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OFFICINA DELLE IDEE Legge elettorale, primarie, costi della politica, abolizione del Senato
QUI ED ORA Lo choc delle elezioni politiche. Il Welfare non è un lusso
CULTURA E FORMAZIONE
ANNO I | NUMERO 1 | € 5,00
Viaggio nelle Università campane. Città della Scienza: ricostruire subito
Riformare la democrazia, cambiare la politica
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MANIFESTO EDITORIALE Link: in collegamento con la cultura, la politica, la gente. Il termine inglese “link” è entrato nell’uso comune della nostra lingua con due significati prevalenti: da una parte, quello di derivazione informatica, riferito ai collegamenti ipertestuali che consentono di navigare in Internet seguendo i propri bisogni e desideri di approfondimento conoscitivo; dall’altra quello più generale di relazione, connessione, unione in network – reali e virtuali – di persone e organizzazioni. Da questo duplice spunto nasce la rivista LINK, da un’idea di Samuele Ciambriello che ha raccolto attorno a sé energie e compagni di viaggio presenti nel panorama culturale campano. Un prodotto editoriale che si propone di alimentare il dibattito politico e culturale nell’area progressista, partendo dalle specificità del contesto metropolitano napoletano e da quelle campane per affrontare con consapevolezza, in una prospettiva di ampio respiro, le profonde trasformazioni globali implicate dal cambiamento di fase che la crisi dell’ultimo quinquennio ha generato nelle principali economie e società occidentali. L’ambizione è di aprire un luogo di collegamento e dialogo plurale sulle principali tematiche che oggi risultano cruciali per comprendere e agire avendo come obiettivo contestuale la crescita economica, l’inclusione sociale e lo sviluppo democratico. Una sfida di tale portata richiede necessariamente uno sforzo collettivo di elaborazione e, quindi, un adeguato strumento di connessione, quale vuole diventare questa rivista, che si propone di favorire, orientare e sostenere il libero confronto intellettuale, mantenendo sempre alta l’attenzione per le implicazioni politiche dell’analisi. In altre parole, LINK si propone di rinsaldare il rapporto tra teoria e prassi, tra pensiero e azione, tra analisi ed esperienze. In questa prospettiva si tratta, quindi, di adoperarsi per mettere in relazione la pluralità di soggetti e di pratiche di produzione di conoscenza ed esperienza che animano il territorio, mantenendo costante l’attenzione a quanto accade più in generale nel mondo, con una sensibilità particolare verso quegli elementi in grado di innovare il confronto intellettuale e le attività nei diversi campi del sociale, del politico e dell’economico. Questo lavoro prevede, ad esempio, di portare nel dibattito pubblico, in forma divulgativa e accessibile, i risultati più aggiornati e rilevanti della ricerca scientifica nei diversi campi disciplinari, mettendoli contestualmente in connessione con i saperi pratici e la capacità riflessiva di soggetti istituzionali, operatori della società civile e attori della vita culturale, politica e sociale. Si tratta, d’altra parte, di mettere in rete la conoscenza maturata in esperienze di buona amministrazione, come pure di valorizzare e connettere le iniziative d’impegno civile. LINK, in sintesi, si propone come luogo e strumento per animare uno sforzo collettivo di comprensione profonda delle tensioni al cambiamento del mondo contemporaneo, con l’obiettivo di fornire elementi non effimeri per orientare le scelte e le pratiche sociali, politiche ed economiche in una prospettiva strategica capace di durare nel tempo. Comitato Editoriale 4 |
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EDITORIALE Le ragioni di una rivista dedicata alla cultura ed alla formazione politica L’idea di intraprendere una nuova iniziativa editoriale in un tempo di crisi imperante a più livelli, nasce dalla constatazione di confrontarsi con un tessuto collettivo in cui si levano molte grida, ma mancano voci e soprattutto voci autorevoli. È sufficiente guardarsi intorno per avvertire un generale senso di smarrimento e da confusione tipico dei tempi in cui vi è l’esigenza di procedere a cambiamenti importanti. In questa prospettiva è responsabilità delle generazioni adulte valorizzare la cultura ed infondere dedizione ed amore per la politica onde offrire alle nuove generazioni strumenti che ne possano forgiare l’ossatura ed ispirare le migliori qualità. Link si pone questo ambizioso obiettivo adottando un linguaggio immediato, senza privare il lettore di rubriche di ricerca ed approfondimento. La rivista ha anche lo scopo di proporsi come uno strumento di aggregazione per mantenere l’attenzione sempre viva sui temi di attualità, in questo senso, saranno promosse iniziative quali convegni, ricerche, pubblicazioni centri di documentazione e monitoraggio. L’iniziativa editoriale, inoltre, si pone anche come ulteriore elemento di continuità rispetto ad un percorso già intrapreso: una collana editoriale denominata “WE CARE”. La collana ospita contributi di studiosi noti e di giovani ricercatori con l’obiettivo di valorizzare saperi, intelligenze e talenti in un momento storico nel quale è fondamentale promuovere un pensare ed un agire riflessivo. È, infine, doveroso da parte di chi scrive ringraziare il prestigioso comitato editoriale che dà all’iniziativa lustro e serietà sul piano scientifico - culturale. Buona lettura ! L’Editore Silvio Sarno Il Direttore Samuele Ciambriello
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SOMMARIO
OFFICINA DELLE IDEE
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Riformare la democrazia, cambiare la politica Samuele Ciambriello
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L’urgenza di una riforma elettorale Michele Della Morte
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Intevista a F. Casavola. La nostra Costituzione è stata “sabotata” Anna Malinconico e Samuele Ciambriello
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Le dimissioni di Ratzinger: scelta storica o profetica? Lorenzo Tommaselli
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Un partito forte non nasce dai gazebo bisogna andare oltre le primarie Massimo Villone
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Oltre la farsa dei deputati nominati Nicola Graziano
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Il Sud diventi una Macro Regione Felice La Manna
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Essere “civici” non è sinonimo di eccellenza Domenico Rosati
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Investire in solidarietà è investire in qualità di vita Marco Musella
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Le Università partecipano alla formazione dei cittadini Marco Staglianò
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La fine delle supplenze. Le strategie del “Professore” e il fallimento del Governo tecnico Massimo Adinolfi
QUI ED ORA
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Dopo elezioni: Errori e prospettive Ernesto Mazzetti
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Il PD deve ripensare se stesso Umberto De Gregorio
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Cosa cambia in Campania 2? Massimiliano Bencardino
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Opinioni a confronto Gianfranco Rotondi - Enrico Letta - Ciriaco De Mita
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Se De Magistris finisce in Belgio Francesco De Pretis
WELFARE
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Oltre le mura dell’indifferenza: viaggio nel carcere campano Valeria Aiello
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Un’agenda per i diritti Dario dell’Aquila
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La voce dei senza voce Ilaria Urbani
RICERCA E INNOVAZIONE
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L’immensa biblioteca digitale a disposizione della ricerca. Amedeo Colella
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Ricerca e tecnologia: il paradosso italiano. Francesca Visconti
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Il rogo di Città della Scienza f.v.
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Curare il cancro: la nuova frontiera tecnologica Beatrice Avvisati
APPROFONDIMENTI
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Comunicazione istituzionale e comunicazione politica Marianna Quaranta
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Le “Regole” della comunicazione politica Federico D. E. De Silvo
CULTURA E FORMAZIONE
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Il ruolo dell’Ateneo Suor Orsola Benincasa Niola Marino
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Tunnel Borbonico Francesca Visconti
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Campania felix Valentina Capuano
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Rabbia e Camorra, diario di periferia Felice La Manna
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Capodanno in Cina: il benvenuto all’anno del Serpente
Link. Trimestrale di Cultura e Formazione politica Anno I, numero 1, 2013 Registrazione del Tribunale di Napoli n. 52 del 09 ottobre 2012 Direttore Responsabile Samuele Ciambriello Coordinamento Editoriale Marianna Quaranta Comitato Editoriale Massimo Adinolfi Sergio Barile Filippo Bencardino Luca Bifulco Antonio Borriello Gian Paolo Cesaretti Umberto De Gregorio Dario Stefano Dell’Aquila Francesco Fimmanò Salvatore Gargiulo Nicola Graziano Giovanni Laino Felice La Manna Massimo Lo Cicero Anna Malinconico Marco Musella Marino Niola Stefania Oriente Gianfranco Pecchinenda Francesco Pirone Paolo Ricci Francesco Romanetti Marco Staglianò Segreteria di Redazione Valeria Aiello Tel. +39 081.19517494 Fax. +39 081.19517489 e- mail: redazione_link@libero.it Editore Silvio Sarno Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Amministrazione e Abbonamenti Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Tel. 081 19517508 Fax 081 29517489 9,30 - 14,00 e- mail: redazione_link@libero.it Abbonamento annuale 10,00 euro IT ****** intestato a ISSN - ***
Carmela Foglia
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Teatro Valle, storia di una occupazione Felice La Manna
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Dentro La Comunicazione Recensione Francesco Romanetti
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L’opinione di Luca De Fusco
Foto di Agenzia Controluce Via Salvator Rosa, 103 80135 Napoli Italia Fotocomposizione e stampa Poligrafica F.lli Ariello s.a.s.
Elena Cennini | 7
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OFFICINA DELLE IDEE
RIFORMARE LA DEMOCRAZIA, CAMBIARE LA POLITICA 8 |
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di Samuele Ciambriello
Si riforma la democrazia se si cambia la politica. Ma cosa di questa politica va cambiato? E cosa intendiamo per democrazia?
Foto di Alessia Capasso
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e pensiamo al significato della parola riformare i significati, da vocabolario, possono essere due: formare di nuovo qualcosa o trasformare qualcosa attraverso modifiche e innovazioni. Riforma e riformismo sono due termini molto utilizzati e pertanto anche molto abusati. A volte sono parole utilizzate per indicare che c’è necessità di cambiamento ma non indicano in quale direzione deve andare questo
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OFFICINA DELLE IDEE
Legge elettorale da modificare Sarebbe sufficiente citare il nostro sistema elettorale, detto significativamente porcellum, per dire che se i cittadini che votano non possono scegliersi i propri deputati allora davvero siamo di fronte ad una grave crisi della democrazia.
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cambiamento. Io vorrei usare il termine riforma nel modo più radicale, come si sarebbe detto un tempo, più di sinistra. Ma lo voglio fare anche e soprattutto da credente, da chi sa che non solo attraverso la fede, ma soprattutto attraverso le opere è possibile trasformare l’uomo e renderlo migliore. Ora l’interrogativo che ci poniamo qui, sin dal titolo porta la prima risposta. Si riforma la democrazia se si cambia la politica. Ma cosa di questa politica va cambiato? E cosa intendiamo per democrazia? Bene, sulla definizione formale credo che valga per tutti noi la definizione di Bobbio “per dare una definizione puramente e semplicemente procedurale: vale a dire definire la democrazia come un metodo per prendere decisioni collettive. Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni collettive: 1) tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente; 2) la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza”.
Sarebbe sufficiente citare il nostro sistema elettorale, detto significativamente porcellum, per dire che se i cittadini che votano non possono scegliersi i propri deputati allora davvero siamo di fronte ad una grave crisi della democrazia. E siamo, credo tutti d’accordo, che questa norma elettorale vada abrogata restituendo ai cittadini il diritto a scegliere. E i cittadini hanno scelto con una legge elettorale, “porcata e antidemocratica”, che ha promosso temporanee alleanze, fittizie coalizioni, capricciosi corteggiamenti, estenuanti balletti. Il voto è un atto di fiducia, un dovero etico, per conquistarlo molti hanno affrontato carcere, tortura, soprusi. Ma poi c’è un elemento sostanziale, che lo stesso Bobbio evidenzia. “Che una delle promesse non mantenute della democrazia proprio il fatto che la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale”. Ecco è la responsabilità più forte di questa
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I partiti della prima Repubblica
Foto di Salvatore Laporta
Non contava chi era nelle istituzioni, contava chi aveva radicamento sociale e cultura politica. Contava la questione morale. Contava il lavoro politico fatto anche fuori dalle istituzioni: volontariato, relazioni di prossimità terzo settore, periferie. Contava la sobrietà nei consumi e nei comportamenti di quotidiana civiltà.
crisi è data, tra le altre cose, dalla incapacità dei partiti di trasformarsi in strumenti di partecipazione di massa, diventando progressivamente luoghi di autoriproduzione di ceti dirigenti in continua lotta per la conquista di un potere personale” Quando, ancora con addosso l’abito talare, cominciai la mia esperienza politica, portai in un grande partito comunità, il PCI, il mio impegno sociale. Con la consapevolezza di lavorare assieme ad un gruppo dirigente che mai, anche nelle battaglie più aspre, perdeva di vista la visione di insieme del partito certo ma anche e soprattutto del nostro Paese. Non contava chi era nelle istituzioni, contava chi aveva radicamento sociale e cultura politica. Contava la questione morale. Contava il lavoro politico fatto anche fuori dalle istituzioni: volontariato, relazioni di prossimità terzo settore, periferie. Contava la sobrietà nei consumi e nei comportamenti di quotidiana civiltà. Oggi per molti conta la Rete!
La Rete è un’arma a doppio taglio per i politici. Un’opportunità, certo, ma anche un pericolo. Sul Web contano autenticità, trasparenza, ascolto, interazione. Qualità che spesso sembrano mancare nei profili dei laeder che si sono lanciati in Rete nell’ultima campagna elettorale. E poi c’è l’Araba fenice della società civile! Da noi, molti, considerano lo Stato un corpo estraneo o addirittura un nemico, che taglieggia i cittadini,impone sacrifici, fornisce pessimi servizi ed è governato da politici di professione. Pregiudizi ancora attuali anche se la democrazia è ormai diffusa in tutto l’Occidente e non credo che oggi viviamo in una miserevole dittutura. Credo, invece, che tutte le persone oneste che dicono di averne abbastanza potrebbero, in buona fede, favorirne l’arrivo. Credo, altresì, che una indifferenza, a volte ostilità, verso la “re pubblica” perdura perché
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OFFICINA DELLE IDEE
Foto di Flaviana Frascogna
Nella foto Roberto Fico neo deputato napoletano del Movimento 5 stelle.
Perché non si promuove una discussione interna ai partiti, non si convocano gli organismi dirigenti, le assemblee degli iscritti, non si allarga la partecipazione al confronto con i cittadini?
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lo Stato italiano nacque soltanto 150 anni fa, quando in tutta Europa gli Stati si erano formati già da quattro secoli! E poi, diciamo la verità, i vizi, i difetti, l’immoralità allignano in tutti i ceti e spesso uomini di cultura, di Chiesa e dell’economia hanno fatto di questo proverbio la loro scelta di vita: “Francia o Spagna purchè se magna”. Segnali di speranza,segnali incoraggianti vanno sottolineati. Vedete Napoli, è stata significativa da una parte un PD che dava triste prova di sé senza essere in grado di proclamare un eletto alle primarie e dall’altra un candidato che ha vinto, De Magistris, proprio perché è riuscito a mettere in moto una grande partecipazione popolare. Oggi, da dove possiamo ripartire? Da dove possiamo ricostruire un rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini, tra partiti ed elettori? Come sempre, ritengo che bisogna nelle cose saper tenere assieme radicamento e radicalità
di scelta. In questi anni il rapporto tra i partiti e i cittadini si è sempre di più lacerato, fino a strapparsi. La gente pensa che chi fa politica lo faccia solo per proprio tornaconto personale, che le istituzioni sono piegate ad interessi personalistici, che nessuno più si preoccupa del bene comune. È difficile dargli torto, ma sarebbe un errore pensare che non sia possibile modificare questo stato di cose. I partiti diventano luoghi chiusi se si impedisce alle persone di partecipare e di scegliere. Vorrei fare un esempio. LE PRIMARIE. Nel centro sinistra ci sono state le primarie per eleggere il candidato Premier. Un confronto ricco di spunti,aspro,appassionato, tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, con il candidato sconfitto che ha immediatamente telefonato al candidato eletto per fargli i complimenti e dire “ora si fa campagna elettorale assieme”. E così è stato! Male ha fatto il centrodestra a non fare le primarie! E si è visto! C’è stata in Italia, anche grazie alle stesse primarie per eleggere i candidati al Parlamento per il PD e SEL una voglia di rinnovare, anche in parte, la politica, di esserci, di contare. Tre milioni di persone hanno favorito,in ottima buona fede e con entusiasmo la nascita di una cultura moderna della politica tesa a riformare la democrazia e a rinnovare la politica. Perché non si promuove una discussione interna ai partiti, non si convocano gli organismi dirigenti, le assemblee degli iscritti, non si allarga la partecipazione al confronto con i cittadini? Chi non sente il bisogno di discutere del Paese, delle sue emergenze e delle politiche che dobbiamo e possiamo mettere in campo, al di là del rituale dibattito tra organismi dirigenti e laeder vecchi e nuovi? Personalmente ritengo che non solo vada riaffermato quello delle primarie come strumento della partecipazione popolare ma che addirittura il suo utilizzo vada esteso... Riprendiamo il filo di quel discorso. Rilanciamo invece di arretrare, torniamo a dare radice ai nostri argomenti. Del resto riformismo è azzerare le rendite di posizioni verbali e coniugare radicalità e radicamento. Così si crea un consenso partecipato che è il vero valore della politica. Aprire la discussione, uscendo dal recinto delle ristrette se-
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greterie di partito. Partiti hanno i loro statuti, gli organismi di garanzia, gli strumenti di partecipazione degli iscritti. Fortunatamente per loro, oltre gli iscritti, ci sono milioni di altre persone che li sostengono con il voto. Lasciamo alla loro saggezza, alla loro forza, alla loro voce il senso più vero della politica come servizio. Abbiamo bisogno, per rinnovare la politica, dell’apporto reale delle intelligenze di uomini e donne che considerano ancora la partecipazione come la migliore forma di libertà. Il parlamento, nato nelle Idi di marzo ha tante facce nuove, ma i suoi regolamenti sono vecchi, pieni di incertezze, di omissioni, di contraddizioni. La democrazia riformata ha cambiato la politica con il “porcellum” con una legge elettorale obsoleta e senza vitalità rappresentativa. Ora è più che mai evidente che alcune leggi che possano rinnovare la politica, le sue spese, i suoi privilegi, la sua rappresentanza, possano essere varate da un impegno congiunto da Pd e Movimento 5 stelle,approvando anche una legge sul conflitto di interesse e contro la corruzione che divora 60 milioni l’anno. La speranza è che la “nuova classe”di eletti si metta subito al lavoro decisa non ad una sterile occupazione del parlamento ma alla sua trasformazione. La moderna democrazia pluralista che vive di contrapposizioni e conflitti, temperati da regole condivise deve cambiare la seconda parte della nostra costituzione che risponde alla costruzione di una Repubblica dei partiti e non dei cittadini. Il suo ordinamento è stato costruito per tutelare i rapporti di forza fra i partiti e non tutelare la partecipazione dei cittadini. Al di là delle motivazioni demagogiche e populiste, occorre eliminare il bicameralismo, abrogando il Senato (come già qualcuno proponeva all’Assemblea costituente) e promuovendo una legge elettorale seria e non di parte. Obiettivi comuni tra partner nuovi e meno affidabili di quanto si pensi. Voltare pagina è possibile, in fondo in tutti i partiti ci sono tante facce pulite che sono un buon viatico per una politica meno litigiosa e distante dagli interessi reali dei cittadini. I nuovi eletti hanno il dovere di dimostrare il loro senso dello Stato e di provarci. Adelante!
L’allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Francesca Visconti
L'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo è un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, conservato nel Palazzo Pubblico di Siena e databile al 1338-1339. Gli affreschi, che dovevano ispirare l’operato dei governatori cittadini che si riunivano in queste sale, sono composti da quattro scene disposte lungo tutto il registro superiore di tre pareti di una stanza rettangolare, detta Sala del Consiglio dei Nove, o della Pace.
Cosa significa governare per il bene comune? A questa domanda Ambrogio Lorenzetti ha risposto circa settecento anni fa con il ciclo di affreschi per la sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. Gli affreschi avevano lo scopo di ispirare l’operato dei governatori che si riunivano in queste sale. Chiaro è il significato didascalico che emerge dal confronto delle due allegorie e dalla differenza di ciò che consegue a i loro rispettivi operati. Il Buon Governo è retto dalle Virtù e principalmente dalla Giustizia e dalla Concordia dalla quale sorge spontanea la Sicurezza. Gli effetti che ne derivano sono un alto livello civile ed economico unitamente ad una operosità pacifica tra i cittadini. Specularmente il Cattivo Governo è rappresentato da un orrido demone che simboleggia la Tirannide sul quale volano Avarizia, Superbia e Vanagloria. Alla sua corte bestiale Divisione, Guerra, Tradimento e Frode e ai suoi piedi la Giustizia è tenuta legata da un uomo solo. Gli effetti sulla comunità sono devastanti: degrado, macerie e miseria i tratti salienti di una popolazione ingiusta e violenta. Nel 2013 come nel 1340, ci auguriamo che chi si appresta a governare l’Italia faccia tesoro degli insegnamenti di Ambrogio Lorenzetti e che ciò sia auspicio di un cambiamento autentico e positivo.
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OFFICINA DELLE IDEE
di Michele Della Morte
L’urgenza di una riforma elettorale Vizi privati e pubbliche virtù dell’attuale legge elettorale
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a crisi dei partiti, aggravatasi negli ultimi vent’anni, ha deteriorato le fondamenta dello Stato rappresentativo. La rappresentanza, senza la quale – è bene ricordarlo – non vi è democrazia, ha smesso da tempo di essere sfondo plausibile della competizione politica, divenendo, piuttosto, archetipo della delusione generale e generalizzata. Il ruolo delle regole, in questo contesto, appare recessivo. Più che limitare il potere, come vuole la nobile tradizione del costituzionalismo, le regole (in primis giuridiche) hanno finito per rappresentare una leva per favorirne l’abuso, per piegare gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione che è riuscita, seppur faticosamente a reggere, (come dimostra l’esito del referendum costituzionale del 2006) solo in quanto monumento di sapienza giuridica e politica.
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Nel ribadire la potenza evocativa e la vigenza della nostra Costituzione, in quell’occasione i cittadini hanno però voluto segnalarne l’attualità e ribadirne la vigenza. È nel solco dei principi costituzionali, dunque, che occorre guardare con attenzione alle nuove forme di partecipazione politica, da molti ritenute antidoto al dilagare di atteggiamenti autoreferenziale della politica partitica (in tema sia consentito rinviare a M. DELLA MORTE, Rappresentanza vs. partecipazione. L’equilibrio costituzionale e la sua crisi, Franco Angeli, Milano, 2012). L’emersione di nuove forme di cittadinanza attiva, se compresa alla luce dei principi costituzionali, può divenire, secondo questa lettura, la base per procedere ad innovare l’ordinamento nel segno della rappresentanza. In tal senso, l’introduzione di istituti nuovi quali il recall (vigente negli Stati Uniti), il rafforzamento di alcuni già esistenti, ma
L’emersione di nuove forme di cittadinanza attiva, può divenire la base per rinnovare l’ordinamento nel segno della rappresentanza.
Foto di Mauro Pagnano
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sotto-utilizzati, quali l’iniziativa legislativa popolare delle leggi, la previsione di regole (anche costituzionali) rivolte a ridurre il numero di parlamentari, limitare il numero massimo di mandati, riformare il sistema bicamerale, potrebbe rivelarsi utile, se non addirittura indispensabile nel momento attuale (M. AINIS, Editoriale, ne Il Corriere della Sera, 2 gennaio 2012). Le innovazioni già sperimentate nella fase pre-elettorale (es. le primarie), pur riflettendo la volontà di dare vita ad un nuovo cammino, nel solco di una rinnovata concezione della democrazia, vanno, insomma, accompagnate da riforme strutturali, che diano nuovo senso al sistema nel suo complesso. Tra queste, al momento attuale, diviene prioritaria quella del sistema elettorale. La legge 270 del 2005 – vezzosamente denominata “porcellum” dalla dottrina e dalla
maggioranza dei commentatori – ha dimostrato, infatti, innegabili limiti, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale, pronta a segnalare “gli aspetti problematici” della formula elettorale (Cfr. Corte Cost. sentt. nn. 15 e 16 del 2008, in www.giurcost.org). L’assurda previsione di un criterio proporzionale di riparto dei seggi tra liste bloccate, corretto da diverse soglie di sbarramento, con premio di maggioranza nazionale (per la Camera) e regionale (per il Senato), a favore della coalizione di liste o della lista più votata, indipendentemente dalla percentuale dei voti riportati, ha condotto, peraltro, ad un paradossale incremento dell’influenza partitica. I partiti, deboli sul piano della legittimazione popolare, sono, al contrario, per effetto della legge vigente, determinanti sul piano elettorale come mai nella storia repubblicana. La speranza, dunque, è che, come primo atto
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Foto di Mauro Pagnano
della prossima legislatura, le forze presenti in Parlamento scelgano di ovviare alle storture dell’attuale sistema, approvando una normativa che rimetta al centro i cittadini e la loro possibilità di scelta. Le possibilità, al riguardo, sono molteplici. Se alcuni, come di recente è accaduto, ritengono utile ripristinare il Mattarellum (un tentativo è stato operato, per via referendaria, solo pochi mesi orsono, senza passare il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale), altri, diversamente, valutano comunque corretto non abbandonare del tutto l’impostazione della legge 270/2005, considerata maggiormente idonea, perché proporzionale, a dare conto dell’assetto pluralistico che permea la società e la politica italiana. La discussione, peraltro, si presenta da anni polarizzata intorno a sistemi già esistenti (modello spagnolo, tedesco, francese ecc.) che, a ben vedere, non paiono, per ragioni diverse, adeguati a rendere appieno se “trasportati” in chiave interna. La soluzione, perciò, deve essere originale. Originale e semplice. La prospettiva più convincente, perciò, è quella di un sistema elettorale misto, a prevalenza proporzionale, ma dotato di soglie di sbarramento adeguate a garantire la stabilità dell’azione di governo. Al contrario, nel solco della proposte rivolte a valorizzare e democratizzare l’impianto maggioritario molto interessante, per chi scrive, quella che verte sull’introduzione dell’uninominale con lista, difesa dalla dottrina più autorevole (L. CARLASSARE, Nel segno della Costituzione. La nostra Carta per il futuro, Feltrinelli, Bologna, 2012, spec. 196 ss). Questa ipotesi, infatti, ha il non trascurabile merito di coniugare autonomia della politica e libertà di voto, sullo sfondo di regole deputate a garantire la stabilità dell’azione di governo. Qualsiasi progetto, comunque, sconta la prioritaria manifestazione di una chiara volontà politica. Riuscirà il prossimo Parlamento nell’ardua impresa di porre al primo posto dell’agenda politica la riforma del sistema elettorale? I dubbi permangono, ma è chiaro che protrarre l’inerzia non potrà che spianare la strada a gruppi e rivendicazioni populistiche, con il rischio di pericolose involuzioni autoritarie.
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Foto di Carmine Tulino
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a cura di Anna Malinconico e Samuele Ciambriello
La nostra Costituzione è stata “sabotata” Luci ed ombre della politica italiana degli ultimi venti anni. Intervista a Francesco Paolo Casavola
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rancesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale, massimo esperto di diritto romano in Italia, nasce a Taranto nel 1931; giudice della Corte Costituzionale dal febbraio 1986, ne è stato poi presidente dal 1992 al 1995. Socio di numerose accademie, autore di molteplici saggi e pubblicazioni, è stato presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani fino al 2009 e da dicembre 2006 è presidente del Comitato Nazionale di bioetica. Storico attento e testimone critico dei profondi mutamenti della società contemporanea, Casavola ci accoglie nella sua abitazione/biblioteca partenopea, pronto a discutere di temi di attualità ed approfondimento, for-
nendo spunti e chiavi di lettura inediti ed originali. La sua figura austera, lascia subito spazio ai modi gentili ed amichevoli con cui si relaziona a noi, malgrado la sua lunga giornata già trascorsa a discutere con il filosofo Aldo Masullo ed il giornalista Sergio Zavoli. Prima di iniziare il nostro focus, sorseggiando un magnifico nocillo, ci ricorda, di quando, in quello stesso studio, oltre 20 anni prima, riuniva studenti, teologi e giornalisti, per parlare e confrontarsi sul senso della storia, sull’attualità ed il cambiamento dei tempi. Da allora conserva il piacere dell’incontro e si ritiene un privilegiato, perché dopo aver lavorato una vita fra i libri, può continuare a farlo, e forse ancora con più libertà, ora da “pensionato”.
Francesco Paolo Casavola Presidente emerito della Corte Costituzionale, massimo esperto di diritto romano in Italiano. Autore di molteplici saggi e pubblicazioni.
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Presidente, l’Italia ancora oggi, stenta a darsi una democrazia compiuta: è d’accordo? “Tutta la democrazia mondiale, non solo quella italiana, sta rivelando un percorso dalle criticità gravissime... Ricordiamoci che la civiltà liberale, non nasce democratica: diventa democratica. La democrazia era la possibilità di chiamare alla partecipazione del governo degli Stati liberali la maggior parte delle persone consapevoli all’interno di una popolazione. All’inizio, il rapporto fra gli elettori e gli eletti, corrispondeva a percentuali assolutamente marginali della popolazione. Dunque quegli Stati, pur muovendosi dentro le grandi riforme liberali, erano Stati, di fatto, scarsamente rappresentativi. La prima forma di democrazia italiana, era espressione della nascente borghesia. Dopo la rivoluzione industriale inizia la decadenza delle aristocrazie che fino ad allora avevano governato il mondo occidentale e comincia l’ascesa della nuova borghesia. Il nucleo forte che realizza insieme rappresentanza e governo, era dato, dunque, dalla borghesia... La società attuale non ha la morfologia di allora. All’epoca era una società di classi; oggi è una società liquida, con la conseguenza fondamentale che la rappresentanza di una società liquida non può essere affidata a partiti di classe. I partiti di allora si fondavano su precise ideologie politiche ed altro non erano che delle grandi proiezioni democratiche di morfologie della società: gli operai ed i contadini da una parte; i piccoli ceti medi dall’altra; la grande borghesia intellettuale ed imprenditoriale, dall’altra ancora. Oggi i partiti politici non esprimono più questa morfologia...”. La crisi della democrazia pone la domanda: che cosa sono i partiti politici? “Usando come termine di confronto le grandi ideologie dei partiti di massa, c’è stata una riduzione/migrazione di quelle ideologie in due grandi campi: quello della social democrazia e quello della liberal democrazia. In alcuni Paesi dell’Europa, ha attecchito un terzo ramo di questi partiti post-ideologici: quello della Democrazia Cristiana. La Germania, ad esempio, ha un equilibrio fra partiti social/democratici/liberal/democratici e cri-
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stiano democratici. L’Italia ha avuto dopo la fine della guerra, l’attività dell’Assemblea Costituente poi della Repubblica e, una volta varata la Costituzione una Democrazia Cristiana che faceva da contraltare ai partiti marxisti, socialista e comunista, non solo dal punto di vista della rappresentanza della società, ma anche dal punto di vista della posizione internazionale dell’Italia, che era cerniera nella spartizione delle due grandi aree di influenza fra le mega potenze internazionali: Unione Sovietica e Stati Uniti...”. Qual è l’origine della paralisi dei partiti? “Quando i partiti non si sono più voluti presentare come i portatori di grandi scenari del mondo da costruire, non hanno più avuto le ideologie, allora i partiti hanno cessato dall’essere così capillarmente distribuiti e di es-
Foto di Carmine Tulino
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sere contemporaneamente educatori sociali. Funzione, questa, che espimeva il radicamento dei partiti nella società. I partiti, quasi inavvertitamente, si sono sradicati dalla società, e la società è andata avanti per suo compito. I partiti politici Italiani, come il Movimento Sociale Italiano ed il Partito Comunista Italiano, erano espressione della guerra fredda, dei grandi conflitti internazionali. Il MSI era il legame con il fascismo; il PCI era il legame con la mancata rivolta comunista in Italia e costituiva una rappresentanza militante dell’Unione Sovietica all’interno della politica Italiana. Quando con la caduta del muro di Berlino, cessò questa tensione e si uscì dal pianeta spaccato, si dovette decidere del futuro dell’Italia. Ed a farlo furono forze germinate all’interno della società italiana, all’interno della Democrazia Cristiana, che è stato l’unico partito tipicamente Italiano”.
