LINK|9 - Vedere la luce. Dio e la televisione.

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Lo schermo insediato nelle cucine o nei salotti impera con la sua voce su quella dei suoi spettatori e insegna tutto sull’ultimo scandalo, sulle mode e i modi di vita attuali, ma si tiene lontano dai temi “ultimi” e inquietanti, accontentandosi di quelli “penultimi”, immediati e superficiali. L’impresa del dire Dio in televisione – e Dio è la realtà “ultima” e trascendente per eccellenza – è quindi ardua. Ricorrere alla parola biblica, alle sue risorse narrative, riesumandone figure e immagini, simboli e racconti, personaggi e avvenimenti, diventa, allora, una via per giungere a Dio, alla sua e nostra essenza profonda. Una via “televisiva” in cui la vicenda umana e naturale si fa parabola del divino e del mistero.

mons. Gianfranco Ravasi pagina 58 Osservando il creato, si ha l’impressione che Dio ami la complessità. Osservando la tv, si ha invece l’impressione che vi regni solo banalità. Il grande equivoco di molta comunicazione religiosa è di confondere la semplicità (che è un grande progetto espositivo) con la banalità (che è solo inerzia comunicativa). Come conciliare allora la presenza del divino nella comunicazione televisiva?

ALDOpagina GRASSO 66 6


La comunicazione televisiva resta un’esternazione del momento religioso, qualcosa che non tocca la sua vera essenza comunitaria o individuale. Vi sono sì i telepredicatori, ma non una vera e propria tele-religione. I due mondi del sacro e del video si sono abbracciati, ma non confusi e identificati.

UgopaginaVolli 74 La condivisione non è solo tra i personaggi, ma anche e soprattutto con lo spettatore, invitato al rito come compartecipe invisibile: un amico del morto lui stesso, che ne ha seguito magari per anni la vita e i pensieri. Sembra quasi un suggerimento, un modo “giusto” per affrontare la morte, che può essere fatto proprio dallo spettatore anche nella vita reale.

PEPPINOpaginaORTOLEVA 84 Il vampiro è la metafora del male, il sovvertimento dell’ordine divino. Come Satana, osa opporsi a Dio, alla sua volontà e alle regole della creazione che disciplinano il passaggio dalla vita alla morte. Non ci può essere male senza bene. Non ci può essere infrazione senza regole, sacrilegio senza senso del sacro.

Carlopagina Freccero 94 7

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VEDERE LA LUCE Dio e la TeleVisione

con testi di C. Freccero, A. Grasso, P. Ortoleva, mons. G. Ravasi, U. Volli, C. Antonelli, M. Bordone, G. Feyles, S. Pistolini, F. Sarica, A. Zaccuri.

La tensione verso il trascendente, verso Dio o verso un dio, è tipica dell’uomo. Di ogni attività umana, compresa la tv. Che ha provato ad avvicinarsi al totalmente Altro in molti modi. Diffondendo il Verbo, mettendo in scena la Parola che si fa racconto, fornendo strumenti per affrontare i casi della vita (e della morte). Addirittura, mimandone i rituali e creando proprie divinità. Sempre per prove ed errori, questi sì molto umani. Quelli che Link prova a raccontare. La vendetta dell’unicorno origami. ........ 17

La giustizia dei pirati.............................. 153

Sette concetti chiave del transmedia storytelling

Il copyright, tra leggi francesi e baie svedesi

di

Henry Jenkins

di

Stefano Ciavatta

Se le storie si spargono su più media, diventa complicato seguirle. Ma anche molto appassionante. Uno studioso di eccezione, Henry Jenkins, ci spiega come scrivere (e leggere) i racconti “imprendibili”.

Pirateria: il graal del libero accesso ai contenuti per alcuni, il massimo danno a interi settori industriali per altri. Ma quali sono le novità di questa battaglia a guardie e ladri in corso da qualche decennio?

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Jonathan Ames.......................................... 33

Non potete toccarmi.............................. 181

Intervista all’autore di Bored to Death

Eroi, tinelli e amore di massa

di

Fabio Guarnaccia

di

Violetta Bellocchio

Jonathan Ames, scrittore di racconti e romanzi. Jonathan Ames, autore di una serie HBO. Jonathan Ames, protagonista di quella stessa serie. Uno, nessuno e centomila? Intanto, partiamo da questi tre.

Abbiamo parlato di fan (e loro patologie), concentriamoci ora sull’altro lato della medaglia. Gli oggetti del desiderio, i divi e le star che popolano ogni medium. Al centro dei discorsi di tutti (con nuove patologie).

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Dappertutto............................................ 137

Distruzione creativa.............................. 199

Branded entertainment e marketing ambiguo

Reinventare i videogiochi con la tecnologia cloud

di

Michele Boroni

di

Lo spot da trenta secondi non basta più. La sponsorizzazione e il product placement, nemmeno. E allora non resta che divertirsi un po’ con lo spettatore/cliente. Giocando a nascondino.

Matteo Bittanti

Buttate le console. Dimenticate le cartucce, i dischi, le scatole. Non c’è più bisogno di apparecchi e di supporti per usare i videogiochi: ora bastano un abbonamento e un accesso alla rete.

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SOMMARIO

editoriale................................................................................................................ 5

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La vendetta dell’unicorno origami. .............. di Henry Jenkins....................................... 17 il nuovo e il sempre uguale.. ....... Parlare di libri........ di Aldo Grasso. ........................................ 30 intervista a.. ..............

Jonathan Ames............................................................... 33

Glee e….................... di Dr. Pira.................................................. 38 Fate i bravi (con la tv).................................. di Alessia Assasselli................................ 41 Estero. Share e top ten.. ........... Canali DTT:…........... di Ludovica Fonda................................... 47 .................................... Vero? Falso?…. ...... di Paola Capra.......................................... 49 divagazioni semi-serie..............

COVER STORY

vedere la luce Dio e la televisione

Volto e parola................................................ di mons. Gianfranco Ravasi.................. 58 Indagare la complessità................................ di Aldo Grasso. ........................................ 66 Primo giorno. Cronache dal gennaio 1954...................................................................... 72 Rimediazione mancata. ................................... di Ugo Volli............................................... 74 Televisione e liturgia. ................................. di Alessandro Zaccuri........................... 82 Con pianto...................................................... di Peppino Ortoleva............................... 84 Vite sintetiche................................................ di Carlo Freccero................................... 94 Davanti al rito, davanti allo schermo. .... di Giuseppe Feyles. ................................. 100 Telepredicatori e oltre, molto oltre. .......... di Stefano Pistolini............................... 102 Dovunque sei................................................... di Federico Sarica.................................. 110 Le neo-beghine vanno a messa…. ............. di Carlo Antonelli............................... 116 Non avrai altro io al di fuori di te............... di Matteo Bordone............................... 118

INDUSTRY

sette centimetri............................................ di Antonio Dini...................................... 127 Dappertutto................................................... di Michele Boroni................................. 137 La coda mozza. ............................................. di Carlo Alberto Carnevale Maffé ..144 Ascolti digitali............................................... di Serena Ciani. ...................................... 147 La giustizia dei pirati..................................... di Stefano Ciavatta................................ 153 Serie alla finestra......................................... di Luca Barra. ......................................... 161 Sguardi sul mercato globale.. ..... Brasile............................................................................................ 169

SIGHTS

Non potete toccarmi..................................... di Violetta Bellocchio........................ 181 Meetic: il senso dell’umorismo è morto... di Irene Lumpa Rossi.............................. 188 Visioni laterali..................... Christian Marclay..... di Francesco Spampinato..................... 191 Tv out of home: il futuro è social............ di Matteo Stefanelli............................ 196 Distruzione creativa...................................... di Matteo Bittanti. .............................. 199 Portfolio.. ......................... Gormiti. .......................................................................................... 211 11

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Illustrazioni

Martina Merlini

ha realizzato i separatori

Diplomata in illustrazione presso l’Istituto Europeo di Design, pubblica con Schiaffo edizioni e organizza la mostra di serigrafie itinerante LOOP. Collabora con Assab One, galleria milanese di arte contemporanea, per l’allestimento e l’ideazione di eventi artistici. È stata selezionata per la mostra illustratori della fiera del libro per ragazzi di Bologna 2009 e per l’annual illustratori 2009/2010. m-merlini.blogspot.com

Emanuele Sferruzza Moszkowicz ha realizzato le illustrazioni di Product

Ritrae la vita, le fobie, i sogni, i racconti: segue una persona, raccoglie informazioni e legge le sue scritture per estrarne l’immaginario e trasferirlo su grandi superfici di carta. In Italia è rappresentato dalla galleria The Flat - Massimo Carasi. www.carasi.it

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Daniele Villa

ha realizzato le illustrazioni di Industry

Vive e lavora a Roma. Membro fondatore della Citrullo International, casa di produzione e factory artistica, è regista di documentari e autore di libri sul cinema. www.dahville.blogspot.com

Sebastiano “tone” carghini ha realizzato le illustrazioni di sights

Passa il tempo a cercare soluzioni per il suo futuro. Negli ultimi anni è riuscito a farsi conoscere partecipando a mostre collettive (a Riccione, Udine, Mantova e Cremona) e personali (a Cesena, Tone Solo Expo). Finalista al concorso “Celebrity Originality” di Vice Italia, attualmente lavora a magliette e copertine musicali. www.flickr.com/photos/tone_

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La vendetta dell’unicorno origami LINK 9 Product

Sette concetti chiave del transmedia storytelling di Henry Jenkins

Storie che si frammentano su nuovi canali e nuove piattaforme, pezzi da raccogliere e mettere insieme in una lotta (per gioco) tra gli autori e il pubblico: è il transmedia storytelling, il racconto che si dispiega su più media tutti insieme. Una forma di narrazione che sfrutta in positivo l’apparente confusione e la arricchisce di senso. Parola di Henry Jenkins, guru della convergence culture, che qui ci spiega che in fondo non c’è niente di nuovo. E che si può cominciare da sette semplici regole.

traduzione di Luca Barra

illustrazioni di Emanuele Sferruzza Moszkowicz

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È professore di Comunicazione, giornalismo e cinema presso la University of Southern California. Collabora con il Convergence Culture Consortium e per oltre un decennio ha diretto il Comparative Media Studies Program al MIT di Boston. Figura a metà tra l’accademico e il fan, è uno degli studiosi più influenti nel campo dei media e della pop culture. I suoi ultimi libri tradotti in Italia sono Cultura convergente (Apogeo, Milano 2007) e Fan, blogger e videogamers (Franco Angeli, Milano 2009).


LINK 9 Product La vendetta dell’unicorno origami

[Il game designer di Electronic Arts] Neil Young parla di “comprensione additiva”. Cita l’esempio del director’s cut di Blade Runner, dove l’aggiunta di un breve segmento in cui Deckard trova un unicorno origami invita lo spettatore a chiedersi se Deckard sia un replicante: “Ciò cambia la nostra percezione globale del film e la nostra percezione del finale… La sfida per noi, specialmente nel caso del film Il signore degli anelli, è tirar fuori l’unicorno origami, quel frammento di informazione che ti fa vedere il film in un modo diverso”. Henry Jenkins, Cultura convergente

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o usato per la prima volta il concetto di transmedia storytelling (narrazione transmediale) nel 2003, in una rubrica per la Technology Review, poi l’ho elaborato nel capitolo “All’inseguimento dell’unicorno origami. Matrix e la narrazione transmediale” di Cultura convergente. L’unicorno origami rimane per me l’emblema dei principi chiave che danno forma a quello che chiamo transmedia storytelling: il santo protettore di una comunità sempre più appassionata di artisti, narratori, marchi, game designer e critici/accademici, per cui il transmedia è diventato la forza trainante della vita creativa e intellettuale. Sei anni fa, i fan e gli studiosi erano scioccati dall’idea di transmedia, incontrata per la prima volta in Matrix dei fratelli Wachowski. Ora, al contrario, sembra esserci quasi un’aspettativa di transmedia, come quando i fan di Flash Forward si sono lamentati del fatto che la serie in onda avesse mostrato un sito web, ma poi avesse fornito solo qualche piccola estensione ai fan che avevano cliccato davvero su quel link. Abbiamo raggiunto il punto in cui i franchise mediali sono giudicati duramente dai fan se non saziano la loro fame di contenuto transmediale? Voglio cominciare con una definizione operativa: “il transmedia storytelling è il processo in cui gli elementi che costituiscono una fiction sono sistematicamente dispersi su varie piattaforme, allo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ogni medium fornisce il suo contributo originale allo svolgersi della storia”. Alcune cose che dirò dopo – affrontando le espansioni grassroots del testo, non autorizzate e realizzate dai fan, o vedendo come i franchise possono preferire, nell’esplorazione dei mondi finzionali, la varietà alla coerenza – renderanno più complicata quest’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”. Bisogna chiarire poi che quella narrativa è soltanto un tipo di logica transmediale che sta dando forma all’intrattenimento contemporaneo. Possiamo identificarne altre – il branding, lo spettacolo, la performance, il gioco, forse altre ancora –, che possono operare indipendentemente l’una dall’altra o possono essere coordinate in una singola esperienza di intrattenimento. Si potrebbe per esempio distinguere tra il transmedia storytelling e il transmedia branding, anche se a volte sono fortemente legati. Dark Lord. The Rise of Darth Vader è un’estensione della narrazione transmediale cresciuta intorno a Guerre stellari, dal momento che fornisce una back story e alcuni indizi su un personaggio fondamentale di quella saga. Al contrario, i cereali di Guerre stellari accrescono il branding del franchise, ma danno un contributo piuttosto limitato per farci capire lo sviluppo della narrazione o il mondo in cui si svolge la storia. Probabilmente l’idea che le Truppe d’assalto siano fatte di pezzetti di dolce marshmallow, più che rafforzare la continuità e la coerenza del mondo funzionale creato da George Lucas, le contraddice. Dove possia18


mo collocare allora le action figure di Guerre stellari? Sono infatti risorse con cui i giocatori possono espandere la loro comprensione del mondo finzionale, che in minima parte favoriscono un gioco transmediale e che, man mano che nel gioco emergono storie coerenti, possono persino contribuire all’espansione della storia. Visto che stiamo facendo distinzioni, possiamo poi differenziare l’adattamento, che riproduce con minime modifiche la narrazione originale in un nuovo medium e in definitiva è ridondante rispetto al lavoro primario, dall’estensione, che invece amplia la nostra comprensione dell’originale introducendo nella fiction nuovi elementi. Certo, è questione di gradi: ogni buon adattamento fornisce intuizioni utili per la nostra comprensione del mondo finzionale, e fa aggiunte e omissioni che possono ridare forma alla storia in modo anche significativo. Ma siamo tutti d’accordo che l’Amleto di Lawrence Olivier è un adattamento, mentre Rosencranz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard espande la narrazione originale di Shakespeare attraverso una rifocalizzazione sui personaggi secondari del dramma. I miei precedenti lavori sul transmedia enfatizzavano la novità di questi sviluppi: ero esaltato da come i media digitali possono estendere, per le grandi imprese mediali, la possibilità di fornire contenuto legato ai loro franchise. Già Derrick Johnson ha sostenuto con forza che l’attuale “momento transmediale” va compreso in relazione alla storia, ben più lunga, delle varie strategie usate per strutturare e dispiegare i franchise mediali. E anch’io, quando ogni mattina vado a insegnare all’University of Southern California, sono costretto a ricordarmi di queste fasi precedenti nell’evoluzione del transmedia storytelling, vedendo una statua gigantesca del gatto Felix che sta sopra un concessionario ed è diventata un importante punto di riferimento a Los Angeles. Felix, come ha mostrato Donald Crafton, era un personaggio transmediale, i cui impieghi andavano dai film d’animazione e dai fumetti alla popular music e al merchandising, ed è stata una delle prime personalità a essere trasmessa dai grandi network della tv americana. Si può dire che Felix è però un personaggio fuori da un contesto narrativo specifico (dato che ogni cartoon è autoconclusivo ed episodico), diversamente dalle figure transmediali contemporanee che portano con sé la linea del tempo e il mondo possibile descritti dal “testo madre”, il lavoro primario cui si ancora il franchise. Man mano che vado avanti, cercherò così di legare il transmedia a pratiche storiche precedenti, provando a identificare somiglianze e differenze.

Spalmabilità (spreadability) vs. penetrabilità (drillability)

La vendetta dell’unicorno origami

Gli elementi della fiction sono dispersi su varie piattaforme, in un’esperienza unificata e coordinata.

