QUI ED ORA Le incertezze del Governo Letta Crisi dei Partiti e prospettive future
WELFARE La guida Michelin dei poveri Il Sud delle eccellenze
SPECIALE
ANNO I | NUMERO 2 | â‚Ź 5,00
Gli effetti della Riforma della Legge Fallimentare
Vento di Cambiamento Aperture ed attese del PontiďŹ cato di Papa Francesco
... scrivi a redazione_link@libero.it
lettere ed opinioni Complimenti! Complimenti per l’iniziativa a Ciambriello, al comitato editoriale e al coraggio dell’editore. Link nel segno del collegamento, dell’unione, della rete, del sentirsi insieme uniti. Quanto di virtuale e poco reale c’é nei numerosi Links che ogni giorno consumiamo? Quanta solitudine (anche nel senso dell’isolamento reale, sociale e politico dei singoli) nasconde la rete? Quante illusioni di comunioni e condivisioni false si vivono dientro ogni singolo click di un tasto per avviare un “LINK”? Attenzione! Sono sicuro che riuscirete a far passare attraverso i cavi del collegamento, i fili elettrici, i computer, gli I Pad e I Pod e le pagine della rivista, quel sano senso della solidarietà sociale e politica che si viveva quando il Link si accendeva dandosi pacche sulle spalle o strette di mano o abbracci nel corso delle riunioni fiume (collettivi politici); ognuno si caricava un po’ dei problemi dell’altro e si cresceva nella consapevolezza della comprensione comune. Lodevole l’iniziativa di aggregare con convegni, ricerche e centri di documentazione. Insomma, un laboratorio politico che interpreti il cambiamento e lo gestisca nel moderno senso della crescita di una coscienza sociale nuova e lo traduca in un comportamento politicamente corretto e aderente alle esigenze di questi tempi. In bocca al lupo e... adelante! ... Come usa dire un mio caro amico di viaggio. Gennaro Trezza
Il “segreto del successo” di Papa Francesco Benedetto XVI è stato spazzato via in un attimo da un altro uomo vestito di bianco che si è subito rivolto alla folla iniziando il suo discorso con un inconsueto “buonasera”. Francesco è ironico, dolce, gentile. Ha rifiutato fin da subito rocchetto, mozzetta, croce d’oro. Non ha preso possesso degli appartamenti storici, ma ha preferito rimanere a Santa Marta, dove partecipa alla messa con i dipendenti. E giù gli applausi di fedeli, meno fedeli, atei devoti, finanche di nemici storici del papato, della Chiesa, del cristianesimo. Vengono in mente, a proposito, le parole del cardinale Roberto Tucci su Giovanni Paolo II: “ho l’impressione che piaccia il cantante, non la canzone” disse ad alcuni giornalisti statunitensi. In effetti la “canzone” cantata da Francesco a tanti non interessa. I comportamenti del nuovo pontefice hanno finora oscurato le sue posizioni teologiche, morali e sociali e per lui c’è una sorta di benevolenza che però ovatta il suo credo. Papa Francesco ha dichiarato pubblicamente che “non è possibile trovare Gesù al di fuori della Chiesa” e chiesto di “garantire protezione giuridica all’embrione, tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza”. Nulla di nuovo, ma quando lo faceva Benedetto su di lui cadeva una pioggia di offese, critiche, accuse di oscurantismo. Per Papa Francesco, che risulta simpatico praticamente a tutti, si dà risalto all’uomo e poco spazio a quello che dice. Questo non è un bene né per la Chiesa, né per i credenti. Michele Ippolito 4 |
lettere ed opinioni Una domanda al Suor Orsola Salve, sono una ex studentessa dell’istituto universitario Suor Orsola Benincasa, ho avuto modo di leggere l’articolo del Prof. Marino Niola sul ruolo dell’ Ateneo e pensavo che sarebbe molto interessante capire perché sia così basso il numero delle iscrizioni periodo di crisi o cosa? Cordiali saluti Lucia Sirignano
Beni culturali e questione meridionale La Campania detiene molti primati negativi come la crisi dei rifiuti, la disoccupazione, la mafia, il deficit della sanità, il dissesto idrogeologico, l’inquinamento ambientale, l’ultimo posto in Italia nel rapporto deficit-pil. D’altra parte occorre rilevare che in Campania vi sono le migliori condizioni climatiche di tutto il Paese. Essa, inoltre, possiede i beni storico-artistici e il patrimonio paesaggistico più interessante d’Italia. La costiera sorrentina e amalfitana, Capri, Ischia, Procida sono senza dubbio tra le zone paesaggistiche più belle del mondo. Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis rappresentano un patrimonio storico-artistico unico al mondo. Perché questi beni culturali versano in uno stato di pietoso abbandono? Perché le domus di Pompei crollano? Il dissesto dei beni culturali nel Mezzogiorno, forse, dipende dal fatto che, mentre vi sono dirigenti capaci e meritevoli, ve ne sono alcuni inefficienti. Bisognerebbe favorire il turn-over di questi dirigenti, separare la gestione politica da quella amministrativa, affidare i beni culturali ai tecnici, ai manager. Bisognerebbe chiedere la collaborazione di archeologi, architetti, storici dell’arte dalle facoltà universitarie e valorizzare le lauree in Beni culturali e in Conservazione dei beni culturali. Attualmente, l’Italia sta vivendo la peggiore crisi economico – finanziaria del dopoguerra. Le nostre istituzioni politico – parlamentari richiedono una profonda riforma che allinei il nostro Paese alle maggiori democrazie europee. In quest’ambito occorre che la questione meridionale diventi un argomento centrale della politica economica italiana. Per rilanciare una politica meridionalistica, occorrerebbe dare maggiore impulso allo sviluppo industriale e tecnologico, modernizzare l’agricoltura e rilanciare gli investimenti nel settore turistico e culturale. Lo sviluppo di queste attività economiche potrebbe creare migliaia di posti di lavoro e assicurare il futuro alle nuove generazioni. Giuseppe Tuppo
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lettere ed opinioni Auguri per la vostra originalità Caro direttore, ho letto il primo numero di Link e ne sono entusiasta. È una rivista davvero trascinante, soprattutto perché traspare la presenza di un progetto editoriale fortemente orientato alla formazione e alla cultura. Le firme sono decisamente autorevoli e l’originalità dell’impostazione denota una vivacità di contenuti e di idee che attualmente non credo abbia equivalenti. Anche la veste grafica mi ha favorevolmente colpito, soprattutto perché trasmette, in maniera forte, il senso del lavoro che state svolgendo. Molti auguri. Adelante! Valentina Russo
L’insostenibile leggerezza della sconfitta Egregio Direttore, è tutto finito. Tutto inizia nel 2012 con le primarie a Premier e successivamente quelle per i parlamentari, ma è passato tanto tempo e nessuno si è mai chiesto cosa sia accaduto realmente? Ricordiamocelo: non siamo più in campagna elettorale e le aspettative non si sono avverate. Il segretario del Pd ha sempre voluto le primarie, andando contro al vecchio gruppo dirigente scettico per questa grande idea fondatrice del partito, ma i risultati delle primarie nessuno se li aspettava, forse nemmeno Bersani. Cosa hanno prodotto le Primarie? in parte l’eliminazione per un certo periodo del centro destra su tutti i quotidiani e cosa molto importante, ha rilanciato il ruolo del Pd come primo partito del Paese. Ma il popolo delle primarie si sarà fermato proprio al ballottaggio quello di Bersani vs Renzi, perche nel risultato elettorale i conti non quadrano. Possibile che tutto il gruppo dirigente e lo stesso Bersani si siano fermati al giorno del ballottaggio? Possibile che oggi si continui a parlare con i: se avesse vinto Renzi, se si fosse fatto cosi, e cosi via, ma siamo consapevoli che con i se e con i ma la politica quella con la “P” non esiste? Forse la vera sconfitta non è del Pd, ma di tutto il sistema politico italiano, che in questi anni non ha saputo colmare il divario tra società civile (cittadini) e politica, cosi da creare la cosiddetta antipolitica che nel tempo si è trasformata nel partito dell’antipolitica (M5S). Questo di fatto è diventato un partito politico in tutte le sue forme che nemmeno Grillo capisce. Le primarie per i parlamentari sono diventate autoreferenziali, i parlamentari calati dall’alto non sono spariti e la campagna elettorale sembra non essersi fermata: da un lato Bersani che convoca due direzioni nazionali per presentare i famosi otto punti (per slogan) e dall’altra Renzi che non ne prende parte e che cerca di cavalcare l’onda nella sala della CGIL di Firenze, dimenticandosi del suo amato Ichino. Sembrano essere contraddizioni quotidiane, ma diciamocelo, il Pd e il centro sinistra in questi anni, al loro interno, hanno sempre fatto bagarre. Da una parte la colpa è delle componenti e delle sotto componenti, che lo statuto legittima e dall’altra il sostegno al governo Monti. Mentre Berlusconi passava per il paladino dell’opposizione nazionale, Grillo portava al macello tutti, il centro sinistra e in particolare il Pd, commettevano gli stessi errori visti negli ultimi anni, un addossarsi e accusarsi a vicenda, una lotta tra Bersaniani e Renziani, con piccole pause espresse dai pensieri Civatiani. Salvatore Salzano 6 |
EDITORIALE
di Samuele Ciambriello
“Ritrovare l’identità smarrita” Leggendo tutti i giornali, ancora in questi giorni, il Governo delle larghe intese era “inevitabile”. Secondo il dizionario Sabatino-Coleti “inevitabile” indica qualcosa “che accade senza che possa essere impedito”. Sono sinonimi: ineluttabile, fatale. La natura di questo governo, la discesa in campo delle larghe intese è stata rivendicata con forza dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. La sua rielezione ha rappresentato una resa incondizionata della maggioranza del Parlamento che ha rinunciato, di fatto, alla possibilità di eleggere una figura di altrettanto spessore, in grado di coniugare la difesa dei valori costituzionali con l’esigenza di cambiamento espressa dalla gran parte dell’elettorato italiano. Che la crisi che ha investito il Paese non sia nè un fenomeno transitorio nè superficiale, ma al contrario profondo e radicale, un fenomeno sociale, economico e valoriale, lo segnalano tanti episodi e lo stesso astensionismo, prima alle politiche di febbraio e poi ancora di più quello delle ultime amministrative. È tanto difficile capire che i tempi sono cambiati? Lo Stato si è arroccato a difesa di se stesso, tenendo insieme pezzi di partiti che si respingono come magneti della stessa polarità. Dall’antipolitica gli italiani stanno passando all’apolitica. Non ci si astiene solo per l’indifferenza, per la rabbia contro la casta, ma anche per la depressione psicologica ed esistenziale che si vive. Piazze vuote, dibattiti stanchi, nei teatri la gente ora applaude solo i costituzionalisti, non vuol sentire parlare dei politici. Le persone non vanno a votare perché lo considera inutile e perché sentono che la democrazia è ormai solo una procedura di palazzo, non più cura e scelta della “polis”. Questo rapporto tra movimenti emergenti e partiti esistenti, tra civismo e politica, tra spontaneismo e struttura va ripreso, sollecitato, approfondito. Certo va superato anche il dualismo emergente che vede o l’appiattimento banale: “sono tutti uguali... uno vale uno... mandiamo l’inesperienza in Parlamento”, o
la cooptazione esercitata dai partiti, dove l’unico valore per essere nominati è la disciplina verso i capi o capetti. Fortunatamente, la nostra Costituzione prevede una serie di contrappesi, a cominciare dall’indipendenza della magistratura, che le torsioni maggioritarie hanno progressivamente indebolito, in nome di un’esigenza di “governabilità” che non sembra mai soddisfatta. Qualcuno pensa di risolvere tutto con l’accordo sul semipresidenzialismo e doppio turno. Illudersi di risolvere il problema con il doppio turno è una furbizia che può costare cara. Un’atmosfera generale di delusione sommerge il molto di buono che ancora c’è e che ci sta aiutando a rimetterci a galla. Ma la corruzione e la criminalità dilagano, i politici brancolano, il paesaggio e le nostre città degradano nei servizi, nelle strade e nei trasporti, il patrimonio cade a pezzi, interi settori industriali sono dismessi o ceduti all’estero, il numero dei giovani disoccupati si è triplicato... Si è diffuso il sentimento del declino: decorso verso il basso che sembra ormai il nostro destino. Qui lo dico e sia come detto: l’avvenire del declino può attendere. E se ritrovassimo l’identità smarrita? Noi riteniamo che i movimenti civici, le pulsioni dal basso, gli stimoli di singoli intellettuali, anche di alti funzionari dello Stato che viaggiano come chierici erranti per l’Italia, che costituzionalisti di bandiera, che imprenditori illuminati, che studenti in movimento, aiutino a comprendere che la democrazia dovrà trasformarsi da strumento di rappresentanza a strumento di partecipazione. I partiti sono implosi, sono insufficienti ad interpretare e modificare la realtà. Un capitale di competenze, affidabilità capace di attrarre investimenti di fiducia vuole dialogare, discutere. Anche la missione profetica di Papa Francesco sta contribuendo nella Chiesa e fuori da essa, a superare il senso di scoraggiamento ed abbandono. Noi vogliamo vivere la speranza. Sapendo che lei ha due figli, per dirla con S. Agostino: “l’indignazione” per le cose che non vanno e “ il coraggio” per cambiarle. Adelante.
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SOMMARIO
OFFICINA DELLE IDEE
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Abitare consapevolmente la crisi della democrazia Giovanni Laino
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Tra civismo e politica Umberto De Gregorio
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L’esperienza del Movimento 5 Stelle Maurizio Russo
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Dove deve andare il PD Emilio Di Marzio
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Il mondo della cultura come fucina della classe dirigente Filippo Bencardino
QUI ED ORA
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Il governo Letta: la politica al tempo delle policies Massimo Adinolfi
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Intervista a Vincenzo De Luca “Il mio programma di lavoro” Samuele Ciambriello
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Crisi dei partiti e prospettive future Anna Malinconico
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Il PD nasce o muore al governo Marco Staglianò
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Intervista a Antonio Clemente La riforma della Giustizia Maria Rosa Gasparriello
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Sintesi del documento di Fabrizio Barca Paola Bruno
APPROFONDIMENTI
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‘A Maronna t’accumpagna! Crescenzio Sepe
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La speranza di un Papa, sulle orme di San Francesco Samuele Ciambriello
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Vorrei una Chiesa povera per i poveri Massimo Milone
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Il Papa della “prima volta” Saverio Gaeta
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Conversione ed affidamento Emma Fattorini
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Papa Francesco e le sfide del mondo contemporaneo Antonio Camorrino
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Il pastore con l’odore delle pecore Antonio Mattone
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SPECIALE
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Imprese in crisi ed ordinamento giuridico-economico Francesco Fimmanò
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La crisi delle imprese nelle aule di giustizia Nicola Graziano
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Spunti di riflessione sulla legge fallimentare Marianna Quaranta
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Intervista a Gianni Lettieri Imprenditori a confronto con la legge fallimentare a cura della Redazione
WELFARE
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Vent’anni di amicizia con i poveri Laura Guerra
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Storie di ordinaria indifferenza Ninfa Rossi
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San Gennaro simbolo di contemporaneità Rossella Salluzzo
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Intervista a Rossella Miccio Emergency arriva a Ponticelli Paola Bruno
RICERCA E INNOVAZIONE
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Benevento: la Silicon Valley del Sud Rosaria De Bellis
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Il Sud eccelle: Biogem, un modello da esportare Marco Staglianò
CULTURA E FORMAZIONE
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Storia dell’Università di Salerno Donato Di Sanzo
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In Chiaromonte necessità ed assillo della mediazione Franca Chiaromonte
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Essearte la galleria dei talenti interessanti ed interessati a cura della Redazione
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L’intervista Napolitano: “politico di professione” Valentina Capuano
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La buona novella Recensione Marino Niola
Dall’occupazione dell’Ex Asilo Filangieri alla creazione del Centro di Produzione Indipendente a cura del collettivo “La Balena”
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Storia del Primo Governo dopo il Fascismo Vito Sansone
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I tesori dimenticati Beatrice Crisci
Link. Trimestrale di Cultura e Formazione politica Anno I, numero 2, 2013 Registrazione del Tribunale di Napoli n. 52 del 09 ottobre 2012 ISSN - 2282-0973 Direttore Responsabile Samuele Ciambriello Coordinamento Editoriale Marianna Quaranta Comitato Editoriale Massimo Adinolfi Sergio Barile Filippo Bencardino Luca Bifulco Antonio Borriello Paola Bruno Gian Paolo Cesaretti Umberto De Gregorio Dario Stefano Dell’Aquila Francesco Fimmanò Salvatore Gargiulo Nicola Graziano Giovanni Laino Massimo Lo Cicero Anna Malinconico Marco Musella Marino Niola Stefania Oriente Gianfranco Pecchinenda Francesco Pirone Paolo Ricci Francesco Romanetti Marco Staglianò Segreteria di Redazione Tel. +39 081.19517494 Fax. +39 081.19517489 e- mail: redazione_link@libero.it Editore LINKOMUNICAZIONE SRL Centro Direzionale Isola G/8 80143 Napoli P.IVA /Cod. Fisc. 07499611213 Amministrazione e Abbonamenti Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Tel. 081 19517508 Fax 081 19517489 Dal lunedì al venerdì 9,30 - 14,00 e- mail: abbonamenti.link@gmail.com Abbonamento annuale 10,00 euro conto corrente postale intestato a: Silvio Sarno - C/C 001011736004 - oppure IBAN: IT 88 D 07601 15100 001011736004 oppure, bonifico bancario sul conto intestato a Linkomunicazione S.R.L. IBAN: IT 13 N 0539 27566 000 000 1419334 Foto di Agenzia Controluce Via Salvator Rosa, 103 80135 Napoli Italia Foto di copertina di Livia Crisafi
Fotocomposizione e stampa Poligrafica F.lli Ariello s.a.s. | 9
OFFICINA DELLE IDEE
di Giovanni Laino
* Ordinario di politiche urbane all’Università di Napoli Federico II. Recentemente è uscito il suo libro “Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale”, Franco Angeli Editore.