Che ruolo ha avuto la Chiesa? “La Chiesa ha recitato la sua parte perché il terrore di un’espansione comunista, l’ha spinta a contrastare i tentativi di intesa, di unione, prima con il partito socialista, fino al disegno di Moro con il PCI. La Chiesa era diventata, anche suo malgrado, una protagonista della lotta politica. Si può dire che ne esce definitivamente con il Concilio..”.
La Chiesa ha recitato la sua parte... era diventata, anche suo malgrado, una protagonista della lotta politica.
Il Concilio, dunque come spartiacque... per una buona parte dei giornalisti italiani è Mani Pulite ad aver affossato il vecchio sistema dei partiti politici... “Credo si sia enfatizzato troppo il ruolo di Mani Pulite in tal senso. Già Berlinguer aveva affermato la necessità di una resurrezione morale del Paese, che registrava già al-
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Foto di Carmine Tulino
lora una decadenza del ceto politico dovuta a ragioni più complesse della sola corruttela che dette poi luogo ad una vera e propria decapitazione giudiziaria del ceto politico dominante, con Tangentopoli. Allora c’era la questione del rapporto fra i grandi capitali privati, le grandi imprese e la capacità manovriera dei ceti politici che governavano i vertici dei partiti. Abbiamo avuto una verticalizzazione del potere reale all’interno dei partiti, i cui vertici e le relative correnti, avevano bisogno di essere sostenuti da capitali privati”. In cosa si differenzia l’oggi... “Adesso si è aggiunta un’ulteriore aggravante, e cioè che il ceto politico attuale ha utilizzato e sperperato soldi pubblici, dei cittadini. Ciò perché nel frattempo è mutata
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la natura del capitalismo, del mercato capitalistico. Oggi il mercato capitalistico non conosce i confini politici di questo o quello Stato: è globale”. È sempre valida l’affermazione che il futuro è nei principi della nostra Costituzione? “Certamente! La nostra Costituzione, rispetto ai suoi principi, è una delle più vitali al mondo, però dobbiamo tornare a quei principi. Pensiamo al primo articolo che tutti conoscono e che afferma che l’Italia è una democrazia fondata sul lavoro: oggi siamo in piena recessione e le nuove generazioni non hanno alcuna prospettiva di entrare in questo grande modello costituzionale. Ricordiamo anche che la nostra Costituzione è stata og-
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getto di sabotaggio sistematico, da parte di vari strati di ceti dirigenti; è stata ignorata anche nel modo con cui è stata faticosamente elaborata. Già Enrico De Nicola ebbe a dichiarare che la Costituzione era ignorata anche da coloro che ne parlavano con sicumera e che occorreva denunciare il ritardo di conoscenza, soprattutto fra coloro che avevano invece il dovere di diffonderla ma,aggiunse, che era già troppo tardi e ciò sarebbe stato fatale per la vita del popolo italiano. Questa di De Nicola fu una vera profezia, perché si è poi sedimentato tale ritardo di conoscenza, ed ora siamo al troppo tardi..”. I cittadini oggi non si sentono rappresentati dai partiti, né tutelati dalla Costituzione, nemmeno per quanto riguarda l’espressione del voto, ingannati e traditi dall’attuale legge elettorale... “Quando ricordavo la grandezza della nostra Costituzione, mi riferivo alla parte dei principi che si irradiano anche nella prima parte dei diritti e dei doveri dei cittadini, altra cosa è la seconda parte della Costituzione, il cosiddetto Ordinamento della Repubblica. La traduzione di questa seconda parte risponde alla costruzione di una repubblica dei partiti, e non dei cittadini. Questo perché l’ordinamento è stato costruito in modo da tutelare i rapporti di forza fra i partiti e non da tutelare la partecipazione dei cittadini. Come se questa nostra democrazia dovesse nascere non come una democrazia rappresentativa dei cittadini, ma rappresentativa soltanto delle forze dei singoli partiti..”. Questo è un limite della nostra Carta costituzionale... “Si, gravissimo. Non possiamo però continuare a parlare soltanto di decadenza, alterazione voluta della Costituzione. Con l’impostazione della seconda parte si creò la premessa strutturale che ci ha portato dove siamo arrivati oggi... ebbene, l’impalcatura di quella repubblica dei partiti riduce l’istituto che garantisce la partecipazione dei cittadini, e cioè il referendum popolare è soltanto referendum abrogativo, un atto cioè di legislazione negativo su determinate materie, con un quorum che ammazza la stessa iniziativa referendaria. Pensiamo che ci sono Paesi, come la Confederazione Elvetica, che fanno continua-
mente ricorso a referendum propositivi, garantendo la piena partecipazione dei cittadini alle scelte democratiche. Noi abbiamo materie sulle quali sarebbe necessario ascoltare la voce dei cittadini, come, ad esempio, sulle missioni militari all’estero, o su tutti quei temi che hanno radici nell’etica e che continuano ad essere discussi e legiferati nel chiuso delle stanze”. La nostra è una democrazia non compiuta e tendenzialmente autoritaria...
La Costituzione oggetto di sabotaggio Già Enrico De Nicola ebbe a dichiarare che la Costituzione era ignorata anche da coloro che ne parlavano con sicumera.
”Esatto; si vuole consacrare questa deriva autoritaria addirittura modificando la forma della nostra rappresentanza, che è quella di un governo parlamentare, trasformandolo in un governo presidenziale, in cui il presidente è eletto dal popolo ed è il capo dell’esecutivo: altro che partecipazione democratica..”. Quale passo in avanti bisognerebbe fare per rendere la nostra democrazia compiuta... “Bisognerebbe rafforzare il rapporto fra Parlamento e Governo; non rendere il Parlamento una specie di braccio esecutivo del governo; non ridurre il numero dei parlamentari, perché è una motivazione solo demagogica e populistica; eliminare il bicameralismo abrogando il Senato, come si proponeva nell’Assemblea Costituente; fare una legge elettorale seria che predetermini le forme con cui dare il corpo ad una classe dirigente politica nuova; rifare completamente il titolo V, abolendo la riforma del 2001; ricostruire del tutto il rapporto fra il territorio e la politica. Bisogna anche considerare la necessità di rappresentanza dei corpi sociali, di quelle formazioni che la carta repubblicana considera titolari di diritti fondamentali. I diritti non sono solo appannaggio di persone singole, ma anche di formazioni sociali (famiglie, imprese, ecc.). Per chiudere: è finito il tempo del potere sacro ed irresponsabile. Questo nostro è il tempo di una crisi generale dell’autorità; tutte le autorità devono dare conto; le stesse dimissioni del Papa vanno viste in questo senso, come una scelta epocale di grande respiro che dimostra tutta la profondità dell’incarnazione del Figlio di Dio sulla terra, perché risponde ad un appuntamento della storia dell’uomo”.
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Le dimissioni di Ratzinger: scelta storica o profetica? Un gesto entrato nella storia della Chiesa a prescindere dalla personalitĂ di chi lo ha fatto. di Lorenzo Tommaselli
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L’elezione di un nuovo Papa
Foto di Francesco Pischetola
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omunque la si pensi su Benedetto XVI, le dimissioni di Joseph Ratzinger dall’esercizio del ministero petrino sono un evento storico, che ha sconvolto la struttura ecclesiastica ed ha aperto, forse suo malgrado, prospettive nuove nella vita della Chiesa romana. Al momento, è difficile valutare in tutta la sua portata un gesto che senz’altro è entrato nella storia della Chiesa moderna, a prescindere dalla personalità di chi lo ha fatto: probabilmente ce lo saremmo aspettati da un papa più
Il Ministero petrino nella sua essenza evangelica è un ministero di servizio, è la “Presidenza d’amore”.
aperto che da un conservatore come Benedetto XVI. Ma, al di là di tutto, restano il significato e più ancora le conseguenze di questa decisione, che sembra aver scosso molte persone nel sistema di potere vaticano. Eh sì, perché tutto sembra girare intorno ad un sistema di potere, come quello vaticano, estraneo in radice all’esperienza di vita di Gesù ed al suo Vangelo. Nella storia della Chiesa i papi si sono attribuiti espressioni e titoli come “vicario di Cristo”, “sommo pontefice”, “santo
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padre”, “beatissimo padre”, “santità”. E noi, impotenti e sgomenti, abbiamo assistito, a questa sempre più accentuata ed inaccettabile sacralizzazione della persona e del ruolo del vescovo di Roma, ben al di là della sua reale configurazione ecclesiale, processo, questo, già ampiamente realizzato e portato ad un livello altissimo sotto Giovanni Paolo II. Infatti, nella storia si è sempre più legittimato questo sistema, assoluto ed antievangelico, che si vuole tragga la sua origine nelle parole che Gesù, nel vangelo di Matteo (16,18), rivolge all’apostolo Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Purtroppo, una traduzione ed una conseguente comprensione non puntuale del testo greco originale hanno potuto far nascere la più profonda incomprensione di quello che il testo matteano vuole dire. Nel testo originale c’è un gioco di parole tra due termini greci, pétros e pétra, che però non sono l’uno il femminile dell’altro (tipo “porto” e “porta”), ma significano il primo “sasso, mattone” – ed è il soprannome (“testa dura”) che gli evangelisti danno a Simone, mentre Gesù lo chiama sempre con il suo nome – ed il secondo “roccia”. Quindi la frase di Mt 16,18 sopra citata significa: Tu nella mia comunità sei un mattone (pétros) importante di questa comunità, ma essa è edificata su di me (pétra, la roccia). Quindi la roccia non è l’apostolo Pietro, ma lo stesso Gesù, come, tra l’altro, altri testi del Nuovo Testamento confermano (si veda, p. es. Ef 2, 20-22). Perciò il ministero petrino, nella sua essenza evangelica, è un ministero di servizio, è la “presidenza dell’amore”, secondo la bella espressione di Ignazio d’Antiochia, un ministero che non soffoca quello degli altri vescovi, ma che lo dilata in una chiave universale, in una sorta di coordinamento delle chiese locali. Perché il papa è tale, perché vescovo di Roma, e non il contrario, quindi, non è un super-vescovo, ma è un vescovo, quello di Roma, certamente con un ruolo importante nel costruire l’unità e la comunione nella diversità tra le comunità di fede. Ma, purtroppo, queste elementari osservazioni, tali per chi ha un minimo di conoscenza sull’argomento, sono state taciute dalla stragrande maggioranza (tranne pochissime ecce-
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zioni, tra cui i proff. Vito Mancuso ed Alberto Melloni) di improvvisati commentatori nelle ore immediatamente successive all’annuncio delle dimissioni, quando siamo stati costretti a subire in televisione e sui giornali un’orgia devastante di commenti. Le sfide che il cristianesimo ha davanti sono enormi, ma questo cristianesimo, questa forma di cristianesimo (il cristianesimo edito, come diceva l’indimenticato p. Ernesto Balducci) potranno avere un ruolo ed un senso nella società attuale solo se muoiono per rinascere alla luce di un dinamismo evangelico che porti a tutti speranza, senso per la vita, liberazione dalle sofferenze. Tutto questo perché ci siamo allontanati decisamente dal cammino e dalla prassi dell’Uomo di Nazareth, del Figlio dell’Uomo, di Colui che nella Sua vita ha realizzato il progetto del Padre sull’umanità. È inutile e controproducente soffermarsi ossessivamente sulla difesa di presunti valori non negoziabili (nei vangeli ne abbiamo uno solo: la dignità e la felicità degli esseri umani), men che mai avere come punto essenziale dell’annuncio il discorso su Dio. Questo Dio non sta alla nostra portata, è per definizione il trascendente, di Lui possiamo fare esperienza rimettendo al centro dell’esperienza ecclesiale solo ed esclusivamente Gesù di Nazareth, che ne è la rivelazione piena, e la sua prassi liberatrice. E’ Gesù che sta al centro del Vangelo con le sue scelte di vita forti ed esigenti, non Dio, un Dio che noi umani non possiamo conoscere perché è il “totalmente Altro” (R. Otto) da noi. E le ormai indifferibili richieste di riforme, avanzate da significativi settori del mondo ecclesiale, non hanno trovato ascolto ed attenta considerazione nella gerarchia, che, a partire dall’immediato post Concilio, si è sempre più richiusa in se stessa, disattendendo la pregnanza e l’urgenza dei contenuti di riforma, proposti alla comune riflessione, anche da autorevoli membri dell’episcopato. Tra gli ultimi, il compianto arcivescovo di Milano e cardinale Carlo Maria Martini, che con la sua indiscussa autorevolezza culturale e la sua limpida testimonianza pastorale si è fatto coraggioso interprete di quest’ansia di rinnovamento, denunciando anche consistenti ritardi dell’istituzione ecclesiastica rispetto alla necessità di un rinnovamento ecclesiale in ca-
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pite et in membris. Sono quelle stesse tematiche sulle quali si è soffermata la lucida e libera riflessione del grande teologo e moralista p. Bernhard Häring nell’ultimo periodo della sua vita, in particolare nel volumetto “Perché non fare diversamente?” (Queriniana, 1993). In esso il grande moralista scomparso chiedeva una «nuova forma di rapporti nella Chiesa», proponendo, tra l’altro, in una finzione poetica, una lettera pastorale di un papa, diremmo oggi, “virtuale”, papa Giovanni XXIV, nel quale viene sicuramente adombrata la figura di papa Roncalli, ma, credo, anche in parte quella di papa Luciani, ugualmente intrisa dello spirito giovanneo. E come non richiamare alla memoria della comunità ecclesiale la luminosa figura dell’arcivescovo di Torino card. Michele Pellegrino, per tutti “padre” Pellegrino, insigne studioso e pastore, morto nel 1986! In una storica intervista del marzo 1981 sulla rivista “Il Regno”, con uno spirito di libertà e di franchezza episcopale, di cui si è oramai perso il ricordo nella prassi ecclesiale, aveva stigmatizzato con nettezza e senza reticenze curiali le problematiche e le incertezze di una chiesa, combattuta tra paura e profezia, le stesse tematiche sulle quali, dopo più di vent’anni, è ritornato il card. Martini. Se la Chiesa non serve, non serve a niente, ricorda di continuo mons. Jacques Gaillot, vescovo emerito di Partenia, coraggioso missionario del Regno e vittima anch’egli, insieme a tanti altri, dell’involuzione autoritaria del potere ecclesiastico. Come non vedere la sclerosi sempre più galoppante che si è diffusa nelle strutture ecclesiali e che le sta rendendo sempre più un apparato di potere destinato alla sua autoconservazione, un arido museo, invece che, secondo l’efficace metafora di Giovanni XXIII, un olezzante giardino, segno di speranza e di liberazione per tutti? In tutto questo grigiore burocratico, in un’atmosfera ecclesiale (e non solo), nella quale l’attenzione ed il riferimento al vescovo di Roma hanno da tempo assunto accenti di vero e proprio culto della personalità, dov’è il sogno del Padre per un’umanità nuova, quel progetto per il quale ha dato la vita l’Uomo di Nazareth “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito” (Rm,1, 3-4)?
Foto di Carlo Hermann
La speranza, virtù ardua da concepire in questo momento ma prezioso talento da far fruttare, è riposta in una maturazione della comunità ecclesiale, che, se si aprirà sempre più allo Spirito, potrà continuare un processo ecclesiogenico, brutalmente interrotto già a ridosso dell’esperienza conciliare, ma che potrà favorire la costruzione di una Chiesa altra, più aperta, più “cattolica”, meno “romana” e certamente molto più vicina al sogno di Gesù di Nazareth. Nonostante le sorde e forti resistenze curiali, verrà il tempo favorevole, nel ricordo di Giovanni XXIII, dell’azione e dell’esempio di tanti, vescovi, preti e laici, che hanno continuato, contra spem, a battersi per una Chiesa altra ed a credere nel sogno e nelle promesse di Dio, che sono diventate sì in Gesù Cristo (cf 2 Cor, 1, 20). Se le dimissioni di papa Benedetto XVI saranno servite ad innescare ed a realizzare questo moto di rinnovamento, saranno un innegabile merito di fronte alla storia che Joseph Ratzinger avrà avuto e che difficilmente gli potrà essere negato.
Le indifferibili richieste di riforme avanzate da significativi settori del mondo ecclesiale devono trovare ascolto e attenta considerazione.
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Foto di Salvatore Laporta
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Foto di Salvatore Laporta
di Massimo Villone
Un partito forte non nasce dai gazebo bisogna andare oltre le primarie Sono necessarie forme organizzate stabili della politica, non bastano le forme volatili di democrazia immediata su Intenet.
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rimarie Pd, due scuole di pensiero: festa di popolo, lenzuolata democratica per i favorevoli; un modo per dissimulare la debolezza di gruppi dirigenti incapaci di selezionare la rappresentanza, per i critici. Probabilmente, c’è una parte di verità in entrambe le letture. Un tempo, le candidature erano decise negli organi di partito. Ma come si potrebbe, oggi? Le organizzazioni di partito si sono liquefatte, in un mosaico di segmenti giustapposti di stampo correntizio. I gruppi dirigenti nazionali vivono un forzoso armistizio di capi e capetti, ciascuno sorretto da una galassia di piccoli o grandi potentati locali. Con quale autorevolezza, re-
ciproco riconoscimento, solidarietà quei gruppi dirigenti potrebbero scegliere i candidati, essendo le liste una misura dei rapporti di forza nell’arcipelago componentizio? Quindi la scelta di Bersani era logica per un segretario, egli stesso espressione di quella realtà. Tutti nell’arena e i sopravvissuti in lista. In mano al Segretario una piccola riserva. Come se bastassero cinque o sei nomi eccellenti a garantire la qualità di un gruppo parlamentare a vocazione maggioritaria, e soprattutto a renderlo governabile. E rimanendo ancora aperta la partita dell’ordine di lista, decisiva nel Porcellum. Ancora non è finita. Vedremo. Ma intanto qualche valutazione è possibile sui vincitori. Una piccola
Le correnti uccidono i partiti Le organizzazioni di partito si sono liquefatte, in un mosaico di segmenti giustapposti di stampo correntizio. I gruppi dirigenti nazionali vivono un forzoso armistizio di capi e capetti, ciascuno sorretto da una galassia di piccoli o grandi potentati locali.
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spruzzata di noti dirigenti nazionali, e fuori alcuni personaggi di lungo corso. Per il resto, tante facce apparentemente nuove. Apparentemente. Perché guardando meglio troviamo persone già impegnate in politica attiva. Componenti di assemblee elettive, assessori, qualche sindaco o ex-sindaco, amministratori locali di ogni tipo e caratura, qualche dirigente di partito. Nel complesso, la politica regionale e locale si è impossessata della rappresentanza parlamentare PD. La cosa ci riguarda tutti, perché il PD formalmente si candida a governare il paese, e sarà centrale nelle sorti del centrosinistra. È bene o male, per l’Italia? Il dubbio è legittimo, anzitutto perché la politica regionale e locale è il ventre molle del sistema italiano. Una verità resa evidente dalle inchieste giudiziarie, dalla Corte dei conti, e dalla stampa. L’illusione – da molti condivisa negli anni novanta – che rimettere radici nella realtà dei territori fosse la cura per una politica nazionale in disfacimento, si è dissolta. Eppure, una volta presa la via delle primarie l’esito era inevitabile. L’istituzione regionale e locale è la sola che offre oggi l’occasione di creare consenso. In essa va, in un modo o nell’altro, oltre la metà della ricchezza prodotta nel Paese. In essa passano in larga misura le scelte che toccano direttamente la vita dei cittadini. In essa vivono strumenti che sono sostanzialmente clientelari, pur senza giungere al codice penale: dal presentare qualcuno al funzionario competente per una pratica, al sostenere i soggetti no-profit che operano sul territorio, o magari a far colmare una buca in una strada piuttosto che in un’altra. Venute di fatto meno le organizzazioni di partito, unico riferimento sono oggi le persone che occupano le istituzioni: consiglieri, assessori, sindaci, presidenti, e tutto il variegato mondo di amministratori del più vario tipo. La capacità di fare politica si traduce nell’intestare a se stessi un mondo di rapporti trasformabili in voti, organizzandolo e coltivandolo con cura, perché è l’unico patrimonio spendibile in un sistema di partiti che non assicura più un cursus honorum razionale. Dunque, il risultato delle primarie PD era scontato e prevedibile, ancor più per la minore affluenza rispetto alle primarie sul candidato premier. Meno votanti, più incidenza sull’esito delle organizzazioni personali del consenso messe in
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campo. Secondo un’opinione, è comunque il modo migliore oggi disponibile per selezionare il ceto politico. Ma ci sono altre questioni: è bene iniettare nella rappresentanza parlamentare di un partito che vuole governare l’Italia una massiccia dose di localismo? Potrà un parlamento così condizionato cancellare anche una sola provincia, perseguire con tenacia il risanamento della finanza pubblica, contrastare il voto di scambio, rendere più incisiva la legge anticorruzione, resistere agli egoismi territoriali e garantire l’unità del Paese? Problemi vengono in specie dalle primarie “aperte”. Un punto di principio: è giusto che il voto di qualcuno che non ha mai fatto vita di partito conti allo stesso modo del voto dell’iscritto che quella vita ha fatto, ma-
Foto di Carlo Hermann
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gari quotidianamente e con passione? Un punto di fatto: cosa ci si può aspettare domani in campagna elettorale dall’iscritto che, avendo sostenuto nella primaria un candidato, lo ha visto sconfitto da voti che non sa da chi sono stati espressi e da dove sono arrivati? E cosa farà l’elettore non iscritto se il candidato da lui sostenuto non ha avuto successo? Voterà la lista PD o si volgerà altrove? È un gioco in cui si può solo perdere. Anche perché al di là dei dubbi sulle primarie autogestite, senza garanzie e controlli certi, contare un giorno o due ogni cinque anni di mandato ha poco a che fare con la democrazia. Un sistema democratico è quello in cui il cittadino può farsi sentire ogni giorno, sugli indirizzi e sulle scelte di governo. Per questo,
sono necessarie forme organizzate e stabili della politica, e non basta la partecipazione usa e getta di una investitura plebiscitaria del leader o del rappresentante di turno, né le forme volatili di democrazia immediata su Internet. Cerchiamo di evitare il rischio che le lenzuolate diventino sudari. Se dovessimo fare un augurio a Bersani, sarebbe quello di ricostruire un partito degno di questo nome, che non abbia bisogno di primarie per puntellare una dirigenza traballante, e sia capace di garantire in altro modo la qualità della rappresentanza. Può darsi che a un partito forte – in fondo – pensasse. In tal caso, provaci ancora, compagno Pier Luigi. Non stare lì a pettinare le bambole.
Venute, di fatto, meno le organizzazioni di partito, unico riferimento sono, oggi, le persone che occupano le istituzioni.
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UNA DEMOCRAZIA SOSPESA!
Foto di Alessia Capasso
È tempo di cambiamento
Oltre la farsa dei deputati nominati Non c’è democrazia se si privano i cittadini della possibilità di scegliere di Nicola Graziano
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elle settimane appena trascorse, con una ennesima scena da teatrino di quartiere, si è chiusa la fase del procedimento elettorale che porta alla elezione dei nostri rappresentanti in Parlamento e, finalmente, può dirsi chiusa la farsa della scelta dei candidati (alcuni certi, altri incerti, altri probabili, altri impossibili, altri scelti per effetto di c.d. “parlamentarie” che sono state una vera e propria commedia, utile solo a risolvere agli apparati di partito la ressa per la scelta dei buoni ed
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utili numeri in lista). Tali candidati hanno composto le decine e decine di liste sotto un numero spropositato di simboli (alcuni davvero variopinti ed indegni di una Repubblica democratica). Ricordo a me stesso di avere quarantaquattro anni e che ho compiuto diciotto anni nel lontano dicembre del 1986. Ho votato, quindi, per la prima volta di lì a poco e ricordo che all’epoca il mio primo ingresso nella cabina elettorale fu un momento di pura emozione. Sarà perché all’età di diciotto anni si deve poter sognare, sarà per-
Le giovani generazioni non possono esimersi dall’interessarsi alla politica, una politica ormai lontana dalle piazze, dalle amministrazioni e dalle aule parlamentari.
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ché era l’epoca del mio primo anno di iscrizione all’Università e che avevo da poco iniziato lo studio del Diritto Costituzionale (è stato, poi, il primo esame da me sostenuto!), ma quando ho aperto la scheda, e segnato con la matita ministeriale il mio voto, ho avuto dinnanzi ai mie occhi la pagina del codice che stavo usando per studiare, dalla quale ho letto, idealmente, l’art. 1 della Costituzione che, mi perdonerete se lo riscrivo, così recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ed io mi sentivo una millimetrica e minuscola parte del Popolo sovrano perché ero un Cittadino – Elettore che esprimeva così, segretamente e liberamente, il suo voto personale ed uguale a quello di ogni altro Cittadino. Adempivo, del resto, al mio dovere civico e ne ero felice ed orgoglioso. Sono passati molti anni e ho cominciato ad avere i capelli bianchi. Oggi sono un Magistrato che amministra la Giustizia in nome del Popolo e nel rispetto della Legge. Eppure nel tempo qualche cosa è cambiata, non solo in me! Credo si sia perso quel senso della partecipazione civica e la distanza tra Amministrazione ed Amministrati aumenta sempre più! C’è troppa diffidenza ed indifferenza perché la Politica sembra essere diventata un mestiere non un impegno civico! Colpa anche di questa carnefice legge elettorale che priva di fatto i Cittadini della possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. La cronaca di questi giorni è il segno di un vuoto di democrazia che oserei dire epocale. Epocale perché attribuisco la colpa alla classe dei quarantenni di cui anche io faccio parte! E, se è assolutamente vero che le classi dirigenti locali hanno il grosso demerito di non aver coltivato le giovani generazioni in modo sufficiente da far emergere candidati capaci di imporsi nella ressa, è, nello stesso tempo vero (siccome sono certo che la colpa è sempre da entrambe le parti), che vi è una classe di giovani che non ha avuto il coraggio, la voglia e forse la capacità di imporsi facendosi strada. E se l’attuale si-
stema elettorale mortifica la vis civica di ogni Cittadino, dal più giovane al più vecchio, è certamente questa una scusa da non usare per giustificare (l’ingiustificabile!) disinteresse per la Politica. C’è un vuoto di partecipazione attiva da colmare! C’è una opportunità che noi quarantenni non possiamo farci scappare! Ora credo che tocchi a Noi, nessuno escluso ed ognuno per la sua parte e nel suo ruolo! Abbiamo dalla nostra la forza di crederci ancora e di pensare ad un serio rinnovamento. Decidiamo noi, insieme e senza distinzione di colore politico, ma sotto un’unica idea programmatica di sviluppo per il nostro territorio, chi non è candidabile, chi è impresentabile, chi non votabile, chi indegno di far parte delle Amministrazioni. Questo lo chiede la Storia nella sua nobilissima evoluzione! Non ci sono attenuanti! Scendiamo per strada, bussiamo porta a porta, estenuando quanti, rintanatisi nell’oblio civico, hanno scelto di ritirarsi perché sfiduciati! Da Magistrato dico che l’indifferenza ed il distacco verso la Res Pubblica ha creato un vuoto che troppo spesso la Magistratura è costretta a colmare perché i territori non possono essere lasciati incustoditi, senza, cioè, Cittadini vigili e attenti controllori! E fin quando ci saranno leggi che, nello specifico, si perdono nel cercare di arginare il fenomeno corruttivo nella Pubblica Amministrazione, sia locale che regionale che nazionale, vuol dire che non funziona il Popolo sovrano quanto al suo ruolo di educatore alla Civiltà. Chi governa deve sentire il fiato sul collo dei cittadini, proprio di tutti i cittadini. Solo così non si leggeranno più riflessioni sulla Democrazia che oggi appare sospesa nel limbo dei comportamenti offensivi dei principi fondamentali della Costituzione! Tocca alla nostra giovane generazione andarla a rianimare! Lì sospesa, è lontana, troppo lontana dai vicoli di ogni paese, dalle piazze delle città, dalle Case Comunali, dai Palazzi Provinciali, da quelli Regionali, dai Ministeri e dalle Aule Parlamentari e per questa lontananza rischia di non far sentire il calore che promana dal fuoco sacro della Democrazia!
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QUESTIONE MERIDIONALE
Foto di Carlo Hermann
Il Sud diventi una Macro Regione. Napoli può puntare a essere la punta di diamante della mega-regione del Mezzogiorno. Intervista a Massimo Lo Cicero di Felice La Manna
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he esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C’è, fra il Nord e il Sud della penisola, una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intel-
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lettuale e morale”. Queste le parole di Giustino Fortunato, uno dei più importanti meridionalisti che la storia abbia conosciuto. Sono 140 anni che si parla di questione meridionale, almeno stando agli storici secondo cui l’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1873 dal deputato Antonio Billia per indicare le condizioni di arretratezza del Sud della penisola rispetto al Nord più ricco ed evoluto. Sui motivi del ritardo non entriamo nel merito. Quello che è certo, è che le ricette adottate in un secolo e mezzo non hanno risolto il problema. Oc-
La Basilicata ha una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia. La Calabria, che ha la popolazione di Torino e del suo hinterland ma il suo contributo alla ricchezza nazionale è quello della città di Cuneo. La Campania, invece, con quasi sei milioni di abitanti è la regione più popolosa del Mezzogiorno, ma ha un PIL inferiore alla media europea. Mentre la Puglia, la regione più dinamica fra quelle del Mezzogiorno, contribuisce alla ricchezza nazionale per un modesto 5%.