Nella conferenza Futures of Entertainment del 2008 abbiamo raccontato il concetto di “spalmabilità” (spreadability), nucleo centrale del mio prossimo libro che sto scrivendo con Sam Ford e Joshua Green. La spalmabilità indica la capacità del pubblico di essere coinvolto attivamente nella circolazione dei contenuti mediali attraverso le reti sociali, e di espandere così il loro valore economico e culturale. Rispondendo a quell’intervento, 19

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intervista a

Jonathan Ames Fabio Guarnaccia

di illustrazioni di Emanuele Sferruzza Moszkowicz

Scrittore, giornalista, boxeur, animatore della vita culturale nuovayorkese, autore tv. Ha scritto tre romanzi, diversi mémoire giornalistici, un graphic novel – che ha per protagonista un tipo chiamato Jonathan Ames, affetto da problemi di alcolismo – e una serie targata HBO. Bored to Death, in Italia su FX, è uno strano oggetto televisivo: in un certo senso è un’autobi(bli)ografia a puntate in cui convergono la vita dello scrittore, le sue manie e l’ intero universo della sua produzione letteraria. Tra le altre cose, è stata la sua origine ad averci incuriositi: la serie nasce infatti da un racconto che Ames ha scritto qualche anno fa; non una serie di libri come quelli di Charlaine Harris per True Blood, ma una storia di una ventina di pagine. Cosa assai bizzarra. Pertanto qui si parla di adattamento, scrittura seriale e manie, oltre che di modi per sbarcare il lunario e annoverare Zach Galifianakis tra i propri amici. Perché adattare un racconto che avevi già scritto, invece di pensare a qualcosa di originale da proporre a HBO? Perché ho adattato un mio racconto? Spesso i film migliori sono tratti da romanzi o da racconti. È molto più raro che questo accada per una serie tv, ma perché no? Comunque, è tutto frutto del caso. Neanche ci pensavo a fare una serie tv da un mio racconto. Sono stato contattato da un produttore della HBO, Sarah Condon: il suo capo aveva letto un mio romanzo, Wake up, sir (Alzati Maestro), e gli era piaciuto. In quel periodo Sarah stava incontrando alcuni scrittori per esplorare possibilità di collaborazione. Era il 2007, mi ha chiesto su cosa stavo lavorando e mi ha raccontato il tipo di cose che cercava. Le ho detto che avevo appena scritto una storia per McSweeney’s che si intitolava Bored to Death, e che questa raccontava di uno scrittore che si mette a fare il detective privato 33

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per uscire da un’ impasse esistenziale: una storia da cui poteva trarre un buon film, o qualcos’altro. A Sarah l’ idea è piaciuta, così mi ha chiesto di svilupparla inserendo nuovi personaggi e rivedendo alcune cose. Mi sono messo al lavoro con un paio di amici e mi sono presentato alla HBO, ho fatto il pitch del progetto e così è iniziato tutto. Ho letto il racconto, e la versione televisiva è molto più comedy e rassicurante: le droghe si riducono alla marijuana, l’alcol al vino bianco. E non ci sono omicidi. La domanda è: si tratta di scelte richieste dall’adattamento o da limiti imposti dalla produzione? La realtà è che un adattamento comedy non poteva mantenere quelle caratteristiche violente e dark che, in parte, caratterizzano l’originale. La richiesta di HBO era di prendere solo la premessa della storia, che poi è la parte più divertente, e di partire da lì: uno scrittore che diventa un detective privato ed entra in un mondo di fantasia perché ha letto troppi romanzi di Chandler – proprio come Don Chisciotte immagina di essere un cavaliere per via di tutti quei poemi cavallereschi. Per farlo diventare un telefilm divertente ho dovuto diminuire il tasso di violenza. All’ inizio pensavo che sarebbe stato bello inserire qualche cadavere di tanto in tanto, ma in 27 minuti è impossibile portare il pubblico da un omicidio alla risata senza diventare sclerotici. Come ti senti rispetto all’idea originale che ti aveva portato a scrivere il racconto? Personalmente preferisco l’adattamento televisivo, è più complesso e i meccanismi narrativi funzionano meglio… Sono due opere diverse, non riesco a fare paragoni. Lo stesso accade in questi giorni con The Extra Man, il film con Kevin Klein tratto dal mio romanzo omonimo (in Italia, Io e Henry). Il film è piuttosto diverso dal libro, così come uno spettacolo teatrale che viene trasposto in un’opera cambia forma per adattarsi al medium. Il racconto è pensato perché venga letto d’un fiato, il telefilm deve poter essere visto nel corso di diverse stagioni, con il riproporsi dei personaggi eccetera. A proposito di questo, come ti sei trovato a dover gestire la scrittura seriale? Come è cambiato il tuo modo di pensare al plot e alle storie? Raccontare una storia in tv è una cosa completamente diversa dalla scrittura di un romanzo o di un racconto. Devi essere veloce, usare molti personaggi, tenere le cose sempre vive. C’ è una citazione di David Mamet in proposito che è perfetta: “entra in scena tardi, e sempre dal vivo”. Devi tenere il ritmo alto, pensare alle scene evitando il superfluo – quando entri in un caffè, lascia perdere i saluti, tutti quegli inutili “ hello, hello” che nella prima stagione mi veniva naturale usare perché stavo facendo esperienza. Quello che voglio dire è che si impara dal medium stesso a scrivere nel modo più corretto, a dare al racconto il giusto propellente. Restiamo sulla scrittura seriale. A differenza dei romanzi, le serie tv nascono per non finire mai, senza contare che un buon telefilm rimanda di continuo la soluzione dei nodi psicologici che tengono i protagonisti prigionieri dei loro personaggi. A dire il vero non trovo che sia così differente dallo scrivere un romanzo. Ogni puntata, in un certo senso, è come un capitolo: non vedi ancora dove andrai di preciso con il capitolo successivo, e non sai neppure se ti sarà permesso di arrivare 34


fino alla fine. Sto scrivendo la seconda stagione della serie e ho la precisa sensazione che si tratti di un romanzo a puntate, come i capitoli delle opere di Dickens pubblicati sul quotidiano del lunedì. In fondo è proprio come scrivere un feuilleton: devi cercare di procrastinare la storia che stai raccontando il più possibile, senza essere noioso. Inoltre, immagino ogni episodio come se fosse un piccolo film, in cui alcuni aspetti narrativi legati alla storia dei personaggi si chiudono mentre altri no, e ne nascono addirittura di nuovi. Così esiste un inizio, uno sviluppo e una fine per ogni episodio, alcune cose si compiono nell’azione, ma vi sono storyline che continuano a vivere insieme ai personaggi. Direi che scrivere per la tv è come scrivere romanzi a puntate.

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È stato difficile per te lavorare con altri autori, produttori e tutto il resto? Sì, lo è stato e continua a esserlo. Come romanziere sono abituato a fare il direttore della fotografia, il costumista, l’editor, persino l’HBO: prendo tutte le decisioni da solo. Anche qui prendo molte decisioni, ma le scelte devono essere approvate. Mi devo confrontare con altre persone che non sono me. Ma è pure molto divertente, amo passare il tempo con gli attori e sto sviluppando nuove competenze sociali. E poi devi condividere il tuo mondo, dal momento che la serie è molto legata a te, ai tuoi personaggi… A volte capita, per esempio, che gli altri della squadra non condividano alcuni dialoghi che per me sono perfettamente appropriati ai personaggi. Ma in fondo è un problema che devi affrontare in ogni lavoro di gruppo: ci sono momenti di stress perché è un processo complesso, ma devo dire che nell’ insieme è stata un’esperienza positiva. Certo, mi manca molto l’ isolamento di quando scrivo romanzi, ma è davvero molto difficile sbarcare il lunario facendo solo lo scrittore negli Stati Uniti.

In 27 minuti è impossibile passare da un omicidio alla risata senza diventare sclerotici

A dire il vero in Italia è assai peggio… Il protagonista della serie si chiama Jonathan Ames (interpretato dall’andersoniano Jason Schwartzman, N.d.R.): come in molti altri tuoi lavori, c’è una forte ambiguità tra vita e fiction. Si può dire che Bored to Death è una sorta di telefilm autobiografico? Non direi, molto di quello che viene raccontato è pura fiction. Anche se tante cose sono legate alla mia vita, specie i due coprotagonisti: George Christopher – l’editor del mensile maschile concorrente di GQ per cui scrive il protagonista – è ispirato in parte all’editor del New York Press dove avevo una rubrica; e Ray Hueston – l’amico disegnatore di fumetti, sempre in ansia per il suo rapporto con la fidanzata – è molto ma molto vicino al mio amico Dean Haspiel che ha disegnato The Alcoholic, il mio fumetto. E poi il protagonista veste come vesto io, anche se rispetto al racconto originale è molto più giovane di me: è una mia versione più giovane, e mi piace perché è come immaginare/riscrivere il mio passato. A ogni modo, tutti i personaggi parlano un po’ per me. Anche se il personaggio a cui mi sento più vicino è George Christopher, un quasi coetaneo che mi somiglia nel modo in cui vede i rapporti tra le persone e un certo tipo di vita mondana a New 35


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Giovane promessa dell’atletica, vede la sua carriera stroncata da un terribile incidente. Dedicatosi per ripiego al commercio e alla finanza, accumula grandi capitali che sperpera in seguito a una violenta crisi familiare. All’età di 15 anni decide di ricominciare dedicandosi all’editoria: fonda I fumetti della gleba, periodico di attualità e cultura. Attualmente vive e lavora tra Lobbi e Brugnato, ed è impegnato nella stesura del suo ultimo romanzo fantastorico, Arrembaggio a Gesù Cristo.

Glee e il futuro nei balletti di

Dr. Pira

Come annoiare per ore i commensali, senza aver visto una sola puntata delle serie di cui tutti parlano.

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dopo anni di difficoltosa navigazione sotto i venti dell’intelligenza razionale? Si sa che i bambini sono i primi ad assorbire ogni aspirazione, preoccupazione e paura dall’humus adulto che li circonda, e non ho ancora visto infanti ansiosi di autoaddestrarsi alla sopravvivenza in un mondo post-nucleare. Ho visto però bambini in grado di interpretare gli ultimi successi pop prima ancora di aver appreso la scrittura. Voi che già sapete leggere queste righe: è quasi scontato avvertirvi che tra non molti anni avrete dei rivali inaffrontabili nel campo del divertimento. Presto, in qualsiasi situazione di pubblico svago, vi troverete negli angoli a esporre sterili critiche di stampo tardo illuministico nel tentativo di denigrare l’apparente stupidità di individui la cui superiorità riconoscerebbe a malincuore anche Darwin: loro troveranno molte più occasioni di riprodursi. E mentre voi redigerete tediosi tomi sulla decadenza della civiltà, la loro progenie sarà già in grado di eseguire balletti di una tale allegria da far vacillare e soccombere il vostro pensiero razionale. Forse è per questo che la storiografia tipica delle epoche di cosiddetta deca-

i apre sempre più lo squarcio tra ricchi e poveri, la morale va in crisi, l’arte diventa patina estetica, gli uomini sembrano donne e le donne uomini: questo osservava Tacito a cento anni dall’inizio dello scorso millennio, e ne prendeva nota come chiari sintomi del prossimo crollo dell’Impero. Qualsiasi panchina del giorno d’oggi sottoscriverebbe gli stessi pensieri, avendoli assorbiti per osmosi dai diversi anziani che vi hanno sostato recentemente. È dunque scoccata l’ora della decadenza? Non teschi su cavalli solcano i nostri telegiornali, ma allegria, belle ragazze, canti e balletti. Sarebbe lecito lamentarsi con il direttore artistico della Decadenza della Civiltà Occidentale, se mai ce ne fosse uno. Ma non facciamo i faciloni, sarebbe troppo semplice chiudere la questione brandendo un volume di Freud e sentenziando che tutta quell’apparente allegria deriva soltanto dalla fuga da inquietudini opprimenti che non abbiamo il potere di dominare. Se l’apparenza inganna, lo può fare anche a doppio taglio: chi ci dice che ciò che appare all’orizzonte non sia l’oceano dell’allegrezza spensierata,

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intossicati o derubati, chiedetevi: è bello ciò che vedete? L’epoca dell’intelligenza razionale è finita. Viva i balletti!

denza risulta tanto noiosa e fuorviante. Nessuno ci assicura che non ci fosse della gente fuori in preda al più sfrenato divertimento, nello stesso momento in cui lo scribacchino di storia si ingobbiva sulla sua scrivania maledicendoli. Per un resoconto più obiettivo dovremmo affidarci ai prodotti nati nei periodi di passaggio, quelli in cui chi fa i balletti ancora ha voglia di documentare qualcosa per i posteri. Glee è una serie tv che si direbbe partorita proprio in un simile contesto storico: quando, sull’orlo di un baratro, l’unico che si salva è quello che ha deciso di buttarsi con una piroetta. Il protagonista, un insegnante di un liceo americano, indossa le vesti dell’ignaro profeta e, armato solo della sua candida ingenuità, decide di prendere in mano le sorti di un decaduto club studentesco dedicato all’apprendimento di canti e balletti. Come fecero a loro tempo altri pescatori di uomini, getta le reti nelle acque degli umili, e da ultimi li condurrà a essere i primi, a passi di danza. L’accresciuta sensibilità e le più potenti energie psichiche derivanti dai balletti li rendono improvvisamente migliori: possono scavalcare muri sociali prima inaffrontabili e affrontare difficoltà che sembravano prima precluderli per sempre al pieno godimento della vera vita. Seppellita per sempre la spada della razionalità, bruciata la cappa della competizione sociale, possono combattere e vincere ogni cosa con i balletti. Il potere oscurantista della squadra di football e delle cheerleader trema dalle fondamenta: la presa analitica dei suoi condottieri scivola sui sudditi già unti del nuovo che avanza. Ora, telecomando! Cambiate canale: improvvisamente è tutto giusto. I giovani che danzano e cantano facendo i provini sul teleschermo sono i primi gemiti di un illuminato, ancora mal indirizzato, che sta brancolando verso il Nuovo Mondo. Possono generazioni di sufi rotanti e sciamani saltellanti essersi sbagliate? Quando facciamo i balletti, gli dei ci parlano e ci dicono che è giusto essere amici, essere felici, e fare i balletti. Ci serve ancora qualcos’altro? Accumulare potere e denaro è obsoleto. Ora uscite a fare quattro passi nella decantata civiltà razionale. Se non finirete investiti,

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indaga compl

RELIGIONE E TV, DA PA

di Aldo Grasso

Da sempre la tv si confronta con il divino, o con le sue incarnazioni nelle istituzioni religiose. Da sempre si cercano strade per rappresentare oggetti complessi su un medium triviale. Da sempre

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are la lessità

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ADRE MARIANO A LOST

si percorrono strade come la predicazione e l’agiografia. Ma forse il vero dialogo con il sacro si esercita solo nelle grandi narrazioni della serialità americana: come in Lost, dove “ la verità si nutre di finzione”.

È professore ordinario di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano, direttore del Ce.R.T.A. - Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi della stessa università, ed editorialista e critico televisivo del Corriere della sera. Fra le sue pubblicazioni: Storia della televisione italiana (Garzanti, Milano 19922004), Enciclopedia della televisione (Garzanti, Milano 1996-2008), Che cos’è la televisione (con M. Scaglioni, Garzanti, Milano 2003), Buona maestra (Mondadori, Milano 2007) e Arredo di serie (con M. Scaglioni, Vita e Pensiero, Milano 2009).

Questo articolo è la trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento al convegno “Dio oggi. Con lui o senza di lui tutto cambia”, svoltosi a Roma il 10 dicembre 2009.

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1. Si veda l’introduzione in A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2007.

2. È quello che avviene nel giugno 1954, quando otto nazioni europee si collegano, nel primo esperimento di trasmissioni internazionali, per seguire il discorso e la benedizione del Papa (impartita in otto lingue), pronunciati dall’appartamento ufficiale pontificio in Vaticano.