Abitare consapevolmente la crisi della democrazia Ridefinire lo spazio pubblico e selezionare nuove classi dirigenti
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tiamo vivendo una turbolenza dentro una grande trasformazione, praticamente una mutazione. Si possono discutere le periodizzazioni, ma negli ultimi cento anni nel mondo è successo di tutto. Ripercorrendo l’insieme di innovazioni, trasformazioni, opportunità che i singoli e i gruppi umani, soprattutto quelli dei paesi più ricchi, hanno avuto a disposizione dopo la prima guerra mondiale, si può obiettivamente ammettere che la portata, la diffusione e la concentrazione dei cambiamenti è stata tanto intensa quanto accelerata per cui si può dire che siamo in un gomito della storia di cui, molto probabilmente, per la sua durata, molti di noi non vedranno un nuovo lungo rettilineo. Se questo è vero è evidente che la democrazia, le forme del governo, l’organizzazione concreta della rappresentanza, non potevano non andare profondamente in crisi senza sottovalutare che proprio in questo periodo un gran numero di nazioni ha adottato questa forma di
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governo. Una crisi, quindi, non congiunturale, né di breve periodo. Una crisi in diverse dimensioni: istituzionali ma anche culturali, economico sociali, cognitive. Allora, pur privilegiati per essere protagonisti di un tempo tanto particolare, disponendo di mezzi mai visti prima, siamo consapevoli che tutto è più veloce ma tutto sembra difficile, contraddittorio. Una delle questioni di fondo di questo nostro tempo è che stiamo ridefinendo la sfera pubblica e pertanto è in profonda trasformazione il nostro essere nelle reti e nelle agorà sociali, materiali e virtuali. Nella ridefinizione dello spazio pubblico sono di nuovo molto problematizzate le modalità si selezione dei gruppi dirigenti. Molte tensioni tendono ad un superamento della delega per ruoli sociali che di fatto concentrano potere perché sembra quasi sempre verificata la regola che ogni elite diventa un’oligarchia. D’altra parte riemerge con forza la necessità di strutturare la riproduzione sociale e il governo (a tutte le scale) se-
Agorà materiali e virtuali Una delle questioni di fondo di questo nostro tempo è che stiamo ridefinendo la sfera pubblica e, pertanto, è in profonda trasformazione il nostro essere nelle reti e nelle agorà sociali, materiali e virtuali.
Foto di Salvatore Laporta
condo ambiti, riconoscendo la necessità di attivare ruoli, deleghe, responsabilità, addensamenti di potere. Le radici storiche del civismo Dalla seconda guerra mondiale, in Italia, molti elaborarono e condivisero speranze straordinarie verso la libertà, l’aspettativa per un paese sostanzialmente democratico. I fermenti che portarono alla redazione della Costituzione, già nei primi anni del dopoguerra, non trovarono gli sbocchi attesi: emerse la consapevo-
lezza di “un paese mancato”. Per questo, dalla fine degli anni Quaranta agli anni Cinquanta, molti militanti comunisti, socialisti, cattolici democratici, presero altre strade, delusi delle traiettorie prese dai partiti. Proprio negli anni cinquanta quindi, in un’Italia con ampie sacche di povertà ed analfabetismo, furono realizzate azioni esemplari, da Partinico a Barbiana, dall’Abruzzo agli anfratti della Sila, grazie all’impegno di professionisti di grande levatura che interpretarono gli aneliti della Liberazione entro cantieri sociali, di promozione
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OFFICINA DELLE IDEE
umana con scuole popolari, servizi per i bambini, riappropriazione delle terre. La militanza civile non contrapposta, ma sostanzialmente alternativa all’impegno nelle organizzazioni di partito è quindi un connotato non nuovo ne superficiale della storia d’Italia. Anche negli ultimi venti anni, a guardar bene, ci dimeniamo in diversi tentativi, per prova ed errore, costituendo, disgregando e ricostituendo gruppi, movimenti, partiti, coalizioni, a destra e a sinistra. Certo è ancora possibile e sostanziale il riferimento a valori guida, ma le grandi cornici, i quadri di unione con cui, sino agli anni Settanta, i giovani si formavano e sce-
“noi”. Molti cercano protesi più riservate, prudenti, meno impegnative: dallo sballo in discoteca al tavolino di burrraco o al gruppo di tango, visto che sono quasi spariti i gruppi di catechesi, le assemblee ricorrenti, religiose come quelle di partito, le Mariapoli e i festival dell’Unità. Diverse sintesi per la politica È evidente però che l’aurea con cui sino a pochi anni fa era indiscutibilmente caratterizzata la figura del civismo è stata ridimensionata. A parte l’evidenza di coloro che – da magistrati, professori universitari, opinionisti
Non sappiamo bene come stare al mondo, ma avere un pubblico ci rassicura e ci valorizza. Le stesse trasmissioni televisive in cui i genitori mettono in mostra i bambini talentuosi o altri adulti si espongono alla valutazione delle proprie tragedie private. glievano la loro collocazione ideale nell’agorà politica, sono profondamente cambiati. Tutti cerchiamo un pubblico Oggi si può constatare un’obiettiva pluralizzazione delle sfere del sociale, e le diverse bacheche virtuali nelle televisioni e in rete (talk show, trasmissioni giornalistiche, siti dei giornali, blog di successo e social network), hanno un ruolo molto rilevante nel costituire e condizionare la pubblica opinione ma anche a dare la sensazione che ciascuno di noi può ambire ad avere un suo pubblico, meritando ascolto delle proprie opinioni, proteste, considerazioni e battute. Non sappiamo bene come stare al mondo ma avere un pubblico ci rassicura e ci valorizza. Le stesse trasmissioni televisive in cui i genitori mettono in mostra i bambini talentuosi o altri adulti si espongono alla valutazione delle proprie tragedie private oppure delle capacità di parlare, cantare, danzare, con una crescente rilevanza data al giudizio individuale da casa con il televoto, hanno molto a che fare con la ridefinizione della sfera pubblica. Siamo tutti coinvolti in uno straordinario processo di ridefinizione del senso di chi siamo e come stiamo insieme, del come dire “io” e
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o leader di piccole organizzazioni o multinazionali dell’aiuto, studiano per essere considerati i rappresentanti della salvifica società civile, sono evidenti a tutti le esperienze per cui donne ed uomini provenienti dal mondo delle professioni, degli studi come delle associazioni, pur meritando più di fiducia per una reputazione meritata in anni di attività, non offrono di per sé garanzie di sostanziale rinnovamento, competenza, affidabilità. Innanzitutto, perché rispetto a qualche anno fa i diversi mondi vitali in cui è articolata la società sono molto di più interconnessi e spesso non è tanto vero che il professore o il professionista non hanno un significativo bagaglio di frequentazioni e affinità con il mondo dei politici di professione. Ma la questione, ancora più rilevante, è che un capitale di competenza e affidabilità capace di attrarre investimenti di fiducia dei cittadini deve superare il dualismo che vede da un lato l’appiattimento banale (“uno vale uno”, “mandiamo in Parlamento l’uomo qualunque che non ha mai fatto politika”) e dall’altro la cooptazione esercitata entro gruppi ristretti, ove l’affidabilità è data dalla provata disciplina verso i capi.
di Umberto De Gregorio
Tra civismo e politica Il ruolo dei partiti e dei movimenti tra strutture condivise ed esigenze di cambiamento
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l tema del rapporto tra movimenti emergenti e partiti esistenti, tra civismo e politica, tra spontaneismo e struttura, è al centro dell’attenzione mediatica. L’autoreferenzialità è un vizio diffuso in molti organismi collettivi del nostro Paese. Dagli ordini professionali ai professori universitari, vi è una sorta d’impossibilità ad aprirsi all’esterno e quindi di rigenerarsi. Il fenomeno è particolarmente evidente nei partiti politici. Il ricambio avviene con eccessiva lentezza, quando avviene. “Rinnovamento” è una parola tanto declamata in teoria quanto non applicata nella pratica. Non sorprende quindi che il cambiamento
che non si riesce ad ottenere dall’interno alla fine giunga dall’esterno. Stanchi delle parole, i cittadini, messi allo stremo, operano scelte nette. Rifiutano l’esistente e si affidano all’imponderabile, che almeno ha le sembianze del nuovo. Un nuovo non garantito contro un usato logorato. Il fenomeno del movimento cinque stelle nasce dall’esasperazione dei cittadini, sfiduciati nella capacità di rinnovamento dei partiti dal loro interno. Il movimento di Grillo si è presentato, appunto, come un “movimento”, in antitesi ai “partiti” - anche se poi è stato costretto a diventare un “partito” nel momento in cui ha deciso di misurarsi con
Il fenomeno del Movimento Cinque Stelle nasce dall’esasperazione dei cittadini, sfiduciati nella capacità di rinnovamento dei partiti dal loro interno. Il movimento di Grillo si è presentato, appunto, come un “movimento”, in antitesi ai “partiti”.
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OFFICINA DELLE IDEE
la democrazia delegata prevista dal nostro ordinamento costituzionale. Il movimento politico di Luigi de Magistris, a Napoli, ha avuto in parte la stessa radice: il malessere e l’insoddisfazione per la proposta politica storicamente strutturata sul territorio raggiunge livelli tali da sfociare in una protesta diffusa che assume un volto preciso in grado di dare una speranza. Un uomo in grado di dare risposte precise, di assumere decisioni anche solitarie, in antitesi al parlarsi addosso dei politici tradizionali, costretti a continue mediazioni tra interessi particolari ed a giochi di equilibrismo che sembrano condannare all’inamovibilità. Ma i risultati sul campo appaiono poi, in breve tempo, deludenti. Il movimento politico di Luigi Quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra i de Magistris, a Napoli, partiti esistenti ed i movimenti emergenti? ha avuto in parte Possono questi ultimi la stessa radice: davvero fare a meno del contributo dei primi, il malessere della loro tradizione e l’insoddisfazione per la culturale, delle loro proposta politica storicamente esperienze e competenze? Il tema del sano strutturata sul territorio. ed equilibrato rapporto tra “movimenti” nascenti e “partiti” esistenti imbalsamati, tra il nuovo ed il vecchio, tra la rivoluzione e la tradizione, tra l’esistente ed il possibile, è un tema centrale per il destino dei nostri territori. Ed è soprattutto un tema cruciale per evitare che il nuovo si trasformi in improvvisazione fine a se stessa. In altri termini, il movimento emergente non può limitarsi ad inventare un nuovo soggetto politico, ignorando (o addirittura subdolamente contrastando) il rinnovamento all’interno dei partiti tradizionali. Ritornando a Grillo, ad esempio, il suo movimento assolve una funzione storica positiva nella misura in cui costringe i partiti tradizionali a quel rinnovamento ed a quell’apertura verso l’esterno che da soli non si convincono a praticare. Se il movimento emergente tende soltanto ad isolarsi ed a isolare il vecchio, potrebbe determinarsi una situazione di contrapposizione tra nuovo e vecchio che probabilmente non gioverebbe né all’uno né all’altro, e soprattutto non gioverebbe agli interessi del territorio. Il
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nuovo, senza far leva sull’esperienza del passato, impiegherebbe troppo tempo per connotarsi delle caratteristiche necessarie per governare con competenza ed equilibrio. Il vecchio mirerebbe soltanto ad evidenziare le contraddizioni e le debolezze del nuovo, in attesa del passo falso finale che lo riporterebbe inevitabilmente, nel medio termine, in posizione di comando (e senza essersi davvero rigenerato nel suo DNA). Il rischio, insomma, è che si determini un insano equilibrio tra movimenti emergenti e partiti esistenti che trovi fondamento negli interessi strategici contingenti dei leader dei primi e dei secondi ma non in quelli dei cittadini. I partiti esistenti hanno il dovere (pena il loro diritto stesso ad esistere) di aprirsi verso l’esterno, riconquistando un sano rapporto di dialogo e fiducia con la società civile. I movimenti emergenti hanno il dovere di dialogare con i partiti esistenti. Tutti i movimenti emergenti hanno, inevitabilmente e sin dall’inizio, una loro valenza politica, e sono funzionali a - nel senso che senza volerlo possono favorire- determinate aree politiche. Cosi come non è vero che esistano movimenti civici che non sono né di destra né di sinistra. Una differenza tra destra e sinistra esiste. Quello che cambia costantemente è il senso di queste parole, il tempo le muta e le rapporta all’ambiente. Destra non sempre è conservazione, sinistra non sempre è innovazione. Ma i movimenti sono contenitori dove comunque vi è una trazione, dove il non dire equivale ad affermare. Quello che è certo, oggi, è che i partiti sono insufficienti ad interpretare e modificare la realtà, rappresentano luoghi troppo chiusi, interessi troppo particolari. I partiti hanno bisogno dei movimenti ed i movimenti, tuttavia, non possono pensare di farcela da soli ad incidere positivamente sulla realtà, a meno che non si trasformino loro stessi in partiti. Occorrono vasi comunicanti tra partiti e movimenti, e le stesse persone possono fungere da vasi comunicanti. Quale consenso L’affermazione elettorale del M5S ha messo in crisi il concetto tradizionale del “consenso” cosi come teorizzato e praticato nella tradizione del partito democratico. Il Movimento 5 Stelle è riuscito ad emergere
Foto di Roberta Basile
Se il movimento emergente tende soltanto ad isolarsi ed a isolare il vecchio, potrebbe determinarsi una situazione di contrapposizione tra nuovo e vecchio che probabilmente non gioverebbe né all’uno, né all’altro, e soprattutto, non gioverebbe agli interessi del territorio.
puntando su alcuni fattori che appaiono antitetici alla tradizione dei partiti: nessun finanziamento pubblico per la diffusione delle idee e la pratica politica; affermazione della politica partendo dal particolare per arrivare al generale e non viceversa; nuovi metodi di comunicazione, ect. Il voto di scambio è stato certamente uno dei principali freni allo sviluppo nel Mezzogiorno: le risorse finanziarie, che nel periodo 1950-90 sono giunte in maniera copiosa dallo Stato e dalla CEE, hanno sortito, troppo spesso, effetti contrari a quelli desiderati; proprio a causa della necessità di utilizzare tali risorse per creare o consolidare il consenso. Occorre rottamare il consenso clientelare per un consenso lineare. Il primo si fonda su un contratto di scambio tra il voto e un dono in termini di accesso a fondi pubblici. Il secondo è quello che si fonda sulla condivisione di un progetto generale ritenuto utile per la comunità e che solo indirettamente è in grado di arrecare beneficio al singolo. Nel Mezzogiorno la speranza di poter prati-
care una politica che non fosse di mero clientelismo e/o affiliazione al capobastone di turno si è drammaticamente affievolita negli ultimi anni. La vittoria del M5S ha aperto scenari inediti con i quali occorre confrontarsi con lucidità e senza remore. I partiti tradizionali, per non ritrovarsi ancora in fuorigioco, non possono fare altro che seguire con attenzione gli eventi, rinunciare ad ogni tentativo di strumentalizzazione ed egemonizzazione dei movimenti civici, con la consapevolezza che, in questa fase, i movimenti possono fare a meno dei partiti e non viceversa. Certamente, il movimentismo spontaneo è un fenomeno positivo, il civismo che nasce per combattere un potere locale avvertito come estraneo e nemico. Un fenomeno che nasce per effetto e come rimedio alla crisi dei partiti. Ma questo civismo sarà in grado, una volta abbattuto il suo nemico, di costruire – lasciato a se stesso - qualcosa in positivo?