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corre allora guardare con occhi nuovi a soluzioni diverse. Come potrà il Sud avere un ruolo primario in Italia e in Europa? Partiamo alcuni dati. La Basilicata ha una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia. La Calabria, che ha la popolazione di Torino e del suo hinterland ma il suo contributo alla ricchezza nazionale è quello della città di Cuneo. La Campania, invece, con quasi sei milioni di abitanti è la regione più popolosa del Mezzogiorno, ma ha un PIL bassissimo, nettamente inferiore alla media europea e ha un numero di addetti all’industria paragonabile a quello di una media città del Nord. Mentre la Puglia, la regione più dinamica fra quelle del Mezzogiorno, contribuisce alla ricchezza nazionale per un modesto 5%. Questi sono i numeri che il Sud può mettere La prima cosa è compensare sul tavolo per far senlo squilibrio che c’è tra tire la propria voce a Roma e Bruxell. Ecco economia nera, economia spiegato lo scarso peso criminale ed econoima legale, specifico nel determiperché se guardiamo i numeri nare le scelte che lo riguardano, soprattutto a nel Mezzogiorno c’è un terzo livello europeo. della popolazione e un quarto Ma se provassimo ad immaginare una madi quello che si produce in Italia croregione meridionale? Il quadro cambierebbe? Se la popolazione del Sud non fosse frantumata in sei o sette regioni e fosse invece concentrata in un’unica regione? Un macroregione con un numero degli abitanti pari a quello dell’Olanda e del Belgio messi insieme. Un PIL che, unitariamente considerato, sarebbe superiore a quello della Lombardia, che è fra le cinque regioni con PIL più elevato d’Europa. E sarebbe equiparabile, o in alcuni casi addirittura superiore, a quello di molti Stati europei di media grandezza, come Svezia, Portogallo, Danimarca, Belgio, Austria e Irlanda. Una macroregione che partisse dal Volturno e che terminasse alla punta più meridionale dello Stivale, avrebbe ben altro peso nello scacchiere nazionale ed europeo. Ne abbiamo parlato con Massimo Lo Cicero che, già qualche anno fa, ipotizzava l’idea di una mega regione
meridionale. Ci sono due modi per guardare le città, le si può guardare e progettare come global city o come mega regioni. Napoli, spiega Massimo Lo Cicero, può puntare a essere la punta di di diamante della mega-regione del Mezzogiorno. “Le global city – afferma l’economista dell’università Tor Vergata di Roma – sono grandi aree urbane che vivono intorno a un singolo tema, anche se abbastanza forte da dar loro un’identità. New York, per esempio, è la città del glamour, del costume e della tendenza, mentre Chicago lo è dell’industria. Le città globali, inoltre, vivono al confine tra il proprio stato di appartenenza e il mondo globale”. Poi ci sono le mega regioni. “Non parlo di distretti amministrativi, ma di aree molto vaste caratterizzate da forti discontinuità al proprio interno. Una mega-regione è il Mezzogiorno, che ha 20 milioni di abitanti, così come Los Angeles che è una global city”. Questi 20 milioni di abitanti, però, a differenza di una città globale non si concentrano in una sola area. “Nella mega regione del Mezzogiorno cinque milioni di abitanti si aggregano tra Napoli e Caserta, per il resto la realtà è assai frammentata”. Cosa fare per rendere smart questa mega regione? “La prima cosa è compensare lo squilibrio che c’è tra economia nera, economia criminale ed econoima legale, perché se guardiamo i numeri nel Mezzogiorno c’è un terzo della popolazione e un quarto di quello che si produce in Italia”. Seconda urgenza è intervenire sulle sue (mancate) connessioni. “Il Mezzogiorno non esiste nelle sue connessioni, non ha piattaforme, ma proprio perché ha grandi divari interni potrebbe rappresentare un laboratorio di sviluppo”. Napoli, “se fosse una città, sarebbe la più grande città italiana. Fatto sta che non lo è, a difernza dell’asse Roma-Milano, che grazie all’alta velocità sta costituendosi come una global city italiana”. Infine l’economista fa notare che in Europa il Sud è valutato in condizione peggiori della Grecia. “Vedremo se nel 2020 il ciclo di azioni europee avrà prodotto degli effetti di riequilibrio. Intanto teniamo presente un dato: la Campania è considerata più debole della Grecia. Insomma, c’è molto, ma veramente molto da fare”.
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di Domenico Rosati
Essere “civici” non è sinonimo di eccellenza L’etica pubblica e della convinzione dopo il voto di febbraio: una riflessione a bocce ferme. È inutile inseguire il consenso a qualunque costo.
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l netto delle esasperazioni e delle grossolanità propagandistiche, le campagne elettorali sono momenti di autenticità nella vita di un paese. È nella sollecitazione del voto popolare che ogni agenzia politica rivela le proprie intime convinzioni, anche quelle che un residuo senso del pudore consiglierebbe di mimetizzare. Si sostiene: siccome il sistema delle tangenti è diffuso nel mondo, fanno male i giudici italiani (moralismo!) a perseguire chi ne frequenta gli ambienti. Oppure: siccome le tasse sono elevate,
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e si fa fatica a pagarle, bisogna abolire gli strumenti che lo stato utilizza per contrastare l’evasione. Sono solo due esempi rivelatori di una distorsione profonda:quella che porta ad inseguire il consenso a qualunque costo senza curarsi della verità delle cose. Qui non prevale l’etica della convinzione ma l’etica della convenienza; e in ogni caso soccombe l’etica della responsabilità, quella che misura le conseguenze delle azioni e delle omissioni. Il fenomeno, che è esteso e profondo, acquista particolare risalto in presenza della catena di arresti, incriminazioni, avvisi di garanzia
Una legge contro la corruzione Bisogna curarsi dalla vanità delle cose e dei bisogni reali dei cittadini. Purtroppo, si è affievolita la percezione della illegalità e della trasgressione.
Foto di Angelo Cucca
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che hanno popolato le cronache (la “retata di san Valentino”) e che rivelano come il rapporto tra politica e affari, i cui perversi effetti erano stati esaurientemente descritti ai tempi di “mani pulite”, si mantiene vitale ed anzi si... arricchisce di nuove fantasiose espressioni. Come quella, per continuare gli esempi, che si potrebbe definire del “governatore parassita”, come colui che non tocca un euro dalle casse pubbliche ma ad esse fa accollare da interessati intermediari utilità e “servizi” di privatissima e godereccia pertinenza.
Chi alimenta il contagio. Il dato più paradossale è che gli stessi soggetti meglio disposti a guardare con benevolenza il malaffare sono gli stessi che spesso si sbracciano nel proclamare il fermo proposito di lottare contro la corruzione; e che nell’opinione pubblica non si sia compiuto uno sforzo apprezzabile per favorire un giudizio diversificato su chi ha, almeno, tentato di scongiurare o limitare l’infezione e chi, viceversa, ha assunto, per così dire, il patrocinio della diffusione del contagio. Non è quindi superflua la riflessione sul progres-
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OFFICINA DELLE IDEE
La legge (anticorruzione, antitrust, anti conflitto di interessi, etc.) è necessaria, ma non sufficiente. L’area d’impegno è molto più vasta, prima della legge e dopo la legge.
sivo affievolirsi della percezione dell’illegalità e della trasgressione – la perdita del “senso del peccato” – che si è verificata specialmente lungo i decenni del dominio culturale prima che politico della ineffabile leggerezza etica berlusconiana. Ciò che chiama in causa anche il deficit di intransigenza di molti suoi avversari. C’è chi sparge il contagio e chi non lo combatte. Che non sia troppo tardi? Tutto questo considerato, si può e si deve approfittare del vantaggio di scrivere a urne chiuse e a risultato acquisito per rimettere a fuoco alcuni concetti preliminari indispensabili per riprendere il discorso nei suoi termini più appropriati. Che riguardano sia il versante proprio della politica (partiti e istituzioni) sia il versante della così detta società civile nella sua indeterminata complessità. Nel senso di rendere esplicito il fatto che la degenerazione etica non riguarda solo una parte del panorama ma lo investe nel suo complesso. Anche molti di coloro che si sono qualificati come “civici” presumendo che tale loro provenienza fosse per ciò stesso sinonimo di “eccellenza” dovranno pur riconoscere che buona parte dei comportamenti perniciosi nasce dal profondo della società, dai meccanismi economici e dai rapporti umani e sociali inquinati da quell’individualismo nel quale il cardinale Bagnasco ha ultimamente ravvisato “la madre di tutte le crisi”. Sarà perciò indispensabile predisporre strumenti e modalità di verifica e intervento più assidui ed efficaci di quelli sin qui messi in atto. Ma con un punto di partenza che va messo a fuoco: e cioè che la legge (anticor-
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ruzione, antitrust, anti conflitto di interessi ecc) è necessaria ma non sufficiente. L’area d’impegno è molto più vasta, prima della legge e dopo la legge. Il da farsi prima della legge Il “prima” è il campo più ostico. Si tratta di realizzare quella che (in una delle mie precedenti vite) proposi come la “crescita politica della società civile”. Crescita “politica” come passaggio da una cognizione dei problemi basata sull’interesse personale o di gruppo alla percezione della responsabilità di ciascuno verso il... resto del mondo. Con un procedimento simile a quello che in passato conduceva ad acquisire una “coscienza di classe” e ora, nelle mutate condizioni globali, dovrebbe far maturare una “coscienza di società”, nel senso di “bene comune”. Un compito improbo in un contesto come l’attuale assai poco permeabile alle imprese pedagogiche; e tuttavia un’esigenza insopprimibile se si vuole reintrodurre nella vita civile un antigene radicale che intercetti la malattia là dove ha origine: la scala dei va-
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Foto di Carlo Hermann
Le forme di partecipazione previste o escogitate nel tempo, dalla fabbrica alla scuola agli enti locali, cedono il passo a forme sempre più monocratiche di gestione, con il risultato di confinare il ruolo del popolo nel ghetto della indignazione e della protesta.
lori, la relazione tra l’io da affermare e il noi in cui realizzarlo. E l’indagine sulle condizioni perché ciò avvenga. L’Italia possiede una risorsa straordinaria mai compiutamente utilizzata su questo fronte: la Costituzione della Repubblica. Essa è più commemorata che vissuta come ispirazione del vivere insieme. Se il testo della Carta venisse davvero studiato avremmo la padronanza di alcuni parametri di giudizio – i principi fondamentali – su cui modellare i nostri comportamenti, i nostri diritti e i nostri doveri. E sarebbe chiaro che tutti gli ordinamenti della convivenza andrebbero orientati ad un fine esplicito di liberazione umana e di giustizia sociale, cominciando dal lavoro, che non è un orpello ma, appunto, il fondamento. Il da farsi dopo la legge “Dopo” la legge, poi, l’impegno essenziale è di vigilare affinché le norme siano davvero rispettate e applicate. È il grande tema del controllo democratico (dunque non solo giudiziario e di legalità) che rischia di rimanere
non svolto in un sistema in cui la produzione legislativa è sempre più eterodiretta, cioè determinata da centri distanti dalla sovranità popolare: in alto i “mercati” non meno che le direttive europee e in basso i micropoteri delle agenzie di tutela degli interessi dei più forti. Non è chi non veda come la mancanza del pieno impiego indebolisca il ruolo del sindacato nella sua capacità rappresentativa e propositiva, mentre le rappresentanze dei consumatori sono per loro natura portate a promuovere istanze momentanee e particolari. Le forme di partecipazione previste o escogitate nel tempo, dalla fabbrica alla scuola agli enti locali, cedono il passo a forme sempre più monocratiche di gestione, con il risultato di confinare il ruolo del popolo nel ghetto della indignazione e della protesta. Quando non della contrattazione spicciola, clientelare, dello scambio col... peggior offerente. Ora, se l’analisi sin qui sommariamente accennata ha qualche fondamento c’è da confidare che le energie latenti della società trovino la maniera di manifestarsi, in primo luogo, nell’esercizio di un controllo popolare continuo e propositivo su quanti si impegnano nelle istituzioni. L’assurdità odierna è nel fatto che per un verso si invocano mutamenti profondi nella composizione delle rappresentanze e poi, una volta che queste si sono insediate, avviene una separazione di percorsi. Da una parte il governo, dall’altra il mugugno. I rappresentati lamentano un inaccettabile distacco, i rappresentanti piangono un deplorevole isolamento. Forse è il caso di assumere qualche iniziativa per non lasciarli soli, quantomeno per evitare che… frequentino cattive compagnie. E dunque occorre farsi carico di un accompagnamento virtuoso che inizi – ad esempio – dal conoscere i bilanci comunali e, dunque, si impadronisca della realtà dei problemi, inclusa la fatica del governare, e nel contempo faccia sentire il fiato sul collo degli eletti perché rammentino gli impegni contratti al momento del voto. La sintesi tra dinamica civica, partiti e istituzioni o si realizza in questo crocevia o resta lo stato attuale delle cose. Che, lasciato a se stesso – ne siamo avvertiti – può solo regredire.
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OFFICINA DELLE IDEE
RIFORMULAZIONE DEL WELFARE
Investire in solidarietà è investire in qualità di vita Un grande rischio per il Mezzogiorno e per il Paese è declassare le politiche sociali di Marco Musella
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l tema del terzo settore in questi ultimi anni è stato spesso associato alla questione della produzione e manutenzione di capitale sociale e di capitale umano. Soprattutto quando l’attenzione degli analisti si è concentrata sulle relazioni tra impresa sociale e sviluppo locale, infatti, i “canali” che la letteratura ha messo in evidenza sono soprattutto quelli del contributo alla infrastrutturazione sociale dei territori e delle comunità locali. Il dato della diffusione di organizzazioni non governative spessissimo è stato addirittura usato come
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indicatore della presenza di capitale sociale e molto inchiostro è stato usato per affermare che forti organizzazioni di volontariato, cooperative sociali solide, associazioni di promozione sociale radicate, organizzazioni non governative attive, insieme ad altre realtà della società civile organizzata, offrono un contributo importante, e in qualche modo insostituibile, ad uno sviluppo autonomo, equilibrato e sostenibile di una società attraverso la messa a disposizione degli individui, delle imprese e delle comunità locali di quel capitale sociale linking e brid-
Ripartire dagli utlimi Il terzo settore necessita di un sistema pubblico che sappia coniugare l’investimento di risorse e di programmazione continuativo con la stabilizzazione degli operatori.
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ging tanto importante per la crescita. Un altro elemento spesso sottolineato nel dibattito di questi anni è il contributo del terzo settore alla creazione e manutenzione del capitale umano o, se si preferisce usare le categorie seniane di capabilities e funzionamenti, all’allargamento dello spazio delle capabilities di persone e comunità. Sono almeno tre le ragioni che spingono a sostenere questa tesi: 1. le numerose iniziative di formazione che si realizzano a favore di operatori, volontari e soci di cooperative sociali, organizzazioni di volontariato, associazioni, altre imprese sociali, aumentano senza alcun dubbio lo stock di conoscenze e abilità delle persone; spesso si tratta di conoscenze, abilità e saperi trasversali spendibili anche in altri settori ed in altre attività lavorative e sociali. 2. L’esperienza di coinvolgimento delle persone in attività laProvare a convincere vorative o quasi-lavoancora il prossimo che rative, rappresenta un modo attraverso il esiste un principio terzo quale viene messo in rispetto a Stato e mercato che moto quel potente motore di accumulazione si esprime in istituzioni di conoscenze ed espealtrettanto indispensabili al rienze che è il learning by doing; si tratta di buon funzionamento occasioni per giovani e dell’economia e della società… meno giovani di sperimentarsi in situazioni di lavoro di gruppo, interazioni complesse con il mondo degli utenti. 3. In alcuni casi, l’output delle non profit è un asset di conoscenza o esperienza che fa parte del capitale umano di individui, spesso, come si usa dire, borderline, che con l’organizzazione entrano in relazione come clienti o come utenti dei servizi (si pensi al caso di organizzazioni che agiscono nell’area della tossicodipendenza, del disagio giovanile, a tutta la cooperazione di tipo B o, anche, a quelle organizzazioni che lavorano per favorire la integrazione dei migranti, per fare solo alcuni esempi). Oggi, che la crisi morde con particolare durezza le imprese e le altre realtà organizzate – e che i rapporti tra Stato Nazionale, Regioni e Comuni hanno preso la forma di uno scaricabarile, qualche volta ignobile, di responsabilità su chi finanzia i servizi di cura – cosa cambia in questi ragionamenti?
È ancora vero che il terzo settore sta contribuendo all’accumulazione di capitale umano e di capitale sociale o il processo si è drasticamente interrotto? E la situazione del Mezzogiorno, dove più evidente è la carenza di capitale umano e di capitale sociale? E le politiche pubbliche con che impegno stanno sostenendo persone e organizzazioni per non disperdere il patrimonio di esperienze, conoscenze, fiducia che si è accumulato faticosamente in questi ultimi lustri grazie all’impegno e all’abnegazione di operatori, volontari, imprenditori sociali? Queste e altre domande sono diventate di giorno in giorno più pressanti e dovrebbe essere al centro del dibattito odierno se vogliamo evitare di ripetere all’infinito un refrain che appare sempre più inadeguato a rappresentare la realtà: una realtà fatta di un volontariato organizzato che invecchia sempre più e non sembra avere risorse e strategie per porsi seriamente il problema del ricambio generazionale, di un associazionismo di solidarietà sociale che perde spesso di vista i propri obiettivi e riprende un collateralismo con i partiti (pur se in crisi) che non ne aiuta l’autonomia, di una cooperazione sociale sempre più costretta a scegliere la via, per lei, strettissima di adeguarsi alla logica dei mercato mordi e fuggi per sopravvivere o a dedicarsi alla politica. E noi studiosi del terzo settore combattuti tra il “cambiare mestiere” o provare a convincere ancora il prossimo (colleghi, politici, funzionari pubblici, mondo bancario, e, tante volte, dirigenti dello stesse non profit) che esiste un principio terzo rispetto a Stato e mercato che si esprime in istituzioni altrettanto indispensabili al buon funzionamento dell’economia e della società... Tutto ciò mentre vediamo con assoluta chiarezza chi sono i responsabili di questa crisi economica e di questo naufragio politico e culturale nel quale il terzo settore invece di essere salvaguardato come apportatore di speranze e futuro, viene attaccato in molti modi: si pensi alla chiusura dell’Agenzia per il terzo settore e al trasferimento delle sue competenze all’Agenzia per le entrate e al Ministero del lavoro, ai continui tentativi di ritornar indietro sul fronte del 5 per 1000 e all’azzeramento, praticamente totale, del fondo nazionale per le politiche sociali.
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OFFICINA DELLE IDEE
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Alle domande, proposte in precedenza non possiamo, mi sembra, non dare risposte negative. Sotto gli occhi di tutti noi si è consumata una inversione di tendenza rapida e significativa ed è iniziato un processo di rapida obsolescenza del capitale umano e sociale creato del terzo settore o, nei casi forse migliori per le persone, una significativa trasmigrazione di pezzi importanti di esso verso altri lidi (del pubblico o del privato). Naturalmente non mi sento di affermare che questa mia tesi è suffragata da un riscontro empirico diverso dalla mia personale lettura delle esperienze di gruppo e dagli incontri personali che ho avuto negli ultimi tempi con singole persone che mi è capitato di incrociare in convegni, riunioni o iniziative formative dell’ultimo periodo: operatori sociali disillusi e stanchi, combattuti tra il resistere e il cercare altri impieghi più sicuri e meglio remunerati, alto tasso di litigiosità nel settore, frutto certo dei personalismi dei leader e, qualche rara volta, di contrapposizioni ideologiche, ma soprattutto di un folle sistema di finanziamento (pubblico e privato – locale, nazionale ed europeo) che ha privilegiato le carte piuttosto che le realizzazioni, le appartenenze interessate a circuiti forti piuttosto che la fedeltà ai valori della solidarietà e della gratuità, un sistema pubblico che non riesce a tener fede ad un programma di riformulazione del welfare e dei suoi istituti per più di due – tre anni, vanificando ogni volta tutti gli sforzi, delle volte veramente impressionanti, compiuti per la fase di start-up di iniziative, progetti e programmi. Non tutto è perduto perché siamo, per fortuna, solo all’inizio di questo pericoloso piano inclinato sul quale, come sappiamo, inizialmente la pallina scivola molto lentamente e ancora in tempo per provare ad invertire la tendenza. È necessario però mettere in campo un grande sforzo collettivo per scandagliare con cura e senza false ipocrisie le ragioni di questa crisi profonda, per capirne le ragioni del cuore e della testa degli attori principali e per organizzare una strategia innovativa per rimettere in moto quei processi individuali e collettivi che danno senso all’investimento nella solidarietà e nel dono di se.
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OFFICINA DELLE IDEE
di Marco Staglianò
Le Università partecipano alla formazione dei cittadini C’è bisogno di finanziamenti, collegamento con il territorio e valorizzazione delle risorse locali. Parla Raimondo Pasquino.
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l ruolo del sapere per il progresso sociale di questo nostro Mezzogiorno, il rapporto tra Università e territorio, le occasioni perse nel corso di questi anni e le soluzioni possibili per restituire competitività al nostro sistema accademico. Di tutto questo abbiamo discusso con il Rettore dell’Università degli Studi di Salerno, Raimondo Pasquino. Mentre le regioni centrosettentrionali hanno sempre ospitato, almeno dal Medioevo in avanti, un diffuso sistema di centri di sapere, in Italia Meridionale, per diversi secoli, abbiamo avuto solo la Federico II di Napoli. In che misura, questo nostro Meridione, paga ancora lo scotto di questo ritardo storico? “In maniera ancora sostanziale. Le migliori intelligenze del nostro Sud sono state costrette per secoli a migrare per potersi misurare con il mondo e lo sforzo, che pure c’è stato, di sopperire a quella lacuna spingendo sulla creazione di nuovi centri del sapere nelle regioni meridionali non ha profuso ancora oggi gli effetti sperati. Scontiamo una forma di provincialismo molto difficile da abbattere perché ha a che fare con il mutismo dei nostri territori. Quando un determinato contesto non è reattivo, quando mancano le condizioni sociali ed economiche per coltivare una vera
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integrazione, dunque un dialogo proficuo, tra l’Università ed il territorio al quale ci si rivolge, non c’è spazio per quella dinamicità essenziale ad ogni sapere diffuso. Ci vuole molto tempo e non basta l’accesso libero alla conoscenza offerta dalla rete. C’è bisogno di avvertire quel rapporto nell’aria che si respira e non è un caso se, in Europa ed ancor più nell’Italia centrosettentrionale, molte città sono nate e si sono sviluppate attorno ad un’Università e non il contrario. In quei luoghi l’Università è il vettore centrale delle attività culturali partecipate dalla comunità; laddove, invece, l’Università viene recepita come un corpo estraneo, un di più che nulla ha a che fare con le radici di quella comunità, le sue attività faticano ad integrarsi con la vita culturale della città”. Come se ne esce? “Ci sono alcune importanti realtà del Mezzogiorno dove, seppur con grandi sforzi e alla fine di un percorso molto lungo, si è riusciti ad instaurare un dialogo vero tra l’Istituzione universitaria e il contesto di riferimento. Ciò detto, ragionando in termini generali, credo che occorra ripensare molto dei modelli sonora adottati puntando ad Università piccole, partecipate, con trentamila studenti per trentamila posti a sedere. Il nodo è quello della frequenza e del merito”.
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Ripensare i modelli universitari Abbiamo subito in questi lunghi anni l’egemonia di una visione tecnicistica del sapere che ha penalizzato in maniera traumatica le nostre specifiche vocazione.
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OFFICINA DELLE IDEE
L’Università deve accompagnare gli studenti e non tassarli in funzione delle loro lacune. Il vero nodo è nella prossimità tra Istituzione e studente.
Questo ha molto a che fare con la parcellizzazione del sapere... “Sì, la riforma concepita da Zecchino e Berlinguer puntava ad importare, pur con le dovute specificità, il modello anglosassone. Attribuendo crediti formativi agli studenti a fronte di studio e frequenza, questo era il disegno, si sarebbe dovuto instaurare un rapporto di maggiore prossimità sulla base di un equilibrio proficuo tra diritti, impegno e doveri. Così non è stato perché se da un lato si è puntato su di una parcellizzazione dei corsi di studio dall’altro è saltato completamente il vincolo di frequenza. Abbiamo dato luogo ad una rivoluzione culturale al ribasso nata per svecchiare un modello di formazione ancora troppo legato a schemi consegnati alla storia, ma comunque solido e strutturato, ma che ha finito con il produrre una relativizzazione del concetto di merito. La soluzione, venendo all’oggi, non può essere nella tassazione dei fuori corso così come immaginato da Mario Monti. L’Università deve accompagnare gli studenti e non tassarli in funzione delle loro lacune. Il vero nodo è nella prossimità tra Istituzione e studente”. Se lei fosse Ministro per l’Università quale riforma proporrebbe al Paese?
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“Non mi piace rivendicare meriti ma credo che l’Università debba in primo luogo partecipare alla formazione dei cittadini così come avviene da noi. Il rapporto con il territorio è fondamentale e credo che debba essere coltivato, come le dicevo, in un’ottica di reciprocità. A partire dalla ricerca sia essa di base o applicata. Se la prima va incentivata con dovuti finanziamenti e declinata sempre in seno all’Istituzione la seconda deve essere esternalizzata sui territori in funzione delle specifiche vocazioni degli stessi. Dunque, occorrerebbe in primo luogo intervenire sul versante legislativo per rendere più fluido e semplice il rapporto tra apparati produttivi e accademia e per restituire al sistema finanziamenti adeguati per la ricerca di base. C’è poi un aspetto che io reputo prioritario e che ha a che fare con il rapporto tra il nostro Paese e l’Europa. Vede, noi abbiamo subito in questi lunghi anni l’egemonia di una visione tecnicistica del sapere che ha penalizzato in maniera traumatica le nostre specifiche vocazioni. Siamo l’Italia, siamo la patria dell’umanesimo e dobbiamo rivendicare questo primato, valorizzarlo e costruire attorno ad esso il profilo del Paese che vogliamo. Il che non significa chiudere gli occhi dinanzi alla modernità ma dialogare con essa”.
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Documento sulle problematiche della Università, della scuola e della cultura. I sei Rettori delle Università statali della Campania hanno inteso fornire un contributo dialogico e concreto circa la necessita di focalizzare le problematiche della Università, dell’Alta formazione, della Scuola e della Cultura nel nostro Paese. Un apporto di riflessione puntuale e circostanziata, relativamente a tematiche di estrema rilevanza e di connotazione strategica. Filippo Bencardino (Rettore Università degli Studi del Sannio), Massimo Marrelli (Rettore Università degli Studi di Napoli Federico II), Raimondo Pasquino (Rettore Università degli Studi di Salerno), Claudio Quintano (Rettore Università degli Studi di Napoli Parthenope), Francesco Rossi (Rettore Seconda Università degli Studi di Napoli) e Lida Viganoni (Rettore Università degli Studi di Napoli L’Orientale) considerano fondamentale una chiara indicazione per gli elettori verso un voto utile che determini una maggioranza capace di governare il Paese, soprattutto in ragione di problemi decisivi per il futuro delle nuove generazioni. In riferimento al sistema universitario scrivono i rettori campani – l’unico intervento di questi anni, la legge Gelmini (Legge 240/2010), si dimostrato inadeguato. Mossa da un atteggiamento punitivo nei confronti delle università statali, e sull’onda di un piano di suo screditamento, funzionale al disimpegno finanziario dello Stato, la Legge Gelmini ha affrontato il rapporto tra autonomia e controllo azzerando l’autonomia e calando una camicia di forza di norme uniformi e di esasperato dettaglio sulla complessa pluralità del sistema universitario. Gli atenei sono stati costretti aggiungono i rettori - ad un costoso pro-
cesso di riorganizzazione, secondo un disegno scarsamente condiviso e dall’utilità non dimostrata. Operazione dalla quale sono state tenute al riparo le università private, senza dimenticare le Università Telematiche proliferate in Italia in questi anni, al di fuori di ogni ragionevole strategia di sistema, spesso attingendo a docenti di ruolo nelle Università statali per coprire le esigenze della didattica. In questo contesto, sottolineano i Rettori delle Università campane, molto critica la situazione finanziaria del sistema universitario e della ricerca, a fronte di una politica dei tagli selvaggi che vanno ben oltre l’obiettivo dichiarato dell’eliminazione di sprechi e diseconomie e hanno posto le Università statali italiane in una condizione insostenibile. Essi compromettono ormai lo svolgimento delle funzioni basilari, impediscono non solo il potenziamento ma la conservazione stessa del patrimonio edilizio e strutturale. Impongono, inoltre, la riduzione impietosa delle azioni di sostegno al diritto allo studio, i cui costi qualcuno vorrebbe ora semplicisticamente scaricare sugli studenti stessi, con il famigerato prestito d’onore, meccanismo di dimostrata ridotta efficacia, implausibile nell’attuale situazione di disoccupazione giovanile. Hanno determinato, infine, il ridimensionamento dei finanziamenti destinarti alla ricerca, alla formazione di terzo livello e dei giovani ricercatori. L’idea, cara a molti, che questa drammatica contrazione del finanziamento pubblico possa e debba essere superata grazie agli interventi dei privati illusoria, se non volutamente ingannevole. Smantellare università statale rilevano Rettori degli Atenei della
Campania - significa tagliare alla radice le capacita di ricerca, innovazione e sviluppo culturale del Paese che continuano a trovare nell’Università il loro luogo elettivo e significa disincentivare l’iscrizione dei giovani, ridurre il numero dei laureati italiani, gi troppo basso rispetto ai paesi avanzati, e soprattutto chiudere l’accesso ai livelli pi avanzati di formazione ai giovani provenienti dai ceti meno abbienti. Cos si tradiscono i principi fondamentali della Costituzione e si cancella il ruolo di equo ascensore sociale che l’alta formazione ha finora svolto, pur con tante inadeguatezze. Quali, allora, le proposte che le Università campane chiedono non solo di registrare nell’agenda elettorale ma di intuire come impegno di governo? E necessario, scrivono: un adeguato piano decennale di finanziamento che consenta la ripresa del sistema e, a breve termine, l’apertura a nuove generazioni di ricercatori e il riconoscimento dell’impegno di chi gi lavora nell’Università garantendo la possibilità di legittime progressioni di carriera. Una semplificazione normativa e l’eliminazione della gabbia costruita con la legge Gelmini, che restituisca a ciascuna università la possibilità di strutturarsi in autonomia, scegliendo le forme di organizzazione e gestione pi adeguate alle proprie caratteristiche e dimensioni e al proprio contesto territoriale. Un sistema di controllo e di valutazione trasparente, condiviso, burocraticamente leggero e che si ponga come obiettivo lo sviluppo qualitativo dell’Università statale, non la sua penalizzazione. Una stabilità di politiche d’intervento che consenta al sistema di programmarsi e non lo sottoponga alla necessità di continue e contraddittorie modificazioni.
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OFFICINA DELLE IDEE
di Massimo Adinolfi
La fine delle supplenze. Le strategie del “Professore” e il fallimento del Governo tecnico Il rinnovamento passa per l’uscita dalla condizione di minorità della politica italiana.