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sservando il creato, si ha l’impressione che Dio ami la complessità. Osservando la tv, si ha invece l’impressione che vi regni solo banalità. Il grande equivoco di molta comunicazione tv, compresa quella religiosa, è di confondere la semplicità (che è un grande progetto espositivo) con la banalità (che è solo inerzia comunicativa). Come conciliare allora la presenza del divino nella comunicazione televisiva? È curioso notare come il termine sacro, risalendo alla sua origine etimologica, significhi separazione e indichi che “è sacro ciò da cui si deve stare lontani”. Di converso, il termine televisione indica invece avvicinamento e prossimità: indica l’atto di poter guardare senza l’obbligo di condividere un medesimo spazio. Dunque, se crediamo alle parole, il sacro e lo spirituale dovrebbero essere categorie scarsamente presenti nella storia della tv italiana. E infatti, anche all’interno di un mondo tutto sommato futile come quello della tv, si può applicare la bellissima definizione di René Girard, che rappresenta forse la chiave di lettura per spiegare il complesso rapporto tra religione e tv: “Il sacro è innanzitutto ciò che domina l’uomo, tanto più agevolmente quanto più l’uomo si crede capace di dominarlo”. L’esperienza religiosa trova spazio in palinsesto sin dai primi passi della tv italiana, all’inizio degli anni Cinquanta. A differenza di altri esperimenti nazionali, infatti, la tv italiana non nacque ispirata da meri intenti commerciali o tecnologici, ma il nuovo medium fu pensato come un vero e proprio progetto culturale, fondato alla radice sulle tradizioni e sui retaggi culturali condivisi dai suoi spettatori1. La prima dirigenza Rai – inizialmente laicista e poi cattolica, decisamente colta, di estrazione accademica e attenta a una produzione di livello medio alto – attinse a diversi “serbatoi culturali”: dove il principale può essere considerato quello di impostazione umanistica, che traspare soprattutto nella realizzazione dei primi sceneggiati, espressione audiovisiva della tradizione letteraria. La forma più immediata sperimentata dalla Rai delle origini è quella più legata al suo “specifico”, cioè la capacità di annullare le distanze e le separazioni temporali per permettere la fruizione in contemporanea dei grandi eventi. E non è un caso che i primi esperimenti di trasmissione satellitare in Europa (Eurovisione) prendano vita proprio per dare voce alla parola del Pontefice2. A benedire questa missione di annullamento delle distanze resa possibile dalla tv arriva anche l’intervento di Pio XII, che elegge santa Chiara a patrona del piccolo schermo, per il suo mirabolante dono dell’ubiquità. LA PREDICAZIONE, LA FICTION

Oltre a questa prima, elementare, modalità di messa in scena del sacro, fortemente connessa allo specifico tecnologico della tv, la Rai e le gerarchie ecclesiastiche cercano un accordo per sfruttare il medium come strumento di apostolato, veicolo di evangelizzazione e conversione dotato di una straordinaria capacità di penetrazione tra i fedeli. È proprio tenendo conto di questa potenzialità di raggiungere fedeli sparsi in tutta Italia che la Chiesa italiana cerca di superare il tradizionale atteggiamento di diffidenza nei confronti dei media, considerati come possibili mezzi di corruzione. Due sono le vie: da un lato, la tv come messaggera nell’ambito della macroarea linguistica del factual; dall’altro, il racconto per immagini degli episodi e personaggi della storia sacra secondo le modalità tipiche della fiction. Il modello di evangelizzazione passa generalmente attraverso la figura 68


del predicatore, da padre Mariano fino ai giorni nostri. Questo è di sicuro l’aspetto meno interessante, perché avviene secondo modelli rassicuranti, di mantenimento (secondo la formula del “convertire i già convertiti”), che stingono ben presto nella scontatezza. Il dubbio, il mistero, l’enigma sembrano non esistere. Per ogni domanda è giocoforza trovare una risposta, e per ogni risposta un esperto pronto a rappresentarla. L’esperto, spesso un sacerdote, è un jolly che salta da una rete all’altra ripetendo, infaticabile, il suo responso, atrofizzato nelle sue certezze, forse ignaro di essere nel frattempo diventato luogo comune. L’opinione diventa verità, l’esperienza si trasforma in certezza e non esiste più spazio, tempo e volontà per la ricerca. Basta un’inquadratura, giusto il tempo di scorgere chi parla e percepire di cosa parla, per indovinare la risposta. La conoscenza, l’autorevolezza e la sapienza si perdono nella vacuità del ruolo fisso. Con una sola eccezione. Frontiere dello spirito è mosso da un’ambizione radicale: far partecipe lo spettatore di una gioia difficile, ma irrinunciabile. Una lettura “viva” della Bibbia, infatti, comporta che ogni parola trabocchi di senso ed esploda in lampi, analogie, rapporti e collegamenti. Conoscere la Parola significa immergersi in una sorta di flusso magnetico dove le idee, le notizie, le interpretazioni, le illuminazioni, le sorprese, i piaceri della scoperta formano una rete di connessioni, un’esegesi continua, un’ideale forma di lettura. Ormai, in quasi tutta la tv italiana, solo Gianfranco Ravasi riesce, partendo da un versetto biblico, a trasformare il discorso in una lezione magistrale. La seconda modalità di messa in forma del sacro in tv è quella legata alla fiction. Anche in questo secondo filone, la tv sembra denunciare difficoltà stilistiche e linguistiche. Soprattutto, sembra faticare nel percorrere una strada che comunichi la religione in modo semplice (adeguandosi al target televisivo medio), senza però banalizzarne i contenuti. Un interrogativo fondamentale che sorge poi quando si parla di trasposizioni televisive di episodi e personaggi della storia sacra è come possa il visibile (la tv, il cinema, gli audiovisivi in genere) misurarsi con l’invisibile (il fascino del racconto sacro). La tv e il linguaggio audiovisivo vivono infatti di evidenza, di prossimità. In Italia si è risolto il quesito con il modello dell’agiografia: un flashback iniziale, in cui l’uomo non comune è sul letto di morte e ripensa alla sua vita; un attore importante e tanti comprimari. Questa è la scuola della mini-serialità, che permette più agevoli strategie di finanziamento e di programmazione, ma i cui esiti espressivi sono spesso molto deludenti.

LINK 9 Vedere la luce Indagare la complessità

Per raggiungere i fedeli la Chiesa ha superato la tradizionale diffidenza per i media, fonti di corruzione.

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UN’INTERPRETAZIONE DEL RA

di Ugo Volli

La religione è anche un medium potentissimo: da millenni tramanda una storia, conserva una memoria. Con efficacia tale da influenzare a fondo la vita degli stati, le pratiche e i riti pubblici, compresi

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RAPPORTO TRA RELIGIONI E TV

quelli televisivi. A sua volta, però, la religione è influenzata dalla tv, in uno scambio vertiginoso tra due mezzi di comunicazione ambiziosi. Una forza che ha permesso alla religione di sottrarsi alla logica della tv.

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È professore ordinario di Semiotica del testo presso l’Università di Torino, dove insegna anche Filosofia della comunicazione. È presidente del corso di laurea specialistica in Comunicazione di massa e multimediale e direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione. Ha tenuto corsi e conferenze in numerose università italiane e straniere e collabora con numerose riviste scientifiche e istituzioni. Tra i suoi ultimi libri: Laboratorio di semiotica (Laterza, Roma-Bari 2005) e Lezioni di filosofia della comunicazione (Laterza, Roma-Bari 2008). È presidente dell’associazione ebraica progressiva Lev Chadash.


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1. C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972, p. 15.

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eligione è, etimologicamente, legame (re-ligo). Ma forse è piuttosto separazione (relego), secondo il valore originario di sacro. Sul piano del senso, le religioni sono spesso definite come culto o rituale, e però anche come fedi, credenze nel trascendente, il che spesso implica l’idea di storie sacre. Si propongono sempre come via, vale a dire cammini di vita, regole del fare, e insieme come verità, sapere sulle cose ultime; ma si presentano spesso anche come sottomissione (questo è il significato di Islam, per esempio, ma anche in altre tradizioni troviamo l’enfasi sulla regola o addirittura l’idea di un giogo divino), insegnano come ottenere salvezza eterna, e costituiscono comunità di credenti. In questo breve elenco, aperto e parziale, di caratteristiche estratte senza troppo rigore dal modo in cui le principali religioni sono state intese dai fedeli, si possono vedere facilmente le ragioni di vicinanza e di opposizione fra vita religiosa e consumo televisivo: due ambiti evidentemente molto lontani per funzione e definizione sociale, ma che hanno degli elementi comuni che vale la pena sottolineare, senza alcuna intenzione blasfema, solo dal punto di vista tutto terreno delle scienze sociali. Per essere più precisi, è possibile ritrovare in molti fenomeni del consumo televisivo dei tratti che originalmente sono stati dedicati alla sfera religiosa; il che non deve sorprendere, per le somiglianze strutturali che chiarirò, ma innanzitutto perché in moltissimi aspetti della vita sociale si possono trovare calchi, copie, sostituzioni e imitazioni di fenomeni originariamente religiosi. Per citare solo un esempio, uno dei più importanti politologi del Novecento, il tedesco Carl Schmitt, sosteneva la necessità di inquadrare tutta la vita politica contemporanea nel quadro di una “teologia politica”: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”1. D’altro canto, come vedremo, sulla religione contemporanea la televisione ha avuto un certo influsso.

LA TV COME “RELIGIONE”

2. Si veda U. Volli (a cura di), Culti tv. Il tubo catodico e i suoi adepti, Link Ricerca, Sperling e Kupfer - RTI, Milano 2002.

Cominciamo dalla dimensione “religiosa” della televisione. Anche alla tv infatti capita, e talvolta essa esplicitamente si propone, di legare i propri utenti fra di loro, in casi estremi costituendo comunità virtuali di fan; ma spesso di fatto li separa allo stesso tempo gli uni dagli altri, segmentando accuratamente la sua offerta a seconda delle caratteristiche del target, sicché vi sono fedeli o fan di questa o quella trasmissione o rete, come ce n’è delle diverse religioni. Anch’essa conosce fenomeni di culto2 . Essa pure racconta storie e propone sapere. Peraltro, le sue storie non sono in genere comprese come realmente vere, o comunque non come realmente influenti al di fuori del loro dominio, sebbene possano suscitare grandi passioni dentro il loro perimetro (è il caso dello sport). Anche quando si parla di reality show si tratta per lo più di una realtà auto-referenziale, che produce i suoi effetti solamente nel circuito mediatico. L’affidabilità dei contenuti che sono invece proposti con forza in quanto veri – che si tratti di telegiornali, di divulgazione scientifica o di informazione e approfondimento – è perlopiù demandata ad altre agenzie sociali, dalla scienza alla giustizia e al giornalismo. Si tratta comunque di verità terrene, che non aspirano a un senso metafisico. Difficile poi trovare una televisione – salvo che non sia già sovraimpressa da una missione religiosa (o politica, in certi casi) – richiedere sottomissione e promettere salvezza. C’è dunque una rete complessa di somiglianze e differenze fra tv e religione, che rende sempre problematico il loro rapporto. 76


LA RELIGIONE IN TV: I RITI

Che la relazione non sia facile si vede bene considerando i diversi generi di televisione che appaiono specificamente deputati a svolgere il discorso religioso. Possiamo considerarne molto brevemente tre: la narrazione, la predica/conversazione, la ripresa di riti. L’ultimo caso è, in apparenza, il meno problematico, almeno per le religioni che ammettono le telecamere alle loro funzioni – è il caso della chiesa cattolica, ma non per esempio dell’ebraismo che proibisce l’uso di strumenti elettronici, fra gli altri, nelle giornate festive in cui hanno luogo i servizi più importanti. Ma, anche dove sia permessa la ripresa e sia perfino dichiarata una qualche equivalenza sul piano religioso fra assistere al rito dallo schermo e parteciparvi di persona (qualcosa del genere è stato stabilito per la messa cattolica, almeno nel caso di persone impossibilitate ad assistervi fisicamente), vi sono almeno due profonde differenze. La prima è che il dispositivo religioso in genere funziona secondo una modalità pubblica e sociale, cioè si fonda, almeno nelle grandi cerimonie, sulla compresenza dei fedeli, sul loro costituirsi in “popolo”. Lo si vede molto bene considerando gli edifici religiosi, che nelle fedi più diverse sono comunque costruiti in modo da raccogliere masse di fedeli intenti al rito, dando loro orientamento comune ed evidente compresenza. L’aspetto pubblico della preghiera produce effetti di fervore, di rassicurazione, di appoggio reciproco che non possono essere sottovalutati. Insomma esiste una “sfera pubblica religiosa” che la tv può in certi casi riprendere e far vedere al fedele spettatore, ma come oggetto di sguardo, non come contesto reale: dunque senza la possibilità di immergervelo. Facendo un paragone naturalmente rispettoso, qualcosa del genere accade con i fenomeni sportivi e con il teatro, che non sono più la stessa cosa una volta trasferiti in tv: il tifo non ha la sua originale ragione d’essere – l’incoraggiamento agli atleti – e manca la seduzione personale della compresenza reale con gli attori in scena che caratterizza così fortemente l’esperienza del teatro rispetto a quella di altri media. Sennonché lo sport e il teatro in tv “si vedono meglio”, con la possibilità di cogliere dettagli che dal vivo non sono possibili; al contrario una messa in televisione non mostra niente di più (quel che conta “non è da vedere”), mentre rischia di distrarre i fedeli, perché la grammatica di ripresa impone di cercare dettagli e costruire immagini interessanti. La seconda ragione è connessa alla prima: il meccanismo religioso investe sempre, in maniera più o meno intensa, il corpo. Durante le funzioni di tutte le religioni ci si alza, ci si siede, ci si inginocchia, ci si prosterna, ci si segna,

LINK 9 Vedere la luce Rimediazione mancata

In molti aspetti della vita sociale si trovano calchi, copie, sostituzioni o imitazioni di fenomeni religiosi.

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RITI FUNEBRI, RACCONTO

di Peppino Ortoleva

È nei momenti di passaggio che l’uomo si rivolge al trascendente: la nascita, la maturità, la morte. In un Occidente ormai secolarizzato, proprio l’elaborazione del lutto passa sempre più attraverso i media: che forniscono

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O, SERIALITÀ TELEVISIVA

gli strumenti per affrontare la perdita, e indicano nuove strade (dal “commiato” rituale delle funeral home al ricordo laico di colleghi e amici). In cielo, sotto terra: soprattutto, lo si fa per chi resta.

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È professore ordinario di Storia dei media all’Università di Torino. Presidente di Mediasfera, società di ricerca, consulenza e progettazione culturale, ha pubblicato oltre un centinaio di lavori scientifici su media, storia, società. Tra i lavori più recenti, Mediastoria (Il Saggiatore, Milano 2002), Le onde del futuro (con G. Cordoni e N. Verna, Costa & Nolan, Milano 2006), Il secolo dei media (Il Saggiatore, Milano 2009). Ha curato, con B. Scaramucci, l’Enciclopedia della radio (Garzanti, Milano 2003).


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a crisi dei tradizionali cerimoniali funebri non è, forse, una conseguenza diretta della secolarizzazione, ma il nesso c’è. Per secolarizzazione intendiamo, almeno provvisoriamente, il processo così definito di recente da Charles Taylor: “la transizione da una società in cui la fede in Dio era incontestata e, anzi, non problematica, a una in cui viene considerata un’opzione tra le altre”. Sulle radici profonde del nesso che lega questa trasformazione allo svuotamento (di senso e di partecipazione) attraversato dai cerimoniali che accompagnano il defunto alla sua dimora finale dovremo tornare, ma intanto possiamo cominciare a guardare ad alcuni fenomeni, di per sé piuttosto evidenti.

ALL THE LONELY PEOPLE

In tutta l’Europa occidentale, è più o meno negli anni Sessanta e Settanta, proprio mentre le chiese si svuotavano un po’ in tutto il continente, che i riti funebri tradizionali hanno cominciato a risultare sempre meno dotati di solennità e di rilevanza sociale; e il funerale in quanto cerimoniale, almeno in ambiente urbano, è venuto rarefacendosi e irrigidendosi in formula sempre meno condivisa, sempre meno frequentata, sempre più imbarazzata, parallelamente alla fine in città delle tradizionali processioni che in precedenza scandivano l’anno. Da allora, in mancanza di un comune riferimento alla religiosità organizzata, i riti funebri appaiono privati di un’indispensabile cornice, che li collega agli altri grandi riti di passaggio e li inserisce in una rete sociale oltre e più che istituzionale. Senza una chiesa, insomma, la morte sembra trovare tutti soli. È solo il morto, sono soli soprattutto coloro che vengono lasciati sulla terra a sentirne la mancanza. Il passaggio si è verificato in tutta Europa nello stesso arco di una trentina d’anni, il tempo di una generazione, senza troppe differenze tra universo protestante e cattolico, al massimo con una sfasatura di qualche anno. Il primo segnale, dal punto di vista scientifico, di quello che stava avvenendo può essere individuato nello studio di Geoffrey Gorer sul lutto in Gran Bretagna (1965): in esso si evidenziava la crescente difficoltà e il sempre maggiore imbarazzo degli abitanti delle città nel prendere parte ai funerali e nel dar vita a quei comportamenti relazionali “normali” che fino ad allora ci si attendeva nei confronti delle persone colpite da una grave perdita; ed emergeva l’isolamento in cui venivano lasciati i vedovi e le altre persone in lutto, alle quali letteralmente gli amici e i conoscenti “non sapevano che dire”. Se il libro di Gorer fu un campanello d’allarme per molti sorprendente (anche se, come La lettera rubata, la realtà che descriveva era sotto gli occhi di tutti), con la tempestività propria delle punte avanzate della cultura di massa appena un anno dopo erano i Beatles non solo a denunciare il passaggio in corso, ma a coglierne in una sintesi folgorante tutta la portata. Eleanor Rigby died in the church And was buried along with her name Nobody came Father McKenzie wiping the dirt From his hands as he walks from the grave No one was saved.

