'estero. Fondatore dell'associazione Vivian Maier. Negli ultimi anni videomaker.
Antonello Lombardi Magistrato Magistrato dal 2001, attualmente in servizio al Tribunale di Milano, in considerazione della prossima paternità e delle attitudini della redazione si è iscritto alla corrente di magistratura demografica
Matteo Patavino Musicologo A Bologna non si è perso e ha trovato pure il tempo per laurearsi al DAMS. Tra una raccolta di olive e l'altra ha pubblicato libri e audiovisivi sulla cultura molisana di tradizione orale. Con L'Arcano Patavino fa il rockjazzelanerafricana.
Lello Muzio Fotografo "Le immagini sono quella potenza silenziosa che parla solo agli occhi e, superando ogni ostacolo, s'impadronisce di ogni facoltà dell'anima". (Eugène Delacroix)
Massimiliano Ferrante Scrittografo
Pier Paolo Giannubilo Scrittore
Vive sulle nuvole. Quando piove, scende aggrappato a una goccia e suona la chitarra nei Postit o scrive storie. E' titolare del Mamiphoto studio.
Insegna in un liceo e ha svolto un'intensa attività giornalistica. È autore fra l'altro di due romanzi: Corpi estranei (2008) e Lo sguardo impuro (2014), quest'ultimo ambientato a Campobasso, città nella quale si ostina a vivere.
Marco Oriunno Ricercatore scientifico
Nicola Paolantonio Fotografo
PhD a Pisa in Ingegneria Aerospaziale, presto passato alla progettazione di acceleratori di particelle. Tantissimi anni al CERN di Ginevra, da molti ancora in California, allo Stanford Linear Accelerator Center, nel cuore pulsante della Silicon Valley.
Inizia a fotografare nel 1985. L'interesse per la fotografia di tipo paesaggistico e la ricerca applicata al territorio regionale sono testimoniate da lavori pubblicati su numerosi testi e cataloghi che valorizzano il Molise.
Paolo Ricciuti
Giovanni Rosa
Fotografo
Fotografo
Laureato in informatica ma amante della fotografia, negli ultimi anni ha deciso di dedicarle gran parte del suo tempo. Cerca di coglierne gli aspetti più documentativi, ovvero raccontare con le immagini
Laureato all'Accademia di Belle Arti di Roma, dove ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia. Interessato maggiormente alla capacità narrativa, nonché all'importanza sociale e di comunicazione del mezzo fotografico.
Catharina Sottile Giornalista Vive tra San Martino e Brisotti, tra l'attrazione per il mare di Termoli e la repulsione per il freddo di Campobasso. Scrive perchè parlare è rumoroso. La scrittura è più educata. E leggere consente di ascoltare musica contemporaneamente.
Paolo Ricciuti
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