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OFFICINA DELLE IDEE
di Maurizio Russo
L’esperienza del Movimento 5 Stelle Il desiderio dei cittadini di partecipare attivamente alla Politica
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ccolgo volentieri l’invito del direttore ad esprimermi con un contributo sulla rivista Link. Ho letto attentamente il numero d’esordio e l’ho trovato di grande interesse, non solo per i singoli pregevoli interventi ma soprattutto per i numerosi fili conduttori che attraversano tutte le sue pagine. Fili che in qualche modo si svolgono e riannodano intorno alla figura scelta per la copertina del primo numero, e per la novità che essa rappresenta nel panorama politico italiano. Parlo naturalmente di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle. Perché dico che intorno a Grillo e al suo M5S si coagulano oggi molti temi trasversali e di fondo della società italiana? Perché – intervenendo su queste pagine da sociologo e urbanista, e non solo da candidato del MoV alle elezioni di febbraio – ritengo che il M5S abbia imposto all’agenda politico-istituzionale del nostro Paese un tema oggi imprescindibile, ovvero quello del rapporto tra
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democrazia rappresentativa e democrazia diretta, definita anche partecipata, liquida, diffusa. Lo ha fatto soprattutto attraverso il coinvolgimento nella politica di semplici cittadini, non solo attraverso la rete web, ma anche con iniziative molteplici di partecipazione collettiva, come le assemblee territoriali, le dirette streaming, o la promozione di nuovi strumenti di democrazia diretta negli enti locali, come i provvedimenti amministrativi di iniziativa popolare o i referendum propositivi e consultivi senza quorum. In altre parole, il M5S ha amplificato e dato enorme visibilità al desiderio di partecipazione della gente, reso oggi più possibile e capillare dai nuovi media, che i partiti tradizionali stentano, ancora oggi, a comprendere, e anzi sentono come una minaccia al loro potere di rappresentanza. Ma si tratta di strumenti con cui non possiamo che fare i conti, cercando di mettere questi nuovi potenti mezzi di comunicazione sociale al servizio del bene pubblico. Questo mi sembra un
Il M5S ha amplificato e dato enorme visibilità al desiderio di partecipazione della gente, reso oggi più possibile e capillare dai nuovi media, che i partiti tradizionali stentano, ancora oggi, a comprendere, e anzi sentono come una minaccia al loro potere di rappresentanza. Ma si tratta di strumenti con cui non possiamo che fare i conti, cercando di mettere questi nuovi potenti mezzi di comunicazione sociale al servizio del bene pubblico.
Foto di Roberta Basile
tema che Link programmaticamente solleva. Francesco Paolo Casavola ha spiegato molto bene nel primo numero l’evoluzione della base rappresentativa dei sistemi politici moderni: prima furono solo l’aristocrazia e la borghesia ricca a partecipare al dibattito pubblico sull’andamento degli Stati. Nel secondo dopoguerra, in Italia, arriva il suffragio universale, ma sono ancora pochi i ceti che possono esprimersi sui giornali e poi attraverso le televisioni, benché – anche grazie ai partiti
– la base di formazione dell’opinione pubblica si allarga sempre di più. Oggi, grazie ai nuovi media, quasi tutti possono dire la loro, senza mediazioni e su tutti i temi, realizzando di fatto la libertà d’espressione sancita dalla Costituzione. Ma come fare in modo che il suo carattere, oggi davvero universale, non accentui la frammentazione e l’individualismo tipici delle società contemporanee? A mio avviso, a questa domanda ci può essere
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Tra i primi atti emblematici di governo della città da parte del nuovo sindaco, vi è stata la costituzione di un assessorato specificamente dedicato ai beni comuni e alla democrazia partecipata. Tuttavia, dopo una prima fase, l’iniziativa di ascolto diretto e sistematico dei cittadini si è quasi del tutto arenata.
una sola risposta e sta proprio nella capacità delle nostre istituzioni rappresentative di avvalersi dei processi in atto, e di strutturare il dibattito pubblico – così ampio e variegato – a beneficio del bene comune. Che è poi anche il modo migliore per rafforzare, legittimare e avvicinare ai cittadini le stesse istituzioni rappresentative. Vorrei illustrare questo punto di vista discutendo il caso di Napoli e della travagliata esperienza De Magistris. Tra i primi atti emblematici di governo della città da parte del nuovo sindaco, vi è stata la costituzione di un assessorato specificamente dedicato ai beni comuni e alla democrazia partecipata. Tuttavia, dopo una prima fase in cui le assemblee consultive si sono riunite su vari temi, e dopo l’approvazione il 18 aprile 2012 della delibera consiliare istitutiva del “Laboratorio Napoli per una costituente dei beni comuni” (in cui era definito nei dettagli il funzionamento delle consulte tematiche), a poco a poco l’iniziativa di ascolto diretto e sistematico dei cittadini si è quasi del tutto arenata. Nel frattempo l’amministrazione ha assunto una serie di decisioni – in particolare l’istituzione di ZTL diffuse in ampia parte del centro e la chiusura del lungomare – oggetto di critiche spesso utili e migliorative, mai recepite
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da De Magistris e dalla sua Giunta. È del tutto evidente che non lasciare corridoi di transito tra le diverse ZTL, non riuscire a potenziare parallelamente il trasporto pubblico e non sfruttare via Caracciolo per far passare almeno i mezzi pubblici e collettivi, significa bloccare in una morsa l’intera città. Dunque, De Magistris, a differenza delle buone intenzioni espresse in campagna elettorale, si è chiuso nella torre d’avorio dell’elezione diretta, di cui però è divenuto vittima allontanando alcune voci dissenzienti e riducendo al silenzio le altre. Né il sindaco ha mai provato a verificare ipotesi di lavoro con sondaggi o referendum consultivi, che gli avrebbero consentito di acquisire consenso e di orientarsi su questioni importanti. Per esempio, sulla vicenda Bagnoli. In definitiva, De Magistris sta oggi completando la sua parabola di ritorno verso una politica del tutto tradizionale, e su vecchi equilibri partitici, che hanno sempre scansato come la peste il coinvolgimento dei cittadini e la democrazia partecipata. Ma il problema è appunto quello di credere o meno all’utilità e ineluttabilità di questi strumenti. Non c’è alcun dubbio: oggi, tra le forze presenti in Parlamento solo il Movimento 5 Stelle ci crede davvero.
di Emilio Di Marzio
* Assegnista di Ricerca in Diritto Internazionale dipartimento di Giurisprudenza Università di Napoli Federico II.
Dove deve andare il PD Crisi identitaria e governo di larghe intese
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rancesco Cossiga alcuni anni fa inaugurò da par suo una querelle intorno all’identità dell’allora nascente PD e alla sua collocazione nello scacchiere politico italiano e internazionale. La vexata quaestio girava intorno al centrosinistra con o senza trattino. Ci si domandava insomma se le culture socialiste e laico riformatrici, da una parte, e popolari sturziane, dall’altra, potessero convivere nell’alveo del centrosinistra di governo in un’alleanza tra pari nella forma di una alleanza più o meno federata di forze o se invece la strada della fusione fredda fosse quella più utile al Paese in una tensione fortemente bipolare e persino tendenzialmente bipartitica. Sappiamo quella questione come si risolse nell’ingegneria politica italiana con la nascita del PD, ma abbiamo oggi netta la sensazione
che il nodo identitario non sia stato sciolto. E non è detto che non vada allentato e annodato diversamente. La sostanziale sconfitta elettorale di Bersani è certamente dovuta a un difetto di carisma del leader, ma non mi sentirei di ridurre tutta la partita a questa dinamica. La sostanziale sconfitta elettorale del PD è nell’incapacità di esprimere una visione, di raccontare un sogno possibile, di indicare i mezzi per realizzarlo, di definire il proprio mondo, interessi di riferimento. In una parola, un problema identitario grosso quanto una casa. L’antiberlusconismo soft non basta più, sempre che sia mai bastato. E non perché esso, in qualche modo, non contenga un indirizzo negativo (nel senso di non facere) che abbia un senso politico: no ai condoni, no all’evasione,
Le ragioni di una sconfitta Possono convivere nel centro sinistra le culture socialiste e laico riformatrici con le culture popolari sturziane?
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La sostanziale sconfitta elettorale del PD è nell’incapacità di esprimere una visione, di raccontare un sogno possibile, di indicare i mezzi per realizzarlo, di definire il proprio mondo.
no al tentativo di sottoporre la magistratura all’esecutivo, no a forme istituzionali spintamente presidenziali e così via. La politica, tuttavia, dovrebbe contenere un’idea alta, un progetto di respiro, una via d’uscita dai mali del presente. E questo a maggior ragione nel pieno di una crisi economica senza precedenti recenti che con violenza riduce allo stremo parte crescente della società europea e ancora più italiana. Allora torna l’urgenza della questione identitaria del PD, pena la sua fine ingloriosa. La domanda è se torna nei termini citati in principio, quelli del trattino cossighiano, con l’idea si debba tornare ai vecchi campi ideologici, alle radici del pensiero, con una separazione consensuale tra tronconi diversi pur nel quadro di una alleanza di centro-sinistra. Personalmente credo che, per quanto all’epoca il PDS avrebbe dovuto interrogarsi su come assumere un profilo dichiaratamente e pienamente socialista e aggiungerei azionista, nel senso di raccogliere in sé l’eredità del patrimonio laico e liberale del Partito d’Azione e di quello Repubblicano, oggi la questione è in termini diversi. La questione è qual è il campo in cui decide di giocare e quali interessi si decide di rappresentare. Il campo è, semplificando, nella scelta tra due modelli che possono essere riassunti in due brevi saggi: The conscience of a Liberal di Paul Krugman, The conscience of a Conservative di Barry Goldwater. Il secondo è il primo in ordine cronologico. È un pamphlet del 1960 con cui l’allora candidato repubblicano alle presidenziali americane Goldwater rappresentava il manifesto di una
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moderna destra conservatrice fatta di Stato minimo ed economia che si autoregola. Goldwater allora perse contro Johnson in una land slide victory ma contribuì a cambiare i connotati del Partito Repubblicano e molti anni dopo Ronald Reagan nel suo famoso discorso piattaforma ‘A time for choosing’ assunse il programma di Goldwater a suo modello, prima di campagna presidenziale, poi di deregolamentazione economica nell’attività di governo di due mandati. Più recentemente, molti autori ci spiegano quale sia stato il costo per le società occidentali di questo passaggio teorico. Stiglitz, Reich, Fitoussi, Krugman con il suo The Conscience of a Liberal e persino il repubblicano moderato Luttwack con il suo lavoro Turbocapitalism raccontano di come il lungo benessere diffuso che le scelte di Franklin Delano Roosevelt negli Stati Uniti, dei partiti socialdemocratici nel nord Europa, della conflittualità positiva tra partiti comunisti e socialisti e partiti centristi e moderati nell’Europa meridionale si fondasse su un’economia di mercato regolamentata, su scelte keynesiane di indirizzo politico economico, su un patto tra Capitale e lavoro, sulla
La politica dovrebbe contenere un’idea alta, un progetto di respiro, una via d’uscita dai mali del presente. E questo a maggior ragione nel pieno di una crisi economica senza precedenti recenti che con violenza lascia allo stremo parte crescente della società europea e ancora più italiana.
svalutazione competitiva della moneta, su una stretta regolazione del mercato finanziario e così via. Quelle scelte, le quali pure avevano prodotto irrigidimenti, scarsa concorrenza in alcuni settori chiave e, solo in alcuni paesi, un debito pubblico crescente, sono state rimpiazzate da Reagan in poi da un dogma, un credo che ha appiattito ogni distinzione utile tra destra e sinistra, tra progressisti e conservatori. Il credo che lo Stato dovesse al massimo arbitrare il campo dell’economia, lasciando alla libera concorrenza l’allocazione delle risorse, la definizione degli standard da lavoro, la determinazione di prezzi e tariffe, in una parola l’abdicazione della politica dal governo dell’economia reale e finaziaria. E dunque l’abdicazione della politica tout court. La politica debole, da fine della storia giacchè incapace e si vuole intrinsecamente inidonea a concepire una speranza, un futuro, si è accompagnata in Europa a una cessione di sovranità democratica esattamente coerente: la messa in comune della moneta ma non dei debiti sovrani, una banca centrale plenipotenziaria e una polverizzazione decisionale politica, la previsione del pareggio di bilancio come
vincolo intangibile e l’impossibilità di scorporare dai parametri del rigore investimenti in infrastrutture, ricerca e occupazione, la teoria della austerità espansiva per la quale la riduzione della spesa pubblica porterebbe ad un aumento del Pil, giacchè la tenuta dei conti aumenterebbe la fiducia di mercati e investitori nel paese sotto austerity, e quindi di conseguenza provocherebbe un incremento degli investimenti e dei consumi. Una sequela di errori, di tesi fallaci, di complice e cinica sottoposizione al pensiero unico turbo capitalista, per citare Luttwack con i risultati che sono sotto i nostri occhi, l’aggravarsi della crisi giorno dopo giorno, un avvitamento colpevole di cui questa Europa ha la patente della responsabilità. Da questa sbornia liberista il PD non è stato esente e oggi ha difronte a sé l’opportunità, una volta per tutte, di concepire un pensiero forte e progressista. La sfida progressista è la sfida identitaria del Partito Democratico. Progresso oggi significa un’altra Europa, un’altra idea di governo dell’economia, un’altra idea del ruolo della politica nella storia. Significa rifuggire i populismi e i dogmatismi. I populismi del ritorno agli stati nazione, alla lira, alla spesa facile o all’assistenza passiva e al contempo i dogmatismi monetaristi e liberisti della fine della politica, della deregulation, della finanza libera. Solo se il PD saprà offrire un quadro di valori e di regole, di speranze e prospettive dichiaratamente progressiste saprà coagulare attorno a sé a un tempo il Paese che soffre e quello che studia e investe sul futuro. E saprà parlare ai movimenti, alle associazioni, al civismo, alla cittadinanza attiva e responsabile, al suo naturale elettorato. Il congresso di ottobre sarà decisivo a segnare una svolta di indirizzo ideologico o a rintanarsi nel non detto, pur di non scegliere, pur di non approfondire, pur di non dividere. Il governo di larghe intese non deve essere un impedimento per un congresso verità sul mondo, ma, anzi, può favorire una rigenerazione del partito. Al presidente Letta, e alle sue indubbie capacità, il compito dei provvedimenti possibili. Al Partito Democratico il compito di ricostruire una speranza di progresso per l’Italia.