Da dove viene tutta la gente sola, all the lonely people, non si sa; ma è chiaro, dai versi di McCartney, che là andremo tutti a finire, e che il momento del 86


passaggio tra la vita e la morte ci vedrà più soli che mai. È come se alla varietà di pubblici cerimoniali funebri, su cui gli antropologi si sono a lungo accaniti, se ne fosse aggiunto un altro, forse il più paradossale di tutti: il funerale senza nessuno. Un cerimoniale non pubblico ma privato, fino a non essere neanche più un vero cerimoniale, che non allevia la solitudine e al contrario la enfatizza. Privato come la fede a cui fa (o non fa) riferimento. Come hanno dimostrato i decenni successivi, lo svuotamento dei “normali” riti non impedisce, e al contrario sembra favorire, i cerimoniali d’eccezione, estremi per numero di presenze ed esasperazione dei toni. Lo si è visto in diverse occasioni che possono essere definite “in mondovisione”, a condizione che il termine venga preso senza valutazioni, come dato di fatto: dal funerale di papa Wojtyla a quello di Lady Diana, dove al posto di una fede condivisa si è insediata una condivisione informativa, e narrativa. L’uso e abuso dell’espressione “mediatico”, soprattutto da parte dei cattolici più ostili a papa Giovanni Paolo II, dice in questo caso una verità, e insieme la deforma. Perché è indubbio che in quelle grandi cerimonie il ruolo della televisione, in particolare, è stato decisivo nel convogliare le persone e nel fare da specchio alla loro mobilitazione, oltre che nel creare in chi seguiva il tutto da casa un’emozione altrettanto viva seppure fisicamente meno diretta; ma, se il termine “mediatico” ha implicazioni riduttive e in qualche misura addirittura sprezzanti (e normalmente le ha), invece di aiutare a capire, produce confusione. Induce a pensare che si sia trattato di una partecipazione vicaria, imitativa e (vogliamo usare l’aggettivo più connotato e valutativo?) “inautentica”, cosa che non fa giustizia né alle motivazioni né all’intensità di quell’esperienza collettiva. Nell’Italia cattolica come nel Regno Unito anglicano, e in tutto il mondo raggiunto dalla diretta, decine di milioni di persone hanno vissuto grazie alla televisione quei riti anomali, in entrambi i casi “inventati” perché senza precedenti, ma insieme autorevoli e consolidati in quanto facevano riferimento a sistemi religiosi ad alto profilo istituzionale: funerali che sembravano condensare, e compensare, per un attimo tante cerimonie funebri rimaste deserte. MY WAY

Ma l’Occidente non è, in questo campo almeno, una realtà univoca come si tende di solito a pensare. Nella grande repubblica (prevalentemente) cristiana d’Oltreoceano le cose sono andate almeno in parte diversamente rispetto a gran parte d’Europa. La secolarizzazione là non ha assunto la forma dell’ateismo diffuso, e neppure dell’agnosticismo dichiarato, ma si è visto piuttosto un accentuarsi del carattere personale delle scelte in materia religiosa: cosa che ha fatto del revival evangelico, con la sua virulenta ostilità al secular humanism e al “relativismo”, un fenomeno di controtendenza ma insieme una parte dello stesso processo, in quanto il cristiano “rinato” (born again) si presenta pur sempre come il frutto non di una religiosità condivisa ma di una “scelta di vita” strettamente personale. Sempre di secolarizzazione si tratta, lo sottolinea ancora giustamente Charles Taylor, sebbene con la differenza non piccola che, negli Usa, la fede in Dio, in una divinità qualunque anche se quasi sempre monoteistica (ammesso che di monoteismo si possa parlare per il trinitarismo cristiano), è l’opzione, oltre che prevalente, data per scontata. In God We Trust. Tutti, o quasi. Anche se non tutti e non necessariamente in uno stesso God. Anche se in quale Dio credere e confidare lo scegliamo 87

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TRUE BLOOD E LA RE

di Carlo Freccero

Il rovescio della medaglia dell’esperienza religiosa è la fascinazione per il male. Proprio da lì, dal Romanticismo ai giorni nostri, nasce il “culto” per il Vampiro. Temi come la carne e il sangue,

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ELIGIOSITÀ DEL MALE

la responsabilità e la dannazione, il bene e il male trovano compiuta raffigurazione in serie tv come True Blood. Dove l’altro, l’oscuro, non è poi così diverso da noi. E può persino essere accettato.

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È stato responsabile capo del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato alla direzione programmi di Italia 1 e poi a Rete 4 (1984). Nel 1985 comincia l’esperienza francese, assumendo la direzione programmi di La Cinq fino al 1990. È direttore di Italia 1 dal 1991 al 1994, quando torna in Francia come responsabile programmi per France 2 e France 3. Nel 1996 rientra in Italia, dove fino al febbraio 2002 è direttore di Raidue. Attualmente è presidente di RaiSat, dirige Rai 4 e insegna presso l’Università degli Studi Roma Tre e l’Università di Genova.


Non ti nutrirai di sangue perché il sangue è la vita e tu non devi mangiare la vita insieme alla carne.

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Deuteronomio, XII, 23

Vite sintetiche

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a parte più bella di True Blood, soprattutto dopo che con la seconda stagione il telefilm è andato sempre più sbandando in direzione fantasy con mutaforma, menadi e divinità pagane, è la sigla iniziale. Un piccolo capolavoro che riassume l’America profonda, la sua essenza. Sfilano sullo schermo, con una suggestiva colonna sonora, frammenti della vita quotidiana americana e simboli di disfacimento e di morte. In particolare, la provincia profonda esprime le due facce contrapposte del vizio e della virtù: la ballerina che fa la lap-dance nel locale notturno, la setta che battezza i nuovi adepti per immersione. Il tema religioso è trattato in diverse fasi del racconto di True Blood. La religione è presente da subito nel tessuto sociale come rito collettivo, comunità condivisa, ma anche come matrice di discriminazione e di conformismo. Alla sua presentazione in pubblico, alla conferenza dei Discendenti dei morti gloriosi, il vampiro Bill è guardato con sospetto. Potrà sostenere la visione della croce? La sua presenza è compatibile con la religione e le sue regole? La televisione trasmette ossessivamente le prediche di un reverendo benpensante contro i vampiri e, per par condicio, le repliche della loro rappresentante. I culti tradizionali si scagliano contro il male, il sovvertimento dell’ordine naturale, e quindi contro il vampirismo. Il fratello della protagonista Sookie, Jason, si arruola in una setta parareligiosa che ha nella lotta ai vampiri la sua motivazione principale. In questa stessa setta anche Sookie dovrà introdursi, per indagare per conto dei vampiri sulla sparizione di uno di loro. Nel complesso la religione codificata è presentata in maniera negativa, perché contribuisce ad alimentare non l’integrazione e la comprensione, ma il conformismo e la discriminazione. Questo non significa che in True Blood non esista una vena di religiosità. Alla visione limitata delle fedi religiose, al loro ottuso conservatorismo, si contrappone un fantasma di Dio amorevole e giusto. Scegliendo la morte per suicidio per porre fine alla sua vita dannata, di creatura condannata al male, il creatore del vampiro biondo Eric dice di vedere la misericordia di Dio nelle lacrime di Sookie. Deve esistere un Dio se una donna può piangere per un vampiro, se la preda può commuoversi per il suo naturale predatore. Dio non può volere l’eterna dannazione di nessuno. Agli inizi della storia, quando Bill si presenta a Sookie, lei lo interroga: “Credi davvero di aver perso la tua anima? Questo era ciò che la chiesa cattolica predicava sul conto dei vampiri”. “Non ho modo di saperlo”, risponde Bill. “Personalmente credo di no. In me c’è qualcosa che non è crudele e non è omicida, per quanto io possa essere entrambe le cose”. In definitiva, tutta la nuova letteratura di genere sul vampirismo, e tutte le sue trasposizioni televisive e cinematografiche di successo, si basano sull’inversione della figura del vampiro tradizionale. Anche il vampiro può essere una creatura dotata di senso morale. Anche i vampiri hanno un’anima.

IL MITO, LA CARNE

Il mito del vampiro è antichissimo; presente, con alcune varianti, in tutte le civiltà e le culture. Chiamato con appellativi diversi, è sempre un morto che 96


ritorna e continua a frequentare i vivi, per trarre da loro quello spirito vitale che gli permette di mantenere la sua sciagurata esistenza. Sin dalle origini, il culto dei morti, oltre a onorare i defunti, ha lo scopo di placarli: di renderli innocui per i vivi e impedirne il ritorno. Con la morte può generarsi una tragica mutazione: il padre, il fratello o lo sposo, tanto amati in vita, tornano per accanirsi soprattutto su quanti hanno amato. In tutte le culture e le religioni il vampiro è una sorta di demonio che si oppone al bene, costituito dall’ordine naturale delle cose. È un morto che non accetta la morte, un parassita che sottrae la vita agli altri succhiandone il sangue. Il divieto di bere sangue è antichissimo e condiviso, perché si identifica il sangue con la vita, lo spirito vitale, l’anima della creatura vivente. Nell’Odissea, Ulisse riesce a mettersi in contatto con i compagni morti, rigenerandoli attraverso il sangue di un montone sacrificato. Il divieto di nutrirsi di sangue è presente già nella Bibbia e continua a essere ottemperato dalla religione ebraica e da quella musulmana. Noi possiamo mangiare il corpo delle creature uccise, ma non la loro vita. Da questo interdetto deriva la mostruosità assoluta del vampiro, l’impossibilità della sua accettazione. Il vampiro potrebbe essere semplicemente antropofago come gli zombie o i lupi mannari. Invece la sua maledizione è più sottile e più inquietante perché non si nutre di corpi, ma di vite. Eternamente dannato, condanna a una dannazione infinita le sue vittime, privandole, con il sangue, dell’anima e della possibilità della salvezza eterna. Il vampiro non è semplicemente un mostro. È la metafora del male, il sovvertimento dell’ordine divino. Come Satana, osa opporsi a Dio, alla sua volontà e alle regole della creazione che disciplinano il passaggio dalla vita alla morte. La figura del vampiro, presente in culture diverse con appellativi e caratteri differenti, ha avuto a partire dal Romanticismo anche una codificazione letteraria: prima col vampiro di Polidori, poi soprattutto con Dracula di Bram Stoker e i suoi epigoni. Si è creato un codice convenzionale che definisce questa figura nelle sue linee essenziali. Il vampiro riposa nella sua bara, può essere eliminato con un paletto conficcato nel cuore, frequenta le ore notturne e teme il simbolo della croce, manifestazione della fede cristiana. Non ci può essere male senza bene. Non ci può essere infrazione senza regole, sacrilegio senza senso del sacro. Il vampiro ha bisogno, per esistere letterariamente, di un ordine religioso da infrangere e di un perbenismo vittoriano da sconvolgere, con l’ambiguo erotismo che in Dracula assimila l’atto del mordere a una forma di perversa sessualità. VAMPIRI BUONI

La codificazione del vampiro si infrange in epoca recente. Il genere si rinnova, con una sorta di inversione nella valutazione morale delle cose. Tutto scaturisce da un primo paradosso. Il vampiro è il male perché diverso e ostile alla maggioranza dell’umanità. Non si tratta solo di un criterio quantitativo. Un problema morale non è mai quantitativo, ma sostanziale. Il vampiro è una creatura naturalmente malvagia e votata al male. Ma se Dio è creatore di tutto, come può essere, lui che rappresenta il bene assoluto, l’autore di questo male? Il Dio della Bibbia è onnipotente, ma di parte: combatte i suoi nemici e i nemici del suo popolo. Il Dio cristiano è un Dio d’amore. In quanto perfetto non può essere artefice del male del mondo. 97

LINK 9 Vedere la luce Vite sintetiche


telepred e olt molto

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L’approccio evan

di Stefano Pistolini

In Italia lo si è scoperto con l’arrivo di TBNE tra le reti locali, ed è diventato di dominio pubblico con la parodia di Corrado Guzzanti: la religione, sulle tv statunitensi, passa anche e soprattutto attraverso la

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dicatori ltre, o oltre

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ngelico alla tv

figura del telepredicatore, personaggi ingombranti dallo stile enfatico, capaci di suscitare forti passioni. Ma, al di là degli stereotipi, le cose cambiano: e pure l’America profonda ha già fatto un passo avanti.

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È giornalista e autore radiotelevisivo. Il suo principale settore di interesse è l’America, su cui ha scritto libri e ha realizzato inchieste e documentari. Scrive per Il Foglio (dove tiene anche una rubrica di musica settimanale) e Rolling Stone. In tv recentemente ha firmato, con P. Giaccio, il ritorno di Mister Fantasy su RaiSat Extra. Sta ultimando una videostoria del rap romano.


LINK 9 Vedere la luce Telepredicatori e oltre, molto oltre

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ualche tempo fa David Brooks, editorialista-principe del New York Times, con simpatie conservatrici non troppo nascoste, mi disse di stare attento a non cadere nei vecchi luoghi comuni relativi alla sterminata comunità degli evangelici americani, laddove s’insiste a guardare a questi ligi osservanti della parola biblica come a dei fanatici “fondamentalisti”: “Gli evangelici in America sono molto cambiati negli ultimi anni. Sono cambiati nel formato del loro culto, anche se le Sacre Scritture mantengono per loro la centralità dell’autorevole regola di fede e condotta. Si è altresì allentato l’atteggiamento punitivo e penitenziale nei confronti del riconoscimento della corruzione morale e spirituale dell’uomo. Insomma, adesso sanno anche godersela: si divertono, consumano, fanno sesso!”, mi disse, divertito. Era un, sia pur condizionato, cenno di approvazione: ci stanno lavorando, sono imperfetti, ma marciano sulla strada giusta. Considerevoli margini di ottimismo, socialità, rilassamento, e perfino di edonismo, sono ora chiaramente individuabili in queste congregazioni ai quattro angoli degli Stati Uniti. Solo 15 anni fa, invece, l’autorevole Mark Noll, docente di Pensiero cristiano al Wheaton College, nel suo eccellente saggio The Scandal of the Evangelical Mind, sottolineava come “il disastro intellettuale del fondamentalismo sia la sua tendenza a considerare i versetti della Bibbia come tessere di un mosaico che, una volta ricomposto, offrirà il quadro definitivo della verità divina”. Ovvero, senza che le forze e i progressi della storia possano minimamente influenzare questo procedimento. Un atteggiamento di fatalistica chiusura è stato perciò sostituito da quello che prudentemente può essere classificato come una posizione di rinnovamento, se non di modernismo, che si spinge oltre la comunità, coinvolgendo i rapporti tra gli evangelici e il resto della nazione – procedimento cruciale nella definizione delle traiettorie americane, dal momento che stiamo parlando di un esercito di 50 milioni di unità (secondo Gallup, il 22 percento degli americani adulti si considerano “evangelici”, rinati sulla via di Cristo e protagonisti di quel “riscaldamento del cuore” con cui nel XVIII secolo John Wesley descriveva questa esperienza spirituale). Dunque gli evangelici sono tanti, vogliono contare, vogliono connettersi, vogliono decidere (lo slittamento di voti evangelici verso Obama nelle ultime presidenziali è stata una delle chiavi della vittoria dell’attuale inquilino della Casa Bianca), vogliono comunicare e vogliono rappresentarsi. I TELEPREDICATORI “CLASSICI”

Tutto ciò porta a ragionare sull’evoluzione del rapporto tra evangelici e televisione, che resta il medium assoluto della società d’oltreoceano, ma che a lungo ha goduto di scarsa simpatia e di molto sospetto da parte dei credenti, che la consideravano un veicolo di perdizione e di distrazione, quando non di malvagità. A meno, naturalmente, che non si parlasse di televisione religiosamente militante, intransigente ed esclusiva – in apparenza – nei contenuti: la tv dei telepredicatori o, se si guarda al passato profondo televisivo, i segmenti di palinsesto che, nelle stazioni locali (di varia importanza e spesso sindacate tra loro nell’utilizzo dei programmi), i predicatori evangelici occupavano a pagamento, per diffondere il verbo e condurre battenti apostolati a caccia di nuovi fedeli, contando sull’alibi del Grande Paese, grande al punto da concedere in deroga agli ambasciatori del Signore di parlare dal piccolo schermo, nell’impossibilità di coprire tutto il territorio. Dunque la telepredicazione nasce come surrogato dei cerimoniali effettivi: se è vero che rapidamente si è 104


allargata la base dei fedeli evangelici e altrettanto rapidamente è cresciuto il numero dei ministri del culto, certamente a un buon praticante stava più a cuore ascoltare ciò che uno stimato predicatore aveva da dirgli (e da mostrargli, dal momento che presto i telepredicatori si attrezzano teatralmente, per sfruttare il nuovo, potente strumento di comunicazione di cui dispongono), rispetto a quanto poteva sottoporgli alla meno peggio un pastore di paese, magari improvvisatosi tale per motivi di disoccupazione. Il fenomeno divistico viaggia in parallelo con l’avvento della telepredicazione, esattamente come accade per altre forme della tv generalista: il comunicatore s’identifica con il divo dei contenuti che comunica. Il pubblico vuole vedere un certo predicatore, neppure si trattasse di un cantautore o di un comedian, e i canali tv realizzano rapidamente il potenziale di richiamo di queste presenze. I telepredicatori, peraltro, capiscono presto che la tv modifica radicalmente il loro rapporto con i fedeli, fungendo da moltiplicatore dei contatti, superando i limiti spazio-tempo, congiungendo la crescente richiesta di spiritualità del pubblico con il potere delle parole pronunciate davanti alla telecamera – si tratti di lezioni etiche, elucubrazioni spirituali, indicazioni di voto politico, campagne denigratorie, chiamate a raccolta o semplici richieste di finanziamento. Molto prima di internet, negli anni Sessanta e Settanta, le trasmissioni religiose condotte dai predicatori svolgono anche un ruolo di servizio, al di là del messaggio emotivo che veicolano – in alcuni casi stupefacente, perché non si è ancora colorato di cinismo il rapporto tra spettatore e teleschermo, perché le capacità istrioniche dei telepredicatori sono virtuosistiche, perché la potenza dello show, allorché viene recapitato nella cucina di un angolo remoto di America, è impressionante. Ma questa è anche una tv giudiziosamente di servizio: serve a mantenere economicamente, attraverso la richiesta di quattrini, i suoi protagonisti, innaffiati dalle donazioni dei fedeli. Serve a pubblicizzare le tournée, stato per stato, dei grandi predicatori. Serve da meccanismo interattivo nel rapporto pubblico-anchormen religiosi, tramite le risposte alle lettere, le invocazioni, le benedizioni, gli appelli, i necrologi personalizzati. E serve da lente di ingrandimento della grande illusione connessa alla telepredicazione, ovvero l’effetto miracolistico, l’ipotizzato presenzialismo di Dio nelle cose terrene, secondo ciò che viene prospettato e promesso da coloro che predicano, gridano, invocano, piangono per conto del Signore. Dalla tv il telepredicatore può sceneggiare gli effetti del suo operato: conversioni, guarigioni, meraviglie della bontà divina vengono teletrasmesse, replicate, commentate e televisivamen-

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Quanto c’è di vaudeville, e degli spettacoli di imbonitori, nell’edificazione di un predicatore di successo?