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crivo prima di conoscere il risultato delle elezioni politiche del 24-25 febbraio, ma con elementi sufficienti (nonostante il divieto di pubblicazione dei sondaggi) per ipotizzare che la coalizione guidata dal professore Monti prenderà meno voti della coalizione di centro-sinistra, guidata da Bersani, meno di quella di centrodestra, guidata da Berlusconi, e meno anche del Movimento 5 Stelle, guidato, a modo suo, da Beppe Grillo. Ora: cosa significa questo, che posso considerare fin d’ora come un dato? Molte
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cose. Ma una innanzitutto, che merita di essere sottolineata: Mario Monti ha guidato il governo cosiddetto «tecnico» che nell’ultimo anno ha retto le sorti del Paese, dopo la débacle indecorosa del Cavaliere. Con una «strana maggioranza» messa su in forza dell’emergenza e della moral suasion del Quirinale, una maggioranza strana ma molto ampia, vista che comprendeva tanto il PD, quanto il Pdl, l’UDC e FLI. Come deve essere interpretato allora il fatto che il principale responsabile e l’artefice delle politiche di austerità condotte nell’ultimo anno, «sa-
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Il risultato elettorale L’esito elettorale dimostra due cose diverse: da una parte la vanità colpevole del distacco tra consenso ed azione e dall’altra l’errore delle politiche di austerità perseguite con una “ostinazione ottusa”.
Foto di Mauro Pagnano
lito in politica» col proposito di rivendicare anzitutto la bontà della sua azione di governo e l’intenzione di proporre al Paese di continuare sulla stessa strada di rigore e risanamento dei conti pubblici, non abbia raccolto intorno a sé né, prima, componenti significative dei due schieramenti di centrosinistra e di centrodestra (salvo singole personalità), né, dopo, presso l’elettorato, un consenso tanto significativo da modificarne gli orientamenti di fondo? Vuol forse dire che gli elettori sono ingrati e irriconoscenti? Temo che più d’uno sarà tentato da questa
interpretazione. Che, cioè, possa prevalere l’idea che, ancora una volta, in Italia non riescono a sposarsi il consenso politico con le politiche di cui il Paese ha – o meglio: avrebbe – bisogno (per modernizzarsi, per stare in Europa, per tornare a crescere, e via così). Che le maggiori forze politiche sono gravate da troppi fardelli per cui non possono promuovere in prima persona le necessarie riforme strutturali, ma debbono affidarle all’opera surrogatoria di un tecnico, salvo poi sbarazzarsene ipocritamente a emergenza finita. E dunque: una politica ir-
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OFFICINA DELLE IDEE
riformabile, appesantita da corporativismi e clientelismi di varia natura, avrebbe frenato ancora una volta una seria e responsabile spinta riformatrice, il Nuovo che aveva cercato di rompere una buona volta paradigmi logori e ormai inservibili. Orbene, questa chiave di lettura, è, a mio giudizio, sbagliata. E non solo perché è molto discutibile che con Monti e la sua Scelta Civica fosse rappresentata la vera novità della politica italiana, ma perché con essa si corrobora l’idea che le forze e le culture politiche del nostro Paese non siano mai all’altezza dei problemi da affrontare e perché, soprattutto, mostra di mantenere una diffidenza pregiudiziale nei
consapevolezza va diffondendosi, visti gli effetti profondamente recessivi delle misure finora attuate. L’Europa potrà superare la crisi solo se le istituzioni comunitarie sapranno dotarsi di una risposta di segno diverso da quella finora assicurata dai parametri di Maastricht: dai vincoli di bilancio, dall’inasprimento fiscale e dal dimagrimento draconiano della spesa pubblica. In ogni caso, questo è (sarà stato) il giudizio degli italiani. Ma è l’altro punto che intendo sottolineare: la presunzione di poter fare la morale alla politica dietro il paravento di competenze tecniche e presuntamente neutrali. Questo paravento non è stato allestito solo nell’ul-
L’Europa potrà superare la crisi solo se le istituzioni comunitarie sapranno dotarsi di una risposta di segno diverso da quella finora assicurata dai parametri di Maastricht: dai vincoli di bilancio, dall’inasprimento fiscale e dal dimagrimento draconiano della spesa pubblica. In ogni caso, questo è il giudizio degli italiani. confronti dell’esercizio democratico del voto. È l’ideologia dell’anti-italiano, l’idea cioè che i veri italiani si trovano sempre all’opposizione del paese reale, in una posizione minoritaria ma (s’intende) illuminata e moralmente superiore, con la conseguenza che élite dirigente e masse popolari sono destinate, in questo schema, a non incontrarsi mai. È così persino con il Festival di Sanremo, come è stato acutamente osservato: il giudizio popolare premia Marco Mengoni, ma la giuria di qualità assegna invece il primo posto a Elio e le Storie Tese. Divertenti, ironici, intelligenti, ma disponibili a prendere parte alla competizione solo grazie alla possibilità di rivendicare una distanza rispetto alla gara e di esercitare quel sagace distacco che l’esercizio di intelligenza, critica e ironia procura. In realtà, l’esito elettorale dimostra (avrà dimostrato) due cose ben diverse: da una parte, la vanità colpevole di un simile esercizio di distinzione e, dall’altra, l’errore delle politiche di austerità perseguite con un’ostinazione piuttosto ottusa. Per fortuna, vi è su quest’ultimo fronte qualche segnale – in Europa prima ancora che in Italia – che una nuova
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timo anno; accompagna anzi la politica italiana da un bel po’ di anni, persino decenni. Il governo di Mario Monti viene, infatti, dopo le proposte di governi degli onesti avanzate nei primi anni Ottanta, dopo l’invenzione del «partito che non c’è» da parte di Eugenio Scalfari e del quotidiano la Repubblica, dopo le supplenze targate Banca d’Italia (Dini, Ciampi) e Presidenti del Consiglio di cui si potesse rendere non immediatamente riconoscibile la loro provenienza partitica (Amato, Prodi). Si noti: tutte queste iniezioni di professionalità ed autorevolezza hanno riguardato essenzialmente lo schieramento progressista, di centrosinistra, come se per quelle forze politiche non potesse mai giungere il momento dell’uscita dallo stato di minorità, e fosse sempre necessario inoculare un surplus di affidabilità di cui quelle forze non disponevano in proprio. Bene, è giunto il momento di liberarsi di ipoteche e tutele. La riforma della politica (e la fine della seconda Repubblica) passa anche dal definitivo accantonamento di un simile canovaccio. È evidente, infatti, che la crisi italiana è anche una crisi politica, di cui la sequenza sopra ricordata di inca-
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Foto di Carlo Hermann
Prevale l’idea che ancora una volta, in Italia il consenso politico non incontra le politiche di cui il Paese ha bisogno.
richi a termine e facenti funzione è insieme effetto e causa. Ma senza una chiara assunzione di responsabilità e la ricostruzione di un adeguato sostrato culturale, persino ideologico, non basteranno al centrosinistra riforme elettorali e architetture istituzionali per invertire la rotta (o per vedere Sanremo senza sensi di colpa). Quel che è cresciuto durante la seconda Repubblica non è, infatti, la dotazione di risorse politiche alle quali attingere per risollevare il Paese, bensì il loro depauperamento. Che si continua ad alimentare, tutte le volte in cui si pretende di superare la distinzione fra destra e sinistra, e di sostituirla con
quella fra vecchio e nuovo, o fra competenti e incompetenti. Mario Monti, in effetti, ha cominciato la campagna elettorale proprio così, accantonando le distinzioni fondamentali (che hanno valore assiale rispetto alla modernità politica) e dedicando gli ultimi giorni a cercare, sia pure tatticamente, punti di contatto con l’elettorato grillino. Poi mi direte voi se, a quel punto, a fare il pieno dei voti non sarà arrivato, più coerente e spregiudicato del Professore, quello che dà a tutti dell’incompetente e che tutti apostrofa come morti che camminano. Con i più cari saluti alla tecnica (e pure alle buone maniere).
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QUI ED ORA
E se ci fosse stato Renzi? Il dilemma politico italiano, semplicisticamente, con Renzi al posto di Bersani, sarebbe stato: tra i due rottamatori preferito Grillo (l’antisistema) o Renzi (il liberal populista)?
Foto di Alessio Paduano
Nascerà un governo proteso a ricercare al Senato voti grillini su provvedimenti concordati in una navigazione a vista? Nell’una e nell’altra ipotesi si tratterà comunque di “governicchi”.
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di Ernesto Mazzetti
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di Umberto De Gregorio
Il PD deve ripensare se stesso
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rocetta eletto presidente ma non ha la maggioranza”, cosi sintetizzava il Corriere della sera il risultato elettore in Sicilia il 30 Ottobre 2012. In altre parole “ingovernabilità”. Grillo primo partito e dietro di lui una serie di partiti con caratteristiche politiche tanto eterogenee da non lasciare intravedere spazio per una qualsivoglia maggioranza di una qualche solidità.
In Italia è storia antica, vince (in politica) chi indovina contro chi o che cosa e come schierarsi
il punto ERRORI E PROSPETTIVE
POLITICI DI CARRIERA e politologi in servizio attivo si alternano nei non-stop televisivi post elettorali palesando sentimenti oscillanti tra delusione (centrosinistra), soddisfazione temperata dalla preoccupazione (centrodestra), sconcerto (montiani). Quanto al vincitore assoluto Grillo, più che all’euforia appare incline a propositi minacciosi: vuole che tra qualche mese vadano a casa anche i superstiti della vecchia nomenclatura. Tutti. C’è da riflettere sulla genesi della situazione determinatasi. La politica, come la storia, non si fa con i se. Non esclude, però, ragionamenti sulle responsabilità, partendo da quell’autunno del 2011, quando ci si avvide che l’Italia era afflitta da un cancro finanziario. Congiuntura negativa, deficit crescente, aumento degli interessi da pagare per vendere i titoli con i quali lo Stato provvede alle spese correnti. Pressato all’interno e dall’Europa il premier Berlusconi passò la mano. Non c’era maggioranza alternativa. Giocoforza tornare alle urne, affinché fossero gli italiani a decidere cure e medici con i quali affrontare il problema. Tuttavia il Presidente della Repubblica, nell’intento di affrontare la crisi finanziaria mantenendo in vita la legislatura vigente, optò per affidare le terapie del caso ad un governo tecnico. Aderì Bersani, capo dell’opposizione, che pur avrebbe potuto essere il massimo beneficiario di nuove elezioni. Si associò Berlusconi, che vedeva sfilacciarsi i resti della sua maggioranza. I quindici mesi successivi, quelli del governo dei professori capeggiati dal neo senatore a vita Monti, tecnico sempre più proteso al protagonismo politico, si sono rivelati deleteri. Rigore senza crescita, tasse, crisi di industrie e commerci, disoccupazione crescente, blocco dell’edilizia hanno innescato
una miscela esiziale nella psicologia di massa degli italiani. Disagio sociale e spregio della politica “politicante” hanno fatto lievitare il grillismo: ha superato non solo gli esiti elettorali dei partiti tradizionali, ma anche la cifra delle astensioni. Spiace che Napolitano, ch’è stato un Presidente di alto prestigio, esca dal Quirinale ritrovandosi in un Paese disorientato e di governabilità precaria. Cui si guarda con apprensione al di là delle Alpi e dell’Atlantico. Mediterà sui suoi errori Bersani. Rifletteranno con amarezza quanti confidavano, come Ingroia, nella sinistra giustizialista. Un governo ci sarà: non può non esserci in uno Stato moderno. Per formarlo si dovranno prima nominare i presidenti di Camera e Senato. E non sarà facile. Poi l’incarico toccherà a Bersani, né a Napolitano è dato altrimenti. Nascerà un “governissimo” da un accordo – faticoso e temporaneo – tra centrosinistra e centrodestra? Con obiettivo primario di approntare una nuova legge elettorale ed eleggere il nuovo Capo dello Stato? Gongolerebbe – dicono – Grillo, convinto di suoi ulteriori successi in una tornata elettorale a breve. Nascerà un governo proteso a ricercare al Senato voti grillini su provvedimenti concordati in una navigazione a vista? Nell’una e nell’altra ipotesi si tratterà comunque di “governicchi”. Difficile ipotizzare riforme impegnative, salvo forse quella sui meccanismi elettorali e il dimezzamento dei parlamentari. Presumibile la ricerca di accordi su modifiche da apportare a riforme recenti, quelle del governo Monti: Imu, lavoro, esodati, scuola. Presumibile blocco di opere pubbliche (Tav, gassificatori, termovalizzatori). E il Mezzogiorno? Probabile proseguimento d’una stasi esiziale.
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QUI ED ORA
Vincitore assoluto in Sicilia cinque mesi fa era stata l’antipolitica: l’astensione al 53 per cento e, del 47 per cento dei votanti, il 15 per cento sceglieva Grillo. Fatti due conti il voto contro i partiti arrivava in Sicilia ad oltre il 60 per cento della base elettorale. Un triste presagio, superficialmente sottovalutato, per le ultime elezioni politiche nazionali. Di fronte a questo quadro, la soddisfazione di Bersani lasciava davvero sbalorditi. La vittoria del candidato del PD è frutto dell’alleanza con Casini: “l’alleanza con il centro moderato è ineluttabile”, cosi commentava Bersani; ed allora come conciliare quest’affermazione con l’accordo strategico con Vendola che continuava a gridare ai quattro venti che Monti era il nemico e Casini non un possibile alleato? Qualcosa non quadrava, era chiaro. Quello che non quadra con evidenza
Nel Mezzogiorno il risultato del centrosinistra è addirittura disastroso. Il PD perde 9/10 punti rispetto alle elezioni del 2008. La linea politica è stata di attesa, di non dire di non prendere posizioni. oggi è che il PD – con l’attuale sua identità, strategia politica, modello di comunicazione e classe dirigente – non è in grado di garantire risposte capaci di porre un freno al dilagare dell’antipolitica e del populismo. Grillo vuole la rottamazione dei politici italiani, nessuno sembrava essere in grado di arginare il suo grido tanto rabbioso quanto ascoltato. Nessuno tranne forse Matteo Renzi, da alcuni accusato di essere populista nel linguaggio e nello stile, eppure l’unico, a voler dare credito ai sondaggi che circolavano nei giorni delle primarie, che – se avesse superato le primarie – avrebbe stravolto la geografia politica cristallizzata dei partiti storici ed allargato il consenso del PD, riuscendo forse a portare questo partito al 40 per cento – recuperando voti tra gli stessi grillini, i delusi di Berlusconi e della lega, gli “astensionisti per necessità” (vista l’assenza evidente di ricambio dei nomi in campo). Il dilemma politico ita-
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liano, semplicisticamente, con Renzi al posto di Bersani, sarebbe stato: tra i due rottamatori, preferite Grillo (l’antisistema) o Renzi (il liberal-populista di sinistra postmontiano)? Le primarie del PD in questo senso sono state un vero e proprio referendum tra continuità e rinnovamento. I dirigenti del PD, pur di conservare lo status quo, hanno fanno finta di non capire cosa accadeva nella società civile, hanno preferito coltivare i loro orticelli, ed hanno stilato regole per le primarie allo scopo preciso di scoraggiare l’afflusso alle urne dei non tesserati. Il rischio di dover rimpiangere questa “chiusura” era evidente, ma si è preferito confidare che gli italiani si sarebbero turati il naso ed al populismo di Berlusconi e Grillo avrebbero preferito la serietà e l’usato sicuro di Bersani. Come ha scritto Mauro Calise, Renzi rappresentava un “populismo soft” in grado di intercettare i voti in uscita verso Grillo. In Italia, è storia antica, vince (in politica) chi indovina contro chi o che cosa bisogna schierarsi. Grillo si è schierato contro i politici, né ha chiesto la decapitazione e la riduzione degli emolumenti. In campagna elettorale questo era l’unico tema sensibile, un tema appena presente nei comizi dei leader democratici. Naturalmente questo è un modo poco costruttivo di fare politica, che non rende al Paese. I problemi vengono al pettine quando l’essere “anti” non basta più. Così è stato per il centrosinistra quando l’anti-berlusconismo non è stato più abbastanza. Berlusconi, invece, si è aggiornato: la sua parola d’ordine non è più l’anticomunismo ma l’antisinistrismo. Sì, perché se è vero che di tanto in tanto Silvio parla ancora del “comunismo”, in realtà il suo bersaglio preferito oggi è il “sinistrismo”, quell’atteggiamento conservatore della sinistra massimalista per il quale le regole non si toccano, gli imprenditori vanno imbrigliati, i sindacalisti sono una razza divina. Tutti miti che agli italiani stanno molto stretti, e non da ieri. Nel Mezzogiorno il risultato del centro sinistra è addirittura disastroso. Al senato tutte le regioni, con l’eccezione della Basilicata, sono state assegnate a Berlusconi. La Campania non fa eccezione. Alla Camera, nella circoscrizione “Campania Uno”, il PD si ferma al 21,8 per cento (quattro punti in meno rispetto al dato nazionale) ed è il terzo partito dopo il PDL e Grillo. La partecipazione crolla di quasi dieci punti percentuali rispetto alle elezioni del 2008. Il PD perde rispetto alle elezioni del 2008 quasi
Foto di Salvatore Laporta
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La sconfitta viene da lontano Rispetto ai dati disastrosi delle comunali a Napoli del 2011, quando venne eletto sindaco De Magistris sulle macerie delle primarie farsa tra Cozzolino e Ranieri, la situazione non è cambiata. A nulla è servito un lungo commissariamento, a nulla sono servite le primarie per i parlamentari, controproducenti .
nove punti percentuali ed oltre duecentomila voti (passando dai 500 mila del 2008 ai 300 mila del 2013). Rispetto ai dati disastrosi delle comunali a Napoli del 2011, quando venne eletto sindaco De Magistris sulle macerie delle primarie farsa tra Cozzolino e Ranieri, la situazione non è cambiata. A nulla è servito un lungo commissariamento, a nulla sono servite le primarie per i parlamentari, controproducenti addirittura risultano i nomi calati dall’alto da Roma ed inseriti nel cosidetto “borsino”. D’altronde quale è stata la posizione politica del partito regionale e provinciale sulla giunta Caldoro e su quella De Magistris? La linea politica o non c’è stata oppure è stata ondivaga. La scelta del PD campano e napoletano in particolare, con ancor più evidenza rispetto a quella del partito nazionale, è stata una scelta di chiusura e di ripiegamento su se stesso. I dirigenti ed i segretari sono stati tanto attenti ed assorbiti dal ruolo di semaforo per regolare il flusso delle correnti interne, quanto assenti nel dibattito pubblico esterno. La linea politica è stata di attesa, di non dire, di non prendere posizione. Una linea di chiusura e di assenza dal dibattito politico ed amministrativo (anche sui temi sensibili come la chiusura del lungomare a Napoli) che ha portato all’allontanamento dell’elettorato dal partito. Il PD viene dai più percepito come un corpo estraneo; anche coloro che lo hanno votato lo hanno fatto chiudendosi a volte il naso, altre volte naso ed orecchie. Il PD in Campania aveva avversari teoricamente molto deboli sulla carta. Il PDL senza Cosentino, un Sindaco a Napoli senza più consenso. Eppure non è riuscito ad intercettare alcuna simpatia, per mancanza di linea politica, per inerzia, per scarsa visibilità e capacità di comunicare all’esterno. I trecentocinquantamila voti che sono mancati all’appello in Campania rispetto al 2008 (200 mila nella circoscrizione due e 150mila in quella due) hanno preferito non votare o votare Grillo. E si sbaglierebbe di grosso a pensare che Grillo sia populismo destinato a durare il tempo di una legislatura, perché il vento della cosidetta antipolitica è un vento che non scemerà sino a quando il partito storico del centro sinistra non deciderà di ripensare se stesso. Il vero vincitore di queste elezioni in Campania è Caldoro, che si trova rafforzato nella sua parte politica e con un’opposizione disorientata e frantumata.
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I RIFLESSI DEL VOTO NELLE AREE INTERNE
Cosa cambia in Campania 2? Un buon elettorato del PD sceglie Grillo. Il PDL perde 380 mila voti e paga il prezzo più alto di Massimiliano Bencardino
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l ciclone Grillo investe la Campania così come tutto il resto d’Italia determinando significativi cambiamenti nel collegio Campania 2, seppur lasciando inalterati gli equilibri tra Centrodestra ed Italia Bene Comune. La velocità e l’omogeneità con cui il consenso al Movimento Cinque Stelle si è diffuso è sicuramente un dato di grande rilevanza. Infatti, il consenso è stato significativo ed in linea con il dato nazionale tanto nelle aree costiere quanto nelle aree interne, solitamente più riluttanti a grossi stravolgimenti elettorali. Si tratta, quindi, di un consenso senz’altro favorito dalla legge elettorale e dalla mancanza delle preferenze che premia i leader nazionali più efficaci e poco lascia alle candidature locali. Il Movimento Cinque
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Stelle, infatti, raggiunge percentuali in doppia cifra in tutte le province del collegio, nelle città come nei comuni periferici. La percentuale più alta la raggiunge nella provincia di Benevento con il 22,3%, la più bassa in provincia di Avellino con il 19,3%. Percentuali omologhe per quanto riguarda i capoluoghi, a Benevento il 26,9%, ad Avellino il 18,81%, a Salerno il 23,5% ed identico voto a Caserta. Altro dato significativo del M5S riguarda la differenza tra il risultato della Camera e quello del Senato, a chiara prova di essere riuscito ad intercettare meglio degli altri il voto giovanile. In virtù di questo successo elettorale il movimento di Grillo porta in Parlamento 4 deputati e 5 senatori. Alla Ca-
mera sono quindi eletti i salernitani Tofalo, Pisano e Giordano e l’avellinese Sibilia. Probabilmente il dato politico più rilevante nel collegio è il tracollo dell’UDC che ha portato il vice presidente della giunta regionale Giuseppe De Mita, nipote ed erede politico di Ciriaco De Mita, ad essere, da secondo in lista, il primo dei non eletti. L’UDC è tra i partiti che hanno pagato di più, in termini di consenso elettorale, questa rivoluzione avvenuta il 24 febbraio che, di fatto, ci porta nella Terza Repubblica. La debacle inizia proprio dall’Irpinia, da sempre feudo del partito, dove passa dal 14% all’8,9%, perdendo più di 15’000 voti e quasi dimezzando la sua forza politica, e continua omogeneamente in tutte le province del collegio, attestandosi sul 4,7%, a fronte del 7,5% del 2008. Non è bastato all’UDC nemmeno candidare capolista il Ministro delle Politiche agricole Mario Catania, il quale si è fatto ben conoscere nel suo mandato ministeriale per l’importante ddl “Salva suolo”, decreto, approvato nel mese di settembre dal Consiglio dei Ministri, che porta il suo nome e che legifera in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo. Catania risul-
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tato comunque eletto sia in Campania 2 che nel Veneto e rientra, dunque, nella piccola pattuglia di persone (otto) che l’UDC porta a Montecitorio, in virtù del superamento della soglia critica del 10% da parte della coalizione Monti. Proprio la sua doppia elezione potrebbe riaprire quindi le porta a De Mita, qualora egli optasse per il collegio veneto. Due, poi, i montiani eletti, Cesaro e D’Agostino, in virtù del 6,9% raggiunti dalla lista Monti che probabilmente raccogliere anche una parte dei voti centristi persi dall’UDC. Se politicamente l’arretramento dell’UDC sembra essere il dato politico
La debacle dell’UDC inizia dall’Irpinia, da sempre feudo del partito, dove passa dal 14% all’8,9%, perdendo più di 15.000 voti e quasi dimezzando la sua forza politica, continuando in tutte le province del collegio, attestandosi sul 4,7%. più forte, numericamente è il PDL a pagare il prezzo più alto, fermandosi al 28%. Il PDL perde, infatti, circa 380’000 voti nel collegio rispetto alle precedenti politiche (quando si attestava al 49,5%) e 195’000 voti rispetto alle Europee del 2009 (43,6%), registrando rispettivamente un meno 48% e meno 32%. Il PDL, pur essendo ancora il partito di maggioranza relativa nel collegio e pur registrando un dato politico superiore alla media nazionale (21,6%) e sebbene la coalizione di centrodestra si confermi la più forte in tre delle quattro province, alla Camera prende solo 6 seggi contro i sedici che aveva e perde due dei 18 scranni che occu-
pava a Palazzo Madama. Risultano quindi eletti alla Camera la salernitana Carfagna, la beneventana De Girolamo, a Caserta vengono riconfermati l’ex senatore Sarro e la deputata Petrenga, il catanese Attaguile, candidato in Campania 2, e Luca D’Alessandro, capo ufficio stampa del Popolo della libertà, anch’egli catapultato nelle liste campane. Tra i non eletti l’ex UDEUR Pisacane, il salernitano Pepe, ed il beneventano Formichella. Più folta la pattuglia al Senato dove, tra i 16, risultano eletti i salernitani Esposito e Longo, consigliera regionale, l’avellinese Sibilia, attuale presidente della Provincia, ed il casertano D’Anna. Sperano in una riconferma i salernitani Fasano e Cardiello, primi tra i non eletti, in virtù delle possibili diverse scelte dei capilista Berlusconi e Nitto Palma. Più serena ma non troppo può essere l’analisi del voto in casa Pd. Il partito infatti perde 150’000 voti nel collegio rispetto alle precedenti politiche (il 21,9% rispetto al 28,3%), con un arretramento del 30% in ogni provincia, ed accusa un voto inferiore al dato nazionale (25,4%), ma tiene rispetto alle Europee del 2009 (22,2%) ed alle regionali del 2010 (21,2%). Si può dire, quindi, che le difficoltà del PD in Campania non nascono oggi, anzi in questa tornata sono state piuttosto ammortizzate. Risulta evidente, però, che vi sia un elettorato che inizialmente si rivolgeva al PD, ma, che è invece prima confluito sul voto per De Magistris alle Europee ed oggi, inevitabilmente, finisce anch’esso nel voto di protesta del movimento di Grillo. Vi è, dunque, una indubbia sofferenza a sinistra a cui il PD non ha saputo dare risposta. Le percentuali del partito si fermano al 24,4% in provincia di Avellino, al 23,2% a Benevento, al 22,4% a Salerno ed al 19,5% a Caserta. Il successo nazionale alla Camera, anche se non confermato in un omologo risultato in regione, fa sì che oggi il PD campano possa portare in Parlamento ben 12 candidati in Campania
2, contro i 9 che aveva. Diversa la situazione al Senato dove invece, in virtù del premio di maggioranza su base regionale, perde 5 dei 10 senatori. Si aprono le porte di Montecitorio, quindi, a Enrico Letta, al giovane segretario regionale Amendola, ai salernitani Bonavitacola, Iannuzzi (uscenti) a cui si aggiungono i giovani Valiante e Capozzolo, all’atleta paralimpica Coccia, agli avellinesi Paris e Famiglietti, all’ex Segretario generale dell’Anci Rughetti, al beneventano De Caro, nonché alla casertana Picierno. Al Senato trovano spazio, tra gli altri, la salernitana Saggese e la famosa giornalista Rosaria Capacchione. Tra i partiti minori bisogna segnalare il risultato della neo formazione Fratelli d’Italia che qui conquista una percentuale quasi doppia a quella nazionale e che le consente di eleggere il dimissionario presidente della provincia di Salerno, Edmondo Cirielli. Mantiene Sinistra ecologie e libertà, la formazione politica di sinistra che fa capo a Vendola, la quale seppur in flessione riesce ad eleggere ben due deputati in virtù dell’apparentamento con il PD. SEL, che vedeva il proprio leader capolista nel collegio, raccoglie un numero di consensi inferiore a quelli delle Europee 2009, probabilmente in virtù di un ormai spento effetto traino del leader che invece c’era stato allora, passando dal 4,5% delle Europee al 3,2% attuale. Né d’altronde SEL è riuscito a raccogliere il voto di dissenso in fuga dal PD, apparendo forse troppo appiattita ad esso. Solo nella provincia di Avellino il risultato di SEL supera il 4%, probabilmente in virtù di una legge elettorale che impegna maggiormente le forze politiche laddove i candidati sono in “posizioni di lotta” nelle liste elettorali. SEL porta, dunque, in parlamento il salernitano Ragosta e molto probabilmente proprio l’avellinese Giordano, il quale, arrivato terzo, sarà eletto in virtù della rinuncia al seggio del capolista Nichi Vendola.
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OPINIONI A CONFRONTO A cura di Marco Staglianò
In che misura è mutato il ruolo dei partiti nella selezione delle classi dirigenti rispetto alla Prima Repubblica? In che termini le trasformazioni intervenute sul terreno dell’organizzazione partitica hanno influenzato i meccanismi di partecipazione alla vita politica?
Gianfranco Rotondi “Negli anni della Prima Repubblica i partiti selezionavano le proprie classi dirigenti in funzione di due principi: quello della territorialità e quello della gradualità. Volendo semplificare, si partiva sempre da un seggio in Consiglio Comunale, al quale era possibile ambire solo dopo una lunga e faticosa gavetta di militanza, per passare ai livelli immediatamente superiori nella misura in cui il partito ti riconosceva questa possibilità sulla scorta di quanto dimostrato nel ruolo sin lì esercitato. Tuttavia, anche a quei tempi esistevano meccanismi di cooptazione. Meccanismi rispettosi dei principi sopra citati ma comunque esercitati in ossequio ad una logica verticistica: io, per esempio, non sarei stato nulla senza Gerardo Bianco. Con il passaggio dal proporzionale al sistema delle liste bloccate, la territorialità d’un tempo è stata sostituita da una territorialità versatile. Ci si candida laddove se ne ha la possibilità, non c’è più la necessità di rispettare il vincolo di appartenenza ad una comunità. Questa deriva, ovviamente, ha spazzato via ogni gradualità. Possedere una professionalità politica è divenuto un handicap perché risulta d’intralcio al verticismo dominante. Nel corso di questi decenni abbiamo assistito persino a casi paradossali come quelli di alcune personalità, estranee alla politica militante, che hanno fatto la propria comparsa sul mercato della politica prima ancora di scegliere il partito per il quale farsi votare”.
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Possedere una professionalità politica è divenuto un handicap perché risulta d’intralcio al verticismo dominante.
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Enrico Letta
La posizione del Partito Democratico è chiara. Non abbiamo mai voluto questa legge.
“I meccanismi di selezione delle classi dirigenti nei partiti sono profondamente mutati con enormi e nefaste conseguenze per il Paese. Se nel corso della Prima Repubblica maturavano gradualmente e dal basso con la fine di quel sistema ed il passaggio dal proporzionale al maggioritario il conflitto ha lasciato il posto alla cooptazione, la gradualità al verticismo, il merito alla cosmesi. Fino alla prima metà degli anni novanta il percorso era obbligato: si partiva dalla militanza, dunque da un percorso strutturato di formazione e ci si misurava, tappa dopo tappa, nel confronto e nella disputa. Oggi non è più così ed il porcellum ha posto le condizioni per il disastro definitivo. La posizione del Partito Democratico è chiara e non da oggi. Non abbiamo mai voluto questa legge e da sempre ci diciamo convinti della necessità di introdurre il doppio turno con collegio perché riteniamo indispensabile, oltre che garantire la governabilità e allo stesso tempo la rappresentanza, reintrodurre principi che garantiscano un rapporto di prossimità tra eletti ed elettori. Oggi il servizio legato alla politica è svilito, dilaga il pregiudizio nei confronti di chi offre il proprio contributo nelle istituzioni attraverso la rappresentanza democratica. Occorre invertire la rotta restituendo dignità e valore alla politica”.