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di Filippo Bencardino
* Rettore dell’Università del Sannio.
Il mondo della cultura come fucina della classe dirigente Operare delle scelte per il bene comune presuppone senso di accountability
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ei giorni scorsi è stata inaugurata nel Campus di Fisciano la nuova biblioteca dell’area scientifica dell’Università di Salerno. All’ingresso campeggia una scritta: “SAPERE AUDE”, ovvero “abbi il coraggio di conoscere”, assurto a motto dell’Illuminismo dal filosofo tedesco Immanuel Kant, per esortare l’uomo a liberarsi dallo stato di minorità intellettuale. L’attestazione più antica della predetta esortazione latina è rintracciabile nelle Epistole di Orazio. Il poeta latino, nell’offrire ad un amico una serie di consigli, lo invita a “risolversi a essere saggio”, dedicandosi agli studi e alle occupazioni oneste. Avere, quindi, il coraggio di servirsi del proprio intelletto, in maniera autonoma, è conquista di libertà intellettuale, è possibilità di fare libere scelte, esercitando la propria capacità di critica. Il valore della cultura sta proprio nella capacità di illuminare l’intelletto, di coinvolgere la ra-
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gione in un processo formativo ed educativo, un diritto tra l’altro costituzionalmente garantito nel nostro Paese. Il progresso della società passa attraverso l’educazione Sono numerosi gli studi che hanno evidenziato come le popolazioni più scolarizzate siano anche quelle con i più alti livelli di reddito e come gli investimenti nel campo della ricerca favoriscano l’innovazione e lo sviluppo. È altrettanto provato come la valorizzazione economica dei beni culturali possa creare reddito ed occupazione. Tant’è vero che attualmente i corsi di studio, medi e superiori, vengono organizzati per avere un carattere “applicativo”, orientati cioè ad un approccio aziendalistico. Ma così operando, si crea anche progresso? L’orientamento meramente aziendalistico è un approccio economicistico alla cultura ed un concetto di sviluppo ancorato a favorire l’incremento del PIL. Cosa ben diversa dal con-
La formazione e la cultura sono indici di libertà L’orientamento meramente aziendalistico è un approccio economicistico alla cultura ed è cosa ben diversa dal concetto di progresso, che implica la crescita della persona umana e la formazione di un uomo libero, capace di utilizzare il proprio intelletto senza la “guida” di altri.
cetto di progresso, che implica la crescita della persona umana e la formazione di un uomo libero, capace di utilizzare il proprio intelletto senza la “guida” di altri. Se consideriamo l’evoluzione che il nostro Paese ha avuto dall’unità ad oggi ed in particolare nel secondo dopoguerra, è facile riscontrare come il continuo investimento nel campo della formazione e della cultura ha fatto crescere non solo la nostra economia ma anche la qualità della vita, la partecipazione dei cit-
tadini alla vita democratica, nonché una maggiore attenzione e controllo sulle decisioni della classe dirigente. La partecipazione alla vita politica minata dalla crisi dei sistemi formativi È forse un caso che la crisi della nostra democrazia sia coincisa con la crisi della scuola e dell’università? Oggi, nel nostro Paese si ha l’impressione che lo Stato abbia paura di investire in cultura, come se si volesse togliere
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Selezionare la classe dirigente Nei Paesi più evoluti è sempre necessaria la presentazione delle proprie credenziali accompagnate da lettere di presentazione da parte di persone autorevoli che si assumono la responsabilità di illustrare le qualità del candidato. In Italia, la presentazione è semplice “raccomandazione” da parte del potente di turno, su base clientelare e familistica.
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ai cittadini la possibilità di pensare liberamente, di valutare criticamente le scelte della classe dirigente. A tal proposito, mi viene in mente quando, qualche lustro fa, un vecchio dirigente politico scongiurava lo sviluppo della società per non perdere la possibilità di influenzare le scelte degli elettori. Una popolazione meno istruita è, infatti, più facilmente controllabile. Sempre di più sta venendo meno la trasmissibilità intergenerazionale degli elementi che caratterizzano lo status di persona e quindi assistiamo all’impoverimento della nostra stessa cultura. Contestualmente, sta diminuendo anche la qualità della classe dirigente. È necessario intervenire sulla selezione della classe dirigente Un buon establishment deve avere specializzazione e competenza, ancorate a forti valori etici. La classe dirigente italiana è vecchia e con bassi livelli d’istruzione, interessata da un mo-
desto ricambio ed con una scarsa presenza femminile, rispetto alla media europea. E mentre in Europa la selezione avviene sulla base delle credenziali educative, in Italia è prevalente il ricorso al criterio dell’anzianità e della cooptazione da parte della politica, sulla base dell’appartenenza. Lo stesso concetto di “presentazione” del candidato assume da noi un significato diverso. Nei Paesi più evoluti è sempre necessaria la presentazione delle proprie credenziali accompagnate da lettere di presentazione da parte di persone autorevoli che si assumono la responsabilità di illustrare le qualità del candidato. In Italia, la presentazione è semplice “raccomandazione” da parte del potente di turno, su base clientelare e familistica. Soltanto la cultura può, quindi, rendere l’uomo libero e consapevole, responsabile delle proprie scelte e, di conseguenza, garantire una classe dirigente, politica, amministrativa ed economica, qualificata ed ispirata al bene comune. Solo la cultura può evitare l’omologazione e garantire il pieno sviluppo umano, la libertà culturale necessaria per migliorare le relazioni sociali, la capacità e la voglia di conoscere e di scoprire la verità e quindi di scegliere in maniera responsabile tra varie possibilità in piena autonomia, sia nel campo politico che sociale. La povertà, diceva Adam Smith, non è soltanto fisica, ma soprattutto morale e relazionale, quando si impedisce ad alcuni gruppi di accedere alla vita sociale e culturale della comunità. Valorizzare, quindi, la cultura, il sistema formativo, l’università, senza trascurare la trasmissione del sapere tecnico e pratico e senza operare gerarchie tra sapere umanistico e scientifico, è necessario non solo per avere una popolazione capace di fare scelte autonome, ma anche per selezionare una buona classe dirigente. Chi viene delegato ad operare delle scelte per il bene comune deve avere senso di accountability. Questo termine inglese sintetizza meglio dell’italiano diversi concetti, dalla responsabilità all’etica pubblica, dalla capacità di offrire risposte ai cittadini all’autorevolezza. Quando riusciremo a selezionare i decisori sulla base di qualità oggettive, con un sistema certo di valutazione, allora potremo assicurare al nostro Paese sviluppo e progresso.
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di Massimo Adinolfi
* Professore associato, Dipartimento di Scienze Umane, Sociali, e della Salute presso l’Università di Cassino.
Il governo Letta: la politica al tempo delle policies Il Presidente del Consiglio a lezione da Andreatta
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i deve essere qualcosa, sotto la lezione che Enrico Letta ha appreso da Beniamino Andreatta, che non viene subito a galla e su cui però vale la pena riflettere. Qual è questa lezione? Il Presidente del Consiglio l’ha ricordata così: “Ho imparato da Nino Andreatta la fondamentale distinzione fra politica, intesa come dialettica fra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni”. L’occasione in cui l’ha richiamata era la più solenne: il discorso di presentazione del governo alla Camera dei Deputati. Riflettere su questa lezione è riflettere sul sentiero che Letta ha indicato per il cammino che intende seguire. Dopo avere esposto infatti i punti programmatici sui quali il suo governo si sarebbe messo a lavoro (e si metterà al lavoro, perché
siamo ancora alle prime battute, e già sui giornali leggiamo l’invito a cambiare passo), il Presidente del Consiglio è giunto al nodo politico di questa difficile stagione, aperta da un voto che ha pesantemente ridimensionato tutte le forze politiche uscenti - salvo l’entrante ma non subentrante Cinque Stelle -, negando a tutte le coalizioni in campo una maggioranza autosufficiente. Nonostante le difficoltà, anzi proprio per misurarsi con esse, Letta ha“rivendicato con forza l’importanza di un temporaneo «governo di servizio al paese» tra forze sicuramente lontane e diverse tra loro”. E ha aggiunto: “Credo che non sia facile votare insieme da posizioni così eterogenee, ma proprio per questo credo che questa sia una scelta che meriti rispetto anche da chi non la condivide perché non è motivata dall’interesse par-
La ricetta di Enrico Non c’è altro modo di tenere insieme una maggioranza parlamentare, che non sia quello di accantonare le differenze politiche per produrre decisioni comuni.
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ticolare, ma da principi più alti di coesione nazionale”. La coesione nazionale è il più alto principio che rende possibile il voto sui medesimi provvedimenti da parte di forze lontane fra di loro. Lontane, spiega Letta, sul piano della politics, cioè della politica, ma che possono approvare insieme le policies, cioè le politiche necessarie a rimettere il paese su un sentiero di crescita. Se infatti “in questo momento ci concentriamo sulla politica – ha proseguito il Presidente del Consiglio – le nostre differenze ci immobilizzeranno. Se, invece, ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio al paese migliorando la vita dei cittadini”. Sono parole necessarie e di buon senso, in questo momento. Ma qual è questo momento? Per Letta e il suo governo, è il momento in cui non c’è altro modo di te-
L’accordo sulle cose da fare si estende oltre i confini di un’intesa pragmatica, per tradursi in una forma politica determinata, accolta addirittura in Costituzione. nere insieme una maggioranza parlamentare, che non sia quello di accantonare le differenze politiche (la politics) per produrre decisioni comuni (le policies); per l’Italia, però, il momento – un momento che dura grosso modo dall’inizio della seconda Repubblica, cioè dalla fine dei partiti storici e dalla incerta invenzione di nuovi contenitori politici, dalla vita ancora breve e assai accidentata – è piuttosto segnato da una sfiducia generalizzata nella politics, così ampia e profonda da gravare la lezione di Andreatta di significati ben più larghi di quelli sin qui considerati. Significati che Letta, ha peraltro, richiamato in questo modo: “Vent’anni di attacchi e delegittimazioni reciproche hanno eroso ogni capitale di fiducia nei rapporti tra i partiti e l’opinione pubblica, che è esausta, sempre più esausta, delle risse inconcludenti”. Cosa allora queste parole vengono a significare, di là dalla
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necessità che spinge il Presidente del Consiglio a riservare per il proprio governo uno spazio di agibilità che non sia precluso dalla inconcludente “dialettica fra diverse fazioni”? Più o meno questo; le distinzioni politiche – prima fra tutte quelle fra destra e sinistra producono soltanto “risse inconcludenti” e vanno perciò accantonare, rimosse, superate. Dal lato della politics finiscono dunque col ritrovarsi solo i vecchi pregiudizi delle ideologie e la sorda asprezza dei puri rapporti di forza (la lotta per il potere), mentre dal lato delle policies ci si imbatte con la concretezza operosa dei programmi, delle politiche pubbliche mirate alla soluzione dei problemi. Ma è veramente così? Le cose vanno veramente a questo modo? È vero, come titolava il Corriere qualche settimana fa, che la politica schiaccia le politiche, e che in particolare l’Italia è affetta da questa grave patologia, da cui fa fatica a venire fuori, per cui tutto si fa per la lotta per il potere, e nulla si fa per realizzare le riforme che servono al Paese? Guardiamo agli ultimi vent’anni. Anzi, è sufficiente guardare agli ultimi due, anche meno: agli anni del governo Monti, che aveva già avuto il mandato di realizzare policies sospendendo la politics. In apertura del suo discorso, Letta ha formulato un importante apprezzamento “per il grande sforzo di risanamento” compiuto da Mario Monti, e ha collocato il suo impegno di governo sul solco di quell’esperienza, confermandone le politiche (le policies), a partire dal “mantenimento degli impegni presi con il Documento di Economia e Finanza”, presentato appunto dal precedente Ministero. In breve questo significa che nel silenzio della politics, la linea d’azione degli esecutivi può mantenersi sostanzialmente immutata, salvo gli aggiustamenti (dubito molto che potrà trattarsi di qualcosa di più) che saranno resi possibili dall’Europa. Ma la base fondamentale della proposta di policies rimaneva, in quel discorso di insediamento, immutata: prima l’austerità, poi la crescita. Ora, quella base è parecchio discutibile. Poco a poco, l’Europa lo sta capendo. Qui da noi ha fatto notizia la presa di posizione di Paul Krugman, premio Nobel dell’economia, contro le tesi diffuse non solo nell’arena intellettuale ma anche nell’agone politico da Silvia Ardagna e Alberto Alesina (che con Francesco Giavazzi firma editoriali a grappoli sul Cor-
Foto di Livia Crisafi
La possibilità di disputare della verità è il fondamento della democrazia. La separazione di politics e policies è pericolosa quanto la confusione o la sopraffazione dell’una sulle altre, perché, sotto la pretesa di neutralizzare il conflitto, nega l’essenza stessa della politica moderna, che è necessariamente disputa per la verità e quindi lotta per il potere.
riere), secondo i quali l’austerità avrebbe effetti espansivi (perché – diciamola en gros – consolidando la fiducia nelle finanze pubbliche creerebbe una situazione favorevole alla ripresa degli investimenti). Ora, non è questa la sede in cui entrare in una disputa tra economisti: sbagliata o no che sia questa idea di fondo, resta il fatto che nel clima che ha generato è stato possibile introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, cioè il consolidamento di un certo genere di policies dentro la Carta fondamentale che, vale la pena ricordarlo, non costituisce solo la più alta fonte del diritto nel nostro Paese, ma anche un atto storico-politico di prima grandezza, qualcosa che per farla c’è voluta indubbiamente la politics, non solo le policies. Eppure, la sospensione della prima produce una tale uniformità di vedute sulle seconde, che giunge fino alla modifica costituzionale: l’accordo sulle cose da fare si estende oltre i confini di un’intesa pragmatica, per tradursi in una forma politica determinata, accolta addirittura in Costituzione. Come se ci fosse una sola possibile linea di riforme da attuare, che la cattiva politica non ha permesso di realizzare. Ma la politics non è affatto la bad company delle policies, da cui
dunque queste ultime devono essere tenute separate per non essere travolte da “risse inconcludenti”; è piuttosto la dimensione in cui si mantengono aperte le opzioni politiche di un paese: la sua eclissi non significa che scompare la politica, ma che le conseguenze politiche si producono surrettiziamente, come effetto di policies spacciate per uniche e univoche. Quella dimensione, però, ha da rimanere aperta per essenza, perché è per una legge d’essenza che queste opzioni sono legate alla tanto deprecata “dialettica fra le diverse fazioni”. Che cos’è questa dialettica, infatti, se non il regime politico in cui vive la libertà democratica? Lo ha spiegato bene un grande studioso della politica, Claude Lefort: la democrazia è la forma di esistenza politica necessaria quando si disconnettono il potere e il sapere. Il che vuol dire: chi ha il potere non detiene necessariamente la verità, e chi ha (o pensa di avere) la verità non detiene necessariamente il potere. Proprio questa sconnessione, questa spaccatura, rende possibile la libertà (che è sempre anche, non lo si dimentichi, libertà di errare). La verità non c’è, ossia: è disputata. La possibilità di disputare della verità è il fondamento della democrazia. La separazione di politics e policies è pericolosa quanto la confusione o la sopraffazione dell’una sulle altre, perché, sotto la pretesa di neutralizzare il conflitto, nega l’essenza stessa della politica moderna, che è necessariamente disputa per la verità e quindi lotta per il potere. Non si può avere l’una senza avere l’altra, insomma, se e finché si rimane sul terreno della democrazia. Così va bene la lezione di Andreatta: se ne comprende la necessità, così come si capisce lo spirito “di servizio” con il quale Letta l’ha richiamata. Ma se c’è un’altra lezione per Letta (e soprattutto per il partito democratico), che si può modestamente trarre da questo giro di considerazioni, essa sta forse in ciò: che non sarà sospendendo la politica, vivendo in uno stato di imbarazzo l’esperienza politica in corso, e soprattutto accettando che sulla politics cada e si confermi un giudizio sostanzialmente denigratorio, che il Pd tornerà a fare politica a testa alta, fra la gente, col coraggio delle proprie idee e la lotta indispensabile per affermarle.