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LE NEO-BEGHINE VANNO A MESSA ALL’OUTLET

È direttore editoriale dell’edizione italiana di Rolling Stone. Ha pubblicato Discoinferno. Storia del ballo in Italia 1946-2008 (con F. De Luca, ISBN, Milano 2006) e Gli anni Zero (ISBN, Milano 2009).

di

C

Carlo Antonelli

Religione del consumo: il brand che riempie il buco a forma di Dio.

ome si fa a non amare le marche, venerarle, farne l’unica seria religione che abbiamo, nel profondo? Come altro si può definire, del resto, l’attaccamento furioso di alcuni all’intera storia della Apple, dai primi vagiti (in un garage!, dove nascono del resto certe sottogeneriche chiese paracattoliche in Brasile o in Senegal), alla progressione, al presente, al suo incredibile futuro? Alle adunate mistericopapali di Steve Jobs, sempre un po’ di qua e un po’ di là, già santo - santo già da mò, per la verità. Fino a qualche tempo fa pensavamo che la cultura basica delle generazioni che vanno dalla mia dei mezzi-quarantenni a quelle attuali fosse – un residuo del Novecento dei miti barthesiani – quella delle facce della tv, e dei telefilm in particolare. Non eravamo andati in profondità: dimenticavamo le pubblicità. E le loro marche meravigliose, dai loghi perfetti, come “Esso”. Disegnati da gente con i coglioni esagonali (recentemente ho scoperto che uno dei miei preferiti, SCIC, era uno dei primi lavori di Franco Maria Ricci), roba sagomata alla perfezione. E così, ben prima dell’esposizione

a quelle sottili esalazioni emotive che le marche emanavano negli anni Novanta, e che Naomi Klein così diligentemente ci spiegava in No Logo, ben ben prima, già stavamo attaccati a queste nuove deità, che per noi avevano sentimenti così forti e calorosi e che ci riempivano di regali pazzeschi, tipo ippopotami gonfiabili. Vi rendete conto che regalone? Un ippopotamo, e mucche pezzate, da gonfiare. Immediato è stato poi il rapporto tra l’identità personale e le marche che la decoravano, la rendevano più forte, in qualche modo magica. Non sarò io a ri-raccontarvi la lunga relazione tra credenze primitive (diciamo così, seppellendo decine di anni di nuovo pensiero antropologico) e comportamento del consumatore di massa. Andiamo oltre, d’accordo? Già sappiamo che mettere addosso lo swoosh di Nike può aumentare in noi alcuni poteri. Questo è certo. La prova che funzionano, almeno ogni tanto, è alla base della credenza miracolistica, trasmessa attraverso il contatto tra il simbolo e il nostro corpo, che sta al cuore dell’enorme successo del lusso di massa degli ultimi trent’anni, spe-

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cialmente in Italia (con le conseguenze storico-politiche che conosciamo). La nuova beghina di pseudo-classe media si avvia, carica di ex-voto, di rosari e di amuleti, a testa alta (mostruosizzata dal cappellino da baseball, resa matta e cinematografica dall’occhialata Dior o Chanel) dentro la cattedrale multiculto dell’outlet di Serravalle Scrivia, o similia. È un ritorno al villaggio. La giornata è radiosa. Come la vecchia si chinava di nero vestita verso il venditore zoppo di ceri, così la neo-beghina s’inginocchia di fronte al Bancomat, quasi schiantata dall’emozione. Dopo un breve passaggio di acquabenedetta (una cosa al bar, un mocaccino, per affrontare morbida ma scattante il momentone che la aspetta), la neo-timorata affronta con calma le varie stazioni della cattedrale, le navate, per poi ammirare con bramosia i capolavori delle nicchie, le grandi cappelle affrescate da Prada, Dolce e Gabbana, Ferragamo, Versace, Malo, Esprit. Urletti, altre cadute in ginocchio, alcuni tentativi di provare al volo la furiosa potenza della marca su di sé. Una felpa BIK RGS sfregia il fidanzato della neo da una parte all’altra del torace. L’occhio ai polli arrosti vestiti con lo slip bianco sulla neve, pacco grafico in evidenza, accende la corrente. Il pacco diventa quello del fidanzato, o meglio lo BIKRGSizza. Lampo. Lampo. Lampo. Solo dopo qualche ora, quando la fibbia D-SQUARED sottolineerà con violenza il possibile spessore dello stesso fallo del fidanzato, solo allora la scossa sarà totale. E uniti al LA PERLA traforato di lei, provocheranno una velocissima eruzione atomica sul pick-up di lui. Un trionfo. Che non c’è ragione di deridere. Vi divertite di più, voi? È perché avete standard erotici molto bassi. Il caro vecchio J.G. Ballard c’era arrivato mezzo secolo fa, immaginando amplessi con le lamiere fumanti delle più belle e iconiche marche automobilistiche di allora. La messa del sabato e della domenica dello shopping (per chi vuole sapere tutto, Rem Koolhaas ne è stato il più attento studioso negli anni scorsi), i pellegrinaggi col pullman nei factory outlet, per arrivare poi a strade provinciali plurireligiose, con i company store che spuntano qua e là come cappellette di campagna, i sacrifici immensi per agguan-

tare i capi basici di lusso fondamentali (la Vuitton, le borse in genere, la Kelly), le coppie monomarca (Moncler/Hogan, mezza Italia praticamente), la profonda tristezza nelle facce delle giornaliste di moda quando la maison compie un passo falso (totalmente calcistica: ah, quasi ci dimenticavamo il calcio, le squadre, ovvero l’altra religione dell’Italia bella nostra, con le chiese, le radio, i giornali… sempre più profonda, fondamentale, forse già fondamentalista). Tutto ci dice la stessa cosa: che gli Dei

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Format internazionali

Make Me a Muslim dove Regno Unito, su Channel 4 (2007) Sette volontari, tra cui sei non musulmani e un ex fedele, devono vivere tre settimane nel totale rispetto delle leggi e dei dettami del Corano: niente alcol e carne di maiale, cinque preghiere al giorno, …

sono questi, e non sono mai stati così forti. Milano Roma Armani Fiat. Tutti combinati insieme. A volte sposati, divisi, traditi e traditori loro stessi, come nelle storie dell’Olimpo classico. Sia fatta la loro volontà.

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industry




sette centimetri

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È arrivata la tv 3D, quasi di Antonio Dini

Nei mesi scorsi abbiamo visto tutti Avatar, d’accordo. Al di là della nuova esperienza di visione di un’opera come quella di James Cameron, però, sono molte le cose che stanno cambiando. Perché non c’è solo un 3D, ma sono tanti. Perché la filiera dell’audiovisivo si sta ristrutturando alla ricerca di nuovi sbocchi, anche sul piccolo schermo. Perché non è tutto oro quello che luccica e i player sono affamati d’aria. Puliamo gli occhialini e cerchiamo di vederci meglio.

illustrazioni di Daniele Villa

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Giornalista economico e saggista, scrive (o parla) di economia digitale e mercati dell’innovazione per Il sole 24 ore, Nòva, Radiodue Rai, Radio Popolare, L’espresso e altri. Collabora con l’Università Cattolica e l’Università degli studi di Milano. Ha scritto quattro libri editi da Il sole 24 ore, l’ultimo dei quali è Emozione Apple. Fabbricare sogni nel XXI secolo (seconda edizione).


LINK 9 Industry Sette centimetri

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ono i sette centimetri più importanti della storia del cinema e della televisione. Grazie a quella misura, che rappresenta la distanza media tra le pupille di un essere umano adulto, si può catturare e riprodurre un’immagine video con un effetto stereoscopico soddisfacente. Ovvero, catturare un’immagine tridimensionale con una parallasse orizzontale tale da restituire, in fase di riproduzione, il senso di profondità (e quindi di realismo) che nessuna alta definizione da sola è in grado di offrire. Catturare un’immagine tenendo conto di quei sette centimetri è impresa relativamente semplice: nel caso più banale, basta appaiare due videocamere e procedere alla registrazione. Il problema nasce quando bisogna riprodurre il filmato con un effetto soddisfacente: quella è la barriera contro cui si sono infranti 50 anni di sforzi delle principali aziende mondiali di elettronica. Ben prima che la Pixar o James Cameron realizzassero i loro blockbuster Up e Avatar, consapevoli che avrebbero potuto fare da leva per la nascita e lo sfruttamento di un nuovo mercato home video tridimensionale, i migliori talenti della tecnologia audiovisuale si sono cimentati nel tentativo di costruire una tecnologia 3D per la ripresa e poi per la proiezione in sala cinematografica. Anzi, per arrivare al risultato del 3D sono stati coinvolti i migliori talenti a partire dalla metà dell’Ottocento: per rendere tridimensionali le fotografie, prima ancora che i video, e cercare di catturare così lo spirito più autentico della vista umana. Aggiungere la dimensione della profondità a una immagine fissa o in movimento si è però rivelato ben più complesso che non dare un senso di profondità spaziale alla riproduzione dei suoni registrati. Le strade seguite sono state molteplici, e la più recente aggiunta delle tecnologie digitali ha in realtà avuto un impatto maggiore sulla registrazione dei video tridimensionali che non sulla loro riproduzione casalinga. Quello che negli ultimi dodici mesi è accaduto nell’industria televisiva mondiale, sia dal punto di vista di chi fa televisione sia da quello di chi produce gli apparecchi televisivi, è stata completamente un’altra cosa: è stata creata infatti la prima piattaforma comune con standard condivisi per la riproduzione di contenuti tridimensionali su apparecchi televisivi casalinghi, requisito imprescindibile per dare le basi a un mercato altrimenti troppo frammentato.

Tecnologie di visione

Esistono almeno una mezza dozzina di possibili tecnologie per realizzare un pannello televisivo tridimensionale. La prima, e più antica, è quella dell’anaglifo, che permette di realizzare immagini passive chiamate “stereogrammi”. Per vederle generando l’effetto tridimensionale, occorrono degli occhiali con lenti di colori diversi: una rossa e una ciano. Le prime immagini di questo tipo sono state create a metà dell’Ottocento dal tedesco Wilhelm Rollmann e poi da Joseph d’Almeida, seguito infine da William Friese-Greene che nel 1893 ha realizzato la prima proiezione pubblica di un filmato anaglifo. Dopo il periodo di sperimentazione negli anni Venti, è negli anni Cinquanta e Sessanta che l’anaglifo diventa la tecnologia più diffusa, utilizzata per la creazione di decine di film tridimensionali, fino a consolidare nell’immaginario di due generazioni l’idea di un cinema tridimensionale fruibile in sala solo con gli occhiali bicolori. La tecnica dell’anaglifo non è l’unica: un’altra tecnologia “passiva”, cioè che non richiede un meccanismo attivo dal lato dello spettatore, è quella degli 128


schermi polarizzati. In questo caso è sempre necessario avere degli occhiali, che però hanno lenti del medesimo colore e utilizzano una forma di polarizzazione verticale per sfalsare quel che viene visto dall’occhio destro e sinistro. Le due immagini riprodotte dal teleschermo sono parzialmente fuori fase e gli occhiali consentono di assegnarle agli occhi in modo da dare il senso di profondità e tridimensionalità. Una terza tecnologia, più complessa, richiede occhiali più costosi perché attivi. In questo caso le due lenti sono dotate di sensori in grado non solo di “leggere” le immagini inviate, ma anche di interpretarle. Se contengono uno specifico codice, la lente si oscura in una frazione di secondo, per poi tornare immediatamente trasparente. A dettare il ritmo è l’apparecchio tv, con questa tecnologia dei “frame alternati”. Le due lenti si oscurano e tornano trasparenti in controfase, permettendo ai due occhi di vedere un’immagine alternata che, una volta ricomposta dal cervello, dà l’idea della tridimensionalità. Infine, la quarta tecnologia adoperata più di recente consente di vedere un’immagine 3D senza bisogno di protesi o altri strumenti per la vista: questa forma, definita di “auto-stereoscopia”, è la più interessante e studiata. Per ottenere l’illusione della tridimensionalità ci sono in realtà sistemi molto diversi. C’è quello delle cosiddette “lenticular lenses”, cioè di superfici coperte da una serie di piccole lenti che da una certa distanza consentono di mettere a fuoco immagini diverse per ogni occhio, che poi il cervello umano riassembla in una sola immagine tridimensionale. Oppure c’è quello della “barriera della parallasse”, che compie un lavoro analogo utilizzando una serie di minuscole coperture meccaniche. L’informatica ha dato un ulteriore contributo grazie 129



Dappertutto LINK 9 Industry

Branded entertainment e marketing ambiguo di Michele Boroni

Murketing. Scritto proprio così, con la “u”. Non è un refuso, ma una nuova tecnica del marketing, quello giusto, con la “a”. Di fronte al declino dell’advertising tradizionale, e accanto alle nuove frontiere del product placement e al ritorno ai programmi “marchiati” da un prodotto, si sta diffondendo un altro modo di coinvolgere lo spettatore: “storpiare” la marca, che c’è ma non si vede, o si vede male. È il vecchio trucco di far sentire più intelligente di te chi ti deve comprare. Soprattutto, funziona.

illustrazioni di Daniele Villa

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È consulente di marketing e comunicazione on e offline per aziende, agenzie e persone fisiche. Scrive su Il Foglio, D di Repubblica e cura la rubrica hi-tech per Style Magazine. È anche autore tv e radio. Ha scritto i libri CoolBrands (sb, 2006) e Brand 2.0 (B&P, 2007). Da sette anni ha un blog personale, EmmeBi, come si fa chiamare in rete.


LINK 9 Industry Dappertutto

È

inutile negare l’evidenza. Il mercato pubblicitario non sta passando un periodo sereno. Sebbene il dato degli investimenti pubblicitari – in calo sul mercato italiano del 13,4% su base annua, secondo dati Nielsen – sia piuttosto indicativo, non è ancora sufficiente a spiegare cosa realmente stia accadendo. Le aziende non solo hanno ridotto i propri budget pubblicitari, ma anche i loro investimenti in comunicazione, a causa della mutazione continua e sempre più rapida dei consumi culturali, dei media e della tecnologia, sono destinati a calare più rapidamente o ad assumere forme nuove, sempre più difficili da rilevare. Entriamo subito nello specifico e parliamo, quindi, di televisione. Nel 2009, la flessione registrata dagli investimenti pubblicitari in tv, considerando sia i canali generalisti sia quelli satellitari, è stata del 10,2%. Un tale ribasso è l’effetto di un anno di crisi profonda e di tagli, ma anche il futuro non promette niente di buono per chi si occupa della classica tabellare tv. L’evoluzione del piccolo schermo sta andando verso piattaforme a pagamento, dove gli spot devono esser pochi per definizione, e verso sistemi on demand, in cui lo spettatore visiona i contenuti quando e dove vuole, senza doversi sorbire i break. Dall’altra parte c’è la tv generalista, che sta passando al digitale terrestre: se fino a pochi mesi fa erano sostanzialmente otto o nove canali a spartirsi l’80% dello share, oggi abbiamo a disposizione, gratuitamente, oltre cinquanta reti. Le audience si frammentano, lo zapping aumenta e l’efficacia dei messaggi pubblicitari inseriti nei break sarà sempre più bassa. Se nel 2009 la pubblicità in Italia ha portato nelle casse delle concessionarie tv circa 4.5 miliardi di euro a seguito della vendita di spazi per gli spot, nei prossimi anni tale cifra potrebbe essere notevolmente ridimensionata, se non si trovano nuove modalità più efficaci ed efficienti. Questa criticità si è presentata qualche anno fa negli Stati Uniti, prima ancora della recessione generale: la frammentazione dei canali e, di conseguenza, dell’audience televisiva ha sottratto valore e potere ai tradizionali trenta secondi. Ad aggravare la situazione ci sono poi i nuovi metodi di distribuzione e di programmazione, come lo streaming online su richiesta (Hulu) o i dispositivi di videoregistrazione digitale (TiVo, in primis), che permettono di saltare (skip) i break pubblicitari. Negli Usa il futuro è ancora più negativo nei confronti degli investimenti classici in tv. La società di ricerche di mercato Forrester Research ha di recente pubblicato su Advertising Age un sondaggio condotto sulle prime 100 aziende che investono sul mercato statunitense: il 62% di queste ha dichiarato che il commercial tv è diventato meno efficace che in passato (l’anno scorso lo aveva dichiarato il 53%) e che per l’anno prossimo hanno assegnato meno di metà del loro budget all’acquisto di break pubblicitari. Gli investimenti si spostano così verso le varie forme dell’online (social network, motori di ricerca, mobile ed e-mail marketing); solo il 15% prevede di aumentare la spesa nei media tradizionali come radio, outdoor e stampa. Le aziende e, in generale, i titolari di brand devono perciò imparare a fron-

Il click non media l’esperienza: media i media. Chi clicca si sente attivo, libero dal controllo.