Ciriaco De Mita “I giocatori bravi sono quelli che fanno gol e non quelli che potrebbero fare gol. Le classi dirigenti emergono solo dalla contesa, ovvero dal confronto tra visioni strategiche e percorsi politici alternativi seppur nel contesto di una medesima cornice valoriale. Erano processi complessi e lunghi, maturavano nel dialogo e nell’elaborazione e dunque finivano nel tradursi nell’inclusione. Questo, tuttavia, era possibile fin quando esistevano i partiti che ora non ci sono più. Perché i partiti erano innanzitutto luoghi di dialogo e di crescita collettiva, luoghi di elaborazione che si alimentavano nel conflitto. Che non era mai un conflitto ad escludere perché figlio di una reciprocità autentica. Venendo all’oggi, noi viviamo una condizione simile a quella del dopoguerra ma allora c’erano due grandi partiti, la DC e il PCI, che dialogavano sulla base di un disegno definito di progresso collettivo. Oggi quel disegno manca e andrebbe recuperato tornando alla politica, ovvero al pensiero. Era quella la condizione necessaria per quella reciprocità che alimentava il conflitto sia esso in termini di confronto tra i partiti che all’interno degli stessi tra posizione alternative. Venendo meno quella ogni contesa è sterile”.
Le classi dirigenti emergono dal confronto, senza confronto ogni contesa è sterile.
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QUI ED ORA
Foto di Salvatore Laporta
È MUTATA LA GEOGRAFIA REGIONALE DEL VOTO
L’Italia bloccata, l’Italia liberata.
Se De Magistris finisce in Belgio Tra sorprese e attese nelle statistiche sulle elezioni politiche 2013. di Francesco De Pretis
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ome riassumere il risultato elezioni politiche italiane del 2013? Con uno slogan breve e significativo: De Magistris è arrivato in Belgio. Già, ma che c’entra De Magistris? E che ci azzecca (come avrebbe detto qualcuno ormai fuori da Palazzo Montecitorio) il Belgio?
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È presto detto: nelle elezioni politiche dello scorso weekend, il protagonista nuovo fra tutti, l’indipendente fra i due duellanti storici Bersani e Berlusconi, è stato Beppe Grillo che con il 23,79% al Senato della Repubblica ed il 25,55% alla Camera dei Deputati ha raggiunto un risultato impensabile fino a poco tempo fa. Pro-
Il Belgio, infatti, ha vissuto fino a pochissimo tempo fa, una crisi istituzionale durata ben 541 giorni (record, ad oggi, mondiale) nella quale si sono succeduti diversi mandati esplorativi con risultati quasi sempre totalmente inconcludenti.
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prio come Luigi De Magistris, l’ex-magistrato prestato alla politica ed oggi sindaco di Napoli, che dopo aver sbaragliato prima Mario Morcone in area PD-SEL e poi Gianni Lettieri del PDL, è riuscito nell’ormai lontano (politicamente parlando) 2011 a ribaltare ogni possibile previsione, riuscendosi a sedere sullo scranno più alto di Palazzo San Giacomo. Ed il Belgio? Qui il paragone si fa più fine: Grillo, a differenza di De Magistris e data anche la diversa conformazione della legge elettorale fra amministrative e politiche (il tanto biasimato ma ad oggi ancora in uso “porcellum”) rischia di consegnare l’Italia ad uno scenario “belga”. Il Belgio, infatti, ha vissuto fino a pochissimo tempo fa, una crisi istituzionale durata ben 541 giorni (record, ad oggi, mondiale) nei quali si sono succeduti diversi mandati esplorativi con risultati quasi sempre totalmente inconcludenti. Motivazione: tre blocchi sociali-etnici hanno di fatto bloccato il Il Mezzogiorno orbita parlamento di Bruxelancora les, impedendo l’insediamento di un governella galassia no che potesse contare berlusconiana. sulla fiducia di almeno il cinquanta perNel Nord il centrodestra cento più uno dell’arperde Piemonte co costituzionale. Se confrontiamo tale e Friuli Venezia Giulia. situazione con quella È rosso il Lazio. oggi italiana, il parallelo è tanto impressionante quanto prevedibile. Rispetto alle elezioni politiche del 2008, il Movimento 5 Stelle è emerso come il vero terzo polo all’interno del bipolarismo muscolare che ha retto l’Italia all’indomani di Tangentopoli, provocando una rottura nella geometria politico-istituzionale che aveva retto finora la cosiddetta Seconda Repubblica. Nel 2008, infatti, lo scenario postgoverno Prodi II aveva consegnato all’Italia un parlamento di fatto retto da una maggioranza “bulgara” a favore della coalizione PDL-Lega Nord-MPA (circa il 47% dei voti sia al Senato che alla Camera pari a 344 deputati e 174 senatori) contro un risultato decisamente più modesto per
la coalizione PD-IDV (circa il 38% dei voti sia al Senato che alla Camera pari a 247 deputati e 134 senatori) che imponeva, in ogni caso tale coalizione come diretta opposizione al blocco guidato da Silvio Berlusconi. Unica forza parlamentare al di fuori degli schemi del Bipolarismo figurava l’UDC che con circa il 5,5% sia alla Camera che al Senato poteva contare su di una sparuta pattuglia di 36 deputati e 3 senatori. A livello regionale, il voto del 2008 dipingeva un’Italia spaccata in tre tronconi, pari all’incirca alla suddivisione Nord, Centro e Sud, caratterizzata da una predominanza della coalizione PDL-Lega Nord-MPA sia al Sud (eccetto la Basilicata) che al Nord (unica eccezione la rossa Emilia Romagna) ed un centro per lo più a macchie rosse, con Toscana, Marche e Umbria saldamente in mano alla coalizione PD-IDV. La fascia più centrale del Lazio, dell’Abruzzo, del Molise e della Sardegna vedeva un parziale testa a testa fra le due coalizioni, con uno scarto che di fatto non superava il 5%. Il voto del 2013, paradossalmente, ha visto un leggero mutarsi della geografia regionale del voto (un Nord che di fatto ha visto perdere al centrodestra due regioni come il Piemonte ed il Friuli-Venezia-Giulia) ed un Sud praticamente immutato, le cui regioni orbitano sempre nella galassia berlusconiana (con sempre l’eccezione della Basilicata). Ciò che è stato veramente nuovo ed impensato, è stato il successo di Grillo che ha ridimensionato pesantemente i due blocchi del centrosinistra e del centrodestra che fino ad oggi – come allora Morcone e Lettieri – hanno vissuto da protagonisti e dominus indiscussi la vita politica del Bel Paese: il centrosinistra ha raggranellato circa il 30% dei voti sia a Camera che Senato (-8% in media dunque rispetto alle Politiche del 2008) e così pure il centrodestra (-17% in media rispetto al 2008). Sotto tono e paragonabile alla sparuta pattuglia UDC del 2008, il risultato della lista Monti (circa il 10% nei due rami del Parlamento). Le elezioni 2013 consegnano dunque all’Italia un nuovo scenario: quello di un nuovo De Magistris, ma in salsa belga.
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OLTRE LE MURA DELL’INDIFFERENZA: VIAGGIO NEL CARCERE CAMPANO 64 |
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di Valeria Aiello
Alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà non il diritto alla dignità!
Foto di Salvatore Laporta
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ccade lì , nel carcere, in quella bolgia drammatica che la legge immagina come luogo di rieducazione e che, spesso, si trasforma in palestra di criminalità. Lì dove le pareti di una cella, piccola e affollata, diventano tua madre, tuo padre, un amico. Perché a loro, ai detenuti, non è concesso avere affetti, se non dentro quei pochi metri quadri, che diventano tutto il loro mondo, fino ad impazzire. Si può impazzire in un carcere dove i letti a castello hanno raggiunto sette livelli di altezza, dove le mura trasudano acqua e umidità, dove le condizioni igienico-sanitarie sono così avvilenti da avvicinarsi a quelle del terzo mondo. Ma tutto questo è ben noto al Ministero di Giustizia che ogni anno affida ad Antigone, l’Osservatorio sulle condizioni dei detenuti, il compito di visitare tutti gli istituti di pena presenti sul territorio nazionale. Dal rapporto si evince chiaramente lo stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario, anche se questo risale al 13 gennaio 2010. “Ma come è possibile tutto questo?” si interroga l’avvocato Riccardo Polidoro, Presidente dell’Associazione Onlus “Il carcere Possibile”. Nata nel 2003 come progetto della Camera Penale di Napoli, l’associazione persegue il fine di solidarietà sociale, civile e culturale nei confronti della popolazione detenuta, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 27: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”; “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Eppure “ciò non accade nonostante - afferma Riccardo Polidoro - gli avvocati conoscano la realtà del carcere. Ascoltano dalla voce dei loro assistiti realtà non immaginabili, raccolgono le proteste dei familiari e sono testimoni della
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presa di coscienza che avviene quando una persona cara viene privata della libertà. Solo allora, infatti, la gente apre gli occhi sul mondo del carcere e chiede “ma come è possibile?”. Il carcere italiano necessita di urgenti interventi strutturali. Lo stesso Ministro Severino ha manifestato seri intendimenti in tale direzione. A tal proposito Adriana Tocco, Garante dei diritti dei detenuti, ha più volte espresso l’illegalità delle condizioni delle pene detentive. “Bisogna chiedere interventi urgenti al Governo, al Parlamento e al Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il sovraffollamento impedisce la cura della salute, dell’affettività, della rieducazione, del lavoro, tutti i diritti di una persona, costituzionalmente garantiti. A questo si aggiunge la lentezza della giustizia e
Voci di dentro, testimoni di solidarietà. Intervengono: Adriana Tocco, P. Carlo De Angelis, Riccardo Polidoro, Antonio Mattone e Maria Luisa Palma le restrizioni economiche cui è sottoposta l’amministrazione penitenziaria”. Dal punto di vista legale sono auspicabili alcune soluzioni: “accanto e prima di un’ampia amnistia, potrebbero essere adottati urgenti provvedimenti di riduzione del sovraffollamento, intervenendo sulla cosiddetta legge Cirielli e sulla “Fibi-Giovanardi”. Una legge che - conclude il garante - punisce col carcere anche solo il consumo di droga; una sua modifica in senso meno restrittivo svuoterebbe le carceri in maniera significativa”. Ma il sovraffollamento è la punta dell’iceberg delle condizioni dei detenuti. Fattore fondamentale è permettere loro un reinserimento nella società, dopo aver acquisito competenze lavorative, attraverso corsi di formazione, attività culturali, musicali, sportive, di pittura e teatrali. Ed è quanto avviene ogni anno, con l’aiuto di aiuti e supporti esterni, nella casa cir-
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condariale di Benevento. Direttrice della struttura è Maria Luisa Palma, molto attenta alle problematiche inerenti il mondo carcerario. “A Benevento, fortunatamente, non esiste il problema del sovraffollamento dell’istituto”. Questo aspetto permette un più facile percorso di rieducazione e di reinserimento, seppure, secondo la direttrice, gli enti pubblici, il privato sociale, la Chiesa, non si impegnano concretamente per modificare lo stato delle cose. “La conseguenza sarà la recidiva da parte di questi soggetti. In tali situazioni, con interventi appropriati, è possibile una scelta diversa da parte dei detenuti”. Una scelta è possibile, basta indicarla a volte. “Molte sono le tristi storie di soggetti per i quali il carcere è divenuta la loro unica casa e gli educatori e i poliziotti la loro famiglia, in quanto non hanno nessuno fuori dalla casa circondariale” - testimonia Maria Luisa Palma - con evidente commozione. “Queste vicende mi rattristano molto. Uno degli elementi più significativi del trattamento dei detenuti è rappresentato dal rispetto del loro credo religioso. Spesso si affidano al cappellano della struttura per trovare conforto e un po’ di speranza”. Ed è proprio di speranza che si infonde il messaggio religioso di Padre Carlo De Angelis, 59 anni, dell’ordine dei Caracciolini, che da anni dedica la sua esperienza pastorale alla cura dei detenuti tossicodipendenti. Cappellano di Lauro dal 2001, divide il suo impegno con la parrocchia del quartiere di Miano a Napoli, vicino al carcere di Secondigliano. “Il lavoro di un cappellano non è solo quello di portare un messaggio religioso – spiega Padre Carlo – ma anche quello di aiutare a superare le difficoltà del carcere, dell’ambiente sociale da cui provengono, che è poi la grande piaga”. Fondatore di una comunità per tossicodipendenti, “La Sorgente”, nel quartiere di Miano, assistito da pochi volontari, si impegna giorno per giorno nel recupero di ex detenuti, aiutando anche e soprattutto le famiglie degli stessi. “Un tempo si riusciva a stare vicini a loro anche dopo l’uscita dal carcere, ora non più. Ed è un peccato. Credo sia necessario cercare una maggiore collaborazione con le agenzie esterne che offrono campi di lavoro, perché la vera verifica è quella all’esterno. Inoltre bisogna rimuovere i pregiudizi”. Il pregiudizio, l’indifferenza, l’emarginazione, l’isolamento determinano la vita, anzi la non-
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I pregiudizi Il pregiudizio, l’indifferenza, l’emarginazione, l’isolamento determinano la vita, anzi la non-vita di un detenuto. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmiâ€? recita il Vangelo (Mt.25,35-36), in quanto GesĂš stesso si riconosce carcerato.
vita di un detenuto. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmiâ€? recita il Vangelo (Mt.25,3536), in quanto GesĂš stesso si riconosce carcerato. Ma GesĂš non giudica e non condanna come i tribunali della nostra societĂ civile: è quanto cerca di insegnare la ComunitĂ di Sant’Egidio nel suo operare e diffondere la caritĂ cristiana attraverso il Vangelo e le numerose iniziative a livello nazionale e internazionale. Da molti anni attenta al problema delle carceri, per l’abolizione della pena di morte e il rispetto dei diritti dei detenuti, tale impegno è sempre accompagnato da varie iniziative in molte carceri, tra cui quelle di Poggioreale e Secondigliano. “La situazione delle carceri campane è al collasso, soprattutto per il sovraffollamento. Nel carcere di Poggioreale si è superata la cifra di 2900 detenuti. E il sovraffollamento incide sulla condizione psicofisica di chi è reclusoâ€? - è quanto afferma Antonio Mattone, portavoce della ComunitĂ di Sant’Egidio di Napoli. “Noi andiamo nelle carceri, parliamo con i detenuti che ci raccontano le loro difficoltĂ : anche avere un mal di denti può essere un problema insormontabileâ€?. Infatti la salute dei detenuti è uno degli aspetti fortemente dibattuti, in quanto nonostante l’etĂ media è di circa 35 anni, versano in condizioni di salute disastrose. Le patologie piĂš comuni sono disturbi psichici (26,1%), seguiti dalle malattie dell’apparato digerente (19,3%) e da malattie infettive e parassitarie(12,5%). Ma il dato piĂš allarmante è che tra costoro il 33,2% ha posto in essere atti auto lesivi e il 12,3% ha tentato il suicidio. Il quadro è avvilente, eppure le soluzioni possibili esistono: amnistia, misure alternative, depenalizzazione dei reati minori, modifiche alle leggi sulla droga e sulla recidiva. PerchĂŠ non applicarle? Agli schieramenti politici lascio l’ardua sentenza. ď Ž
DAL CARCERE DI POZZUOLI NASCE UNA NUOVA IMPRENDITORIALITĂ€ TUTTA ROSA.
Il buon caffè? “lo fanno solo in carcere". Quando il recupero sociale diventa formazione professionale nascono progetti come quello di “Caffè Lazzarelleâ€?. Pregiata miscela prodotta dalle detenute del carcere di Pozzuoli, pronta a “entrare nella rete commercialeâ€?, come garantisce Tommaso Contestabile, provveditore generale degli istituti di pena. *UD]LH DOOD 5HJLRQH &DPSDQLD H DOOH ÂŹDVVRFLD]LRQL ´,O 3LRSSRÂľ ´*LDQFDUOR 6LDQLÂľ H DOOD ÂŹFRRSHUDWLYD ´2IILFLQDH (FVÂľ ÂŹ ÂŹ dieci detenute tostano, seguono le fasi di asciugatura, macinano il caffè e si occupano della manutenzione dei macchinari nei locali dell'istituto penitenziario.
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WELFARE
UN’AGENDA PER I DIRITTI
Se il carcere è senza giustizia di Dario dell’Aquila
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e vogliamo comprendere perché sia centrale il tema del carcere non dobbiamo separarlo dal tema della giustizia. Vorrei dare un contributo alla riflessione, indicando quali sono gli interventi da mettere in agenda nella prossima legislatura (visto che il tema delle agende è di attualità). È impossibile negare che il carcere stia attraversando una fase di emergenza, considerato che questo stato di emergenza è stato ufficialmente proclamato dal governo. Numeri, storie e testimonianze descrivono una condizione di detenzione che viola i principi stessi della nostra costituzione, che vuole che la pena non sia contraria al senso di umanità. Nel solo carcere di Poggioreale, ad esempio, i sono 2.900 detenuti, con otto – nove persone per cella, il doppio della capienza ufficiale. Non può bastare il grande
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e generoso sforzo dei volontari, sono necessarie risposte di sistema. Proponiamo quelle che vanno messe, a nostro avviso, in agenda e che garantiscono un equilibrio tra la tutela dei diritti fondamentali e le esigenze di sicurezza sociale. Ci sono interventi che possono essere adottati subito che potrebbero alleviare le condizioni detentive e sono l’estensione dell’applicazione delle misure alternative esistenti, la diffusione del gratuito patrocinio, spesso sconosciuto ai detenuti stranieri, l’aumento delle risorse destinate al lavoro interno (che invece sono state completamente azzerate dalla legge di stabilità). Dovrebbe poi essere messa al centro della prossima legislatura, senza moralismi, l’abrogazione della legge Fini – Giovanardi sulle dipendenze e della Bossi-Fini sull’immigrazione. Queste due norme hanno riempito le carceri non di pericolosi mafiosi, ma
di consumatori di sostanze e di migranti, a fronte di reati di ridotta gravità sociale che potrebbero essere sanzionati diversamente. Qualche numero per dare un’idea, su circa 90mila detenuti che ogni anno entrano in carcere, il 30 per cento sono tossicodipendenti. Dall’applicazione della Bossi-Fini quasi la metà dei nuovi ingressi è di stranieri. Tutto questo non garantisce maggiore sicurezza per i cittadini e affolla le aule dei tribunali con migliaia di processi che durano anni prima di arrivare ad una sentenza definitiva (se prima non arriva la prescrizione). Sarebbe opportuno ridiscutere le proposte che provenivano dal mondo delle associazioni per realizzare programmi terapeutici e facilitare l’accesso alle misure alternative dei tossicodipendenti autori di reato, dando maggior peso al profilo terapeutico e sanitario, che dovrebbe avere invece rilevanza fondamentale, e aumentando le ipotesi per l’affidamento in prova. Un intervento che ridurrebbe i costi sociali
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Antigone: una associazione di parte e di diritto! Le condizioni dei detenuti sono preoccupanti e ogni anno l’Osservatorio Antigone stila un rapporto in merito. Da giugno 2012 Mario Barone, presidente di Antigone Campania, segue da vicino questa realtà che dipinge a tinte fosche… Che cos’e’ l’Osservatorio Antigone? L’Osservatorio è una struttura composta da 2-3 osservatori per ciascuna regione autorizzati dal Ministero di Grazia e Giustizia ad entrare nelle carceri italiane; è uno strumento che ci consente di entrare nel “mondo-carcere” e di far conoscere all’esterno quanto abbiamo visto. Dall’osservazione e dalla raccolta dei dati nasce quel lavoro di elaborazione collettiva che è il rapporto sulle condizioni di detetenzione che elaboriamo ogni anno.
nifesta, ad esempio, nella partecipazione alle esperienze di laboratorio teatrale o nell’esigenza di scrivere; di “umano” c’è anche il volontariato in carcere. Poi ci sono i rapporti di potere tra i detenuti e tra agenti di polizia penitenziaria e detenuti, che purtroppo, straripano talvolta in gratuita violenza fisica o psichica.
Viaggio all’interno di un carcere: quanto c’e’ di umano anzi di disumano in un carcere?
L’Osservatorio Antigone propone tre disegni di legge per la tutela dei diritti dei detenuti: quali sono?
Dice bene: c’è umanità e disumanità assieme. Di “umano” c’è la voglia di sopravvivere dei detenuti che si ma-
Si tratta di tre disegni di legge di iniziativa popolare: proprio a febbraio è partita la campagna di raccolta
della detenzione e anche quelli economici, considerato che è più costoso mantener una persona in carcere che offrirle un percorso di assistenza da libera. Infine, ma è certo questo il nodo più importante, è indispensabile la riforma complessiva del codice penale, che superi il codice Rocco, approvato in pieno fascismo. Dobbiamo immaginare che la sfera dell’intervento penale non sia lo strumento privilegiato nella soluzione dei conflitti sociali. Dobbiamo tutelare realmente le vittime dei reati e, per farlo, nelle aule
dei tribunali bisogna fare giustizia, non applicare vendette. Non si può dare legalità se non si da giustizia. I diritti fondamentali vanno tutelati in ogni luogo e per ogni persona, perché è difendendo i diritti di ognuno che garantiamo i diritti di tutti. Rispetto profondamente le iniziative in tal senso, ma penso che più che l’amnistia sia indispensabile la riforma strutturale del sistema giustizia. Come diceva Piero Calamandrei, a proposito della frase “la legge è uguale per tutti”, “è una bella frase che rincuora il povero quando la
firme. Il primo contempla l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, come richiestoci dalle convenzioni internazionali. Il secondo è un disegno di legge complessivo sulla legalità nelle carceri che rafforza, innanzitutto, il concetto di eccezionalità della detenzione cautelare: la custodia cautelare – anche sotto il profilo culturale – non può considerarsi una sorta di pena anticipata prima della celebrazione del processo. Si modifica la c.d. “ex Cirielli”, ripristando la possibilità per i recidivi di accedere alle misure alternative alla detenzione. Si introduce il meccanismo del carcere “a numero chiuso”: si prevede che nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto. Lo stesso sistema delle sanzioni viene rivisitato, togliendo al carcere quella sorta di carattere di pena “principe” rispetto alla vasta gamma di sanzioni penali possibili. Il terzo disegno di legge interviene sul testo unico sugli stupefacenti, che – così come è attualmente formulato – di per sé produce tanta carcerazione, diversificando il destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti, diminuendo le pene, restituendo centralità ai servizi pubblici per le tossicodipendenze. Valeria Aiello
vede scritta sopra la testa di un giudice sulla parete dell’aula giudiziaria. Ma poi quando si accorge che per invocare l’eguaglianza della legge a sua difesa è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa, una beffa alla sua miseria”. Ecco, tutto questo dovrebbe essere al centro di un’agenda della politica che voglia riportare dignità e giustizia in ogni luogo del nostro Paese. A cominciare dalle carceri.
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L’ESPERIENZA DEI PRETI DI FRONTIERA Prima di tutto la dignità!
La voce dei senza voce Don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale.
di Ilaria Urbani
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o trovi lì ogni giorno, nel suo ufficio spartano che trasuda umanità da tutti gli angoli. Un laboratorio di solidarietà e legalità in via Santa Sofia, tra i vicoli antichi di via dei Tribunali: qui si trova l’Ufficio diocesano della Pastorale Carceraria. Ospita chi ha commesso reati con condanna fino a tre anni, chi ha commesso furti o ha spacciato droga. Tra queste mura si arriva per gridare alla società che un altro modo di scontare la pena è possibile. E si può ricostruire un futuro altrimenti negato. Don Franco Esposito è qui, tra questi labirinti del carcere di Poggioreale, ad infondere fiducia senza riserve. Il sacerdote, napoletano classe 1960, in carcere ci è entrato ancora prima di essere ordinato prete, a vent’anni nei panni di diacono. «Da nove anni sono cappellano di Poggioreale una scelta più che un mandato, appena ordinato prete nel 1988, sono stato parroco ad Afragola per tre anni, anche lì si facevano le manifestazione contro la camorra: mi spararono nell’auto, io ero in chiesa, ho ricevuto un avvertimento. Poi sono stato per quindici anni parroco nel quartiere natìo a San Pietro a Patierno. Per me entrare nel carcere ha significato
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stare dalla parte della legalità, da un altro punto di vista, condividere e vivere con i detenuti. Noi volontari, perché io mi sento un volontario, siamo non “per” i detenuti, ma “con” i detenuti». Tutte le altre figure che sono nel carcere rappresentano il carcere, invece la presenza della chiesa viene vista come la presenza della libertà, così si instaura un rapporto più leale, sincero, mentre l’educatore deve fare la relazione e deve parlare del comportamento del detenuto, quindi il rapporto è falsato, in realtà con noi hanno un rapporto più leale perché non si ottengono benefici dal colloquio col cappellano, dall’andare in chiesa. Questo aspetto rafforza la nostra opera nel carcere. «Non è difficile stare vicino ai detenuti, contrariamente a quanto si possa immaginare. Quello che crea frustrazione è lo stare vicino a persone che subiscono una struttura carceraria che non gli serve, che gli fa del male. Non riuscire a cambiare la realtà carceraria così come è, genera un senso di impotenza. Certo, nell’incontro con la persona riusciamo a raggiungere degli obiettivi, ma è la struttura stessa che crea disagio. La dignità viene calpestata, la vita è segnata dagli altri, quasi come se
Non è difficile stare vicino ai detenuti, contrariamente a quanto si possa immaginare. Quello che crea frustrazione è lo stare vicino a persone che subiscono una struttura carceraria che non gli serve, che gli fa del male. Non riuscire a cambiare la realtà carceraria così come è, genera un senso di impotenza.
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fossero gli altri i signori del loro tempo». Il carcere attuale è illegale, è fuori legge, non risponde ai dettami della Costituzione, non riesce a guardare al reinserimento del detenuto, dal carcere si esce peggiorati. Il 90 per cento delle carceri in Italia è come Poggioreale. Il carcere così com’è è disumano, è anti-cristiano. I detenuti restano in cella per 22 ore con sei, sette o otto persone. Escono più arrabbiati di prima. La carenza di personale non riesce spesso a garantire neanche le quattro ore d’aria previste dall’ordinamento carcerario. Il carcere è una scuola di delinquenza. E’ quasi una serra della criminalità dove la criminalità cresce più che all’esterno. Molto più che all’esterno. Se fuori posso scegliere e posso permettermi di dire “no” alle angherie della camorra, in carcere devo sottomettermi e devo subirle sia da parte delle istituzioni sia da parte di chi prende potere. «Il colloquio con il cappellano avviene ogni qual volta il detenuto lo chiede. Ma i volontari sono sempre troppo pochi. Su 2900 detenuti Don Franco e gli operatori ne riescono ad assistere un migliaio. La frustrazione è grande, quelli che seguiamo nella maggior parte dei casi resistono, ma poi ce ne sono tanti altri che ritornano nelle mani della criminalità. Quelli che non riusciamo ad accogliere fuori, ce li ritroviamo puntualmente dentro. La colpa è del carcere così com’è». L’indulto ha fatto uscire molte persone, solo il dieci per cento è ritornato in carcere. Invece tra quelli che scontano tutta la pena, circa il 60 per cento ritorna dentro. Quindi la differenza si vede. Le misure alternative, l’affidamento, il dono di fargli vedere il mondo con occhi diversi, servono. Eccome. Domiciliari, servizi sociali, aiutano la persona a prendere coscienza del male fatto, contemporaneamente aiutano a stringere rapporti positivi. Si continua a pensare al carcere come la risposta alla sicurezza e invece è proprio il contrario... *Tratto dal libro “La buona novella Storie di preti di frontiera” Edizione Guida
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RICERCA E INNOVAZIONE
L’IMMENSA BIBLIOTECA DIGITALE A DISPOSIZIONE DELLA RICERCA. 72 |
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di Amedeo Colella
I nuovi servizi digitali a supporto della ricerca faranno inevitabilmente crescere l’abitudine alla lettura di e-book. L’Italia è il primo paese non anglofono a sperimentare la piattaforma Google Play.
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el 1975 uno studioso di Capaccio che avesse voluto reperire il volume ottocentesco dello scrittore inglese Arthur John Strutt, A pedestrian tour in Calabria & Sicily, per studiare lo stato degli scavi di Paestum a quel tempo, avrebbe incontrato problemi insormontabili. Il libro si riteneva infatti estinto; una sola copia forse ritrovabile presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford (cosa non c’è d’altronde alla Bodleiana?). Il nostro ricercatore, dopo aver invano cercato il testo a Napoli e poi a Roma, avrebbe inevitabilmente dovuto sostenere i costi per recarsi in Inghilterra, soggiornare per la ricerca e lo studio del testo. Per poi accorgersi magari alla fine degli studi della relativa importanza del volume stesso. Da settembre 2012 il nostro ricercatore può, comodamente seduto nella sua poltrona di Capaccio, leggere l’intera opera in lingua originale direttamente sul portatile o su un altro supporto digitale. Può scaricare un pdf ad alta definizione con riconoscimento del testo; ha quindi la possibilità di cercare immediatamente le sole pagine riguardanti Paestum ed altre parole chiavi nell’ipertesto disponibile. Può, infine, accorgersi che il testo è stato pure tradotto in italiano e con soli 4 euro può acquistarne la versione moderna del libro italiano in digitale. Il tutto in pochi secondi.