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INTERVISTA A VINCENZO DE LUCA Le Infrastrutture sono strategiche per la ripresa economica ed occupazionale
“Il mio programma di lavoro” Sbloccare i pagamenti della Pubblica Amministrazione, incentivare le Infrastrutture di Samuele Ciambriello
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ncontriamo il Sindaco di Salerno, Vincenzo De luca, neo viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Con lui facciamo una chiacchierata franca sulle motivazioni che l’hanno spinto ad entrare nel Governo Letta, sul tema del Mezzogiorno, del nodo dei lavori e delle opere pubbliche. Ci sembra subito di capire, sin dalle prime battute, che le infrastrutture siano strategiche per la ripresa economica ed occupazionale. Quali sono le motivazioni che l’hanno spinto a far parte del Governo Letta? Questo governo nasce in una situazione istituzionale, sociale, economica e politica gravissima. Bisogna lavorare in modo durissimo e con altissimo senso di responsabilità per tentare di uscire da una crisi drammatica che sta mettendo in ginocchio le famiglie e le imprese. E’ questa la motivazione principale che mi ha indotto ad accettare il prestigioso, ma complesso incarico affidatomi dal Presidente del Consiglio Enrico Letta. Ho iniziato questo nuovo servizio con grande entusiasmo e de-
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terminazione consapevole che, bisogna evitare ogni dannosa perdita di tempo perché ci sono una serie di cose molte urgenti da fare rapidamente. Il Paese, i cittadini, le imprese attendono risposte e non si possono più rimandare decisioni strategiche. Ci sono risorse per il Sud? Ci sono opportunità per favorire crescita e sviluppo? Gli Enti locali sono stati massacrati negli ultimi anni. C’è stato un sistematico ed indiscriminato taglio delle risorse disponibili che hanno creato sempre maggiori difficoltà nell’assicurare ai cittadini anche i servizi primari come le manutenzioni stradali, i servizi sociali per asili nido ed assistenza ad anziani e persone malate. A volte si stenta persino a pagare regolarmente lo stipendio ai dipendenti. Ai Comuni vanno garantite risorse certe ed entrate sicure, inserendo anche una serie di meccanismi premiali che consentano di fornire ulteriori risorse a chi abbia ben speso per migliorare la qualità di vita della sua comunità i soldi disponibili. In tale prospettiva, la
Aprire un cantiere è un’impresa sovraumana e chi apre un cantiere è considerato non un eroe, ma un criminale. Siamo il paese con il massimo dei controlli e dilagante abusivismo.
Foto di Carlo Hermann
deroga al Patto di Stabilità dovrebbe avere una ricaduta positiva. Ma non basta. Il passaggio sull’IMU riguardo alla prima casa ed agli alloggi di edilizia residenziale pubblica è stato positivo, ma, adesso, bisogna consolidare questo risultato e trovare le risorse sostitutive anche in relazione alla nuova configurazione della tassa sui rifiuti diventata TARES. Sbloccare i pagamenti della Pubblica Amministrazione per far ripartire economia ed impedire ulteriori penetrazioni delle organizzazioni criminali che sono le uniche con denaro disponibile. Lei è un amministratore locale radicato sul territorio. Certo, il Sud si può salvare se rifonda la sua classe dirigente. Ma cosa devono fare gli enti locali e , visto che i cantieri sono fermi e l’occupazione non riparte? Nello svolgimento del mio mandato considero i sindaci, i presidenti di regione e tutti gli amministratori locali degli interlocutori preziosi ed affidabili con i quali studiare forme di compartecipazione alla realizzazione di strutture ed infrastrutture indispensabili per la mobilità, la sicurezza, lo sviluppo degli investimenti economici, la qualità dell’ambiente, il futuro stesso delle comunità. A livello italiano ed europeo occorre concentrarsi sulla ripresa economica ed il lavoro. La situazione sociale è sempre più tesa e drammatica in tutta Italia anche
perché si vanno esaurendo le risorse per la cassa integrazione. La politica di rigore deve esser indirizzata allo sviluppo ed alla creazione di occupazione specialmente per i giovani. Un dato recente: 40mila italiani, con formazione universitaria e nel comparto informatico prevalentemente, sono emigrati in Germania nell’ultimo anno. Un impoverimento spaventoso per il nostro paese ed in particolare per il Meridione d’Italia. C’è poi da sciogliere il nodo dei lavori e delle opere pubbliche. Siamo ingabbiati in un dedalo di controlli infiniti. Aprire un cantiere è un’impresa sovraumana e chi apre un cantiere è considerato non un eroe, ma un criminale. Siamo il paese con il massimo dei controlli e dilagante abusivismo. Tra pareri ed autorizzazioni infiniti, ricorsi e controricorsi si perdono anni ed occasioni. Gli investitori si dirigono all’estero. Propongo che siano tecnici e progettisti a certificare le conformità di legge (sicurezza, ecosostenibilità, qualità progettuale) delle opere che sarebbero poi controllate a campione dagli enti preposti; grande snellimento burocratico e valorizzazione di tanti giovani professionisti. Tempi certi per le imprese, rispetto istituzionale e creazione di occupazione specialmente per i giovani del mezzogiorno, dove negli ultimi 4 anni si sono persi 300mila posti di lavoro. È vero: basta opere per piccole opere che non producono sviluppo. Quale ruolo hanno le infrastrutture e su cosa altro puntare? Le infrastruttture sono strategiche per la ripresa economica ed occupazionale,occorre impegno per completare le tante opere che in Italia soffrono rallentamenti burocratici ed economici. Utilizzare in modo saggio e senza dispersioni a pioggia clientelari, i fondi europei. Puntare su alcuni distretti di valore mondiale, come ad esempio il Ro-Sa (l’asse Roma-Napoli-Salerno unico al mondo per valore ambientale, storico-artistico, enogastronomico ed artigianale) migliorando, ulteriormente, la mobilità e l’accessibilità, bonificando la costa, mettendo in sicurezza i territori. Occorre, poi, valorizzare la ricerca e gli investimenti nel campo delle energie pulite e rinnovabili.
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RESTITUIRE DIGNITÀ ALLA POLITICA
Foto di Maddalena Tartaro
Prospettive di cambiamento
Crisi dei partiti e prospettive future Corsi e ricorsi storici della Politica Italiana. La proposta di Fabrizio Barca di Anna Malinconico
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partiti politici Italiani sono implosi. Il passaggio dalla legge elettorale proporzionale a quella maggioritaria ebbe un esito disastroso per i due partiti che avevano condiviso la guida del sistema politico italiano: la Democrazia Cristiana ed il Partito Socialista Italiano. Tutto il sistema politico uscì da quest’esperienza, rimescolato e rivisitato. Il movimento chiamato “Forza Italia”, nel 1994, affrontò le elezioni per la prima volta ed ottenne un risultato significativo, il migliore di tutta la coalizione di cui faceva parte, aiutato anche come fu dai mezzi
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di comunicazione di proprietà del suo leader; dall’altra parte, il PDS, erede del PCI, pur aspirando alla vittoria, ne uscì perdente. La DC ed il PSI scomparvero e diedero vita a varie minori formazioni. Tale ridefinizione del quadro politico non è stata indolore, sia per i cattolici, che per i militanti e gli elettori dei partiti di ispirazione marxista. Proprio i partiti che avevano accompagnato la storia italiana dall’età liberale al fascismo, fino alla Repubblica - i partiti di massa - giunsero al capolinea, determinando con la loro scomparsa, la fine di un’epoca. Il giorno dopo le
Occorre in fretta cambiare l’assetto dei poteri democratici, e va compreso che, se il Movimento 5 Stelle ha vinto, al di là di ogni dietrologia, è perché è stato l’unico soggetto politico ad aver colto la crisi di credibilità, non solo del sistema della rappresentanza, ma dell’intero sistema dello stato liberal-democratico.
elezioni del 1994, tale dissoluzione sembrava non aver toccato la sinistra democratica e ciò perché aveva anticipato la revisione ideologica con la trasformazione del PCI in PDS proprio alla vigilia della scadenza elettorale del 1994. Ma questa mancata deflagrazione si è rivelata solo un’illusione. Nell’ultimo ventennio si è alimentata l’idea di poter evitare l’inevitabile, semplicemente trovando nell’ultimo punto di compromesso una via di uscita; strade che si sono rivelate, di volta in volta, fallaci e sempre più brevi. Ultimo esempio di tale prassi, è l’attuale forma di Governo. Il Partito Democratico costituisce, in tale prospettiva di analisi, l’ultima esperienza politica che porta il nome di “partito” e la sua eclissi coincide con l’eclissi di un’idea di Paese. I dirigenti di partito si sono scollegati dal cosiddetto paese reale, non È venuta meno la passione dei riuscendo ad intercettarne i bisogni ed i propartiti in ordine all’educazione getti. La diversità delle anime che hanno comed all’informazione dei posto il PD, non hanno cittadini. I cittadini, sempre più fatto nulla per contaminarsi; sono rimaste imvengono “socializzati” alla mobili, identiche a se politica in altri modi e da altre stesse; chiuse nelle stanze del proprio peragenzie, non ultime quelle sonale potere, con rappresentate dai mass media. l’unico vero obiettivo comune, di preservare le loro personali e, spesso, grazie al Porcellum, non guadagnate posizioni apicali. Il paese è sempre più diventato altro da loro. Le istanze riformatrici presenti nella società non hanno trovano risposte nella asettica sommatoria di potentati, fino alla attualissima ed ancora scottante, pantomima delle elezioni dell’ultimo Capo di Stato. Occorre in fretta cambiare l’assetto dei poteri democratici, e va compreso che, se il Movimento 5 Stelle ha vinto, al di là di ogni dietrologia, è perché è stato l’unico soggetto politico ad aver colto la crisi di credibilità, non solo del sistema della rappresentanza, ma dell’intero sistema dello stato liberal-democratico. La nascita della Repubblica Italiana, sancì, per la prima volta, la nascita di uno stato intrinsecamente democratico, non autoritario. Nasceva cioè una forma nuova di politica, che si fondò sui valori della società, e non dello stato. In
primo luogo sul lavoro il cui concetto era costruito su quello di reciprocità ed altruismo, e non su quello di egoismo, su cui si fondava l’idea della proprietà privata tout court. I cattolici ed i marxisti, trovarono proprio nel “valore sociale” del lavoro lo spazio della loro intesa. Lavoro significò, oltre che libertà ed autonomia personali, solidarietà per tutti: operai, borghesi, contadini ed intellettuali; Chiesa e Stato. Il fine ultimo dello stato sociale era il superamento dei bisogni, da parte di tutti, nessuno escluso. Ma qualche cosa si è irrimediabilmente frapposto fra la democrazia ed il suo pieno compimento. La Repubblica si è velocemente trasformata in uno stato dei Partiti, (ciò anche a causa di alcune indicazioni presenti nella II parte della Carta Costituzionale), che hanno definitivamente abdicato al loro ruolo di educatori sociali. Si sono invece dati da fare per impadronirsi del paese capillarmente: hanno occupato il parlamento, gli enti locali, le banche, i sindacati, la scuola, le università, la burocrazia, la sanità pubblica ed anche quella privata in gran parte, i consorzi, le municipalizzate, fino ad impadronirsi anche dei media. I cittadini sono stati esclusi da questa occupazione capillare e totale. E’stato proprio questo sistema dei partiti ad aver bloccato la piena realizzazione del processo democratico. I partiti sono sempre più diventati dei veri e propri tappi che hanno ostruito la partecipazione democratica e spontanea dei cittadini dimostrando nel tempo una incapacità a misurarsi con i continui sviluppi della modernizzazione, una resistenza a favorire un ricambio della classe dirigente italiana, ma soprattutto a selezionare e sostenere nuovi gruppi dirigenti in grado di fronteggiare i problemi che sorgono nel paese. La cronaca politica continua a mandare chiari messaggi in tal senso. È venuta meno la passione dei partiti in ordine all’ educazione ed all’informazione dei cittadini circa le questioni politiche. I cittadini, sempre più vengono “socializzati” alla politica in altri modi e da altre agenzie, non ultime quelle rappresentate dai mass media. D’altra parte, la crisi della funzione di rappresentanza del partito è amplificata dall’attuale legge elettorale, in quanto la cooptazione all’interno dell’apparato di partito garantisce al candidato la sicura elezione, facendo sì che il personale parlamentare as-
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somigli sempre più a quello partitico, e non alla società che avrebbe dovuto rispecchiare. I partiti non costituiscono più il canale privilegiato di comunicazione fra rappresentati e rappresentanti: ne sono diventati addirittura la “controprarte”. I recenti fatti di cronaca possono essere letti proprio in questa direzione ed evidenziano, oltre che un profondo strato di malessere ed incertezza, una completa dissonanza fra governanti e governati che amplifica, l’attuale deficit di rappresentanza. La concomitante crisi delle ideologie ha privato i partiti di un potente strumento per la definizione ed il mantenimento della
malista”, che ha dominato l’ultimo trentennio, fino all’attuale crisi. Il metodo di governo relativo a tale modello si deve fondare su istituzioni pragmatiche che permettono di assumere e modificare decisioni, combinando un processo di “mutuo apprendimento con il massimo possibile di impegno e sviluppo degli individui” (F. Barca). L’approccio proposto dallo sperimentalismo democratico, ricerca il modo più efficace ed economico per produrre i beni pubblici, anche attraverso il confronto dialettico con altro da sé; promuove la ricerca delle soluzioni con la massima apertura e trasparenza,
Ha ragione Fabrizio Barca quando sostiene la necessità di una mobilitazione cognitiva per evitare la concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi. Deve nascere il partito palestra. “Un Partito nuovo per un buon governo” di F. Barca, aprile 2013. propria identità. La crisi attuale è ben più ampia di quella legata al tramonto delle idelogie, abbraccia ogni forma di utopia, e coincide con la crisi dell’idea del collettivo come “grande educatore”, e della comunità politica come unità morale, superiore agli individui che la compongono. Per riprendere la strada maestra bisogna ridisegnare lo stato democratico, a cominciare dalla legge elettorale, per consentire più efficaci ed originali modalità di partecipazione; va ridisegnato il sistema dei partiti, rendendo possibile la partecipazione al bene comune di tutti, favorendo una contaminazione che possa rispecchiare la comunità paese, permettendo al popolo di essere giudice vero dei suoi governanti, chiudendo definitivamente la stagione che ha visto prevalere il voto clientelare, con tutto il suo portato di volgarità, disonestà, impunità giudiziaria. L’analisi sulla crisi epocale che stiamo attraversando, e dello spaccato in essa iscritto relativo alla crisi dei partiti, impongono un cambio di rotta immediato. Fabrizio Barca, nel suo documento politico, propone il metodo dello “sperimentalismo democratico”, ritenendolo adatto a superare i gravi errori della “macchina pubblica mini-
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attraverso percorsi di decisioni partecipate, anche come antidoto alla crisi. Essendo un metodo, nulla è lasciato all’improvvisazione, e dunque ogni spesa è pianificata. Interessante punto è quello relativo agli incarichi di amministratore pubblico, il cui ritorno principale deriva dall’esercizio in sé della funzione di governo (capace di coniugare il sentimento “egoistico”, con quello spirito pubblico), e la loro remunerazione deve essere coerente con i cittadini che essi rappresentano. Tale impostazione, a parer mio, ridefinisce di fatto, il concetto di rappresentanza restituendole dignità e significato. Ovviamente, tapproccio, necessita propedeuticamente di una completa revisione del sistema dei partiti attualmente in vigore. Essi rimangono organizzazioni necessarie, ma a condizione di una loro radicale trasformazione. Aderendo al paradigma dello sperimentalismo, - concordo, in tal senso, pienamente con Barca - bisogna assolutamente evitare la concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi, ecco che davvero urge una “mobilitazione cognitiva”che produca risposte complesse a bisogni complessi, in un’ ottica di riconciliazione fra chi vota, e chi è chiamato ad amministrare e legiferare. La
Fabiana 16 anni uccisa dal fidanzatino geloso - Foto di Alfonso Di Vincenzo
Bisogna separare nettamente i funzionari di partito da quelli dello stato, ma anche separare la base economica dei due sistemi ed abolire il finanziamento pubblico, riscoprendo il contributo volontario di iscritti e simpatizzanti, prassi non lontana dallo spirito della mobilitazione cognitiva.