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teggiare il fenomeno del click, sia nei nuovi media sia nel vecchio ambiente televisivo. Il click è oggi il gesto base dei consumi culturali e sta mettendo fine alla ricezione passiva dei media come avveniva in passato. Il click è insieme una via di fuga e una bacchetta magica: questa canzone è noiosa (click), questa trasmissione è una replica (click), questo link sembra interessante (click), questo spot è lungo e noioso (click). Il click non media l’esperienza: media i media. Fa sentire chi lo effettua un soggetto attivo e libero dal controllo.

L’INTRATTENIMENTO DI MARCA

Una delle armi che le aziende hanno a disposizione per difendersi dal click si chiama branded entertainment. Per branded entertainment si intende l’insieme delle attività in cui il mondo dell’advertising e dell’entertainment convergono: una contaminazione tra brand, prodotti e contenuti editoriali. Secondo la solita indagine Forrester, per l’87% delle aziende Usa intervistate, il comparto del branded entertainment rappresenta la formula di comunicazione televisiva più efficace per il futuro. Niente di nuovo. Anzi, decisamente un ritorno al passato: agli albori della tv e ai suoi primi approcci con la pubblicità, il concetto di intrattenimento di marca fu quello che dette vita alla moderna fiction. Il nome soap opera deriva proprio dal fatto che i primi episodi delle fiction erano prodotti o sponsorizzati da grandi multinazionali del toiletry come Procter & Gamble e Unilever. Di diverso dal passato c’è che il mondo dell’intrattenimento di marca è diventato complesso e variegato nelle sue forme e modalità. Per quanto con139



La giustizia dei pirati

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Il copyright tra leggi francesi e baie svedesi di Stefano Ciavatta

Pirati. Non si parla altro che di pirati, dalla Somalia alla Norvegia: vanno anche in parlamento. Intanto le cose cambiano: dal download si passa allo streaming illegale, alcuni grandi portali d’accesso come The Pirate Bay sono stati resi inaccessibili dall’Italia, e in tutta Europa la legislazione sta cercando nuovi modi per arginare il fenomeno. Proviamo ad addentrarci in questa giungla in costante trasformazione: per capire cosa si può fare (se qualcosa si può fare).

illustrazioni di Daniele Villa

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Lavora al Riformista e collabora con il magazine Sugo, in onda su Rai 4.


LINK 9 Industry La giustizia dei pirati

toppa: un obbligo di custodia di risorse di connettività. Se non vigili affinché l’abbonamento non sia usato male, ne rispondi per omessa custodia. L’illecito c’è, ma non è il download di materiale protetto dal copyright: è l’omessa custodia. Il bene protetto rimane il diritto d’autore. L’unica certezza è che si sia utilizzata una risorsa di connettività”. Che risultati ci sono? “Non c’è un test di funzionamento, perché in realtà i provider sono ancora in fase di attuazione: devono essere messi in condizione di inibire il singolo accesso a internet e avere accesso alle blacklist. Un lavoro enorme di interfaccia, stimato in 70 milioni di euro. L’obiezione più importante è stata sollevata sui contratti. L’Hadopi agisce solo sul pacchetto dati, non sul voce. Quindi devono essere analizzati tutti i contratti. Di sicuro Hadopi è un forte disincentivo, aggirabile però con l’internet mobile o una pennetta intestata all’ufficio. Ma Hadopi non è solo una legge, esiste anche come autorità. Si serve di agenti accertatori, fa controlli a tappeto, prevede procedimenti sommari e sanzioni efficaci”.

ITALIA, 1941

In Italia che succede? “Fino a oggi non c’era un’autorità di controllo centrale, ma singole associazioni di categoria e la Siae con i suoi controlli a campione. La denuncia all’autorità giudiziaria segue i tempi della nostra giustizia, come un reato normale. In questo senso Hadopi è più forte, perché per tre film tu non puoi più leggere un giornale online”. Cosa cambia ora col decreto Romani? “Quello di cui siamo sicuri è che il decreto, recependo la direttiva Audiovisual Media Services, dice che le regole per l’enforcement del diritto d’autore in rete verranno dettate dall’Agcom. Ma, a differenza di Hadopi che punta agli utenti, Agicom si concentrerà sul fornitore di servizi media”. Niente lettere di avvertimento in Italia. Ma multe, e persino la detenzione. La legge di base risale addirittura al 1941, non esiste un testo ex novo e si va avanti a modifiche apportate, salvo aggiunte più recenti, al vecchio testo dal decreto Urbani del 2004 (la cui materia, per inciso, era il finanziamento pubblico per attività cinematografiche e sportive). Ma, per l’articolo 171 della legge 22/5/1941 n. 633, il reato è chiaro: viene punito con una multa (da 51 a 2.065 euro) “chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, mette a disposizione, immettendola in un sistema di reti telematiche, un’opera dell’ingegno protetta o parte di essa”. Più avanti si legge che “chiunque a fini di lucro” riproduca, trasmetta e diffonda opere altrui, di qualsiasi tipo, è punito “se il fatto è commesso per uso non personale” e, nel caso di reti telematiche, con la reclusione da uno a quattro anni. Le multe sono salate, le sanzioni amministrative ancora più pesanti (nel caso della musica, da 103 a 1.032 euro per ogni brano scaricato illegalmente), ma raramente le indagini si rivolgono verso il singolo utente. E poi, paradossalmente, anche se scaricare è reato, il pagamento della sanzione per la violazione, richiesto prima della sentenza, estingue il reato, come se si trattasse di una semplice contravvenzione. “Senza fini di lucro” e “uso non personale” sono le due espressioni chiave della nostra legislazione. La legge Urbani aveva parlato di profitto, considerando sia l’incremento del proprio guadagno (quando si copia per distribuire) che il risparmio (nella mancata spesa dell’acquisto dell’originale). Nel 2005 si è deciso di tornare al lucro, che restringe l’ambito. Ma anche la tecnologia può dettare legge: non tutti i circuiti di scambio sono uguali; con alcuni si condivide il proprio hard disk come eMule, con altri no come i Torrent. 156


Che si fa? Per gli esperti vale la finalità dell’uso personale, che scagionerebbe dalla detenzione. Ma la legge forse deve dire qualcosa in più. “Normalmente le indagini online – spiega Francesco Micozzi, avvocato difensore di Pirate Bay con Giovanni Battista Gallus – si limitano ai casi davvero eclatanti per la quantità di materiale scaricato, o contro entità ben più importanti, come Pirate Bay. Il singolo utente viene braccato online specialmente per reati attinenti la pedopornografia, non per il copyright”. Insomma, anche in Italia, a fronte di una pena esigua, inseguire il piccolo pirata costa.

THE PIRATE BAY

Ma è in Italia che il famoso motore di ricerca per file Torrent The Pirate Bay (20 milioni di visitatori al mese, il 2% dall’Italia secondo le stime FPM) è stato messo sotto sequestro dalla procura di Bergamo nel 2008 e i quattro fondatori e gestori del sito sono stati denunciati. Con il provvedimento si è ingiunto a tutti gli internet service provider di predisporre il blocco del sito svedese per tutti gli utenti, pirati e curiosi. Dopo una serie di revoche, conferme e avalli, il sito (che viaggia su server stranieri) non è raggiungibile dall’Italia. Perché è importante il caso TPB? Perché c’è chi, come Paolo Brini, portavoce del Movimento Scambio Etico, intervistato da Sugo, sostiene che “come altre realtà simili, cui attingono tutti i downloader, TPB funziona esattamente come Google”. Per altri, invece, non può essere un intermediario neutrale, perché indirizza a link grazie ai quali si scarica, anche se sono esterni. Per i legali di TPB, l’interpretazione della Cassazione estenderebbe l’attività inibitoria prevista dalla direttiva europea, non tenendo conto che 157



Serie alla finestra Come cambiano i diritti dei telefilm di Luca Barra

I canali sono sempre di pi첫, i loro palinsesti vanno riempiti. E le serie tv continuano a giocare un ruolo essenziale in questa partita, sia in prima visione sia nei possibili riutilizzi di un archivio quasi sconfinato. Proviamo a fare un passo indietro, e a vedere come i telefilm arrivano nel nostro Paese. Andando a curiosare nelle trattative che legano i broadcaster italiani ai distributori internazionali. Dove si decidono gli acquisti e i diritti. In pratica, che cosa vedremo, in che modo e su quale piattaforma.

illustrazioni di Daniele Villa

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LINK 9 Industry Serie alla finestra

“I

’ll be there for you”, “Sarò lì per te”, diceva la sigla di Friends, sitcom andata in onda su NBC dal 1994 al 2004. “Sarò lì per te per sempre”, verrebbe da aggiungere, se si pensa alle strane traiettorie e sovrapposizioni della sua messa in onda italiana. Nel corso degli anni e delle stagioni, infatti, la serie è stata trasmessa sia in Rai sia in Mediaset, e a pagamento sul satellite di Sky e sul digitale terrestre di Mediaset Premium. Fino al caos dell’estate 2008, quando Friends era in onda (con episodi di stagioni diverse) insieme sia su Raidue sia su Italia 1, senza contare le repliche di Fox e di Mya. Quello di Friends è un caso limite, certo: si tratta di una serie dal grande successo di pubblico e critica, del più recente caposaldo di un genere – la situation comedy – che, una volta raggiunta la notorietà, può reggere il peso di numerose ripetizioni, o addirittura crescere nel tempo. Ma questo è anche un esempio evidente di come uno scenario televisivo in continua evoluzione, tra multipiattaforma, offerte pay e “tv fuori dalla tv”, abbia complicato parecchio il primo passaggio dell’arrivo in Italia di una serie televisiva americana (o comunque straniera): l’acquisizione dei diritti di messa in onda da parte di una rete, contrattata dal broadcaster italiano con il distributore internazionale. Così, se da un lato le occasioni di “incontro” con le serie sono sempre più numerose, e questo non può che essere un bene per lo spettatore, dall’altro si rischia di perdere quel forte legame che fino a qualche anno fa legava un titolo e la “sua” rete. Proviamo pertanto a vedere cosa sta succedendo, cosa cambia e cosa invece resta stabile, nel complesso (e piuttosto defilato, a volte quasi “segreto”) mondo dei diritti tv dei telefilm.

ACCUMULO

Una prima tendenza del mercato dei diritti delle serie tv, in corso già da tempo, è quella dell’accumulo: di titoli, di stagioni, di episodi. Da comprare in blocco, se possibile. Di fronte a reti sempre più numerose e a palinsesti da riempire di programmi, la scelta accurata di ogni singolo titolo tra quelli disponibili passa in secondo piano: il cherry picking, l’acquisto mirato di una serie – vista ai mercati internazionali, poi scelta da una redazione in accordo a una linea editoriale, e infine oggetto di una contrattazione specifica – lascia spazio sempre più spesso all’acquisizione collettiva di grandi quantità di prodotti tv. Solo nel caso di alcune serie particolari, o di alcuni produttori “minori”, la facoltà di selezione rimane. Per tutto il resto ci sono gli accordi quadro. Una prima forma è quella dell’output deal: il broadcaster italiano si impegna ad acquistare nel complesso l’intera produzione di una major per un certo periodo di tempo. Una forma di acquisizione “alla cieca”, in realtà anche questa ormai pressoché abbandonata. Ed ecco che negli ultimi anni, così, si è imposta una seconda forma: il volume deal, un accordo in cui si cerca l’equilibrio tra la necessità di incamerare grandi quantità di prodotto tv e la volontà di sceglierlo in base alle differenti necessità editoriali delle reti. Stipulare un volume deal significa infatti acquistare molti programmi da uno stesso produttore, ma senza l’obbligo di “prendere” ogni serie: di solito, si stabilisce un numero di titoli o un totale di ore complessivo, da “riempire” poi in un secondo momento, scegliendo tra i prodotti che soddisfano alcuni criteri qualificanti utili a valutarne la qualità (nel caso dei telefilm, per esempio, occorre un numero minimo di episodi 162


andati in onda su un network americano). Resta un forte margine di imprevedibilità e di incertezza: a differenza dei film, i telefilm non godono di un passaggio precedente su un altro mezzo, il cinema, ma anzi devono spesso essere scelti sulla base di un semplice episodio pilota, ancora passibile di numerose modifiche. Ma la possibilità di scegliere i prodotti, sia pure all’interno di un insieme già dato, coincidente con la produzione stagionale di una major, e la necessità che questi prodotti soddisfino dei requisiti minimi aiutano a ridurre questo margine. Gli accordi quadro sono complessivi: prevedono infatti una certa quantità di film, un numero di serie da un’ora (one-hour series, come i drama e le dramedy), un insieme di serie da mezz’ora (half-an-hour series, tra cui le sitcom); spesso aggiungono una distinzione tra i prodotti nuovi (first run) e quelli già andati in onda, meno pregiati ma ancora potenzialmente validi (library); talvolta includono nel “mucchio” generi minori come l’animazione per bambini e il documentario. E anche in questo caso una tendenza degli ultimi contratti contraddice le tradizioni di lungo corso: non è più il cinema, ma le serie (in particolar modo quelle da un’ora) a costituire la parte centrale (e più complessa) della trattativa. Insomma, i film possono passare in secondo piano, mentre è assoluto interesse della rete italiana inserire nell’accordo (e così aggiudicarsi) le serie più appealing. Per ogni telefilm, infine, si stabiliscono i dettagli. Un elemento essenziale è l’esclusiva, la possibilità di trasmetterlo in anteprima e senza concorrenti, in assoluto o sulla propria piattaforma. Un altro aspetto è la clausola del life-ofseries (o run-of-series): quando attivata, costringe a rinnovare di stagione in stagione, per tutta la serie (life commitment), l’acquisto dei diritti di un telefilm; un obbligo pesante, se il telefilm non ha successo, ma anche un privilegio impagabile, se ci si ritrova tra le mani a sorpresa un Dr. House, un Criminal Minds o un Grey’s Anatomy. Altre variabili sono poi il numero dei passaggi, cioè la quantità di volte che la rete può trasmettere ogni episodio (magari, nella pay, con l’accordo di dedicare al prodotto una serie di ribattute durante l’exhibition day o l’exhibition week, cioè nello stesso giorno o settimana dopo la prima messa in onda), e i limiti temporali entro i quali il “diritto” va necessariamente utilizzato (license period, periodo di licenza).

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Lo scenario in evoluzione ha complicato parecchio l’acquisizione dei diritti delle serie tv: pensate a Lost.