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RICERCA E INNOVAZIONE
Certo manca il gusto di toccare il libro, di sentire l’odore delle muffe antiche della carta. Ma vuoi mettere? Poter studiare in pochi secondi testi di cui era difficile solo conoscere l’esistenza meno di 30 anni fa. Una ricerca completa tra pubblicazioni recenti e pubblicazioni antiche Tutto merito di due servizi Google che hanno profondamente modificato il modo di rapportarsi tra studioso e fonti primarie. Il primo di questi è stato Google Books, la fenomenale piattaforma sviluppata nel 2004 che ha consentito agli studiosi di tutto il mondo di poter consultare in rete milioni di libri scansiti e quindi interamente fruibili direttamente on line. Il servizio Google, permettendo l’accesso alle fonti primarie, e
Google Play, dopo Apple store, darà dunque una spinta decisiva al mercato del e-book, perché offre servizi ad alto valore aggiunto estremamente attraenti per il lettore e lo studioso. soprattutto la ricerca di testo all’interno dell’intero volume scansito, nei suoi pochi anni di vita ha offerto un supporto inestimabile alle attività di ricerca consentendo una forte accelerazione delle attività di studio e pubblicazione nel mondo accademico. Come se non bastasse, a metà 2012 è arrivato in Italia, primo paese non di lingua anglosassone, Google Play, il servizio di Google dedicato alla pubblicazione e alla vendita di testi elettronici, gli e-book. Una piattaforma, totalmente integrata con Google Books, che consente oggi una ricerca completa tra pubblicazioni recenti e pubblicazioni antiche. Puoi cercare la ricetta degli struffoli nell’ultimo libro di ricette dello scorso anno e confrontarla immediatamente con quelle del duca di Buonvicino del 1839; puoi studiare i percorsi turistici di Napoli suggeriti nella guida di Napoli di Salvatore
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Di Giacomo nell’800 e confrontarli con quelli dell’ultima Lonely Planet. Il MIBAC apre le sue biblioteche Italia dunque prima in Europa sul fronte della sperimentazione di nuovi strumenti per la ricerca ma buona ultima sul fronte del conferimento di contenuti alla piattaforma digitale. Solo il mese scorso, gennaio 2013, è partita la prima massiccia fase di scansione di circa mezzo milione di testi custoditi in biblioteche ed università italiane. Il progetto, frutto dell’accordo tra Google e Ministero Beni Culturali, ha preso l’avvio dalle edizioni storiche introvabili dei “Promessi sposi” di Manzoni e continuerà con tutte le opere in carta che sono fuori consultazione perché soggette a caducità. Da oggi in poi saranno non saranno più manipolate ma rese accessibili su internet tramite formato digitale. Ebook vs libro cartaceo Google Play, dopo Apple store, darà dunque una spinta decisiva al mercato del e-book, perché offre servizi ad alto valore aggiunto estremamente attraenti per il lettore e lo studioso. L’Italia non ha mai brillato per numero di lettori digitali rispetto ai partner europei. Ad oggi il mercato dell’e-book è davvero striminzito: solo il 2% dei libri venduti in Italia è venduto in formato digitale. Quindi, al momento, lo spostamento dal cartaceo al digitale non assume dimensioni preoccupanti; certo i portali ebook ad alto valore aggiunto per gli studiosi porteranno inevitabilmente ad una contrazione del mercato del libro cartaceo. Da autore di libri cartacei (ndr – l’autore dell’articolo è scrittore di Napoletanità) ne soffro un po’; ma lo vedo come il prezzo da pagare per avere la possibilità di poter leggere in digitale l’introduzione del Manzoni sulla prima edizione del 1825 dei Promessi Sposi. Per quando mi riguarda, mi impegno a leggere in digitale solo ciò che non è possibile leggere su carta. Ovvero fin quando potrò optare tra leggere l’ultimo libro della Rowling su carta o su tablet... io preferirò sempre la carta. Quel che conta, e che il portale ebook conferma, è che il custode della cultura degli ultimi 5 secoli, pur se letto attraverso uno strumento digitale, continua ad essere, il vecchio caro libro.
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LA RICERCA ITALIANA RESPINGE I TALENTI
Le risorse dedicate alla ricerca sono scarne e destrutturate
Ricerca e tecnologia: il paradosso italiano La situazione italiana divisa tra tagli ed eccellenze nostrane. di Francesca Visconti
“V
orrei vivere in un paese dove non sia complicato esprimere e dare voce alle idee e all’intuito, dove lo spirito di iniziativa e l’ingegno dei giovani e dei meno giovani siano valorizzati, non repressi e vorrei che questo paese fosse l’Italia”. È questa la voce di Antonietta Iuliano, giovane Ph.D student presso l’Università degli studi di Napoli Parthenope, che si occupa dell’aspetto genetico - molecolare delle patologie neurodegenerative. Una giovane dottoranda che fa
sacrifici, studia e sogna la Ricerca. Sogna, perché nella realtà attuale sembra essere quasi un miraggio per i moltissimi (giovani) cervelli, essere integrati nel tessuto della Ricerca italiana. Una situazione paradossale, ancora più sentita al meridione, dove c’è un enorme potenziale umano di sviluppo, il quale però al termine della formazione non trova un sistema strutturato e proiettato nel futuro in grado di integrarne i contributi e spinge inevitabilmente alla fuga. “Ormai la ricerca italiana respinge i talenti,
Il nostro, è l’unico fra i paesi avanzati che ha fatto una scelta di sviluppo senza ricerca. Nonostante questo, il sistema della ricerca italiana esprime delle eccellenze molto significative: i ricercatori italiani hanno una preparazione miracolosamente molto competitiva.
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RICERCA E INNOVAZIONE
invece di attirarli: e di conseguenza i giovani preferiscono puntare alle università estere o a posizioni lavorative magari dequalificanti ma meno precarie”. A parlare questa volta è Gaetano de Monaco (Ph.D student al Dipartimento di Ingegneria Chimica, dei Materiali e della Produzione Industriale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II) . “In genere sono due i soggetti ad investire in ricerca e sviluppo: lo Stato e le grandi industrie. Il nostro Paese è costituito prevalentemente da PMI (Piccole e Medie Imprese), peraltro in crisi, che hanno ben poca possibilità di investire in ricerca e lo Stato ha dimostrato chiaramente di avere poco interesse ad investire nel settore”. Nonostante ciò, in questa fosca palude riescono comunque a nascere pregiati fiori, eccellenze “nostrane” i cui riconoscimenti valicano i confini nazionali e vengono riconosciuti anche a livello internazionale: volgendo lo sguardo in particolare al territorio partenopeo, la Fondazione IDIS- Città della Scienza, lo science center campano tra i migliori d’Europa, rappresenta un esempio eclatante di tale tipo di esperienza istituzionale ed imprenditoriale di successo. Fondatore e presidente di questa azienda no profit e collettivo intellettuale, nonché illustre fisico e docente universitario è Giuseppe Vittorio Silvestrini a cui abbiamo rivolto alcune domande. Come la Fondazione IDIS è impegnata nell’ambito della ricerca e dello sviluppo tecnologico? “La nostra missione prioritaria è quella di diffondere il sapere scientifico prodotto dal sistema della ricerca ed quindi è un soggetto di mediazione fra i luoghi dove serve che questo sapere venga utilizzato. Nonostante questo va detto che il problema di mettere in connessione organica il sistema di ricerca con il sistema di produzione e dell’economia in generale, richieda a sua volta l’invenzione di nuovi modi e quindi richiede ricerca. Quindi noi facciamo ricerca solo relativamente alle tecniche, ai problemi della comunicazione scientifica. Il problema della comunicazione è un problema grosso che deve utilizzare, per essere efficace, tutto il sistema dell’ Information and Communication Technology e quindi
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La Fondazione IDIS La mission della Fondazione è di diffondere il sapere scientifico prodotto dalla ricerca. Si tratta di un ruolo di mediazione fra i luoghi dove serve che il sapere sia utilizzato.
un soggetto come la Fondazione è necessario che sia presente sul terreno della ricerca sui nuovi modi di comunicare”. Che cosa pensa dello stato attuale della ricerca e dello sviluppo tecnologico in Italia ed in particolare nel Meridione? “È una situazione per molti versi paradossale, perché le risorse che il Paese dedica alla ricerca sono poche, scarse, saltuarie, non strutturate. Il nostro, è l’unico fra i paesi avanzati che ha fatto una scelta di sviluppo senza ricerca. Nonostante questo, il sistema della ricerca italiana esprime delle eccellenze molto significative: i ricercatori italiani hanno una preparazione miracolosamente molto competitiva. Si arriva quindi al paradosso che l’Italia spende pochi denari per la ricerca e produce nonostante questo ricercatori, at-
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traverso un processo lungo e dispendioso. Poi, una volta che questi sarebbero pronti per dare il contributo al Paese, non trovano un sistema che sia pronto ad assorbirli. Spendiamo poco e a beneficio di altri: la fuga dei cervelli non è altro che un modo per dissipare gli investimenti che sono stati fatti per formare i ricercatori a beneficio di altri paesi”. Chi dovrebbe dare di più e cosa per aiutare la ricerca e lo sviluppo tecnologico in Italia? “La ricerca è un settore che costituisce un investimento di lungo termine e quindi non è valutabile in termini di costo-ricavo, ma soltanto costo-beneficio. Non è un investimento remunerativo sui tempi brevi. Un’economia come la nostra, basata soprattutto sullo sviluppo delle attività legate ai beni di
consumo, non lascia spazio per il sistema privato, per investire su attività che hanno un ritorno lungo e diffuso. Potenziare il sistema della ricerca, implica che il primo attore sia il sistema pubblico. Poi questo può anche trainare investimenti del settore privato. Quindi se il nostro sistema-paese non investe in scuola e ricerca, depotenzia linee programmatiche che devono essere privilegiate. Noi abbiamo un sistema scolastico che nella sua storia ha accumulato eccellenze ed ha dei titoli di merito molto significativi. Invece, nella filosofia della spending review, si comincia proprio con il tagliare i beni che il nostro Paese in qualche misura ha e che sta dissipando. La prima cosa da fare è interrompere questo deleterio circolo perverso che tagliando dalle radici porta a seccare anche l’albero”.
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RICERCA E INNOVAZIONE
IL ROGO DI CITTÀ DELLA SCIENZA TUTELARE IL PROGETTO, SIMBOLO DI MODERNITÀ
Foto di Salvatore Laporta
Cultura e sapere scientifico in cenere
B
agnoli, un cielo plumbeo e senza stelle fa da sfondo ad uno scenario apocalittico. È la notte del 4 marzo 2013 quando roghi di fiamme avvolgono Città della Scienza in una morsa letale. È un incendio devastante, che ha ridotto in cenere e macerie circa 12mila metri quadri di cultura, scienza, progresso. Una coltellata al cuore di una Napoli già sofferente e piegata in ginocchio da una crisi economica e sociale da cui pare non riesca a sollevarsi. La prima volta che sono stata a Città della Scienza ero una scolaretta, con tanto di cappellino bianco e zainetto in spalla, pronta a farmi rapire da quel luogo e da quelle persone capaci di appassionare anche il più “svogliato”
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degli studenti al mondo della scienza. Il mese scorso sono finalmente ritornata in questi luoghi per studiare e toccare con mano come, nonostante tutto, il territorio campano abbia prodotto una simile eccellenza. L’incontro quasi mistico con il creatore della cittadella del sapere, il prof. Silvestrini, e il vedere come la carcassa di un vecchio stabilimento industriale sia stata trasformata nel simbolo di un’Italia vincente, ha riempito di speranza per il futuro il cuore di una giovane studentessa. Ho respirato ingegno creatività e innovazione semplicemente passeggiando tra i capannoni della struttura. Ho percepito il fermento, la passione e la dedizione di quanti lavoravano lì. E ora ciò che resta sono cenere e ma-
L’incendio che ha distrutto il migliore Scinze Centre d’Europa ci ha lasciato sconvolti e attoniti! Quello che accade nella nostra città è purtroppo esemplare. Città della Scienza è stata distrutta dallo stesso modello culturale che si è impegnata a sconfiggere. Le disgrazie, nella nostra città,anche quelle fortuite, hanno sempre una responsabilità umana, se non commissiva, certamente omissiva. Crediamo sia giunto il tempo di una riflessione corale e rispondere immediatamente non solo simbolicamente, ma producendoo fatti e risposte concrete. Reagire è necessario, reagire subito è indispensabile. Tutti dobbiamo sentirci partecipi della ricostruzione di un simbolo di modernità, che dovrà avvenire in tempi rapidi e certi. Non vinca l’impotenza,ora le Istituzioni, a tutti i livelli, dimostrino coesione e siano pronte ad intervenire. Adelante!
cerie. Un museo interattivo, uno science center che brucia tra le fiamme di un incendio molto probabilmente doloso. Cosa fare dunque? Come reagire? Da italiani e ancora più da napoletani dobbiamo necessariamente dimostrare un po’ d’amore per il nostro Paese. Non possiamo soccombere a qualche losca logica speculativa o abbandonare nell’indifferenza il futuro di Città della Scienza. Questo tragico evento dev’essere il punto di partenza per un rinnovamento culturale e sociale che deve investire tutti, cittadini e istituzioni sia locali che nazionali. Solo così, come un’araba fenice, la città potrà risorgere dal baratro oscuro in cui è precipitata. b.v.
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DENTRO LA COMUNICAZIONE CONCETTI, MODELLI, PERSONE “Divulgare significa far conoscere e comprendere non solo cose che ci appaiano misterose e lontane, ma anche concetti ed espressioni che usiamo tutti i giorni in modo spesso inconsapevole o superficiale. Far comprendere è dunque operazione meritoria, fondamentale nei paesi anglosassoni dove l’approccio divulgativo della scienza è essa stessa una scienza e dove diventa difficilissima la traduzione pedissequa dei nostri testi spesso infarciti di concetti e metafore che sarebbe opportuno prima spiegare e poi esporre. Quando poi la divulgazione riguarda la comunicazione, non solo l’opera è meritoria ma è soprattutto coraggiosa”. (dalla postfazione di Ferdinando Pinto)
Samuele Ciambriello Samuele Ciambriello, giornalista, è stato presidente del Corecom Campania e componente del Comitato Nazionale Tv e minor. Attualmente è docente della Link Campus ed insegna “Teoria e tecniche della comunicazione” all’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Salerno.
Michele Infante Michele Infante, Dottore di ricerca in “Teoria dell’informazione e della comunicazione”, ha insegnato alla John Cabot Unoversity, ed ha svolto attività di ricerca presso la New School for Social Research di New York e la Humboldt Universitat di Berlino. Attualmente insegna “Corporate Communication” all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e “Teoria e tecniche dei nuovi media” alla Link Campus University di Napoli.
LA BUONA NOVELLA
Ilaria Urbani
STORIE DI PRETI DI FRONTIERA
LA BUONA NOVELLA Storie di preti di frontiera
COLLANA EDITORIALE WE CARE
Prefazione di Roberto Saviano
“Tredici uomini coraggiosi che ci mostrano quotidianamente cosa voglia dire la parola missione, cosa significhi amare il prossimo e cosa sia davvero la chiesa. Questa carrellata di storie necessarie, di esperienze uniche, mostra chiaramente come dal racconto, dalla denuncia possa arrivare il riscatto. Come dal racconto di tredici vite eccezionali, fatte di vittorie e spesso di sconfitte, si possa comprendere una terra e amarla anche se non ci appartiene. Se poi quella è proprio la tua terra, quella in cui sei nato e cresciuto, ecco che queste esperienze ti danno le coordinate. Ti mostrano come che queste esperienze ti danno le coordinate. Ti mostrano come poter vivere, come potercela fare. Come la disperazione può essere trasformata in speranza, in vita.” (dalla prefazione di Roberto Saviano)
Guida
Ilaria Urbani Ilaria Urbani, giornalista, nata a Napoli nel 1980, collabora con “La Repubblica” e con il settimanale “D - La Repubblica delle Donne”. Ha scritto per “Il Manifesto”. Ha collaborato con Al Jazeera English e per l’emittente di stato greca ERT. Ha pubblicato un saggio sull’immigrazione nel libro “A distanza d’offesa” (Ad Est dell’Equatore).
In tutte le librerie. E li puoi acquistare online dal catalogo Mondadori
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Foto di Antonio Bergamino
RICERCA E INNOVAZIONE
La ricerca al servizio dei pazienti
Curare il cancro: la nuova frontiera tecnologica di Beatrice Avvisati
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ell’immensità di una natura paesaggistica tipicamente mediterranea alle pendici di uno dei più importanti culti religiosi come la Madonna di Montevergine a Mercogliano sorge un centro d’eccellenza il CROM (Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano). Nel ripercorrere il viaggio di esplorazione dell’attività di ricerca nei meandri laboratori del Centro, siamo stati accompagnati dalla Dottoressa Pina Russoniello e dal Direttore Tonino Pedicini il quale ci ha fornito delucidazioni in merito alle tecnologia impiegata nel Centro. Il centro è dotato di formazione post laurea, con Master Universitari di II livello, tirocinanti provenienti all’Università del Sannio e della Federico II, rispettivamente specializzati in Chimica Farmaceutica, e Biologia. Il Centro dispone momentaneamente di quattro laboratori di bio-
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logia molecolare, le linee di ricerca importanti sono: lo studio dei meccanismi molecolare delle neoplasie e sviluppo di strategie terapeutiche innovative coordinata dal Dott. N. Normanno; lo studio della correlazione tra infiammazione cronica e cancro, e di networks immunoregolatori, cellulari e umorali e delle dinamiche biologiche complesse coordinata dal Dott. G. Castello; lo studio del ciclo cellulare e cancro: dall’oncologia molecolare alla traslazionale, coordinato dal Dott. A. Giordano; Studio dei meccanismi di resistenza a farmaci antitumorali medianti approcci basati su piattaforma proteomica 2D-DIGE accoppiata a Spettronomia di Massa coordinata dal Dott. A. Budillon. Una quinta linea di ricerca che utilizza una attrezzatura di altissima tecnologia il Ciclotrone, a quest’ultimo è legato la produzione di radiofarmci per uso diagnostico, tanto è vero che al momento il Fluoro-De-
Il Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano e il Pascale collaborano per portare i risultati della ricerca di laboratorio al paziente. Il CROM è dotato di attrezzature ad altissima tecnologia ed è impegnato in importanti progetti di implementazione di nuovi strumenti per la diagnosi e la cura dei tumori.
sossi-Glucosio( FDG) per le PET-TAC viene riprodotto nel Centro sottoposto a sistemi di controlli di qualità effettuati dal Dott. F. De Martinis, e trasportato tutte le mattina all’Istituto Pascale dei tumori di Napoli. Inoltre vengono prodotti radioisotopi che possono essere utilizzati dalle attività di ricerca e sperimentazione, in particolare modo vengono iniettati nei topi e si possono vedere in vivo la distribuzione dei farmaci nell’organismo di un animale proprio grazie all’utilizzo di una altra apparecchiatura sofistica la Micro PET-TAC per la visualizzazione di quello che accade all’interno dell’orga-
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INTERVISTA AL DIRETTORE TONINO PIEDICINI, MEDICO SPECIALISTA IN ONCOLOGIA, SANNITA DI ORIGINE, È STATO DIRETTORE DELLA STRUTTURA OPERATIVA “VERIFICA SISTEMA DI QUALITÀ” PRESSO L’AGENZIA REGIONALE SANITARIA. CORRESPONSABILE DI ONCOLOGIA ALL’OSPEDALE MOSCATI DI AVELLINO E DEL FATEBENEFRATELLI DI BENEVENTO. DIRIGE IL PASCALE DA SETTEMBRE 2009 ED IL CENTRO RICERCHE ONCOLOGICO DI MERCOGLIANO. Il Pascale si è dotato di un dispositivo tecnologico Cybernknife, già utilizzato a Milano ed in altre città, qual è l’obiettivo del Pascale nell’utilizzo di nuove tecnologie? In oncologia il progresso è rapidissimo, c’è uno sviluppo enorme per quanto riguarda la Biologia Molecolare del cancro e questo determina di riflesso uno sviluppo notevole delle tecniche terapeutiche e dello sviluppo di nuovi farmaci e anche dello sviluppo di tecnologie avanzate della diagnostica, della Radioterapia in particolare modo quest’ultima la comunità scientifica ha offerto questo sofisticato apparecchio Cybernknife, una tecnologia radiochirurgica, stereotassica che consente di trattare con assoluta precisione e sicurezza tumori di pochi millimetri, un bisturi tecnologico-cibernetico che riesce ad intervenire sulla parte malata risparmiando la parte sana, ed è questa la sostanziale differenza con le pratiche tradizionali che anche se si sono evolute intaccano anche i tessuti sani. La qualità di vita dei pazienti resta un nodo centrale delle ricerche del Centro Ricerche a Mercogliano e del Pascale? Si, certamente, in passato tutta la Comunità Medica riusciva a garantire ai pazienti malati di cancro delle sopravvivenze molto brevi, per cui l’obiettivo era vivere un po’ di più, oggi invece l’oncologia riesce a garantire in alcuni casi la guarigione, in tantissimi casi sopravvivenze molto lunghe, praticamente in molti casi il cancro si è trasformato in un malattia cronica, non è più
una malattia acuta che nell’arco di pochi mesi porta alla morte, sicuramente purtroppo esistono ancora casi di morte veloce. La ricerca che si fa al CROM e al Pascale? Le ricerche che si fanno al CROM e al Pascale sono complementari, la missione del Pascale è il trasferimento prima possibile dei risultati della ricerca del laboratorio al letto del paziente, quella comunemente chiamata ricerca traslazionale. Al CROM un centro con che ospita quattro laboratori di Biologia Molecolare, con produzione di ricerca avanzata che utilizza una attrezzatura di altissima tecnologia come il Ciclotrone. Cosa ne pensa degli investimenti privati? Si, sarebbero utilissimi ma nel nostro mezzogiorno pochi sono gli imprenditori disponibili ad investire in attività di ricerca. In altre regioni d’ Italia si è verificata la possibilità da parte di banche, industrie di sostenere progetti ospedalieri, purtroppo il nostro meridione riflette la debolezza del tessuto industriale o meglio la scarsa propensione ad investire in settori innovativi in campo sanitario. Quali sono i progetti 2013/2014? I progetti sono legati anche all’utilizzo di questo nuovo strumento sofisticato come Cybernknife, intendiamo estendere delle convenzioni con gli ospedali pediatrici, ci sono molto piccoli pazienti con tumore al cervello in attesa di un intervento. Incrementare la ricerca, con la creazione di un laboratorio di radiobiologia e con l’obiettivo di qualificare sempre di più gli operatori sanitari per una migliore qualità di assistenza ai pazienti. I progetti Europei possono sostenere la ricerca? Certamente, come le ho detto prima siamo aggiudicatori di un bando del MIUR sulla creazione di un laboratorio di Radiobiologia nel quale poter sperimentare fasci di elettroni che vengono utilizzati nella radioterapia e anche altri tipi di fasci.
I DATI CIRCA I RISULTATI DELLE STRUTTURE DEL 2011 SONO:
11 834 281 268 350 163 mila
ricoveri in un anno
visite ambulatoriali
In passato la Comunità Medica riusciva a garantire ai malati di cancro sopravvivenze brevi. Oggi, in alcuni casi, la guarigione
ricoveri ordinari
ricoveri ordinari
nismo animale, si riesce a vedere dove si è localizzato l’accumulo dei radiofarmaci, che non sono altro degli indicatori positivi del luogo della malattia, ma non danno solo un’indicazione topografica, ma anche funzionale nel senso che si riesce a vedere se la malattia si riproduce più o meno velocemente, oppure più o meno attiva. Tutto questo può
counseling psicologici
articoli pubblicati
essere riconducibile a quello che in America si chiama l’Ospedale del topo, cioè riprodurre sul topo il Cancro dell’uomo non in via generica, ma di quel paziente si riproduce la sua malattia su quel topo, e su quell’animale si sperimentano i farmaci, quella che si chiama terapia personalizzata.
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APPROFONDIMENTI
COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE E COMUNICAZIONE POLITICA
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di Marianna Quaranta
La comunicazione pubblica dai media tradizionali ai social network.
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a comunicazione pubblica è funzionale ai processi di riforma delle pubbliche amministrazioni e della politica. Senza comunicazione non si promuove l’effettivo accesso alle istituzioni, non si assicura l’efficacia dei provvedimenti di modernizzazione, né vi è riscontro del consenso e dei programmi. Un ruolo centrale spetta alle modalità attraverso le quali viene diffuso il messaggio, sicché occorre considerare l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, ma soprattutto dei nuovi modelli di comunicazione, anche in considerazione della funzione “formativa” della comunicazione pubblica.
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APPROFONDIMENTI
Definizioni e principi. La materia della comunicazione pubblica si è significativamente sviluppata nel corso degli anni ’90 contribuendo a delineare un nuovo modo di intendere la nozione di cittadinanza (A. Rovinetti, Comunicazione pubblica. Istruzioni per l’uso, Bologna, 1994). Il bisogno di comunicazione, e perciò di conoscenza e di trasparenza, è una delle manifestazioni di quel diritto alla cultura che sta diventando il connotato principale del diritto di cittadinanza, ovvero di libertà attiva (F. Benvenuti, Il nuovo cittadino. Tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994). In tal senso, la comunicazione pubblica si pone come punto di raccordo e confronto tra saperi diversi nella ridefinizione dell’immagine, del ruolo e delle funzioni delle
zione. Questi principi trovano il loro completamento nel principio della cosiddetta trasparenza, concetto espresso dalla legge n.241/1990 la quale, come noto, ha avviato una stagione della comunicazione pubblica legata al diritto di informazione, all’accesso, alla partecipazione dei cittadini ai procedimenti ed alla vita dello Stato e degli enti locali. La normativa di riferimento si rinviene, invece, prevalentemente nella legge n.150 / 2000 recante “Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, ma il quadro regolamentare va completato con la disciplina della pubblicità istituzionale e con la normativa in materia di tutela della riservatezza.
Secondo la migliore dottrina, la nozione di comunicazione pubblica si caratterizza per la bidirezionalità dei processi di comunicazione e per la necessaria sussistenza di un elemento oggettivamente o soggettivamente pubblico. istituzioni, nonché come processo di costruzione di luoghi, esperienze e soprattutto culture che contribuiscono alla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (F. Faccioli, Comunicazione pubblica e cultura del servizio, Roma, 2000). Secondo la migliore dottrina, la nozione di comunicazione pubblica si caratterizza per la bidirezionalità dei processi di comunicazione e per la necessaria sussistenza di un elemento oggettivamente o soggettivamente pubblico. I principi che presiedono al corretto inquadramento della funzione si rinvengono: nell’art. 21 della Costituzione che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, intesa sia come riconoscimento a tutti di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, sia come relativo diritto dei cittadini ad essere informati; nell’art. 97 della Costituzione che richiama il principio di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione ed, infine, il principio di uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini sancito dall’art.3 della Costitu-
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Le prospettive più recenti sono sicuramente rappresentate dal lungo processo di attuazione delle cosiddette “leggi Bassanini”, con le quali il legislatore ha inteso ancorare la ridefinizione dei rapporti tra amministrazione e cittadini e la rilegittimazione dell’agire amministrativo alla creazione di nuove e più forti situazioni giuridiche soggettive di diritto e di dovere ed all’indicazione delle necessarie forme di riorganizzazione delle strutture e degli strumenti delle pubbliche amministrazioni. L’interesse pubblico alla comunicazione. Occorre considerare un altro aspetto della comunicazione pubblica, ovvero la comunicazione come interesse pubblico autonomo che si concretizza nella necessaria interazione con le rappresentanze dei cittadini e nello scambio democratico attraverso i media. Come, infatti, autorevolmente sostenuto, la legittimazione in capo alle istituzioni e la legittimità nell’agire delle amministrazioni
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La comunicazione pubblica attraverso Internet La comunicazione pubblica on line intesa nella sua accezione più ampia di comunicazione istituzionale e di comunicazione politica è ormai comunemente considerata e sentita come uno strumento comunicativo strategico per il miglioramento delle relazioni tra le amministrazioni, i soggetti pubblici e i cittadini.
trova il suo completamento non solo nell’uso del potere da parte dell’autorità, ma anche nell’intervento del cittadino nell’esercizio della funzione attraverso il consenso (S. Benvenuti, Il nuovo cittadino tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994). La compliance dei cittadini, ovvero la spontanea adesione alle determinazioni delle autorità, è un obiettivo che le istituzioni democratiche debbono perseguire, attraverso processi di comunicazione che pongano in risalto la corrispondenza degli interessi individuali con quelli collettivi. L’attivazione di sistemi virtuosi di comunicazione è, per altro, funzionale alla percezione dei cittadini della qualità democratica dello Stato. In tale prospettiva, la comunicazione pubblica diventa una forma inedita di perseguimento dell’interesse pubblico gene-
rale ed un nuovo terreno di confronto tra “potere” e “popolo”. La Comunicazione politica Diverse configurazioni assume la comunicazione cosiddetta politica, prevalentemente disciplinata dalla legge n.28/2000. La normativa detta le “regole” in tema di par condicio e trova il suo naturale completamento nell’attività di regolazione, posta in essere dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. L’Agcom, infatti, svolge funzioni di vigilanza sul rispetto della citata normativa e dei regolamenti adottati dalla Commissione parlamentare di vigilanza nei confronti della Concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo (cfr. infra F. De Silvo. Le regole della comunicazione politica). | 85
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APPROFONDIMENTI
La comunicazione pubblica attraverso il mezzo radiofonico e televisivo. Per rendere la comunicazione pubblica “efficace” assume un ruolo strategico la scelta delle modalità diffusive del messaggio che debbono essere adeguate ai bisogni. La scelta del mezzo costituisce, infatti, un elemento assai significativo: più il mezzo è diffuso e maggiore è la sua capacità di penetrazione, maggiori sono i risultati cui perviene la campagna di comunicazione. Sotto l’aspetto normativo il legislatore, con la richiamata legge 150/2000, ha dettato regole volte a disciplinare tempi e modalità di trasmissione dei “messaggi di utilità sociale ovvero di pubblico interesse”. Nelle concessioni per la radiodiffusione sonora e televisiva - attualmente, a seguito del passaggio al digitale terrestre, si ritiene possa fare più ampiamente riferimento agli operatori autorizzati ex art. 25 D.Lgs. 259/2003 – è prevista la riserva di tempi non eccedenti l’1% dell’orario settimanale di programmazione per le stesse finalità e con le modalità stabilite al comma 1 del medesimo art.3 della succitata legge n.150. In questa logica, le concessionarie radiotelevisive e le società autorizzate possono, per finalità di esclusivo interesse sociale, trasmettere messaggi di utilità sociale che non rientrano nel computo degli indici di affollamento giornaliero, né nel computo degli indici di affollamento orario stabiliti. La comunicazione pubblica attraverso la rete Internet. Dopo l’avvento di Internet come piattaforma globale di comunicazione pubblica e privata, la comunicazione pubblica on line intesa nella sua accezione più ampia di comunicazione istituzionale e di comunicazione politica è, ormai, comunemente considerata e sentita come uno strumento comunicativo strategico per il miglioramento delle relazioni tra le amministrazioni, i soggetti pubblici e i cittadini, per le sue caratteristiche di velocità, connettività universale, bassi costi ed interattività (E. Simonetti, Guida alla comunicazione istituzionale on line ). Il patto “Stato – istituzioni – cittadini – utenti – clienti” va, cioè, ridefinito secondo i dettami della società dell’informazione e della comunicazione proiettata verso la convergenza multimediale unita alla multicondivisione.