domanda di partecipazione dei cittadini è forte, ma è scarsamente e fintamente ascoltata dai “vecchi”e sordi partiti. È proprio su queste domande intercettate correttamente, che si fonda la portata del movimento 5 stelle, rimasto poi ingabbiato nel forte leaderismo che lo caratterizza, e bloccato dalle sue stesse velleità di segregazione elitaria. Un partito che interpreta l’attuale momento è quello che mobilita con l’obiettivo di produrre soluzioni ai vari bisogni di gruppi non di “eguali”, ma soprattutto di “diversi”. Il flusso di comunicazione deve essere sempre circolare, con grande attenzione ai feedback, utili e necessari a ricreare la proposta politica, in un flusso continuo e circolare. Tale dialettica vera e di contenuto, deve avvenire anche successivamente al voto, tra il partito ed i gruppi parlamentari: solo la continua circolarità delle informazioni, potrà consentire alle scelte di cambiamento (leggi, norme, decreti) di essere comprese ed accettate da tutti,
in un patto di fiducia reciproca. Per arrivare a tanto, occorre che i partiti abbiano la stessa weltanschauung delle comunità in cui proliferano; essere partiti ampi, senza lottizzazioni e la rete può essere un ottimo strumento di avvio, di scambio veloce, che deve però trovare nell’incontro face to face il suo compimento. Bisogna separare nettamente i funzionari di partito da quelli dello stato, ma anche separare la base economica dei due sistemi ed abolire il finanziamento pubblico, riscoprendo il contributo volontario di iscritti e simpatizzanti, prassi non lontana dallo spirito della mobilitazione cognitiva. Per effettuare il cambio di rotta sopra citato, bisogna operare trasformazioni profonde di regole e prassi, e per questo occorre una classe politica dirigente nuova, che sia libera da vecchie abitudini. Ma bisogna far presto, perché alle analisi, se non si risponderà con fatti, la deflagrazione del sistema sarà inevitabile.
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di Marco Staglianò
Il PD nasce o muore al governo Spunti di riflessione sul futuro del PD
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uglielmo Epifani è stato eletto dall’Assemblea Nazionale del Pd con il mandato di traghettare il partito sino al congresso di ottobre: un segretario Caronte con spalle larghe che non dovrà gestire una facile transizione ma dovrà governare una nave alla deriva nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. L’ex segretario generale della Cgil non dovrà solo accompagnare il dibattito congressuale provando a contenerne la complessità in un clima da resa dei conti ma dovrà gestire questa partita in funzione delle scelte
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e delle politiche dell’esecutivo. Scelte e politiche che incideranno in maniera determinante sulla discussione congressuale e sul cui crinale, in fin dei conti, si giocherà la vera partita. Detta altrimenti, l’irrequietudine con la quale il partito sta vivendo la convivenza forzata con il Pdl, seppur fisiologica, rappresenta la più grande delle minacce per il partito stesso. Ecco perché la missione del segretario Caronte è quella di governare quell’irrequietudine per garantire il sostegno all’esecutivo, coltivare un’adesione consapevole al percorso
Epifani vincerà la sua sfida “Dobbiamo cambiare gioco e liberarci di questo strano incantesimo che ci paralizza. Non dobbiamo consegnare a Berlusconi il governo Letta”.
avviato proprio con le larghe intese, riaffermare, nel rapporto con il governo, la centralità del progetto democratico. Epifani vincerà la sua sfida solo nella misura in cui sarà in grado di compattare il partito sulla linea indicata da Matteo Renzi: «Dobbiamo cambiare gioco – ha detto all’indomani dell’insediamento dell’esecutivo – e liberarci di questo strano incantesimo che ci paralizza. Non dobbiamo consegnare a Berlusconi il governo Letta. Dobbiamo rivendicarlo, porgergli un programma con due o tre punti qualificanti e dargli un’impronta di sinistra». Il punto è questo. Ribaltare completamente la logica con la
quale è stata affrontata la sfida delle larghe intese trovando la forza di rivendicare il governo Letta, di orientarne le scelte, di imporne l’agenda senza rigidità o preclusioni ma con la forza dei propri argomenti, dei propri convincimenti. Il PD deve farsi protagonista di questo necessario percorso di pacificazione nazionale, deve scardinare il simbolismo posticcio costruito su alcuni temi cruciali, deve essere in grado di superare ogni falsa pregiudiziale, alzare l’asticella della sfida puntando al merito delle questioni e porre condizioni invalicabili solo su quel terreno: cadere nel tranello di Berlusconi, rincorrere i suoi ricatti
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Enrico Letta rappresenta la migliore garanzia. È un fuoriclasse, lo sta dimostrando, con ostinazione e fermezza, nel solco del percorso indicato e sul quale ha ricevuto la fiducia del Parlamento.
sulla giustizia e ripiegare sugli schemi della contrapposizione cieca di questi venti anni sarebbe un errore letale. Il PD deve legare la fedeltà a questo governo solo al programma e alle politiche che lo stesso metterà in campo e lasciare al PDL l’onore eventuale di sacrificare sull’altare del destino del capo i destini del Paese. Il PD di Epifani deve misurarsi con l’Italia, deve ritrovare le ragioni del proprio essere partito nazionale e repubblicano, lo deve fare accompagnando la sfida dell’esecutivo a partire dall’affermazione di un principio inviolabile per qualsiasi forza che voglia dirsi popolare e costituzionale: le scelte che un partito compie non vanno valutate in sé, in funzione di principi che si evocano, ma vanno valutate in relazione al contesto nel quale maturano e ai possibili scenari sul tavolo, vanno valutate in ossequio al dovere della disponibilità al governo del possibile e non di una cieca e sorda obbedienza a quello che non c’è, che non ci può essere ma sarebbe bellissimo se ci fosse. Va bene evocare i principi, ma poi, occorre sfruttare tutto lo spazio che la condizione data ti consente per esercitarli. Anche quando lo spazio è angusto, anche quando tocca mediare con il peggiore dei nemici. Il Paese viene prima di tutto e non c’è cultura di governo che non discenda da questo principio. Ed è proprio in ossequio a questo spirito repubblicano che va affermata con forza una verità storica e politica che stenta ad emergere: non c’era alternativa al governo di larghe intese, non c’era alternativa a fare di necessità virtù. Il Movimento Cinque Stelle ha precluso ogni possibile spazio per un’in-
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tesa che potesse condurre al governo di cambiamento evocato per quasi due mesi. La storia di quei cinquanta giorni, streaming compreso, ci ricorda che a fuggire dalle proprie responsabilità sono stati i grillini e non certo Bersani o il PD. L’unica strettoia sulla quale il PD avrebbe potuto puntare per provare a riaprire la partita per un’intesa con i Cinque Stelle, ci riferiamo all’elezione del Presidente della Repubblica, ha segnato l’implosione del partito. Caduto Prodi, per responsabilità con le quali prima o poi occorrerà fare i conti, ogni possibilità di ricompattarsi su qualsiasi altro nome, compreso Rodotà, era preclusa. A meno che, ovviamente, non si fosse deciso di cogliere quell’occasione per uccidere il partito. Non c’era alternativa a Napolitano e alle larghe intese e chi sostiene che a quel punto il PD avrebbe potuto e dovuto sottrarsi, teorizza l’avventurismo. Il PD ha fatto l’unica cosa che poteva fare e adesso deve riappropriarsi di quella scelta innalzando la bandiera del coraggio di una responsabilità che non ha cercato, ma alla quale
non si è potuto sottrarre. Il coraggio della responsabilità è il cemento che deve tenere unito il partito, è il terreno comune su cui disputare la partita congressuale. Ma il coraggio della responsabilità non può risolversi nella vuota retorica della scelta giusta. Il PD deve rivendicare le larghe intese, ma, tornando a Renzi, deve orientare quel percorso incidendo sull’agenda dell’esecutivo, forzando la mano laddove è necessario e ponendo dei limiti invalicabili oltre i quali la responsabilità finirebbe con il tradursi in eresia. Da questo punto di Lo spazio per la svolta c’è Enrico Letta rape l’Italia è chiamata a giocare vista, presenta la migliore garanzia. un ruolo di primo piano un fuoriclasse, lo sta nel tradurre in volontà politica Èdimostrando, e siamo certi che saprà tenere la questa necessità ormai barra dritta, che contiavvertita da tutti. nuerà a muoversi, con ostinazione e fermezza, I margini di intervento si solco del percorso allargheranno sensibilmente. nel indicato e sul quale ha ricevuto la fiducia del Parlamento. Il vero banco di prova è quello europeo perché soltanto liberando le economie continentali dalla camicia di forza del rigore in funzione del debito si potrà restituire ossigeno all’economia e garantire una pace sociale che, in Italia più che altrove, sembra quanto mai a rischio. La signora Merkel sembra essersi convinta che di solo rigore si muore, sembra aver capito che non è l’Europa a dipendere dalla Germania, ma il contrario.
Lo spazio per la svolta c’è e l’Italia è chiamata a giocare un ruolo di primo piano nel tradurre in volontà politica questa necessità ormai avvertita da tutti. Se le cose andranno per il verso giusto, i margini di intervento si allargheranno sensibilmente. Di conseguenza ci sarà molto più spazio per corrispondere, alle aspettative delle diverse posizioni rappresentate nell’esecutivo ed il prezzo della responsabilità sarà molto meno salato anche per il PD. Che a quel punto potrà contare su di un Presidente del Consiglio entrato nella storia, potrà rivendicare il merito di aver consentito al Paese di venir fuori dalle sabbie mobili, potrà ammortizzare molto più agevolmente l’impatto della convivenza con il nemico sulle dinamiche interne in chiave congressuale. A quel punto, il compito di Epifani si farebbe molto meno gravoso e il partito potrebbe ritrovarsi a congresso con la serenità necessaria per affrontare e sciogliere tutti i nodi che ostacolano la via per il futuro. Ma seppure le cose dovessero andare diversamente, seppure il muro del rigore europeo non dovesse cadere, il PD dovrà tenere la barra dritta su quei punti qualificanti evocati da Renzi contando sull’autorevolezza e sulla capacità di persuasione e di mediazione del suo Presidente del Consiglio. Al quale, tuttavia, nulla dovrà essere risparmiato qualora, sul versante del governo del possibile, dovesse mostrarsi disponibile a mediare oltre il dovuto, a retrocedere laddove non si può, non si vuole e non si deve, in nome di una responsabilità che da tale si tradurrebbe in resa. In questo secondo scenario Epifani sarà chiamato ad un’impresa ai limiti dell’impossibile perché superato il limite di quella responsabilità il partito si spaccherebbe senza rimedio. E se da un lato dovrà mostrarsi vigile e risoluto nel presidiare quel limite invalicabile dall’altro dovrà tenere a bada coloro che proveranno a forzare per far saltare il tavolo riconducendo ogni turbolenza alla dimensione congressuale. Chi, in questi anni, ha profetizzato che il PD sarebbe nato o morto al governo aveva ragione. In pochi, però, avrebbero immaginato che sarebbe arrivato al governo in queste condizioni: la storia fa brutti scherzi ma, sovente, dentro il più terribile dei tornanti si cela l’aurora di un futuro insperato.
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INTERVISTA AD ANTONIO CLEMENTE di Maria Rosa Gasparriello
La riforma della Giustizia “Il lavoro del Magistrato è un lavoro che si svolge in solitudine”
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on mi sento un paladino della giustizia. Sono un servitore dello Stato, una persona che ha una responsabilità pubblica, che vuole applicare le leggi e fare il suo dovere”. A parlare è il Sostituto Procuratore della Repubblica Antonio Clemente in servizio alla Procura di Benevento dal 2005 dopo 13 anni di intesa attività svolta alla Procura di Napoli dove si è occupato di criminalità economica ed organizzata e di reati contro la pubblica amministrazione. Dottor Clemente chi salverà questa Italia? “Nessuno di noi singolarmente può salvare l’Italia, neanche in posti delicati come la Procura della Repubblica. Ognuno deve fare il suo lavoro, assumendosi le proprie
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responsabilità. Ecco vede, io credo che sia proprio il principio di responsabilità a mancare in Italia. Pensiamo alla responsabilità penale. Noi abbiamo un sistema che gira a vuoto, un sistema di prescrizione assurdo che non ha eguali, se non in Grecia. Qui da noi la maggior parte dei processi si estinguono per prescrizione. È urgente intervenire: l’imputato deve assolto o condannato, non si può giocare sul tempo. Questa è delegata giustizia, è giustizia negata, per la quale, tra l’altro, siamo condannati anche a livello europeo. Il legislatore sa che molti processi vanno in fumo. Purtroppo per l’apparato che abbiamo, se sommiamo i tempi, già al primo grado andiamo verso la prescrizione. Abbiamo una serie di garanzie che ci devono essere in uno Stato di diritto ma altre sono eccessive”.
Se avessimo paura non avremmo libertà La paura fa parte del nostro mestiere e la mettiamo in conto. La preoccupazione è per la famiglia. È chiaro che se anche ci fosse, la paura va affrontata e gestita. Mai farsi intimidire, ma continuare a fare il proprio lavoro.