MOLTIPLICAZIONE

A rendere più difficile un processo già piuttosto complesso, interviene un’altra tendenza di questi ultimi anni: le “finestre” si sono moltiplicate. La diffusione di nuove piattaforme tecnologiche e nuovi canali, infatti, fa sì che le differenti occasioni di collocare (e vedere) uno stesso programma siano aumentate di numero. E, insieme a queste occasioni, sono aumentati i “tipi” di diritto a disposizione dei broadcaster. Restando a un livello macro, i diritti acquistabili per un telefilm si possono dividere in due modi. Da un lato, in base alla modalità di “vendita” del prodotto tv: ci sono così, per la stessa serie tv, un diritto per la televisione free e un altro per quella a pagamento. Dall’altro lato, in base al tipo di messa in 163


onda: c’è un diritto per la trasmissione lineare, di flusso, senza possibilità di scelta da parte dello spettatore (push) e un diritto differente per la diffusione pull, non lineare, con la selezione del singolo episodio da parte dell’utente; nel primo caso è la televisione broadcast come la conosciamo, nel secondo si ha invece a che fare con l’on demand, sul televisore (IPTV e over-the-top tv) o in forme extratelevisive (pc e mobile). Incrociando le due opposizioni tra loro, emergono in sostanza quattro tipi di “diritto di primo livello” (lineare free, lineare pay, on demand free e on demand pay), poi accostabili tra loro in numerose combinazioni. Per la televisione di flusso, a fruizione lineare (push), spesso è quasi tutto qui. La distinzione più grossa è quella che separa il diritto pay da quello free, e solo talvolta si entra nel merito delle singole piattaforme. Perché quello che conta è arrivare primi, o comunque avere un serie tv da associare al proprio marchio, e così spesso i broadcaster giocano sui diritti di esclusiva: scegliendo quella totale o limitandosi al mondo (pay o free) di appartenenza; oppure acquistando in blocco i diritti per tutte le piattaforme piuttosto che selezionare una a una quelle di specifico interesse. D’altra parte, se fino a solo qualche anno fa la scelta delle piattaforme tv era limitata alla “tripletta” etere, cavo e satellite (con un cavo mai davvero diffusosi nel nostro Paese), le possibilità (e le combinazioni) sono oggi ben maggiori: e così si può “comprare” un telefilm per la tv analogica (possibilità destinata a sparire nel mare magnum del dopo-switch off ), o restringere il diritto al solo Dtt, al digitale satellitare, all’IPTV, al web “aperto” o al mobile. È chiaro che le partite principali si giocano sulle serie first run: sul versante pay, si scon164


trano il digitale terrestre e quello satellitare; mentre, sul lato free, ai giganti mainstream dell’analogico iniziano a contrapporsi le mini-generaliste del Dtt e qualche piccola rete del satellite. Ma, tenendo conto anche dei prodotti di library, per cui l’esclusiva è meno frequente, gli incroci possibili sono molti di più: ad avere coraggio (e poter acquistare i diritti), forme di catch-up integrale sul web o canali appositi su piattaforme minori non sono poi troppo lontane. Il mondo dell’on demand, quindi della fruizione non lineare (pull), sia pure in sordina, è invece quello che sperimenta di più. I diritti delle serie si fanno stratificati. L’on demand gratuito si divide in free video on demand, completamente privo di introiti e legato a una dimensione di servizio pubblico (sul modello iPlayer di BBC), e in ad-funded video on demand, finanziato da alcuni break pubblicitari inseriti negli episodi (come con Hulu). L’offerta a pagamento, invece, si può suddividere tra il transactional video on demand, in cui si paga la singola puntata che si decide di vedere in streaming (o di scaricare, spesso con limiti di tempo), e il subscription video on demand, legato a un abbonamento (indipendente o supplementare rispetto a una pay tv classica, lineare) che consente l’accesso a un insieme di contenuti. Per ognuna di queste caselle ci sono diritti specifici, e a volte questo non basta neppure: perché, oltre alla modalità di offerta (free o pay) e alla sottocategoria, i distributori internazionali mettono in vendita i diritti delle serie tv per singole piattaforme (il web, il mobile, l’over-the-top tv, le console di videogiochi) o addirittura entrano nel dettaglio dei singoli device. Questa ricchezza di offerte e relativi diritti è garantita dal tipo prevalente di accordi commerciali realizzati in quest’area: si tratta quasi sempre di contratti in revenue sharing, con pagamento al distributore internazionale in misura proporzionale rispetto agli acquisti. Ed è così interesse di (quasi) tutti i player in gioco che ogni serie abbia la maggiore esposizione possibile in tutti i “luoghi” della tv on demand.

SCAMBIO E CONTRAZIONE

Accanto all’accumulo dei titoli negli accordi quadro e alla moltiplicazione delle piattaforme possibili, una terza area di cambiamento dei diritti legati alle serie televisive è quella temporale, legata ai ritmi della messa in onda degli episodi e delle stagioni. Ritmi che si contraggono al punto che qualcuno (riferendosi al cinema, ma il discorso tiene, in parte, anche per le serie tv) ha parlato persino di “collapsing of the windows”, di finestre tradizionali ora spinte fino al collasso. Un primo aspetto è la successione delle varie finestre, il “ciclo di vita” del prodotto seriale. Nel caso dei film, la catena è chiara, regolata da tasselli e da scadenze precise: prima la sala cinematografica, poi il noleggio, quindi l’home video, la pay-per-view e il video on demand, poi ancora la tv lineare pay e infine la trasmissione free. Le serie tv non dispongono (e non hanno mai disposto, per ragioni strutturali) di una filiera così regolare: la prima visione è affidata al mezzo televisivo, ma a volte questo è free e a volte è a pagamento; poi tocca all’altra modalità lineare, quindi alla tv gratuita se l’esclusiva è stata pay, o alla pay tv se la prima messa in onda era free; solo a questo punto arrivano l’home video e le altre forme di sfruttamento, prevalentemente non in esclusiva. Su questo schema già piuttosto vario si innestano ora le nuove forme del non lineare. Così la messa in onda lineare può essere anticipata (o affiancata) da transactional preview, primissime visioni on demand a pagamento che da un lato contrastano la pirateria e dall’altra ristabiliscono un “primato del di165

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Brasile a cura della redazione in collaborazione con e-Media Institute

Paesi, culture, immaginari lontani. Cui corrisponde un sistema televisivo e mediale molto differente, tutto da scoprire. In questo numero, un’analisi del mercato televisivo brasiliano. Nella foresta, alla conquista di nuovi territori.

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LINK 9 Industry


dati gener a li

Popolazione

191.450.000

Numero di famiglie

55.710.000

Numero di famiglie dotate di tv

53.480.000

Penetrazione tv sul totale famiglie

96%

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sistem a telev isi vo

Penetrazione della tv digitale Famiglie dotate di tv digitale Penetrazione sul totale famiglie tv

3.805.000 7,1%

Numero di abbonati alla pay tv per piattaforma Abbonati a servizi tv via cavo / MMDS

4.482.000

Abbonati a servizi di pay tv via satellite

2.295.000

Abbonati a servizi IPTV

30.000

Totale abbonati a servizi di pay tv

6.807.000

Penetrazione sul totale famiglie tv

12,7%

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Fonti: e-Media Institute su dati degli operatori, Anatel, IBGE, IMF, fonti varie. Dati riferiti al primo TV set.


sights



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Non potete toccarmi

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Eroi, tinelli e amore di massa di Violetta Bellocchio

Negli anni Sessanta, Morin le chiamava star e Alberoni l’élite senza potere. Ma tutti e due si riferivano al cinema. Quasi cinquant’anni dopo, i veri divi stanno (anche) in tv e sul web. Peggio: entusiasti o meno, rimbalzano sul piccolo schermo e devono adattare i loro linguaggi, le loro biografie reali o immaginarie, gli scandali che danno notorietà, ai tempi e ai modi dei magazine scandalistici, dei canali tematici e della rete. Come sempre, sono gli Stati Uniti a regalarci gli esempi più riusciti di tendenze universali…

illustrazioni di Sebastiano “Tone” Carghini

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Lavora o ha lavorato in diversi posti, tra cui Rolling Stone, Radiodue e la Mostra del Cinema di Venezia. I suoi ultimi racconti sono usciti in Ho visto cose… (BUR, Milano 2008), I confini della realtà (Mondadori, Milano 2008), Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango, Milano 2008) e Voi non ci sarete (Agenzia X, Milano 2009). Il suo primo romanzo è Sono io che me ne vado (Mondadori, Milano 2009). Sta scrivendo il suo secondo romanzo.


LINK 9 Sights Non potete toccarmi

L

a lingua inglese non usa la parola “divismo”. Preferisce hero worship, culto dell’eroe. Il percorso inizia e finisce nell’occhio di chi guarda. È una reazione. Sempre. Ma il culto dell’eroe prevede spesso il backlash, alla lettera “contraccolpo”: il brusco spostamento di opinione dal positivo al negativissimo, con corollario di critiche verso chi ama quella certa cosa o persona. E, se parliamo di persone fisiche, un backlash non trova benzina più potente dell’accusa di non meritare il successo.

Il presunto corpo di Jennifer

1. Così almeno diceva l’editor di The Bachelor Guy, uno dei siti coinvolti. 2. “The Self-Manufacture of Megan Fox”, New York Times, 11 novembre 2009.

Lo scorso agosto una dozzina di portali specializzati nel settore 3-B (birra, battutacce e belle ragazze) ha indetto il primo Megan Fox Media Blackout Day. Strano caso di sciopero tematico, spiegato così dai partecipanti: l’attrice generava enormi volumi di traffico “solo perché qualcuno la fotografa per strada con una t-shirt bianca”1. Si poteva rinunciare a lei per 24 ore? Si poteva. Il mese dopo usciva Jennifer’s Body, suo primo film da protagonista. Un fiasco. Agenti e manager hanno individuato il problema nella scarsa popolarità della signorina presso il pubblico femminile2. Soluzione prevista: farle condurre il Saturday Night Live, mandarla ospite ai talk show del pomeriggio, nel tentativo di renderla “più simpatica” a mamme e zie. Questo non toglie che il tonfo del film sia dipeso in larga parte dal pubblico maschile, che dovrebbe amarla. E in effetti, per carità, la ama. Solo, non sente il bisogno di mettersi in contatto con il suo vero lavoro. Si potrebbe parlare di femminilizzazione del fan-boy, da completista amante dei dettagli materiali a parrucchiera in pausa sigaretta. Avrebbe senso. Qui però siamo davanti a una tendenza che riguarda ogni intoccabile del presente: lo scollamento non tanto tra mass media e paese reale (e quando mai), ma tra la ragione per cui una persona è riconoscibile e il consumo del prodotto che porta la sua firma. Nel caso di Jennifer’s Body entrava in gioco anche la sceneggiatrice Diablo Cody. La stessa di Juno, accusata di pessima caratterizzazione e abuso di tormentoni. Ma le critiche a Juno erano aumentate via via che l’autrice veniva venduta come “storia di successo non convenzionale”, sia sul piano lavorativo (ha avuto una breve esperienza da spogliarellista, raccontata in un blog e in un libro-diario), sia sul comportamento personale (ha i tatuaggi, dice tante parolacce). Per quando è arrivato Jennifer’s Body, la signora Cody era stata ridotta a una barzelletta ambulante3. Ecco spuntare il risentimento verso chi non ha fatto abbastanza gavetta. E l’ostilità si sposta da un oggetto al suo pubblico. Argomento chiave nella conversazione sarà “non sopporto chi ama Megan Fox”; iscriversi a un servizio di dating online significherà vagliare chilometri di likes e dislikes. In qualche modo ci si dovrà pur conoscere, socializzare, dicono.

C’è un abisso tra le ragioni per cui un tizio è riconoscibile e l’acquisto di prodotti con la sua firma. 3. Cosa che non le ha impedito di interpretare se stessa in un episodio del reboot di Beverly Hills 90210.

Io non ti merito, tu non mi meriti

Il divo che se lo merita rappresenta comunque una percentuale minima dei considerati tali. Altrimenti sarebbero intoccabili solo i personaggi arrivati alla ribalta dopo vent’anni di monologo interiore oltre il punitivo. Cosa che spiega 182


il successo dei reality incentrati sulle gare di abilità. Il candidato sfavorito, quello che appare meno probabile come vincitore per questioni di età, estetica o razza, si ritrova al centro di imbarazzanti proiezioni da parte del pubblico. Che crede di rivedere in questo o quell’underdog la parte peggiore di se stesso, per giunta sottoposta a livelli di pressione inumani, e dunque mostruosamente svantaggiata. L’ingresso di Susan Boyle a Britain’s Got Talent è stato letto da molti4 come la costruzione a tavolino di una storia edificante in tempi di crisi dei mutui. Peccato che la regina per un giorno sia crollata sotto il peso della sconfitta finale, rivelando una fragilità preesistente (e forse un disordine della personalità) di cui nessuno si è fatto carico. Se è andata così, è andata così. L’altra faccia della medaglia, meno immediata ma più dannosa sul tempo lungo, è il carico di aspettative rovesciato sulla presunta “umanità” degli intoccabili. Un talento baciato dalla fortuna e dalla lotteria del genoma deve anche ostentare modestia. E autoironia. Margaret Cho individua nei travagli giudiziari dell’imprenditrice Martha Stewart un desiderio collettivo di rivalsa nei confronti di una donna che aveva sfondato e “non era gentile a proposito”5. Intanto Matt Damon ha fatto la miglior figura della sua carriera accettando – per un anno – gli scherzetti del conduttore di talk show Jimmy Kimmel. Nessuno perderà il lavoro per essere risultato rigido durante un’intervista, ma il tarlo comincerà a scavare in tutte le teste sbagliate. Che presuntuoso. Non sa stare al gioco. Non ha umorismo, non ha personalità.

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LINK 9 Sights Non potete toccarmi 4. L’analisi più incisiva l’ha fatta Charlie Brooker a Newswipe, nella puntata del 29 aprile 2009.

5. Ne ha parlato nello spettacolo teatrale Assassin, e più brevemente qui: www.margaretcho.com/ content/2004/09/15/moreon-martha/.


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CHRISTIAN MARCLAY

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Il dj e la scienza della memoria di Francesco Spampinato

La nostra esplorazione della videoarte, frontiera (im) possibile dell’immagine televisiva, si arricchisce di una nuova tappa. Con una riflessione monografica dedicata a Christian Marclay. Deejay, artista e strano “bibliotecario”, gioca con le combinazioni di suoni e di immagini, con il fuori-sincro e con le emozioni degli spettatori. Lacerti di cultura pop rubati e rimescolati in un gioco open source.

illustrazioni di Sebastiano “Tone” Carghini

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È artista e teorico dell’arte. Dopo due lauree in Storia dell’arte presso l’Università di Bologna, nel 2006 ha conseguito un master in Modern Art presso la Columbia University di New York. Collabora con la NABA di Milano dove è visiting professor di Performance Art. Scrive per Flash Art, Kaleidoscope, Impackt e Artlab. Il suo libro Experiencing Hypnotism è stato pubblicato da Atomic Activity Books nel 2009. Vive e lavora tra Bologna e New York.


LINK 9 Sights Christian Marclay

1. Christian Marclay, Records 1981- 1989, CD, Atavistic, Chicago 1997.

2. Da una conversazione con Gary Hill in Jennifer Gonzales (ed.), Christian Marclay, Phaidon, Londra 2005.

3. Rosalind Krauss, Reinventare il Medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano 2005.

D

ue banconi paralleli. Sul primo ci sono quattro giradischi, tre dei quali in azione. Sull’altro una distesa di dischi, di cui sappiamo ben poco, tranne che non sono di un particolare compositore o band (e comunque non è questo che importa). Sono oggetti appartenuti a qualcuno che li ha amati. Chino sulle ginocchia, un giovane controlla con attenzione la scena. Il suo nome è quello che ricorre quando si parla di sound art, o semplicemente quando nel mondo dell’arte si parla di musica: Christian Marclay. L’immagine descritta è una performance di Marclay al Moers Festival in Germania nel 1985, in una foto all’interno del cd che raccoglie le prime composizioni sonore dell’artista, ottenute utilizzando i gemiti di un film porno, strumenti musicali primitivi e suoni provenienti da vinili spezzati in più parti, o sulla cui superficie sono applicati adesivi circolari1. Marclay, nato in California e formatosi in Svizzera, emerge dalla scena artistica di New York dei primi anni Ottanta usando la musica come collante di una complessa ricerca multimediale che comprende anche performance, installazioni, sculture e video. E proprio la transdisciplinarietà delle sue produzioni gli vale il successo sia nel mondo dell’arte contemporanea sia in quello della musica d’avanguardia e della cultura pop. Se c’è una figura della nostra epoca che Marclay incarna alla perfezione è quella del deejay, e, in quanto tale, una prima spiegazione della sua multiforme attività risiede nel concetto di database. Il deejay attinge da archivi – di parole, musica, rumore – e il suo istinto al recupero coincide con la laboriosità del bibliotecario. La tecnica su cui si basa l’arte del deejay è il collage, che qui diventa uno strumento per sperimentare tanto con il sonoro quanto con il bidimensionale e l’audiovisivo. Il principio che regola il collage – su carta, con i suoni o sullo schermo – è l’effetto fuori-sincro, generato dalla combinazione di frammenti di origine diversa. Di fronte a una discrepanza tra suoni, tra immagini o tra suoni e immagini, lo spettatore è chiamato ad assumere una posizione attiva, avvertendo la responsabilità di sincronizzare l’oggetto mediale e trovare un proprio percorso di fruizione. “La prima volta che ho provato l’effetto fuori-sincro”, ricorda Marclay, “è stato con John Cage e Merce Cunningham. Ho capito che mettere insieme un movimento e un suono totalmente per caso funziona, e che la mente prova in continuazione ad associarli”2.