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Con l’uso di Internet le istituzioni possono dialogare con i cittadini e rilevare facilmente i loro bisogni, nonché, riscontrare il loro gradimento relativamente alle informazioni diffuse, ciò ha determinato significativi investimenti nel settore dell’e-goverment che negli ultimi anni hanno dato i primi frutti. Tuttavia, affidare al web una campagna di comunicazione pubblica, sia essa istituzionale che politica, se da un lato significa avvantaggiarsi dei privilegi connessi alla rete, dall’altro significa dover affrontare i problemi strutturali ad essa connessi, ovvero, il
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digital divide ed il dato che la comunicazione on line è one–to–one (vale a dire che è il destinatario che cerca l’informazione e non l’informazione a raggiungere “a tappeto” i destinatari). Tuttavia, l’evidente successo dei piani di informatizzazione delle PP.AA., l’uso massivo della rete e dei social network sono il sentore che è cambiato il modo di comunicare. Il risultato elettorale degli ultimi giorni dà conto della significativa impennata che nella comunicazione, anche politica, hanno avuto Internet ed i social network. È questo il segno evidente di uno svecchia-
mento dei sistemi di comunicazione che però non va confuso con una più profonda e diversa esigenza di cambiamento. Appare innegabile, tuttavia, che l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione coinvolge e dà voce ad una cittadinanza rimasta a lungo silente e spettatrice, diffondendo “idee” che partono dal basso. Il rovescio della medaglia è che queste nuove filosofie si diffondono in maniera autonoma ed incontrollata. Sotto questo aspetto sarebbe auspicabile una significativa ridefinizione delle “regole”.
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APPROFONDIMENTI
Le “Regole” della comunicazione politica La par condicio nella legislazione nazionale e nell’attività dell’AGCOM di Federico D. E. De Silvo
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gni periodo elettorale è di notevole interesse per tutti gli studiosi del diritto, sia costituzionale che privato, risultandovi coinvolti molteplici valori: da un lato, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ed essere adeguatamente informati; esprimere un voto eguale, libero e segreto; accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; dall’altro, il diritto alla tranquillità della propria sfera privata; di esercitare liberamente l’iniziativa economica nei settori dell’informazione e della comunicazione; al rispetto del proprio onore e dignità. Senza contare la nota dicotomia tra regolazione e liberalizzazione degli attori politici ed economici... Agli ordinamenti nazionali spetta, dunque, bilanciare le diverse posizioni soggettive di volta in volta in contrapposizione (R. BORRELLI, Par condicio e radiotelevisione. Introduzione alla tematica, analisi dei principali ordinamenti eu-
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ropei, 2007). In Italia, le regole della competizione sono state per lo più incentrate sulle tecniche tradizionali di diffusione del messaggio politico, fino al 1993, allorquando taluni cambiamenti (crescente personalizzazione del confronto politico; aumento delle spese elettorali; affermazione dei mezzi di comunicazione di massa) hanno indotto il legislatore ad un doppio intervento (E. BETTINELLI, Par condicio. Regole, opinioni, fatti, 1995). Dapprima, con la l. n° 81/1993, si sono disciplinate le attività dei soggetti che prendono parte alle elezioni locali, in termini di forme di manifestazione del pensiero e spese elettorali; si trovano, inoltre, disposizioni su accesso alla stampa ed ai mezzi di informazione televisiva, propaganda elettorale ed istituzionale, pubblicità delle spese elettorali (regole in parte ancora vigenti). Poi, con la l. n° 515/1993, di più ampia portata, si sono disciplinati, in forma comune durante il periodo che precede le elezioni politiche, europee, regionali ed amministrative (ad esclusione dei referendum), l’ac-
Il ruolo della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Sullo sfondo della vigente disciplina, l’AGCOM definisce criteri specifici ai quali, fino alla chiusura delle operazioni di voto, devono conformarsi la concessionaria pubblica e le emittenti radiotelevisive private nei programmi di informazione; da tale regolamentazione deriva sostanzialmente una intensa attività di monitoraggio (spesso compulsata da denunce di parte) e, soprattutto, di cronometraggio degli spot elettorali
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cesso ai mezzi di informazione, i flussi economici, i sondaggi, le agevolazioni fiscali e postali, i servizi elettorali prestati dagli enti pubblici, nonché i divieti di comunicazione istituzionale e pubblica; sinteticamente, si prevede quanto segue: i) il periodo ufficiale di campagna elettorale prende il via con l’indizione dei comizi elettorali, tra il 70°ed il 45° giorno precedente le elezioni; ii) l’obbligo per le concessionarie radiotelevisive pubbliche e private, in ambito nazionale e locale, nonché per gli editori di quotidiani e periodici, di garantire la parità di trattamento agli attori politici nell’accesso agli spazi dedicati alla propaganda; iii) la direttiva per cui, nelle trasmissioni informative (telegiornali, notiziari, programmi tematici) riconducibili alla responsabilità di una testata giornalistica, la presenza di candidati ed esponenti politici deve limitarsi esclusivamente all’esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione (nessuna limitazione per l’informazione sulla stampa); iv) l’attribuzione alla Commissione Vigilanza Rai ed all’AGCOM (in relazione alle concessionarie private e alla stampa) del compito di fissare le modalità di utilizzazione degli spazi e di vigilare sul rispetto delle disposizioni indirizzate alla parità di trattamento; v) la definizione di un apparato sanzionatorio per la violazione delle norme sull’accesso ai mezzi di comunicazione di massa, nonché sulla trasparenza e contenimento delle spese elettorali (le misure variano da sanzioni amministrative pecuniarie, alla rimozione della propaganda abusiva, all’ineleggibilità o decadenza dalla carica dei candidati eletti). È da registrare, ancora, la l. n° 28/2000, c.d. legge sulla par condicio, che, fermi i previgenti aspetti economico-finanziari, interviene a modificare solo quella parte della legge n° 515/1993 concernente l’uso dei mezzi di comunicazione (e relative sanzioni) di tal guisa: estensione ai referendum delle regole; sottrazione al mercato dell’attività di comunicazione politica, con conseguente gratuità dell’offerta di spazi di propaganda e di pubblicità elettorali da parte delle emittenti nazionali, pubbliche e private, sia nel periodo strettamente elettorale, sia durante la restante parte dell’anno, con l’unica eccezione dell’emittenza locale;
applicazione delle regole sull’uso dei media (sulla comunicazione politica, in particolare) non solo in campagna elettorale ufficiale, ma anche durante l’intero anno; introduzione delle cc.dd. sanzioni in forma specifica, quale l’immediata sospensione delle trasmissioni in violazione della legge, cui eventualmente fa seguito la messa a disposizione di spazi per la trasmissione di pubblicità a favore dei soggetti danneggiati, in modo da ripristinare l’equilibrio tra le forze politiche e tra le tipologie di trasmissioni propagandistiche, secondo un meccanismo di carattere compensativo (per una disamina critica della normativa rassegnata, si rinvia a R. BORRELLO, Interrogativi sulla disciplina della par condicio in Italia, in M. MANETTI, Europa ed Informazione, collana Quad. Rass. Dir. Pubb. Eu, n° 3, 2002). Sullo sfondo della predetta disciplina, l’AGCOM definisce criteri specifici ai quali, fino alla chiusura delle operazioni di voto, devono conformarsi la concessionaria pubblica e le emittenti radiotelevisive private nei programmi di informazione; da tale regolamentazione deriva sostanzialmente una intensa attività di monitoraggio (spesso compulsata da denunce di parte) e, soprattutto, di cronometraggio degli spot elettorali (cfr. P. MEZZANOTTE, La disciplina della par condicio nei regolamenti delle Autorità di vigilanza, in Riv. dir. pub. italiano, com. e comp., n° 3/2013). Il quadro che precede è affetto da due grandi punti critici, che ne rendono auspicabile un intervento riformatore: i regolamenti risultano troppo dettagliati e, quindi, poco adatti alla flessibilità e velocità della comunicazione; mentre le sanzioni si rivelano poco efficaci, in quanto basate prevalentemente sulla tecnica del riequilibrio ovvero su sanzioni pecuniarie non particolarmente dissuasive, soprattutto per gli operatori più solidi. Va, inoltre, evidenziato che la tv non costituisce più lo strumento di comunicazione dotato di maggiore efficacia: circostanza che, insieme all’impossibilità in re ipsa di estendere la par condicio alla rete, richiederebbe una sollecita disciplina in tema di nuova comunicazione politica elettronica, conflitti di interessi e finanziamento delle campagne elettorali.
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CULTURA E FORMAZIONE
di Marino Niola
Il ruolo dell’Ateneo Suor Orsola Benincasa Brevi considerazioni sulle memorie e sui patrimoni collettivi di una Napoli, fucina di santità, di idee e di grandezze.
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e città sono luoghi della memoria. A costruire e ricostruire una città è il compromesso tra presente e passato che non si risolve in una serie lineare di successioni, ma è un tessuto tramato di compresenze. Una trama di questo genere appare particolarmente visibile in una città come Napoli, dalle pieghe segrete che custodiscono i segni della sua bellezza e le ragioni della sua grandezza. Scriveva qualche anno fa Adrian Wolfgang Martin “a causa di specifiche condizioni storiche Napoli adempie ad una missione umana del tutto speciale.
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Chi riconosce e impara a comprendere il suo compito segreto avrà cara questa città”. La motivazione coglie perfettamente la ragione per cui Napoli resta una delle città più famose del pianeta, il suo interesse, il suo fascino culturale non sono esibiti tutti in una volta, ma, come diceva Guido Piovene, l’attrazione che la città esercita “cresce di giorno in giorno, di settimana in settimana, via via che scopre i suoi segreti. Finché si giunge a intendere che veramente è questo il più bel golfo della terra”. Il tessuto urbano ed umano è ricco di pieghe. “Che grandezza, che nu-
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Una perla del patrimonio architettonico napoletano Lo straordinario patrimonio laboratoriale e museale è una eredità che in tempi recenti è stata custodita e reinterpretata da Antonio Villani e Francesco M. De Sanctis. È un luogo elettivo della didattica dei beni culturali, perché bene culturale esso stesso.
Foto di Valeria Manzoni
mero, che popolo”, dice uno dei grandi cronisti della Napoli seicentesca enumerando le cifre e le dimensioni di un corpo sociale d’eccezione che determina il carattere della città e dei suoi abitanti. Anna Maria Ortese attribuiva a Napoli una grazia naturale che singolarmente si poggia su un vivere pieno di
radici. Proprio in queste radici si innesta la provenienza di un’istituzione come la nostra università: una città nella città, microcosmo di quella ville-eglise che fu la Napoli barocca e delle impetuose trasformazioni che l’attraversarono. Figura dominante della scena religiosa della
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Foto di Valeria Manzoni
CULTURA E FORMAZIONE
I locali del Suor Orsola Benincasa si presentano con un progetto architettonico di straordinario respiro. Si tratta di una cittadella monastica di 33.000 mq.
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Napoli barocca, quando la città partenopea nel clima creato dalla Controriforma è attraversata da un’ impetuosa ondata devozionale che la trasforma una sorta di “fucina” di santità. Con un progetto architettonico di straordinario respiro, una cittadella monastica di 33.000 mq fatta di chiese, cappelle, dormitori, refettori, giardini, orti, terrazze, chiostri, sotterranei misteriosi, cucine e fucine dalle volte immense, scale, passaggi e anditi che si rincorrono disorientando qualche volta il visitatore - che noi conduciamo nel labirinto con il compiacimento del mistagogo - ambulacri misteriosi e corridoi a perdita d’occhio sui quali si apre una successione interminabile di porte. Dalla congregazione di religiose creata da Orsola ha origine una tradizione di conoscenza e di impegno che hanno avuto sempre un segno innovativamente femminile. Alla fine del XIX secolo in un clima an-
ch’esso fervido come quello post-unitario la cittadella monastica viene trasformata in cittadella del sapere e della mobilità sociale, volgendo al futuro il lascito orsolino. Ancora una volta nel segno di quel femminile che sembra essere la cifra profonda del genius loci, dell’università come della città. E che nel caso di questa istituzione si manifesta in personalità come quelle di Adelaide del Balzo Pignatelli di Strongoli. Se, infatti, Orsola è la fondatrice del luogo, Adelaide del Balzo è la rifondatrice, prima quando viene nominata ispettrice onoraria del Ritiro di Suor Orsola Benincasa poi quando l’Istituto universitario, tra il 1895 e il 1901, prende la forma che ha conservato fino ad anni molto recenti. Il 14 maggio del 1900 Umberto I e la Regina Margherita visitarono ufficialmente l’Istituto. Quello stesso anno, alla Camera dei Deputati l’on. Tozzi riferiva che proprio guardando
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all’Istituto Suor Orsola “il Parlamento e gli uomini di Governo dovranno modellare la loro riforma, poiché in esso troveranno quanto di più completo può essere incarnato in ordine al progresso della educazione femminile intesa nel senso democratico, popolare o complementare che sia”. L’altra stella che risplende sulla cittadella è quella di Antonietta Pagliara, la prima donna Sin dalla nascita, le vicende, italiana a portare la didi questa università si visa delle suffragiste inglesi. Dal sodalizio intrecciano alle figure più umano e intellettuale prestigiose della cultura fra la principessa Del Balzo e Antonietta Paitaliana ed europea. gliara nasce un progetto Da Benedetto Croce, culturale straordinariamente anticipatore che a Nicola Zingarelli, costituisce ancora oggi Giuseppe Mercalli, Anton il telos di questa istituzione, votata, fin dalDohrn, Marussia Bakunin, l’inizio, allo studio e al Giovanni Gentile, Adolfo miglioramento della condizione femminile Venturi, Nicola Abbagnano, nel Mezzogiorno. Valerio Mariani, Ernesto Ed ancora, Cecilia Motzo Dentice d’AccaPontieri, Nicola Cilento, dia prima donna itaCarmelo Colamonico, liana a vincere una cattedra di storia della Francesco Sbordone, Elio filosofia, tra i suoi inChinol, Georges Vallet. numerevoli meriti quello di aver instaurato un dialogo formativo con importanti figure del pensiero pedagogico come Aldo Capitini ed Eliana Frauenfelder due pionieri, rispettivamente dell’educazione alla non violenza e dell’educazione al femminile. Sin dalla nascita, le vicende, di questa università si intreccia alle figure più prestigiose della cultura italiana ed europea. Da Benedetto Croce, nel CdA dal 1947 a Nicola Zingarelli, Giuseppe Mercalli, Anton Dohrn, Marussia Bakunin, Giovanni Gentile, Adolfo Venturi, Nicola Abbagnano, Valerio Mariani, Ernesto Pontieri, Nicola Cilento, Carmelo Colamonico, Francesco Sbordone, Elio Chinol, Georges Vallet, nomi che evocano la pluriversalità della vocazione formativa dell’Ateneo. Fondata su un’integrazione dei saperi umanistici e scientifici. Come testimonia lo straordinario patrimonio laboratoriale
e museale. Un’eredità che in tempi più recenti è stata custodita e reinterpretata da Antonio Villani e Francesco M. De Sanctis. Luogo elettivo della didattica dei beni culturali, perché bene culturale esso stesso nel senso più ampio e moderno del termine. Si può affermare che senza il Suor Orsola questa città oggi non sarebbe la stessa e, d’altro canto un’università come il Suor Orsola forse non sarebbe stata possibile in una città che non fosse Napoli. Capitale del pensiero vivente - per riprendere la bellissima metafora di Roberto Esposito - dove il sapere è sempre profondamente incarnato, in un embodiment che lo ancora saldamente alla vita, anche nel senso del bios e della physis. In questo senso il Suor Orsola Benincasa è una famiglia: nel senso della filiazione di idee, ma anche in quello genealogico, inteso alla Michel Foucault. È una storia sociale di corpi. È un’istituzione e al tempo stesso una personificazione, un’eredità materiale e immateriale. Non una metafora reificata dunque, una corporation cui si attribuisce a posteriori un nome illustre. Ma al contrario nasce proprio da un nome, da un corpo, da una persona. E questo la rende, come avrebbe detto Piovene, assolutamente universale perché profondamente intrisa di località. Vorrei concludere queste brevi considerazioni sulle memorie e sui patrimoni collettivi con le parole di Italo Calvino. “Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dèi, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici”. La comunità di Suor Orsola di queste sere di settembre, quando il bianco del claustro comincia a farsi rosa, ne ha vissute molte. In questo sta la sua forza.
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CULTURA E FORMAZIONE
TUNNEL BORBONICO
Autofinanziamento per pulire il tunnel
Esplorando l’anima della città di Francesca Visconti
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mmaginate di accedere nel ventre di una della più grandi e popolose metropoli italiane e trovare al suo interno qualcosa di straordinario che profuma di storia ed avventura, silenzioso e immobile quanto affascinante e maestoso. Questo è ciò che si prova nell’entrare nel Tunnel Borbonico nella Napoli “di sotto”. Era il 19 febbraio del 1853 quando Ferdinando II di Borbone incaricava l’arch. Errico Alvino di progettare un viadotto sotterraneo che, passando sotto Monte Echia, congiungesse il Palazzo Reale con piazza Vittoria, prossima al mare e alle caserme, offrendo una via di fuga per i monarchi, ancora scossi dai
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moti del 1848. Successivamente strati e strati di storia si sono susseguiti e sovrapposti in quest’altra anima di Napoli. Si passa dagli oscuri “pozzari”, che facevano funzionare gli ingegnosi sistemi idraulici e consentivano ai cittadini partenopei di avere acqua limpida, ai terribili segni lasciati dal secondo conflitto mondiale, durante il quale questi spazi vennero destinati come ricoveri per i cittadini, per approdare infine all’epoca contemporanea in cui il Tunnel Borbonico fu utilizzato prima come Deposito Giudiziale e poi come discarica, dove dunque veniva immagazzinato tutto ciò che era stato estratto dalle macerie dei bombardamenti ed anche tutto ciò veniva
L’amore per il territorio di un gruppo di professionisti e volontari ha riportato il tunnel borbonico a nuova vita nonostante il silenzio e la indifferenza che le istituzioni hanno mostrato al riguardo.
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Pozzari & folklore I pozzari erano uomini addetti alla gestione dell’approvvigionamento dei pozzi: vivevano nel sottosuolo della città e i cunicoli sotterranei erano per loro senza segreti. La credenza popolare del “monaciello”, lo spirito che infestava le case facendo dispetti o lasciando soldi nei mobili, deve la sua nascita proprio ai pozzari, poiché costoro, a causa dell’altissimo tasso di umidità dei sotterranei, lavoravano indossando un mantello che copriva anche il capo, dando loro l’aspetto di monaci francescani. È da aggiungere che i pozzari potevano accedere alle case dei cittadini direttamente dai pozzi e secondo alcuni, sfruttavano questa possibilità, soprattutto quando le donne, sole in casa, per arrotondare l’esiguo bilancio familiare ben si prestavano a offrire determinati servigi.
I percorsi del Tunnel Borbonico - Standard: Emozionante percorso che permette di ammirare l’acquedotto della Bolla, le opere civili realizzate su progetto dell’arch. Errico Alvino e i ricoveri del periodo bellico. - Avventura: Dopo la visita ad una piccola cisterna, nella quale sono visibili eccezionali lavorazioni idrauliche, si scende ancora più in profondità per imbarcarsi su di una zattera che naviga sulla falda acquifera sotterranea di Napoli. - Speleo: Veri speleologi dotati di elmetti con luce frontale e tuta di imbraco per esplorare i cunicoli dell’antico acquedotto sotterraneo fino a raggiungere cisterne, ancora parzialmente riempite d’acqua e decorate con simboli misteriosi. (Fonte: www.tunnelborbonico.info.it)
Tesori nascosti nella Napoli sotterranea riportati alla luce dall’Associazione Culturale Borbonica.
recuperato da crolli, sfratti e sequestri. Il lieto epilogo per questi spazi relegati nel dimenticatoio ha avuto inizio circa sette anni fa, quando l’amore per il territorio di un gruppo di professionisti e volontari ha riportato a nuova vita questo tesoro abbandonato. Nonostante il silenzio e l’indifferenza che le istituzioni hanno mostrato riguardo questo progetto, a poco a poco il tunnel è stato riportato al suo antico splendore ed ogni sua bellezza valorizzata nel migliore dei modi . Infatti, l’associazione culturale Borbonica Sotterranea ha lavorato alla pulitura del tunnel per anni autofinanziandosi, contando esclusivamente sulla forza e la passione di chi ha creduto possibile questo nuovo “miracolo” napoletano. Un encomio particolare dunque a questi volontari che hanno regalato un motivo in più d’orgoglio ai cittadini partenopei.
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CULTURA E FORMAZIONE
CAMPANIA FELIX
Aprile, maggio, giugno: una primavera tutta da vivere all’insegna della musica, della cultura e dell’arte tra le bellezze naturali del territorio campano di Valentina Capuano
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i prospetta denso di iniziative artistiche e culturali la primavera campana: saranno, infatti, proprio “Le giornate per la cultura”, a dare inizio ad una serie di interessanti eventi che avranno luogo a Napoli il prossimo mese di aprile. L’iniziativa, promossa dall’assessore alla Cultura, Antonella Di Nocera, avrà luogo, infatti nei giorni 3, 4 e 5 aprile presso il Convento di San Domenico Maggiore. La kermesse, che mira al coinvolgimento dei cittadini in un complesso ed articolato progetto
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finalizzato alla produzione alla tutela e alla promozione della cultura, si prefigge di individuare un luogo di effettiva codeterminazione di indirizzi e programmi in ambito strategico per le sue implicazioni sociali, economiche e culturali. Nei giorni successivi i riflettori saranno, invece, puntati sull’Energy Med 2013, evento che, giunto ormai alla sesta edizione, avrà luogo, ancora una volta presso la Mostra d’Oltremare. Il meeting dedicato alle energie rinnovabili, costituisce una vetrina di rilevante importanza per innumerevoli novità inerenti le
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Per le giornate della cultura 2013 un’agenda ricca di appuntamenti.
fonti rinnovabili, l’efficienza energetica, l’energia sostenibile, il recupero e la trasformazione dei rifiuti in energia (col salone “Recycle”), la mobilità sostenibile (col salone “Mobilitymed”). Un’ampia sessione convegnistica ospiterà, invece, esperti di livello nazionale ed internazionale della green economy. Sono previsti, inoltre premi, iniziative speciali ed aree tematiche specializzate che comprenderanno i settori maggiormente innovativi del comparto verde, come la cogeneration, il fotovoltaico, il solare termico e le smartcities. Innumerevoli gli artisti che si esibiranno ad aprile nei teatri campani: l’8 aprile, reduci da un fortunato Festival di San Remo, Elio e le storie tese, canteranno presso il teatro Bellini; il 16 aprile, sarà la volta, invece, della vulcanica Gianna Nannini, che si esibirà presso il Palamaggiò di Caserta. Saranno i rocker Lif-
tiba ad incantare un pubblico più giovane presso la Casa della Musica. Infine, tra il 25 ed il 29 aprile, avrà luogo, presso la Mostra d’Oltremare, la XV edizione di Comicon. Il più grande evento-contenitore per Napoli, sarà, invece, il Maggio dei monumenti. Un programma fitto di appuntamenti è previsto anche quest’anno nel corso di questa rassegna che condurrà i cittadini nei luoghi più interessanti della città: dall’archeologia naturalistica di Posillipo, ai tesori religiosi di Marianella: 12 complessivamente gli itinerari previsti, tra i quali: 1) Centro storico (sito Unesco), 2) l’area archeologica del Teatro Romano, 3) San Domenico Maggiore, 4) La Galleria principe Umberto, 5) Castel Capuano, 6) Sant’Eligio, 7) Santa Croce al Mercato, 8) La Sala Sisto V, 9) San Lorenzo Maggiore, 10) La basilica di San Giovanni Maggiore. Congruo il numero di artisti di spicco che si esibiranno in Campania anche nel mese di maggio, fra i quali: Francesco De Gregori (7 maggio), che festeggerà i suoi 60 anni con un concerto che si terrà presso il Teatro Augusteo, i Modà che saranno in concerto il prossimo 21 maggio presso il Palamaggiò di Caserta e il rocker Bruce Springsteen che il prossimo 23 maggio offrirà un assaggio del suo rock esplosivo alla platea napoletana radunata il Piazza Plebiscito. Va infine ricordato un evento che crea, per il sesto anno consecutivo, un gemellaggio tra Napoli e New York: Napoli vs New York. VI edizione Park to Park, Trofeo interforze italoamericano. La competizione prevede un sfida in due tappe: la prima parte di essa avrà luogo a Napoli, partendo dal lungomare Caracciolo (10-12 maggio), proseguendo poi presso l’Est River di NY con la partecipazione di atleti appartenenti alle FF.AA, corpi di polizia dei rispettivi paesi di appartenenza. Il mese di giugno, infine si aprirà con un altro evento di risonanza nazionale: il IX Salone dei vini e dei territori vitivinicoli italiani (3-4-5 giugno), che si svolgerà presso Castel dell’Ovo: si tratta del wine show più atteso del Sud Italia durante il quale oltre 250 aziende vinicole esporranno per tre giorni di seguito degustazioni libere. Sono previsti inoltre eventi, convegni, incontri e mostre tematiche.
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CULTURA E FORMAZIONE
Antonio Montanaro Napoletano di nascita ed emigrante per necessità , Antonio Montanaro è un giornalista professionista e attualmente vive a Firenze, dove si occupa di sport e di cultura nelle pagine locali del Corriere della Sera.
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di Felice La Manna
Rabbia e Camorra Round Robin Editrice (Collana Fari)
Rabbia e Camorra, diario di periferia Intervista ad Antonio Montanaro, autore del libro: un viaggio nei quartieri della Napoli disperata.
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l titolo può trarre in inganno e far pensare ad una inchiesta. Invece Rabbia e Camorra (Round Robin Editrice) è un romanzo. Una storia dentro tante storie. Quelle che si vivono in un quartiere di Napoli, tra i palazzoni scrostati di periferia. La rabbia di chi qui ci è finito perché un posto migliore il destino non gliel’ha offerto, si intreccia con il potere senza scrupoli dei boss della droga. Gli otto capitoli, scritti in prima persona, hanno come titolo una condizione meteorologica che indica l’umore del pro-
tagonista: si inizia con l’afa, poi segue il caldo, la pioggia, la foschia, il vento, il freddo, il temporale e infine la brina. Il protagonista, ‘O Professore, diversamente da quanto spesso accade, per sfuggire alle delusioni, per cambiare vita, scappa dalla città per rifugiarsi in periferia. “Alla periferia di qualsiasi centro”. In un quartiere dove imperano degrado, droga, camorra. Perchè questa scelta? “È stata una scelta neanche troppo ragionata, quasi istintiva. Dovevo costruire un
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CULTURA E FORMAZIONE
io narrante credibile, funzionale a ciò che volevo raccontare. E cioè la rabbia che oramai invade ogni landa della nostra società. Dal “centro” alla “periferia”. Una rabbia provocata dai tempi frenetici imposti dal consumismo e dal capitalismo selvaggio, oramai in crisi, che guida ogni nostra azione. Così anche ambienti che in apparenza sono molto diversi, per abitudini o cultura, finiscono per diventare simili nelle reazioni. ‘O professore è un
parole, i tanti progetti architettonici, vedi per esempio le Vele, hanno prodotto soltanto mostri. La sinistra ha sottovalutato l’importanza di queste aree per lo sviluppo socio-economico della città. Ha contribuito a creare contenitori vuoti, dove l’emarginazione e la violenza hanno avuto terreno facile per attecchire. Non dimentichiamoci che nello stesso periodo in cui Bassolino faceva parlare il mondo intero con la pedonalizzazione di Piazza del Plebiscito in oc-
C’è un senso di impotenza che emerge da tutte le storie che si intrecciano in questo libro. È come se il ritmo frenetico che guida le vite di questi quartieri alla fine non producesse altro che violenza. Si corre per non pensare e ogni attimo in più di vita è una conquista, perché la fine potrebbe arrivare da un momento all’altro... trentenne borghese, istruito, curioso, che però non riesce a convivere con le proprie insofferenze, i propri tormenti. Li scopre, ci si scontra, anche con episodi violenti, ne ha paura. E fugge. Dove? Dove è sicuro di non trovare alcuna traccia di quegli stili di vita che lo hanno accompagnato fino a quel momento e da cui lui vuole allontanarsi. Perché non riesce più a tollerarli. Dunque, si rifugia in periferia, tra spacciatori, puttane, camorristi, disoccupati veri o di mestiere. E lì, inizialmente, si confronta con una dimensione tutta nuova. Nel grigio dei palazzoni trova una quiete inaspettata. Ma l’incontro con una donna, Rosaria, cambia di nuovo tutto. E lo riporta nella rabbia da cui fugge, che poi è la stessa dei disperati che lo circondano...”. Anche se le periferie del napoletano si assomigliano un po’ tutte, tra le pagine del tuo libro non ho mai smesso di immaginarmi Scampia. Tuttavia, non ci sono riferimenti, anzi, continui a ripetere “Alla periferia di qualsiasi centro”. Al contrario di chi si sta battendo per una fiction da girare proprio a Scampia... “Quello delle periferie è un tema che a Napoli è al centro del dibattito politico da almeno quarant’anni. Purtroppo le tante
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casione del G8, a Scampia si formava la più grande holding internazionale del narcotraffico. Nel silenzio e nell’abbandono della politica. Solo con l’arrivo delle faide si è ricominciato a parlare di periferie. Nel libro non faccio riferimenti specifici, sia perché non volevo trasformarlo in una sorta di Gomorra due, e soprattutto perché penso che ci siano delle caratteristiche comuni a tutte le periferie. E la mia intenzione era, e spero di esserci in qualche modo riuscito, quella di descriverle. Il dibattito nato intorno al “no” alle riprese della fiction di Sky a Scampia è interessante, ma secondo me dovrebbe fare un salto in avanti. Non è solo il “non potete dipingerci sempre così”. Non può essere solo una difesa degli onesti. La domanda da porre, piuttosto, è: quanto pericoloso può diventare l’effetto emulazione, anche culturale, che tali operazioni generano? E ancora: è cultura o spettacolo fine a se stesso? Vorrei ricordare che le scene del “Camorrista” di Tornatore, il film sulla vita di Raffaele Cutolo, sono considerate un cult proprio da scagnozzi, boss, spacciatori. Le musiche e i video di quei film sono sugli smartphone della maggior parte degli arrestati per camorra. Allora il rischio è che tutto venga macinato nel grande business dello spettacolo, senza considerare gli
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Alla periferia di qualsiasi centro Allora il rischio è che tutto venga macinato nel grande business dello spettacolo, senza considerare gli effetti. E allora le Vele di Scampia diventano quasi un monumento, come la Torre di Pisa, sotto cui fare foto, girare film. Solo che lì l’effetto è molto più macabro
effetti. E allora le Vele di Scampia diventano quasi un monumento, come la Torre di Pisa, sotto cui fare foto, girare film. Solo che lì l’effetto è molto più macabro”.
pletamente diverso, utilizzando anche altri linguaggi. Sfruttando il multimediale… Anche perché penso che Rabbia e Camorra sia un libro molto cinematografico…”.
Il racconto nasce da un blog – curato in anonimato – “Diario di Periferia”. Dal blog al libro: come avviene questo passaggio?
Il finale del libro può essere riassunto con una frase: “C’è poco da fare, da queste parti il grigio deve rimanere sempre grigio, a costo di ammazzare tutti gli altri colori che cercano di farlo diventare altro”.