Dunque lei ritiene che l’organizzazione della giustizia in Italia debba essere riformata a tutti i livelli “Assolutamente si. Prendiamo la Cassazione per esempio. Il problema è che non si riesce a far fronte al gran numero di processi. La Corte Suprema degli Stati Uniti tratta e vuole trattare solo un centinaio di processi all’anno. In Italia i ricorsi sono migliaia e migliaia”. Esiste una relazione tra l’incremento di alcuni reati e la crisi economica che investe il nostro Paese? “Certamente c’è una esplosione di furti, alcuni compiuti anche per soddisfare una necessità primaria. E poi si registra un incremento nel numero di rapine cruente, estorsioni, reati da strada. Anche l’abuso di stupefacenti ha subito un aumento, indice forse della crisi di identità e della sfiducia che induce l’essere umano a rifugiarsi in questi paradisi sintetici. Il settore relativo all’usura è poi sempre fiorente”. Benevento città tranquilla solo apparentemente quindi? “La differenza che c’è con il territorio napoletano è solo nei crimini di sangue compiuti per strada. Per il resto tutta la
tipologia dei reati, compresi quelli dei colletti bianchi, è assolutamente rappresentata anche nella nostra terra. Basti pensare che nemmeno le piccole realtà sono immuni. Anzi si registrano numerosi appalti inquinati. Ci troviamo di fronte a sistemi di governo della Cosa pubblica di tipo feudale e nei comuni ci sono milioni di euro da gestire. Purtroppo non ci manca nulla, anche se queste cose suscitano meno clamore rispetto alle vicende napoletane. E poi va anche detto che Napoli non è lontana da Benevento. C’è tanta criminalità non solo di importazione ma anche locale”. Il Magistrato Lello Magi a Sant’Agata de’ Goti ha pubblicamente evidenziato la circostanza secondo cui i Casalesi hanno investito molto nel Sannio. Purtroppo questa è cronaca giudiziaria. Ci sono stati imprenditori in odore di camorra, anche con i Casalesi, che si sono aggiudicati appalti. Il problema sta nel fatto che spesso queste organizzazioni criminali si avvalgono di prestanome ed è difficile dimostrare il collegamento. Inoltre, chi dovrebbe certificare lo stato delle cose, come la Prefettura, non ha mezzi d’indagine adeguati. Ma il fatto che ci siano imprese legate ai casalesi o alla criminalità organizzata del napoletano che operano anche qui in zona, anche di un certo li-
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vello, è un dato assodato ed è facilmente riscontrabile dagli atti giudiziari. Le inchieste che ha portato avanti sono state molte e molto delicate. Tra queste, quella legata alla massoneria e il tentato golpe in Angola. C’è una effervescenza massonica in questa città? “Quella legata alla Colonna traiana è stata una indagine lunga che, per quanto riguarda il reato di corruzione, si sta svolgendo qui a Benevento. Sul fronte della violazione della leggi Anselmi, il processo è stato svolto a Milano. Che ci sia stata una base massonica a Benevento è fatto noto. Noi l’abbiamo individuata durante una perquisizione a Piazza Roma. Questa società operava anche a livello internazionale per tentare il golpe in Angola, ovvero per favorire il distacco della parte ricca di giacimenti, il Cabinda”. Nel 2010 lei è stato destinatario di 2 proiettili. Ha avuto paura? “La paura fa parte del nostro mestiere e la mettiamo in conto. La preoccupazione è per la famiglia. È chiaro che se anche ci fosse, la paura va affrontata e gestita. Mai farsi intimidire ma continuare a fare il proprio lavoro. Se avessimo paura, e se avessero avuto paura i tanti colleghi, gli appartenenti alle forze dell’ordine che sono stati uccisi nel corso di questi decenni, noi oggi non avremmo più libertà”. Nell’esercizio delle sue funzioni si è mai sentito abbandonato “Il lavoro del magistrato è un lavoro che si svolge in solitudine. Le scelte che si trova ad operare un magistrato sono scelte penetranti e anche quando vengono effettuate in un collegio, si è soli con la propria coscienza. Detto questo ci sono degli uffici giudiziari come il mio, diretto dal Procuratore Maddalena, che sostiene i suoi uomini, ma ci sono anche uffici in cui questo non accade. Io mi sono sentito solo molte volte, sia per ragioni legate alla professione in sé che per la delicatezza delle indagini. Man mano che si sale, ci si scontra con il potere politico, il potere amministrativo, i colletti bianchi e questa è una battaglia
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che si conduce in solitudine. Ma è nostro dovere, lo abbiamo scelto noi e lo facciamo con tutta l’abnegazione possibile”. Io mi riferisco anche al fatto che non è stato protetto a seguito degli eventi del 2010 “Vigilanza saltuaria sotto casa. Ma quello che mi ha fatto male è essere venuto a conoscenza del fatto che anche esponenti delle istituzioni hanno pensato che quei proiettili potessero essere legati a vicende personali. Nel mio caso c’è stato anche il prefetto dell’epoca, secondo cui non c’erano prove del fatto che i proiettili fossero legati alla mia attività di magistrato. Evidentemente però non c’erano nemmeno prove che dicessero il contrario”. Ad agosto sarà in forza alla Procura di Roma. Ha qualche rimpianto “A Benevento mi trovo bene ho ottimi e validi colleghi. Ma credo che sia importante la rotazione di noi magistrati. Si deve passare il testimone: la lotta al malaffare e alla corruzione non devono essere personalizzate, appannaggio o prerogativa di una sola persona, ma di tutte le Istituzioni”. A dire il vero, quando ho saputo del suo trasferimento io ho pensato: “Nemo profeta in patria” “Ho avuto molti problemi per la mia attività. Continui esposti, continue denunce perché si toccavano indagati eccellenti, contro cui devo dire mi sono difeso nelle sedi preposte e sono uscito sempre indenne. Una delle grandi calunnie è quella secondo cui io mi sarei mosso, in alcuni casi, per motivi familiari. Io non prendo di mira delle persone perché mi sono antipatiche o appartengono a determinate forze politiche. Ho inquisito persone di ogni estrazione politica”. Ce la faremo a costruire un mondo migliore? “Il lavoro è durissimo, pieno di ostacoli, ma noi ce la dobbiamo fare. Non abbiamo alternative”.
IL PARTITO DIVIENE UNA PALESTRA
Sintesi del documento di Fabrizio Barca “Un partito nuovo per un buon governo Memoria politica dopo 16 mesi di governo” a cura di Paola Bruno
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opo l’incarico di Ministro il Prof. Fabrizio Barca ha sentito l’esigenza di aprire un confronto con il Partito democratico. I partiti devono essere pungolo e stimolo per lo Stato. L’idea di nuovo partito discende dalla necessità di un nuovo metodo di governo necessario per rinnovare il paese, per sbloccare il rinnovamento delle classi dirigenti. Questo sarà possibile attraverso una metodologia detta “sperimentalismo democratico “. A questo punto risulta inevitabile un aperto e governato conflitto sociale, tra il vecchio apparato e la nuova procedura di governo e alcuni convincimenti generali che parlano ai nostri sentimenti. Il partito diviene “Partito palestra” che non solo seleziona componenti degli organi costituzionali e di governo, ma diviene “sfidante dello stato stesso”, attraverso una “mobilitazione cognitiva“, quello che si propone il professore è quindi un partito organizzazione dei cittadini. Il confronto deve essere “...pubblico, informato, acceso e ragionevole”, aperto a individui ed associazioni “...genuinamente e testardamente indipendenti” . Il Partito deve rimanere separato dallo Stato; occorre limitare il finanziamento pubblico, rendendolo
trasparente per metodo di raccolta e impiego; assoluta separazione fra funzionari di partito ed eletti o nominati in organi di governo. Buon governo: assioma molto vicino al paridigma caro ad Amartya Sen per il quale “... La democrazia è per lo più considerata una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico” una forma di governo attraverso il confronto. Il bandolo della matassa sta, dunque, nei partiti. Per questo è necessario costruire un partito che sappia cogliere le istanze del territorio ed orientare l’azione dell’amministrazione “il partito deve interpretare la reazione all’azione di Governo”. L’informazione è la prima regola per un cambiamento. Il combinato partiti stato-centrico e macchina dello stato arcaica impedisce il buon governo. Manca il confronto pubblico sui contenuti e metodi dell’azione pubblica. Prima di cambiare la macchina dello stato occorre cambiare i partiti. Per Barca questo è fondamentale per giungere a cambiare anche il cattivo governo. È importante, in questa fase, la supplenza dei corpi intermedi a patto che non ci sia conflitto d’interessi.
Anche la Rete da sola non basta. I luoghi opportuni per la discussione, analisi, formazione e produzione di cambiamento devono essere necessariamente i partiti. Quale partito? Il partito nuovo. L’art.49 della Costituzione deve esserne l’architrave. Quale partito? Un partito di “sinistra”. Partito saldamente radicato nel territorio, che seleziona i propri componenti degli organi costituzionali dello Stato e “sfida” lo Stato nell’elaborazione e rivendicazioni di soluzioni per l’azione pubblica. Questa è la mobilitazione cognitiva. Un partito che si fonda su alcuni principi generali che ne connotano la natura di “sinistra” e su una visione dello stato delle cose in Italia ed in Europa che vorremmo.
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APPROFONDIMENTI
Foto di Livia Crisafi
‘A Maronna t’accumpagna! L’insediamento di Papa Francesco sotto il manto di Maria di Crescenzio Sepe
* Arcivescovo
L’
elezione di Papa Francesco è stata una sorpresa per tutti, viste le diverse previsioni della vigilia. Ancora una volta dobbiamo ammettere che la storia degli uomini, la storia della Chiesa è scritta da Dio e va sempre al di là e al di fuori di
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quelle che possono essere valutazioni e considerazioni umane. È stato confortante, poi, constatare le testimonianze di tanti fedeli da ogni parte del mondo che hanno sostato per giorni, anche di sera, sotto il porticato di San Pietro, a gruppi, pregando anche di notte. Chi non crede si sarà chiesto dove mai potevano
Metropolita di Napoli.
Da cardinale lo avevo già invitato a tenere un incontro al Plenum con tutti i sacerdoti e, naturalmente, gli ho rinnovato l’invito a venire a Napoli. E poiché, in un breve momento di festa dopo l’elezione mi ha confidato di gradire la pasticceria napoletana.
andare a finire tutte quelle preghiere! Oggi, con gioia, possiamo dire che sono andate a finire là dove lo Spirito Santo ha voluto lasciare la sua impronta. Lo Spirito Santo usa sempre gli strumenti umani, la Provvidenza i suoi uomini e, in questo caso, i cardinali. Durante le Congregazioni generali, che hanno preceduto il Conclave, quasi tutti siamo intervenuti e abbiamo potuto prendere la parola. Ci siamo interrogati su quale papa e per quale Chiesa. Un papa buono, un papa santo, un buon pastore, ricco della grazia di Dio, di fede, carismatico, profeta, che conosca e interpreti le esigenze della Chiesa e dell’umanità di oggi. E il cardinale Bergoglio, Papa Francesco, si è presentato come un grande uomo, ricco e forte di spiritualità, quella spiritualità eminentemente ignaziana, gesuitica, fatta di preghiera, di sacrificio, di nascondimento, con uno stile quasi personale che riflette lo stile evangelico, di semplicità proprio di san Francesco, fatto di umiltà e trasparenza, ma anche di grande coraggio. Papa Francesco, un uomo che conosce la realtà del mondo, vissuta in prima persona reggendo una Diocesi, come quella di Buenos Aires, per certi versi molto simile a quella di Napoli, fatta di tante periferie e di tanti drammi e situazioni difficili, di tanti poveri… Quando ha risposto “Francesco” alla domanda sul nome che avrebbe scelto, mi è venuto in mente quel detto latino nomen omen, il nome che rispecchia l’uomo, perché in quel nome c’è il suo stile – francescano – di privilegiare i poveri, gli ultimi, gli esclusi, gli ammalati, come ha fatto per tutta la sua vita. Non un’invenzione del momento, ma il risultato di questo cammino di vita. Ha dimostrato subito questa sua semplicità: la sera dell’elezione
alla Loggia, la scelta di tenere la sua croce pettorale. Appena eletto, siamo scesi nel cortile di San Damaso e qui, rifiutando l’auto papale, ha preferito ritornare nella Casa Santa Marta con noi in pulmino. E anche al refettorio non ha voluto un tavolo a parte, ma si è seduto nel primo posto libero che trovava. Da cardinale lo avevo già invitato a tenere un incontro al Plenum con tutti i sacerdoti e, naturalmente, gli ho rinnovato l’invito a venire a Napoli. E poiché, in un breve momento di festa, dopo l’elezione, mi ha confidato di gradire la pasticceria napoletana, gli ho promesso che in una prossima occasione gli porterò un dolce tipico napoletano. Se questi sono i primi segni, certamente profetici, atteso anche il suo coraggio e la conoscenza profonda che ha della realtà, della Chiesa e del mondo, siamo sicuri che sarà un papa che, con trasparenza, coerenza, umiltà e coraggio, saprà dare quella svolta alla Chiesa, soprattutto negli stili di vita, fatti di povertà e parresìa evangelica. Come egli stesso ci ha ricordato, non bisogna lasciarsi prendere dallo scoramento, piuttosto dobbiamo uscire per le strade, aprire le porte, andare là dove c’è l’uomo che soffre e vive il suo dramma, dove l’umanità ferita e dolorante attende con trepidazione l’annuncio del messaggio evangelico, perché Cristo è l’unica liberazione, l’unica salvezza, l’unica redenzione dell’uomo. Anche a Papa Francesco, dopo l’elezione ho detto: ‘A Maronna t’accumpagnà! E lui, di rimando, mi ha chiesto: “Cosa significa?”. Gli ho spiegato che la Madonna lo deve guidare e custodire sempre nel suo ministero petrino, specialmente nella sua volontà di cambiamento della Chiesa e della nostra società.
Ha scelto di chiamarsi Francesco Quando ha risposto “Francesco” alla domanda sul nome che avrebbe scelto, mi è venuto in mente quel detto latino nomen omen, il nome che rispecchia l’uomo, perché in quel nome c’è il suo stile – francescano – di privilegiare i poveri, gli ultimi, gli esclusi, gli ammalati, come ha fatto per tutta la sua vita.
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APPROFONDIMENTI
di Samuele Ciambriello
La speranza di un Papa, sulle orme di San Francesco La comunicazione non verbale di Papa Francesco efficace e sorprendente
“H
o pensato ai poveri e alle pace. Voglio una Chiesa povera e per i poveri. Per questo ho scelto il nome Francesco”. Così il sorprendente racconto del nuovo Papa davanti a cinquemila giornalisti, subito dopo la sua elezione. Chi l’avrebbe detto? Jorge Mario Bergoglio si sarà chiesto: perchè finora nessun Papa ha osato scegliere il nome Francesco? Jeorge Mario Bergoglio ha avuto otto anni per pensare al proprio nome da Papa: Francesco. Nel 2005 era stato il cardinale a ricevere più voti dopo Joseph Ratzinger. L’unico che nella Chiesa ha “osato” chiamarsi Francesco. Nessun Pontefice lo aveva mai scelto il “poverello di Assisi” come esempio. Forte richiamo al santo che significa rinnovamento della Chiesa attraverso un’adesione totale al Vangelo. Ottocento anni fa Innocenzo III incoraggiò san Francesco perchè vedeva nella carità, nell’umiltà e nell’obbedienza i fondamenti del rinnovamento della Chiesa. Se il nuovo Papa dà l’esempio, è perchè venga seguito. Ha scelto un nome rivoluzionario. Si sa Francesco è una figura “sui generis” nel Medioevo. Un uomo semplice, di fede e carità, ma perennemente sull’orlo dell’eresia. Un testimone profetico lontano dagli intrighi e dal potere di Roma. Cosa significa, oggi, per un Papa adottare co-
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raggiosamente il nome Francesco? Certo, nessun individuo razionale o uomo di fede può attendersi che tutte le riforme vengano realizzate da un uomo solo, nè dall’oggi al domani! Il primo Papa non europeo, il primo Papa latinoamericano che ha scelto di chiamarsi e di richiamarsi a Francesco. Lui, gesuita, sceglie di chiamarsi Francesco per richiamare l’ideale della purezza evangelica, l’ideale di vivere le beatitudini, lontano dalle seduzioni del potere, dalle sue protezioni. Nel nome una missione! C’è qualcosa di nuovo nell’aria. E già la sua presentazione con una comunicazione non verbale efficace: niente mitra trapunta d’oro e gemme, niente mozzetta purpurea orlata di ermellino, niente scarpe e copricapo rossi, appositamente confezionati, niente trono e tiara. È sorprendente come dalle sue prime battute abbia scelto uno “stile nuovo”, a differenza del suo predecessore, e “la lingua della gente”, rinunciando a gesti solenni e alla retorica pretenziosa. E poi gli altri gesti umili del Papa: paga il conto alla “casa del clero” dopo la sua elezione, sceglie di non sedersi sul trono, sta a tavola dove capita, rifiuta l’auto blu, telefona ad una famiglia amica a Roma. Segni di edificazione e di cammino. Una scossa per tutti. E poi nei suoi primi discorsi mai la parola Papa, ma Vescovo di Roma. A molti già è
Una scossa per tutti È sorprendente come dalle sue prime battute abbia scelto uno “stile nuovo” rinunciando a gesti solenni e alla retorica pretenziosa. Paga il conto alla “casa del clero” dopo la sua elezione, sceglie di non sedersi sul trono, sta a tavola dove capita, rifiuta l’auto blu, telefona ad una famiglia amica a Roma. Segni di edificazione e di cammino.