VIDEO QUARTET

Rosalind Krauss sostiene che gli artisti, nel corso del secolo scorso, hanno perso interesse nei confronti della specificità dei media tradizionali come pittura e scultura, in quanto autoreferenziali, a favore di un avvicinamento al mondo reale. Krauss, pertanto, parla della nostra come fase “post-mediale”, dove l’artista, indipendentemente dal mezzo utilizzato – pittura, scultura, installazione, video, performance –, si inventa un sistema di regole a cui ubbidire e che diventano il “supporto tecnico” delle sue opere3. Nel caso di Marclay, il supporto tecnico è il sincrono, e questo risulta ancora più vero per le sue composizioni audiovisive, dove l’utilizzo di materiale pre-esistente e di dominio pubblico attiva un processo di memoria collettiva condivisibile da un numero superiore di spettatori, nutriti da cinema e tv, rispetto a quelli in grado di riconoscere le fonti sonore nelle sue tracce audio o nei suoi dj set. In Video Quartet (2002), Marclay combina frammenti da noti film hollywoodiani in cui è protagonista il suono (musica, canto, rumore) e li pro192


ietta, differenziati, su quattro grandi schermi. Matthew Higgs ricostruisce così l’ordine di Video Quartet: “Intro, Crescendo, Voice, Orchestra, Marching Bands, Rock, Organs, Pianos, Pop, Opera, Tap, Scat, Brass, Crash”4. I frammenti audiovisivi sembrano essere stati archiviati dall’artista secondo canoni oggettivi, per l’appartenenza del suono a una data famiglia, e catalogati come libri sugli scaffali di una biblioteca. Troviamo un antecedente a Video Quartet nella pittura di Robert Raushenberg, che riporta sulla tela frammenti del mondo reale facilmente riconoscibili da chiunque – loghi, utensili domestici e immagini della cultura di massa – attraverso l’uso di collage, serigrafia e readymade. La tela di Raushenberg diventa luogo di identificazione collettiva ma, allo stesso tempo, questi segni acquisiscono una nuova identità sia per il fatto di essere stati inseriti in un’opera d’arte sia perché combinati tra loro. Il sincrono di Marclay funziona come l’operazione pittorica di Raushenberg. In entrambi i casi non abbiamo un ritmo dettato da esigenze narrative, ma un tipo di fuori-sincro dettato da esigenze di archivio, dove è lo spettatore a completare l’opera d’arte: una volta riconosciuto un dato suono o film, entra in gioco la sua memoria privata che ricollega suoni e immagini a momenti del proprio vissuto. Ad aumentare il grado di sospensione di una simile esperienza sinestetica, e a sollecitare nuove sensazioni, contribuisce poi l’imprevista coincidenza di scene che, a tratti, sembrano dialogare tra loro. A un certo momento, per esempio, su due dei quattro schermi due uomini suonano il pianoforte, mentre un altro, sul terzo schermo, anch’egli di fronte a un pianoforte, sembra ascoltarli con attenzione. Suoni e immagini diventano segni astratti di un sistema aperto in continua rigenerazione. Le composizioni sonore e audiovisive di Marclay, riprendendo le riflessioni di Krauss, perdono quindi definitivamente la loro specificità in quanto media narrativi, il disco o il film, e la ritrovano in quanto “flusso di coscienza” che, nella fase post-mediale della storia dell’arte, diventa a tutti gli effetti una nuova categoria. L’artista si limita a innescare qui un procedimento che investe direttamente il mondo esterno e lo spettatore, il quale utilizza l’opera come filtro per ritrovarsi da solo con se stesso.

LINK 9 Sights Christian Marclay 4. Matthew Higgs, “Focus: Video Quartet“ in Jennifer Gonzales (ed.), Christian Marclay, Phaidon, Londra 2005.

Mettere insieme un movimento e un suono a caso funziona: la mente prova ad associarli.

OPEN SOURCE DJ CULTURE

Altro aspetto da considerare nelle opere di Marclay è quello relativo all’appropriazione indebita. Il deejay non crea nulla di nuovo, ma si appropria di qualcosa di già esistente senza chiedere il permesso. A questo proposito, dichiara: “Rispetto la nozione di proprietà intellettuale e non penso di derubare nessuno. Uso musica registrata in modo tale che essa diventa la mia musica… ascoltiamo ovunque musica registrata; ci è imposta, e per questo diventa in qualche modo di dominio pubblico”5. Le appropriazioni di Marclay risentono dell’etica open source, diffusa con i nuovi media e internet, che legittima forme di brigantaggio intellettuale nei confronti di fenomeni di dominio pubblico. Tuttavia, le sue operazioni han193

5. Rahma Khazam, “Christian Marclay: Jumpcut Jockey”, in The Wire, 195, maggio 2000.


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Distruzione creativa

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Reinventare i videogiochi con la tecnologia cloud di Matteo Bittanti

Cloud computing: un sogno geek degli anni Novanta, che ora torna in primo piano nei servizi della galassia Google. E sorprendentemente anche nel mondo dei videogiochi. Che cosa succede se, invece di comprare la console e poi un gioco alla volta, si passa a un solo abbonamento utilizzabile per giocare in remoto a tanti titoli su più device? Alcune start-up si stanno muovendo in questa direzione. Ma i grandi gruppi del settore – a partire dalla triade Sony, Nintendo e Microsoft – non stanno certo a guardare.

illustrazioni di Sebastiano “Tone” Carghini

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Svolge attività di ricerca sui videogiochi presso la Stanford University e la University of California, Berkeley. Insegna Game Studies presso il California College of the Arts. Dopo la Laurea in Filosofia e comunicazioni sociali, ha ottenuto un Master of Science in Mass Communications presso la San José State University a San José, California e un dottorato in Nuove tecnologie della comunicazione presso lo IULM di Milano. Ha scritto e curato numerosi libri e saggi sui videogiochi, in italiano e in inglese. Vive a San Francisco.


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el seminale Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), l’economista austriaco Joseph Schumpeter esamina la nozione di “distruzione creativa”, introdotta qualche anno prima dal sociologo tedesco Werner Sombart. L’espressione indica le trasformazioni profonde che accompagnano ogni innovazione radicale. Secondo Schumpeter, le società di matrice capitalistica si evolvono grazie alle audaci iniziative di imprenditori visionari, capaci di conciliare idee rivoluzionarie con efficaci modelli di business. Le nuove tecnologie producono effetti destabilizzanti: sostengono infatti la crescita industriale a lungo termine, ma nel contempo possono sconvolgere interi mercati. Detto altrimenti, la “creatività” in quanto tale determina sempre effetti destabilizzanti. Gli esempi si sprecano. Si pensi a Xerox o a Polaroid, che per decenni hanno goduto di un monopolio quasi assoluto nei rispettivi settori industriali finché l’introduzione di tecnologie alternative ha messo fine, in modo repentino e inaspettato, alla loro egemonia. Le osservazioni di Schumpeter ci aiutano a decifrare i possibili mutamenti in atto nel settore del digital entertainment. Tre start-up americane – OnLive, Otoy e Gaikai – promettono di ridefinire la natura stessa dell’industria videoludica grazie all’introduzione di nuovi modelli di business basati sulla tecnologia del cloud computing. Com’è noto, un sistema cloud prevede tre soggetti distinti: un fornitore di servizi che offre l’accesso a contenuti digitali attraverso la formula del pay-per-use e dell’on demand; un cliente amministratore che sceglie e configura i servizi, generalmente offrendo un valore aggiunto, per esempio applicazioni software; un cliente finale, che utilizza i servizi configurati ad hoc dal cliente amministratore (nella maggior parte dei casi, le figure del cliente amministratore e del cliente finale coincidono). Un’architettura cloud presuppone uno o più server ad alta affidabilità, fisicamente collocati nei data center del service provider. L’utente paga un dazio mensile, annuale o una tantum per accedere a contenuti e servizi sempre disponibili: in altre parole, apre e chiude il “rubinetto digitale” a piacimento. In un contesto digitale, la nozione stessa di scarcity che affligge il mondo degli atomi viene meno, rendendo possibili nuovi scenari di consumo. In alcuni casi, le aziende offrono servizi a costo zero per attrarre nuovi clienti: è la strategia di Google, che sfrutta la rete per sottrarre quote di mercato a Microsoft. Con l’introduzione di Google Docs, per esempio, l’azienda di Mountain View si è prefissata l’ambizioso obiettivo di porre fine all’egemonia di Office, invitando gli utenti a salvare i documenti sui suoi server anziché sui dischi fissi del proprio computer. I vantaggi per l’utente sono almeno tre. In primo luogo, a differenza di Office, Google Docs è completamente gratuito. In secondo luogo, i documenti possono essere fruiti da qualunque computer in qualunque punto del mondo, e modificati in forma collaborativa. In terzo luogo, il software viene aggiornato automaticamente da Google e non richiede alcuna installazione da parte del cliente. Per quanto Microsoft possa contare su un’enorme base installata (oltre 500 milioni di utenti Office), il modello cloud di Google presenta vantaggi reali che potrebbero innescare i fenomeni di “distruzione creativa” descritti da Schumpeter. Nel caso dei videogame, la tecnologia cloud consentirebbe a miloni di utenti di fruire istantaneamente di gigabyte di contenuti digitali senza costringerli a scaricarli o ad acquistarli – online o offline. Se il modello prendesse piede, le ripercussioni sulla catena distributiva sarebbero considerevoli, senza contare le altrettanto significative implicazioni su quella produttiva. Da quarant’anni 200


a questa parte, infatti, il modello videoludico prevede una netta distinzione tra produttori di hardware e software. Aziende come Microsoft, Nintendo e Sony producono le piattaforme sulle quali gira software ad hoc. Per esempio, la celebre serie di sparatutto in soggettiva Halo (Microsoft Game Studios) è disponibile in esclusiva per Xbox 360 e per i computer dotati di sistema operativo Windows. Questo implica che un utente PlayStation 3 non può fruire tali contenuti sulla propria console. La tecnologia cloud propone un modello completamente alternativo: l’utente non deve acquistare una console o un computer, ma si limita a pagare un abbonamento a un service provider per fruire contenuti digitali su una moltitudine di piattaforme (desktop, laptop, smartphone) o semplicemente sul proprio televisore. In altre parole, l’utente paga l’accesso ai contenuti, non il loro possesso. La stessa nozione di “piattaforma” viene meno. La tecnologia, di per sé, è agnostica. Il consumo diventa pervasivo. Questo modello è particolarmente diffuso in ambito musicale: si pensi a servizi come Spotify, Rhapsody o Zune, che garantiscono l’accesso incondizionato a colossali librerie musicali in streaming. Qui descriveremo i progetti di tre aziende – OnLive, Otoy e Gaikai – che promettono di cambiare le regole del (video)gioco una volta per tutte.

LINK 9 Sights Distruzione creativa

OnLive

Con la tipica enfasi smisurata che accomuna tutti i “guru” dell’eterea Silicon Valley, Steve Perlman ha definito OnLive “rivoluzionario”. OnLive è un servizio di games-on-demand il cui (atteso) debutto è previsto negli Usa il 17 giugno 2010. Dopo otto anni di sviluppo e svariati milioni di dollari di investimento, OnLive ha un unico obiettivo: reinventare la ruota, per così dire, e porre fine all’egemonia della triade Nintendo, Microsoft e Sony. OnLive è il primo service provider videoludico a utilizzare la tecnologia del cloud computing, espressione che definisce un insieme di tecnologie informatiche che permettono l’utilizzo di risorse hardware (memoria, processori) o software distribuite in remoto. OnLive si ispira al modello della televisione via cavo, nel contesto del web 2.0. Come tale, rappresenta l’ultima tappa del processo di convergenza ludotelevisiva che descriviamo da tempo su queste pagine. Pensato per piattaforme pc, Mac e smartphone, OnLive richiede un abbonamento base mensile di $14.95, cui si aggiunge il costo di accesso e noleggio ai videogame presenti in catalogo. La libreria software prevede titoli sviluppati dai principali publisher statunitensi ed europei. Al momento del lancio saranno disponibili i cataloghi di Electronic Arts, Ubisoft, 2K Games, THQ e Warner Bros. Interactive Entertainment, che includono best-seller come Mass Effect 2, Borderlands, Assassin’s Creed II, Dragon Age Origins, Prince of Persia. Le sabbie dimenticate e Metro 2033. Cosa distingue OnLive dalle console “intelligenti”, sempre collegate, come Xbox 360 e PlayStation 3, oppure da servizi di distribuzione digitale e content delivery come Steam, introdotto da Valve nel 2003 e che conta oggi circa 25 miloni di utenti? In primo luogo, ci troviamo di fronte a un servizio che sem-

La creatività determina sempre effetti destabilizzanti sul sistema. Gli esempi si sprecano.

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Gormiti intervista ad Alessandro Mendini a cura di Marco Cendron

Prima di arrivare sugli schermi o diventare action figure, i Gormiti sono tratti di matita, forme che emergono dalla carta. Il loro creatore, Gianfranco Enrietto, ci regala alcuni schizzi preparatori, per scoprire come si progettano personaggi di successo. E Alessandro Mendini, architetto e designer, spiega perchĂŠ ha voluto che entrassero in un museo.


LINK 8 Sights Portfolio

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LINK 9 Sights Portfolio

MC: Come mai ha deciso di esporre, nel nuovo allestimento del Design Museum in Triennale a Milano, un oggetto che non è un prodotto di design, ma appartiene così marcatamente alla cultura pop? AM: Il nuovo Design Museum ha come titolo “Quali cose siamo”, e pertanto non si occupa solo degli oggetti che per convenzione chiamiamo “di design”. Fra le cose esposte ci sono varie forme di arte, di artigianato eccetera. Perciò anche i Gormiti hanno il loro ruolo.

Xiron febbraio 2010 collezione card serie Titanium nella pagina precedente: Gorkon febbraio 2010 collezione card serie Titanium

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Link idee per la televisione N.9

Vedere la luce. Dio e la televisione

Proprietà letteraria riservata · ©RTI ISBN 9788895596099 ISSN 1827-3963

direttore editoriale

Marco Paolini direttore

Laura Casarotto editor

Fabio Guarnaccia coordinamento editoriale

Luca Barra in redazione

Alessia Assasselli si ringrazia per la collaborazione: Gabriella Mainardi, Christian Rocca, Lucia Carta, Aldo Romersa, Paola Ruggeri, Marta Bertolini, Cecilia Penati, Emilio Pucci, Elena Rimessi, Nicolò Giacomin, Maria Scoglio, Jean-François Segalotto, Tim Small, Alan Chies, Tafuzzy Records, Elena Ugazio, LORCa, Fabrizio Urettini. e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)

art director

Marco Cendron progetto grafico

Pomo impaginazione

Alessandro I. Cavallini L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di maggio 2010

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Cover story

VEDERE LA LUCE Dio e la TeleVisione

con testi di C. Freccero, A. Grasso, P. Ortoleva, mons. G. Ravasi, U. Volli, C. Antonelli, M. Bordone, G. Feyles, S. Pistolini, F. Sarica, A. Zaccuri.

La tensione verso il trascendente, verso Dio o verso un dio, è tipica dell’uomo. Di ogni attività umana, compresa la tv. Che ha provato ad avvicinarsi al totalmente Altro in molti modi. Diffondendo il Verbo, mettendo in scena la Parola che si fa racconto, fornendo strumenti per affrontare i casi della vita (e della morte). Addirittura, mimandone i rituali e creando proprie divinità. Sempre per prove ed errori, questi sì molto umani. Quelli che Link prova a raccontare. La vendetta dell’unicorno origami. ........ 17

La giustizia dei pirati.............................. 153

Sette concetti chiave del transmedia storytelling

Il copyright, tra leggi francesi e baie svedesi

di

Henry Jenkins

Stefano Ciavatta

Se le storie si spargono su più media, diventa complicato seguirle. Ma anche molto appassionante. Uno studioso di eccezione, Henry Jenkins, ci spiega come scrivere (e leggere) i racconti “imprendibili”.

Pirateria: il graal del libero accesso ai contenuti per alcuni, il massimo danno a interi settori industriali per altri. Ma quali sono le novità di questa battaglia a guardie e ladri in corso da qualche decennio?

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Jonathan Ames.......................................... 33

Non potete toccarmi.............................. 181

Intervista all’autore di Bored to Death

Eroi, tinelli e amore di massa

di

Fabio Guarnaccia

di

Violetta Bellocchio

Jonathan Ames, scrittore di racconti e romanzi. Jonathan Ames, autore di una serie HBO. Jonathan Ames, protagonista di quella stessa serie. Uno, nessuno e centomila? Intanto, partiamo da questi tre.

Abbiamo parlato di fan (e loro patologie), concentriamoci ora sull’altro lato della medaglia. Gli oggetti del desiderio, i divi e le star che popolano ogni medium. Al centro dei discorsi di tutti (con nuove patologie).

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Dappertutto............................................ 137

Distruzione creativa.............................. 199

Branded entertainment e marketing ambiguo

Reinventare i videogiochi con la tecnologia cloud

di

Michele Boroni

Lo spot da trenta secondi non basta più. La sponsorizzazione e il product placement, nemmeno. E allora non resta che divertirsi un po’ con lo spettatore/cliente. Giocando a nascondino.

€ 15,00

di

di

Matteo Bittanti

Buttate le console. Dimenticate le cartucce, i dischi, le scatole. Non c’è più bisogno di apparecchi e di supporti per usare i videogiochi: ora bastano un abbonamento e un accesso alla rete.


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