“È avvenuto in modo naturale, a un certo punto mi sono reso conto che nella mia testa la storia era nata più per la carta che per il web. Così ho cercato di adattarne stile e contenuti. D’altronde l’esperimento sul blog è durato pochissimo, circa dieci anni fa. E’ durato poco, più di tre mesi. Poi c’è stato un lungo periodo in cui ho lasciato che i racconti maturassero e che dentro di me crescesse la consapevolezza di ciò che volevo dire. Dove volevo arrivare. Una cosa è certa, se oggi dovessi scriverlo per il web lo farei in modo com-
“E sì, c’è un senso di impotenza che emerge da tutte le storie che si intrecciano in questo racconto. Ed è riassunto anche nel clamoroso gesto finale del protagonista. È come se il ritmo frenetico che guida le vite di questi quartieri alla fine non producesse altro che violenza. Si corre per non pensare e ogni attimo in più di vita è una conquista, perché la fine potrebbe arrivare da un momento all’altro...”
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CULTURA E FORMAZIONE
CAPODANNO IN CINA: IL BENVENUTO ALL’ANNO DEL SERPENTE
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di Carmela Foglia
Un viaggio tra cultura, tradizioni, suoni e colori. Come i Cinesi si preparano ad accogliere il nuovo anno e cosa rappresenta.
“P
aese che vai, usanza che trovi”: non c’è proverbio più adatto per intraprendere un viaggio verso un mondo così affascinante e bizzarro allo stesso tempo, ricco di tradizioni e leggende. Se si parla di leggende, non si può non citare quella legata alle origini del Capodanno Cinese: la leggenda del mostro Nian (che in cinese significa anche “anno”). Si racconta, infatti, che in Cina esistesse un mostro chiamato Nian, che viveva negli abissi marini o sulle montagne. Nella mitologia cinese, il Nian usciva dalla sua tana una volta ogni dodici mesi, per predare gli esseri umani. La sera prima dell’arrivo del mostro, tutte le famiglie si riunivano e stavano insieme dato che non si sapeva chi il giorno dopo non ci sarebbe più stato, l’indomani i sopravvissuti festeggiavano l’inizio del nuovo anno. Gli uomini però scoprirono che l’unico modo per sfuggire a questo tributo di sangue era spaventare il Nian, sensibile ai rumori forti e terrorizzato dal colore rosso. Per questo motivo, sempre secondo la leggenda, ogni 12 mesi si è soliti festeggiare l’anno nuovo con canti, strepitii, fuochi d’artificio, battendo tamburi, piatti, ciotole e il colore che predomina è il rosso, in modo da scacciare via gli spiriti maligni. Sempre da questa leggenda deriva la caratteristica Danza del Leone cinese che, secondo la tradizione, era stato un modo creativo pensato dal popolo per allontanare la creatura. È chiaro, quindi, che il Capodanno Cinese, conosciuto anche come Festa di Primavera “Chun Jie” (春节) o Capodanno Lunare, è sicuramente una delle festività più attese e sentite dal popolo asiatico. Il calendario lunare Foto di Machi Di Pace
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CULTURA E FORMAZIONE
cinese risale al 2637 a.C. quando l’imperatore Huangdi introdusse il primo ciclo dello zodiaco. Alla base di questo sistema c’è un ciclo secondo cui ciascuno dei dodici segni animali si combina con uno dei cinque elementi essenziali e primitivi (Legno, Fuoco, Terra, Metallo, Acqua). Ad ogni anno è assegnato un particolare animale che dà anche significato all’anno stesso. Ma perché solo dodici animali? Esistono moltissime storie legate a questa particolare vicenda. La leggenda più famosa narra di un re che voleva festeggiare il capodanno in maniera speciale. Infatti, decise di invitare al banchetto non solo gli uomini, ma anche tutti gli animali. Inviò, quindi, dei messaggeri perché chiamassero a palazzo tutti gli animali della terra. Venne il gran giorno e tutto era pronto. Il re si mise ad aspettare gli ospiti. Il primo ad arri-
Ciascuno dei dodici segni animali si combina con uno dei cinque elementi essenziali e primitivi (Legno, Fuoco, Terra, Metallo, Acqua). Ad ogni anno è assegnato un particolare animale che dà anche significato all’anno stesso. vare fu il Topo, seguito dal Bue, dalla Tigre e dal Coniglio. Giunsero poi il Drago, il Serpente, il Cavallo, la Capra, la Scimmia, il Gallo, il Cane. Per ultimo arrivò il Maiale. Il re continuò ad aspettare, ma non arrivò nessun altro animale, allora pensò di ringraziare coloro che avevano accettato il suo invito. Così decise che ogni anno avrebbe avuto il nome di un animale, cominciando dal Topo, che era stato il primo ad arrivare, per finire con il Maiale, l’ultimo del gruppo. Decretò poi che alla fine dei dodici anni, il ciclo ricominciasse di nuovo. E poi di nuovo ancora. E così è stato e nulla è cambiato oggi. Quest’anno è stato il turno del Serpente, legato all’elemento Acqua. Per i Cinesi è un segno che esprime intuito, intelligenza e forza di volontà, nonché una
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grande tenacia. Sa pensare, organizzare e agire con rapidità sorprendente. È generoso, garbato e discreto. La sua caratteristica è sicuramente la saggezza. La festività dura 15 giorni in concomitanza della seconda luna nuova, dopo il solstizio d’inverno. Essendo il calendario cinese lunisolare, l’inizio di ogni mese è segnato da ogni novilunio, una caratteristica che rende il Capodanno un evento che può avvenire in una data tra il 21 gennaio e il 19 febbraio del calendario gregoriano. La festa vera e propria inizia la sera della vigilia, in cui si consuma un banchetto in famiglia e termina la sera del quindicesimo giorno. Generalmente, durante questo periodo si tende a stare in famiglia, con visite ai parenti e agli amici più prossimi. Si cerca di vestire il più possibile di rosso, colore propiziatorio e tradizionale e di addobbare le case e le strade con oggetti caratteristici. Sebbene i rituali possano variare da regione a regione, i principali appuntamenti da osservare giorno per giorno durante questo periodo sono uguali per tutti. Per festeggiare una ricorrenza così importante, non potevano di certo mancare cibi particolari: al nord si consumano soprattutto jiaozi (ravioli), confezionati in modo da ricordare la forma “a barchetta” dei lingotti d’oro e d’argento in uso in epoca imperiale, spesso aggiungendo nel ripieno di un solo raviolo una caramella (chi la trova sarà la persona più fortunata della famiglia nel corso del nuovo anno); al sud si preferisce, invece, preparare i niangao (un tipo di gnocchi che si ottengono tagliando a dischi sottili un cilindro di pasta di riso glutinoso), la cui forma ricorda le monete. Come le lenticchie in Italia, anche per ravioli e gnocchi in Cina vale la tradizione che più se ne mangia, più prospero sarà il nuovo anno. Tuttavia, per vivere e sentire l’emozione sulla propria pelle di una ricorrenza di tale portata non c’è bisogno di andare molto lontano. Infatti, da qualche anno ormai, le comunità cinesi presenti nelle varie città del mondo, festeggiano il Capodanno Cinese, vestendo di rosso le città in cui vivono. Anche l’Italia si è colorata di rosso: Milano, Firenze, Prato, Bologna, Brescia, Roma, Napoli. Tutti ad accogliere il nuovo anno, Cinesi e non. Tutti catapultati in un mondo certamente diverso, che si confonde sempre di più con il nostro.
Foto di Andrea Baldo
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Il Capodanno dura 15 giorni Il calendario cinese è lunisolare, l’inizio di ogni mese è segnato da un novilunio, una caratteristica che fa cadere il Capodanno tra il 21 e il 19 fabbraio.
Curiosità: I giorni che precedono il Capodanno sono dedicati ad una radicale pulizia della casa, un gesto di valore simbolico e scaramantico che allontanerebbe la sfortuna e gli avvenimenti negativi passati per aprire la strada ad un nuovo anno di buoni auspici. Altra tipica usanza è lo scambio di buste rosse contenenti denaro. Per tradizione, il numero di monete contenuto nelle buste deve essere sempre pari, in quanto i numeri dispari sono legati con il denaro che si dona ai funerali. Inoltre, durante il capodanno si evita di donare una somma pari o multipla del 4, numero legato al significato di morte e quindi di cattivo auspicio, fatta eccezione per l’8, numero fortunato.
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CULTURA E FORMAZIONE
Teatro Valle, storia di un’occupazione 106 |
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di Felice La Manna
Il 14 giugno del 2011, attori e lavoratori dello spettacolo hanno occupato il Teatro Valle, il più antico palcoscenico della capitale, risalente al 1727, nel Rione Sant’Eustachio. Dopo 20 mesi dal primo sipario, il racconto di un’occupazione sostenuta dai grandi nomi della cultura italiana, da Dario Fo a Luca Ronconi, da grandi giuristi come Stefano Rodotà e Ugo Mattei, da carica ed entusiasmo senza eguali. Chiacchierata con l’attrice Laura Pizzirani.
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l potere c’era Berlusconi, il ministro dell’Economia era Giulio Tremonti. Nell’ottica di nuovi e drastici tagli al comparto culturale, viene soppresso l’Ente teatrale italiano. Il cavallo di battaglia triste e famoso “Con la cultura non si mangia”: il governo del cavaliere di Arcore, prima di lasciare spazio ai tecnici, affilava le forbici e tagliava senza scrupoli la cultura italiana. Manifestazioni culturali, pubblicazioni e spettacoli spazzati via come se non fossero mai esistiti in un panorama artistico, letterario e musicale che sempre si è differenziato per generi e stili. Compreso in questo colpo di mano c’era anche il Teatro Valle di Roma, uno dei più antichi in Italia e il più antico della capitale. La programmazione proseguiva fino a maggio 2011. Un mese dopo, un collettivo di artisti tirava di nuovo su la serranda del Valle e cominciava un’occupazione che prosegue fino ad oggi. Un percorso “di lotta che, evidenziando lo stato di emergenza in cui verte il sistema culturale italiano, ha assunto poi carattere costituente”. Facciamo un passo indietro, al 14 giugno del 2011. Perché si occupa? Da un po’ di anni si era formato questo gruppo composto in particolar modo da attori, lavoratori dello spettacolo, tecnici, che venivano un po’ dal cinema, un po’ dal teatro e che stavano portando avanti una battaglia sui diritti dei lavoratori dello spettacolo: la questione della disoccupa-
zione, il riconoscimento dei tempi di non lavoro, i diritti che ci vengono negati. Volevamo vederci riconosciuti i diritti che in tutto il resto dell’Europa sono garantiti. La politica dei tagli che si è inasprita nel 2010 ha portato queste persone a partecipare molto di più ai sit in, alle manifestazioni di piazza. Poi facevamo queste “entrare” nei teatri nelle sere delle prime, con la banda, leggendo comunicati, ribadendo le ragioni della nostra lotta. Non ci interessava tanto la difesa del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) ma, piuttosto, immaginavamo un modo nuovo di dare soldi alla cultura. Quando addirittura si parlava di estinguere il FUS, era stato l’unico momento in cui eravamo riusciti a paventare l’ipotesi di uno sciopero di tutti i teatri e dei cinema. Avevamo coinvolto tutti, dall’opera al cinemino, sarebbe stato il primo vero e proprio sciopero dei lavoratori dello spettacolo fatto in Italia. Sennonché, avevano capito che questa cosa ci avrebbe unito troppo ed hanno reintegrato il FUS due giorni prima dello sciopero. Le realtà che campano di fondi pubblici si sono spaventate ed hanno fatto un passo indietro. Come buona parte delle realtà istituzionali del teatro, si preoccupano solo delle loro briciole e non se ne fregano dello sfracello verso il quale stiamo andando. Dall’altra parte non c’è una coscienza dei lavoratori dello spettacolo e, allo stesso tempo, i teatri pubblici sono destinati a merce della politica. È la politica che decide chi sta
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CULTURA E FORMAZIONE
Tre giorni di occupazione dove mettiamo al centro dell’attenzione la devastazione culturale. Occupiamo senza chiedere niente in cambio. Non siamo mai stati considerati degli interlocutori degni, quindi, rifiutiamo l’interlocuzione con chi non ha mai voluto parlare con noi.
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alla direzione artistica di un teatro, cosa ne sarà di un teatro e, solitamente, i lavoratori dello spettacolo non vengono mai interpellati, non viene mai chiesto un parere, non vengono mai messi al centro delle decisioni. Intanto chiudeva l’ETI, ente inutile, in quanto rispetto alla finanziaria il guadagno dello Stato era veramente minimo. L’ETI, anche se come tante istituzioni pubbliche era un carrozzone che sprecava soldi, aveva il ruolo preciso di incentivare la ricerca, le giovani compagnie, la formazione del pubblico, i rapporti con l’estero. Oltre ad avere in gestione questi teatri importanti in varie città d’Italia. Quando ti arriva la notizia che il Valle, teatro storico, dove ha debuttato Pirandello, dove c’è stato Rossini, Mozart, un luogo che in ogni paese sarebbe tutela del patrimonio culturale, forse viene chiuso, forse viene messo a bando privato, pare che ci sia l’interesse di alcuni imprenditori, voci che Alemanno voglia affidare a Barbareschi la sua direzione artistica, cominci a porti dei seri interrogativi. Il Valle è il teatro più antico di Roma, tra i più importanti in Italia e in Europa. Inoltre, ci lavoravano una serie di lavoratori portatori di una competenza enorme. Gente che lavora lì da 30 anni. Il Valle è un teatro clas-
sico all’italiana, tutto manuale, una graticcia altissima di 18 metri, per lavorarci devi aver dovuto sviluppare una certa competenza e capacità. Dopo la chiusura dell’ETI molti di questi – rimasti senza stipendio - sono finiti a lavorare altrove, ad eventi molto meno importanti, buttando all’aria esperienza e competenza, anni di sacrificio e formazione. Tutto questo ci ha portato alla decisione di intraprendere un’azione forte: tre giorni di occupazione dove mettiamo al centro dell’attenzione la devastazione culturale. Occupiamo senza chiedere niente in cambio. Non siamo mai stati considerati degli interlocutori degni, quindi, rifiutiamo l’interlocuzione con chi non ha mai voluto parlare con noi. Poi, la cosa è divenuta sempre più complessa. Il giorno prima di occupare è arrivata la vittoria al referendum per l’acqua pubblica. Erano anni che non si vedeva una così ampia partecipazione. Ma anche nel resto del mondo, dalla primavera araba, agli indignados spagnoli, passando per Occupy Wall Street e la questione Islandese. Questo ci ha dato una grande spinta. Il Valle è diventato sempre più parte di questo processo di cambiamento, di messa in discussione della democrazia rappresentativa come è stata fino ad oggi. Dal tuo racconto, appare chiaro che siamo di fronte a qualcosa che è molto di più di una semplice riattivazione della macchina teatrale. Si tratta di un Teatro che va al di là delle sue peculiari funzioni, è un luogo di incontro, di confronto, d’istruzione, di formazione. Dunque, il teatro è ancora, come in un passato che sembra sempre più lontano, capace di giocare un ruolo di sensibilizzazione morale, sociale e politica del cittadino? Sì, certo. Ovviamente è una grande utopia. Noi abbiamo fin da subito dato importanza al valore storico del teatro, da sempre luogo politico e della cittadinanza. In questi ultimi anni ci sentivamo un po’ marginali. Nessuno va più a teatro, nessuno si interessa. Ma forse non perché la gente non è interessata al teatro ma perché il teatro non propone nulla di interessante.
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Stando al Valle, dando la possibilità a chiunque di entrare - il Valle è sempre stato il teatro del centro, molto costoso – aprirlo tutti il giorni, non solo agli spettacoli, ma anche alla formazione il più possibile accessibile (anche chi non partecipa ai laboratori può seguire quello che accade), le prove di alcuni spettacoli. Poi ci sono le assemblee pubbliche, si discute della crisi economica come della finanziarizzazione, della gestione del debito pubblico. Si discute della libertà di Abbiamo riaperto la pensiero, di internet, commissione Rodotà, di qualunque cosa. Il tutto nella commiuna commissione stione più totale. Può parlamentare che risale capitare, come è sucal Governo Prodi, per ragionare cesso qualche mese fa, mentre si tiene un sulla questione del bene workshop di danza sul palco, in platea, con il comune rispetto sipario chiuso, si dial diritto di proprietà. scute di default ed economia. Vedere il flusso di pubblico, osservare come il teatro realmente si predispone a modificarsi in base a quello che accade, ti fa rendere conto che il teatro è l’agorà della città. Lo è per sua connotazione. È il modo in cui lo vivi e lo fai vivere che gli dà questa potenza. In realtà, stiamo riscoprendo che questo valore del teatro è ancora lì. Noi che come società, come comunità, abbiamo un po’ perso la capacità di creare questo corto circuito. Per me è molto emozionante vedere gli addetti ai lavori, ma non solo, qualsiasi persona di questa città che viene in teatro, attirata da un nome famoso piuttosto che da un evento specifico e, una volta entrata, si innamora. Perché il luogo è incredibile, magico e puoi venire ogni giorno senza che questo rappresenti un problema economico. Dopo 20 mesi di occupazione è faticoso. Però è potente, vitale. E’ anche questo il motivo per il quale un gruppo di pazzi decida ancora di stare lì nonostante non ne tragga alcun vantaggio economico. Laura Pizzirani
Rinnovamento, cambiamento. È un po’ quello che chiedono gli italiani a gran voce, voler partecipare da protagonisti al
cambiamento. Lo dicono anche i risultati elettorali, al di là della situazione di ingovernabilità che è venuta a crearsi. Ma siamo davvero di fronte ad una svolta politica e sociale del nostro Paese? La situazione è da comprendere. Da un lato, il fenomeno Grillo incarna pienamente i temi che stiamo portando avanti noi da 20 mesi di occupazione. Basta con la politica, la politica rappresentativa. Sì ad una presenza continua e costante del cittadino che non si riduca ad una crocetta su un foglio quando viene chiamato alle urne. D’altra parte, va capito un po’ meglio tutto il fenomeno. Quello che stiamo verificando anche noi sulla nostra pelle è che la democrazia diretta, partecipata, è molto complessa. Un po’ lenta, richiede molto lavoro di ascolto e comprensione, su queste grandi cifre bisogna capire cosa si farà. Dentro al M5s ci sono una varietà di anime. Noi siamo rimasti fuori da questo discorso, abbiamo deciso di fare un ragionamento interno sulla questione. Di sicuro non vogliamo restare al margine della questione politica del Paese ma abbiamo tempi molto più lenti, facciamo delle assemblee lunghissime che vanno a consenso. Al Valle c’è gente di ogni età che viene da esperienze politiche diverse e variegate. Però, una cosa a cui teniamo molto è fare politica attivamente: abbiamo riaperto la commissione Rodotà, una commissione parlamentare che risale al Governo Prodi, per ragionare sulla questione del bene comune rispetto al diritto di proprietà. Individuare nel territorio italiano quelli che sono i beni della collettività che in qualche modo stiano fuori dal diritto privato e quello pubblico. Questa commissione di studiosi di diritto, a partire da Rodotà e Mattei, è stata aperta dando un’agenda politica ai cittadini, allargandola alla partecipazione dei cittadini: tutti i gruppi, movimenti che si battono per i beni comuni, a partire dalla rete dei teatri occupati. Quello che è accaduto è sicuramente il segno di un desiderio di cambiamento da parte dei cittadini. La cosa che dobbiamo fare è essere molto più presenti e prenderci la responsabilità del nostro paese, della nostra città, dei nostri diritti.
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RECENSIONE di Francesco Romanetti
Samuele Ciambriello E’ stato presidente del Corecom Campania e componente del Comitato Nazionale Tv e minori. Consigliere Regionale della Campania dal 1990 al 2000. È docente alla Link Campus University ed insegna “Teoria e tecniche della comunicazione” all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa. È giornalista e attivo operatore nel privato sociale.
Dentro La Comunicazione Concetti, Modelli, Persone un libro di Samuele Ciambriello e Michele Infante
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ome si fa a mettere insieme Lukàcs e Berlusconi? Si fa, si fa. E tutto sommato anche il linguaggio del corpo e i segnali prossemici possono interagire con la legge Mammì. Information-space e logica del database che c’entrano con il Corecom? C’entrano. Perfino il maestro Alberto Manzi - ricordate? quello di «Non è mai troppo tardi» - può andare a braccetto con Zygmunt Bauman. Ad accostare, frullare e riordinare temi e questioni anche distanti, ma ricondu-
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cibili ad uno stesso ambito ermeneutico è Dentro la comunicazione. Concetti, modelli e persone (Guida, pagg. 213, euro 10), di Samuele Ciambriello e Michele Infante. Un testo che inaugura per Guida la collana «We Care», pensata dallo stesso Ciambriello, che si ripropone di pubblicare «libri agili, rivolti ad un ampio pubblico di studiosi, ricercatori, studenti». Siamo, insomma, nei territori della divulgazione - come chiarisce Ferdinando Pinto in una «seria, velenosa e leggera post-fazione» - che si risolve in questo caso
Michele Infante Dottore di ricerca in “Teoria dell’informazione e della comunicazione”, ha insegnato alla John Cabot University ed ha svolto attività di ricerca presso la New School for Social Research di New York e la Humboldt Universität di Berlino. Attualmente insegna “Corporate Comunication” all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e “Teoria e Tecniche dei nuovi media” alla Link Campus University.
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in un multifunzionale strumento di conoscenza. Già. Ma si fa presto a dire «comunicazione». Campo minato, infido, sfuggente. Addirittura, secondo gli autori, «il tema più difficile, complesso e articolato Si fa presto a dire del pensiero del Nove“comunicazione” ma, è “il cento», dal momento che è relativo ad una tema più difficile, complesso dimensione continuaed articolato del pensiero del mente trasformata e novecento” dal momento che stravolta da mezzi (media) e tecnologie. è relativo ad una dimensione Carta stampata, radio, televisione o Internet continuamente trasformata sono mezzi strumentali da media e tecnologie (seppur messaggio in sé, come suggerisce McLuhan) la cui definizione va di continuo ripensata in un contesto globale che ri-gerarchizza livelli, linguaggi e tempi della comunicazione. E bla bla bla. Ma quel che conta qui segnalare, per restare al libro, è che Ciambriello e Infante forniscono una mappa per orientarsi. Nei primi capitoli affrontano nodi teorici, fornendo un sufficiente ragguaglio su interpretazioni e filoni di pensiero. Tema di fondo, che percorre le pagine: la comunicazione rende liberi? Certo che sì: in parte. Però è anche (o soprattutto?) brandita come strumento di dominio, di manipolazione delle coscienze, di inganno. Sì, in teoria uno sceglie: perbacco, ha anche il telecomando. Ma la maggior parte degli spettatori dei reality, quali strumenti culturali hanno per scegliere, per giudicare criticamente? Pochini. E infatti, non scelgono. Stanno lì, davanti alla tv spazzatura. O alla pubblicità. O al populista di turno. Gli studi di Katz, le teorie di Bourdieu, le intuizioni di Eco, ma anche Benjamin, Weber e Marcuse, fino a Beck, Rifkin e Bauman, ci aiutano a comprendere questi fenomeni. E non solo. Irrompere della televisione nella storia culturale dell’Italia contemporanea, comunicazione sociale, tutela dei minori, rivoluzione di Internet e futuro del digi-
tale sono altrettanti temi che vengono presi in esame nel libro per dare un quadro d’insieme. C’è spazio - anche - per quella che potrebbe apparire una digressione: un capitolo sull’evoluzione normativa del sistema radiotelevisivo. In realtà, a ben vedere, è proprio lì che da oltre un ventennio si disputa la madre di tutte le battaglie sul controllo dell’informazione. Dalla legge Mammì alla legge Maccanico, dalla legge Gasparri alla sua bocciatura da parte dell’Unione Europea, di questo si tratta. Chi, come, con che mezzi economici e in che misura può controllare la comunicazione, è questione che riguarda l’esercizio di un enorme potere. L’anomalia italiana, il macroscopico conflitto di interessi tra economia e politica sul terreno dell’informazione, ha vissuto di queste contraddizioni. György Lukacs ha a che fare con Silvio Berlusconi. Altro che.
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CULTURA E FORMAZIONE
L’OPINIONE DI LUCA DE FUSCO considerato scandalosi, ma che qui diventano “tempi umani”. Non lo sono invece i tempi del Comune e della Provincia che non considero neppure da mondo occidentale. Basti pensare che il Comune non paga il teatro Stabile dal 2007”. Sono state avanzate critiche anche sulla programmazione. Tra queste quelle sul progetto Arrevuoto, il laboratorio di pedagogia teatrale nato a Scampia che ha ricevuto importanti riconoscimenti nazionali. Eppure potrebbe non essere rifinanziato.
Il progetto Arrevuoto, laboratorio di pedagogia teatrale nato a Scampia potrebbe non essere rifinanziato nonostante il successo ed i riconoscimenti di Elena Cennini
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ncontro Luca De Fusco, Direttore del Teatro Stabile di Napoli e Direttore artistico del Napoli Teatro Festival, a pochi giorni dalle polemiche che hanno interessato il Consiglio d’amministrazione del Mercadante, con le pesanti contestazioni, poi rientrate, avanzate da alcuni membri dello stesso organo presieduto da Adriano Giannola. Provo a stuzzicarlo con un gioco di parole: Cosa significa essere ‘Stabile’ a Napoli? Ride De Fusco, poi risponde: “Vuol dire essere stabilmente perseguitato dalla totale inefficienza degli enti locali napoletani. C’è una nettissima differenza tra ciò che accade da Roma in su e quello che succede qui. Un esempio: può accadere, anzi accade che un bilancio concor-
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dato e approvato venga cambiato a fine anno, magari nelle festività natalizie, quando è oramai impossibile rivedere i preventivi, l’ho verificato con orrore a Palermo, a Catania e ahimè anche a Napoli”. Difficoltà di bilancio, eppure vantate crediti dalla Regione, dal Comune e dalla Provincia. “Tocca fare un distinguo, la Regione funziona ancora in una maniera vagamente europea, i soldi vengono erogati e l’assessorato regionale alla cultura ha riconfermato per questo 2013 lo stesso investimento di spesa dell’anno passato sulla Legge 6 che finanzia lo spettacolo in Campania. Certo in tempi che in Veneto avrei
“Preciso che il progetto è stato tagliato nell’ultimo anno di direzione De Rosa. Non accuso il mio predecessore, nelle sue condizioni avrei fatto lo stesso. Il Mercadante respira con un filo d’aria e necessita di spettacoli che portino sovvenzioni ministeriali. Purtroppo, per uno Stabile in queste condizioni, la seppur straordinaria esperienza di Arrevuoto non è sostenibile, portarlo all’interno del Napoli Teatro Festival è stato un modo per salvarlo e lo sforzo è quello di salvarlo anche quest’anno. Però, voglio chiarire che il progetto non è intestato a Luca De Fusco e non è un mio dovere specifico mantenerlo in vita ogni anno. Piace tanto all’assessore alla cultura del Comune di Napoli Antonella Di Nocera, bene, lo assumessero tra i loro impegni, ho saputo che il Comune per il Forum delle Culture ha a disposizione uno stanziamento pari a dieci milioni di euro, ecco potrebbe rientrare anche nelle loro responsabilità. A meno che il Sindaco non sia impegnato solo a programmare concerti di musica rock popolare. Mi innervosisce non poco che mi si dica cosa mettere in tavola quando sono io il cuoco! Co-
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munque, nella nostra immensa pluralità, quest’anno lo salveremo”. Quindi l’impegno è inserire Arrevuoto nel cartellone di un Festival che, per quanto dichiarato, vuole trasformarsi in cantiere teatrale “La proposta per questa VI edizione corre su un doppio binario, da un lato mantiene la sua naturale vocazione all’internazionalizzazione, ma in chiave attiva, partecipativa e propositiva con il coinvolgimento delle energie vitali del territorio, dall’altro apre ai giovani della città in termini di occupazione, occasioni e perché no fascinazione. Siamo una delle due grandi patrie del teatro italiano e molti considerano Napoli uno straordinario giacimento di talento attoriale. C’è certamente il rischio che Napoli guardi solo al proprio ombelico, che sia autoreferenziale, ma è nostro impegno mostrare e costruire
un’offerta aperta, di ampio respiro. S’inserisce in questa prospettiva anche la programmazione del Fringe, lo spazio di trenta spettacoli riservato alle giovani compagnie cui sarà garantito anche un seppur minimo contributo economico. Non vogliamo essere una fabbrica di illusioni e delusioni, per questo stiamo lavorando attentamente alla programmazione, con l’auspicio di creare quell’inciampo d’interesse tra teatro on ed off, così come accade in realtà come Edimburgo e Avignone, dove la domanda supera l’offerta. Non abbiamo cinquant’anni di storia, però da due anni a questa parte siamo impegnati ad innescare quel turismo culturale di cui la città ha bisogno”. Obiettivo encomiabile. Ma cultura e teatro sono progetti cantierabili in questa città? “Malagò, il nuovo presidente del
Coni, ha dichiarato che questo Paese deve tornare a sognare a cominciare dallo sport. Io aggiungo che non solo Napoli ma l’Italia intera devono tornare a sognare a partire dal proprio grande patrimonio culturale e teatrale. Per tornare ad essere un Paese da serie A”. Manteniamoci nella metafora sportiva: quali gli incontri da scudetto dal 6 al 23 giugno? “Considero imperdibili La Bisbetica Domata di Andreij Konchalovsckij, il Circo Equestre Squeglia di Alfredo Arias, Le Dépeupleur di Peter Brook, Antonio e Cleopatra per la mia regia, lo spettacolo di Josè Montalvo, ma tengo molto a lanciare anche un altro invito: non siate spettatori da terzo mondo come gli enti locali, andate a vedere la danza moderna e contemporanea”.
Dal 6 al 23 giugno dieci spettacoli del Napoli Teatro Festival Italia • La Bisbetica Domata
di William Shakespeare regia di Andreij Konchalovsckij
• Circo Equestre Squeglia
di Raffaele Viviani regia di Alfredo Rodriguez Arias
• Le Dépeupleur
di Samuel Beckett regia di Peter Brook
• Antonio e Cleopatra
di William Shakespeare regia di Luca De Fusco
• Don Quichotte du Trocadéro
coreografia di José Montalvo
• Spam
regia di Rafael Spregelburd
• La Réunification des deux corées di Jöel Pommerat • Desdemona
di Toni Morris regia di Peter Sellars
• Bobo-Dioulasso
adattamento e regia di Jean-Luis Martinelli
• Vertigo 20
coreografia di Vertigo Dance Company
Gli spettacoli di E45 Napoli Fringe e tutte le informazioni su www.napoliteatrofestival.it
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PRESENTIAMOCI IN DIRETTA la redazione di LINK vi aspetta per collegarci con la Cultura, la Politica e la Gente NA NAPOLI venerdì 5 aprile, ore 17:00 Facoltà di Scienze Politiche Federico II via L. Rodinò, 22
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