Foto di Livia Crisafi
sembrato un papà, un pontefice della porta accanto. Un Papa a sorpresa, venuto dalla “fine del mondo”, figlio di emigrati italiani. Un Papa che viene da lontano richiama le istanze e le speranze di un mondo che continua ad essere percepito come periferico, ma che, di fatto, è in forte trasformazione sociale ed economica, ma anche ricco di contraddizioni, di risorse e complessità. “C’è una tirannia invisibile, a volte virtuale, delle leggi di mercato. Serve una riforma finanziaria che aiuti i poveri” ha declamato recentemente il Papa davanti ad un gruppo di ambasciatori. Compito della Chiesa è camminare alla presenza e con la croce di Cristo. Compito della
Chiesa è vivere con i crocifissi di oggi portando la buona novella. Francesco ci farà pedalare. Francesco farà ripartire la Chiesa. Dopo la mancanza di impulsi riformatori dall’alto, nei suoi primi cento giorni Papa Francesco ci fa capire che bisogna intraprendere, mettere mano alle riforme dal basso, a partire dalla gente. Una Chiesa povera e con i poveri. Un prete di strada. In fondo, non abbiamo bisogno di maestri, ma di testimoni! Come ama ripetere ai sacerdoti. ”siate pastori, non funzionari! Siate mediatori, non intermediari!” Ecco la speranza: indignarsi e testimoniare. | 47
APPROFONDIMENTI
IL CICLONE BERGOGLIO
Vorrei una Chiesa povera per i poveri La Chiesa del terzo millennio torna alla primitiva purezza del Vangelo di Massimo Milone
* Direttore
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calda i cuori, Papa Francesco. Uomo di Dio che ha già conquistato il mondo. Indica alla Chiesa le strade da percorrere, le periferie geografiche ed esistenziali, povertà materiali, morali. Con una speciale predilezione per quelli che non hanno nulla e sono senza speranza. In un mondo privo di leadership riempie le piazze, ma anche le Chiese. E nel blocknotes del cronista chiamato a guidare, in Rai, la struttura dedicata al Vaticano, è un privilegio unico poter vivere “dal di dentro”
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questa esperienza di vita professionale, che è una rivoluzione per la Chiesa. Le parole di carta sono povera cosa e così quelle strillate in TV o veicolate sul web, ma qui, nella Chiesa di Bergoglio, parole come Misericordia, Amore, Verità, Bellezza, Bontà, acquistano un significato originario privo di sovrastrutture, ambiguità, strumentalità. Ecco, perché Papa Francesco ha conquistato, da subito, credenti e non credenti. È innanzitutto, vero. Uomo dell’essenziale, figlio di una fede del popolo e non degli orpelli. “Come vorrei una Chiesa povera e
Rai Vaticano.
Il linguaggio di Papa Francesco Le parole di carta sono povera cosa e così quelle strillate in TV o veicolate sul web, ma qui, nella Chiesa di Bergoglio, parole come Misericordia, Amore, Verità, Bellezza, Bontà, acquistano un significato originario privo di sovrastrutture, ambiguità, strumentalità.
Foto di Livia Crisafi
per i poveri”, la sua prima esortazione. E ai seimila cronisti che hanno seguito Conclave ed elezioni dirà subito “Cristo è il centro. Cristo è il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa”. E aprirà una nuova stagione della Chiesa, disponendosi, “quale vescovo e fratello nella fede”, al sevizio di tutti gli uomini di buona volontà. Certo, nel cammino di Papa Bergoglio non mancheranno difficoltà, ostacoli, lentezze. Ma il mix di spiritualità francescana e di cultura gesuita, consentitemelo, è dirompente. Ogni frase, quasi un veloce twitter che inchioda, Vangelo alla mano, i cattolici interrogando, contemporaneamente, i non credenti. Lasciarsi avvolgere dalla misericordia di Dio, per sentire la sua tenerezza ed essere più capaci di pazienza, perdono, amore”. Sintesi di una missione impossibile? Non credo. C’è ormai un lessico bergogliano che ha, nella parola “cuore”, il suo centro. Lo ha ribadito anche nella sua prima preghiera via-
webcam,inviata ad Assisi, chiedendo “di intercedere per la pace dei nostri cuori”. È la riproposizione dell’assoluta novità del Vangelo per una società dai cuori “infreddoliti”. La Chiesa è una grande storia d’amore. Partendo dalla nascita e dalla Crocifissione di Cristo. Duemila e più anni dopo, questo Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” ce lo ricorda, con semplicità. Ed ha un benefico effetto devastante. Con due altre novità (sempre nel blocknotes del cronista), anch’esse rivoluzionarie. La presenza del Papa emerito Ratzinger, “nascosto al mondo” ed in preghiera, meraviglioso e coraggioso sostegno spirituale all’azione del nuovo Pontefice. E la scelta di collegialità, fatta con i sette cardinali “consiglieri” che aiuteranno Bergoglio nel governo e nella riforma della Chiesa. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, dopo il ciclone Wojtyla e la roccia Ratzinger, il dono al mondo di un pastore profetico ed unico. E siamo solo all’inizio...
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APPROFONDIMENTI
di Saverio Gaeta
* Giornalista “Famiglia Cristiana”.
Il Papa della “prima volta” Papa Francesco non è un primate della Chiesa
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arole di misericordia e gesti di tenerezza. Sono queste le cifre essenziali che hanno caratterizzato i primi cento giorni di pontificato di Papa Francesco. Tre mesi dirompenti, nei quali Jorge Mario Bergoglio ha costantemente sconvolto un protocollo di secoli, ha gettato nel panico gli agenti della sicurezza e i cultori dell’etichetta vaticana, e nel contempo ha fatto irruzione nel cuore di innumerevoli persone in tutto il mondo. Non soltanto membri della comunità ecclesiale, ma donne e uomini spesso lontani dalla pratica religiosa e del tutto distanti dalla Chiesa cattolica.
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Un Papa della “prima volta”, a cominciare dall’appartenenza all’ordine dei Gesuiti e dal nome, Francesco, mai utilizzato nella sequenza dei 265 successori sulla cattedra dell’apostolo Pietro. Un Papa che si è fatto benedire dai fedeli presenti in piazza San Pietro al momento dell’annuncio, ancor prima di tracciare il segno di croce per la propria benedizione urbi et orbi; che è apparso sul loggiato della basilica senza i consueti paramenti pontificali e la croce pettorale d’oro, evitando con cura di autodefinirsi «Papa», preferendo piuttosto il titolo di «vescovo di Roma». E, probabilmente proprio in conseguenza di
Il compito primario del Papa è quello di parlare all’interno della comunità ecclesiale. E qui si pone il principale lascito spirituale che Benedetto XVI gli ha fatto: l’Anno della fede, avviato l’11 ottobre 2012 e in corso fino al 24 novembre 2013.
quest’ultima scelta, è stata anche la prima volta in cui un patriarca di Costantinopoli ha partecipato alla Messa di inizio pontificato, a documentazione di quanto Bartolomeo I abbia percepito il desiderio di Francesco di non imporsi come “primate” della Chiesa universale, bensì di proporsi come colui che, da Roma, «presiede nella carità tutte le Chiese», in «un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi», come Bergoglio ha affermato subito dopo l’elezione, nella serata del 13 marzo. Auspicio per un dialogo ecumenico del quale si sente sempre più urgenza in una società frammentata come quella attuale.
«Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo», è stata la sua prima espressione nell’omelia della Messa delle Palme. E ha poi dettagliato: «Una gioia che nasce non dal possedere tante cose, ma dall’aver incontrato una persona: Gesù». È questo annuncio, proposto da un amico che desidera condividere quanto di meglio ha scoperto per la propria vita, il costante messaggio di Francesco, con il pressante invito a «non aver paura delle sorprese di Dio». Senza mai dimenticare, accanto alle riflessioni più spirituali, le problematiche e gli interrogativi del mondo. Le tante “guerre
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APPROFONDIMENTI
dimenticate” e i tragici eventi naturali che quotidianamente mietono vittime, i drammi della disoccupazione e delle disuguaglianze economiche, gli scandali finanziari e quelli della pedofilia. Per ciascuno, un impegno concreto e un ricordo nella preghiera: «Dobbiamo impegnarci con chiarezza e coraggio affinché ogni persona umana, specialmente i bambini, che sono tra le categorie più vulnerabili, sia sempre difesa e tutelata», ha detto a chiare lettere. Papa Francesco è immerso nella realtà. Anche la scelta di non ritirarsi a vivere nel Palazzo apostolico, continuando a soggiornare in una camera della casa Santa Marta, corrisponde
che entro breve tempo nei posti chiave del Vaticano subentrino nuove figure, a cominciare dalla segreteria di Stato dove è ormai imminente il pensionamento del cardinale Tarcisio Bertone. Nei rapporti con il Pontefice emerito, nessuna ombra. La cordialissima telefonata subito dopo l’elezione, l’affettuoso incontro personale il 23 marzo a Castel Gandolfo, la premurosa accoglienza sulla soglia del monastero Mater ecclesiae in Vaticano dove Joseph Ratzinger si è chiuso dal 2 maggio nel nascondimento e nella preghiera, hanno pubblicamente mostrato quanta sintonia esista fra loro. E nulla di più facile che, nelle circo-
«Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo» E ha poi dettagliato: «Una gioia che nasce non dal possedere tante cose, ma dall’aver incontrato una persona: Gesù». alla volontà di tenere direttamente sotto controllo la situazione. Senza problemi a consultarsi con autorevoli personalità ecclesiastiche e laiche per chiedere opinioni e suggerimenti, ma decidendo in piena libertà per il meglio. In questo scenario si colloca la costituzione di un gruppo di lavoro che possa consigliarlo nel governo della Chiesa universale e nello studio di un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana. Otto cardinali in rappresentanza delle varie aree del globo, con segretario il vescovo italiano Marcello Semeraro, che saranno in un certo senso la voce dei diversi episcopati continentali. Una precisa risposta alle richieste avanzate nelle Congregazioni cardinalizie che hanno preceduto lo scorso Conclave, che proprio sulla riforma curiale avevano visto le maggiori sollecitazioni dei porporati. Il cosiddetto Vatileaks, con la pubblicazione di documenti riservatissimi della Santa Sede a opera del maggiordomo pontificio Paolo Gabriele, aveva spinto già Benedetto XVI ad avviare un’azione di pulizia interna. A Francesco tocca ora completarla, rimuovendo tutta la polvere. Seppur con gradualità e senza sconvolgimenti, si può immaginare
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stanze in cui lo riterrà opportuno, Francesco farà riferimento al predecessore per conoscerne il parere. L’autorevolezza morale del Pontefice, una voce che (pur talvolta osteggiata) continua a essere ascoltata con rispetto dai potenti del mondo, è indiscussa. Lo hanno documentato le parole del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon che, fra i primi a incontrarlo ufficialmente, ne ha riconosciuto l’impegno come costruttore di pace e difensore dei diritti fondamentali, sottolineando come anche la scelta del nome Francesco sia «un messaggio potente per i molti obiettivi condivisi dalle Nazioni Unite». Ma, ovviamente, il compito primario del Papa è quello di parlare all’interno della comunità ecclesiale. E qui si pone il principale lascito spirituale che Benedetto XVI gli ha fatto: l’Anno della fede, avviato l’11 ottobre 2012 e in corso fino al 24 novembre 2013. La sfida della «nuova evangelizzazione», in un contesto che sembra mettere Dio sempre più in secondo piano, spetta ora a Jorge Mario Bergoglio: «Evangelicità, ecclesialità, missionarietà», è la triade di impegni da lui indicata. Uno slogan che spalanca un radioso cammino.
Tetraedro
APPROFONDIMENTI
di Emma Fattorini
* Senatrice PD.
Conversione ed affidamento L’elezione di Papa Francesco nel pieno della crisi della Politica Italiana
A
lcune osservazioni estemporanee sugli inizi del pontificato di Papa Francesco, da un osservatorio particolare: la mia totale immersione nella scena politica nazionale in uno dei periodi più difficili del nostro Paese. Nella mia vita ho sempre vissuto in partibus infidelium, nel contatto sistematico con il così detto mondo dei “non credenti”. In questo caso, però, le condizioni erano molto particolari. Quando ci sono state le dimissioni di Papa Ratzinger, infatti, ero in piena campagna elettorale in Basilicata, una terra meravigliosa, piena di risorse naturali e di persone di buona volontà, per nulla valorizzate e incrementate. La notizia mi colpisce, come tutti, come un evento surreale e difficile da credere. Allo sconcerto personale subentra l’occhio della storica che cerca di registrare gli antecedenti, certo Celestino V, ma nel-
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l’età contemporanea? E, invece, più che volgermi indietro, alla storia cerco di registrare subito le reazioni di un ambiente inconsueto, quello in cui sto vivendo. I tanti, meravigliosi credenti che avevo incontrato in Basilicata mi comunicano una primissima reazione sconcertata: senso di abbandono, e di insicurezza, perché, mi dicevano, il Papa avrebbe dovuto tenere duro fino in fondo, vivere tutto il calvario, non lasciare la croce. Poi mano a mano che le ore passavano prevaleva una sorta di sollievo e di gratitudine: il Papa accettava di essere uno come noi, con le debolezze e le fragilità di una vecchiaia non da sconfiggere ed esorcizzare con la prestanza delle eterne giovinezze e neppure da esibire eroicamente come santificazione. Semplicemente e umilmente, l’anziano pontefice ci diceva di non avere più le forze per reggere la barca di Pietro tra flutti ormai troppo agitati.
La sede vacante ha coinciso con il prosieguo della campagna elettorale terminata con un risultato che ci consegnava alla totale instabilità mentre il Paese sprofondava sempre di più, nello smarrimento e nella solitudine di una crisi economica e morale che sembrava non trovare ascolto dalla politica.
Foto di Roberto Salomone
E il suo gesto diventava umile e normale accettazione di un destino comune che restituiva al ruolo, quello di Papa, tutto e solo il suo spessore spirituale ed evangelico, spogliandolo dell’aura sacrale, troppo spesso magico-simbolica che ha accompagnato il declino finale dei pontefici, al punto da
creare una sorta di vera e propria papolatria. Nell’ambiente laico, invece, avvertivo il processo opposto. Il primo impatto era quello compiaciuto: ecco che finalmente anche i cattolici vedevano la “loro” istituzione, secolarizzarsi, come tutte le altre. Ma, poi, questa apparente soddisfazione si
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APPROFONDIMENTI
trasformava in smarrimento, nella paura per la perdita di sacralità. Come se la nudità del Vangelo facesse più paura e ci fosse bisogno di una esteriorizzazione rassicurante. La sede vacante ha coinciso con il prosieguo della campagna elettorale terminata con un risultato che ci consegnava alla totale instabilità mentre il Paese sprofondava sempre di più, nello smarrimento e nella solitudine di una crisi economica e morale che sembrava non trovare ascolto dalla politica. In questo clima è accaduta la meravigliosa sorpresa di un Papa che sembrava canalizzare tutte le aspettative frustrate e deluse. Come se avvenisse un ribaltamento , un’inversione rispetto alle rispettive collocazioni stereotipate, quelle di un mondo laico, in stato di superiorità nei confronti di una chiesa-istituzione annichilita da una crisi di credibilità, pronta alla Una sensazione cominciata condanna e alla colpesubito, nelle prime parole volizzazione, infestata calde e nei gesti comunicativi: da carrierismi e lotte intestine, fino alla verbuona sera, sono il Vescovo gogna indicibile della pedofilia. di Roma, cammineremo Dopo tanto tempo, la insieme, e poi, le preghiere Chiesa sembrava rifletsemplici, quelle dell’infanzia, tere una luce diversa, che illuminava e scalil pater, ave, gloria. dava i cuori di tutti. Come a dire, non siete più soli, io sono qui, ci sono, insieme possiamo farcela. E il messaggio, era proprio quello che tutti avevano bisogno di sentire. Una sensazione cominciata subito, nelle prime parole calde e nei gesti comunicativi: buona sera, sono il Vescovo di Roma, cammineremo insieme, e poi, le preghiere semplici, quelle dell’infanzia, il pater, ave, gloria, proprie della religiosità dei semplici, quella che non si vergogna di chiedere aiuto alla Madonna. Sembrava di tornare giovane, agli anni del Concilio Vaticano II a quel discorso alla luna di Papa Giovanni di cui ricorrerà l’anniversario a giorni. Poi sono seguiti i gesti: troppi e poco sinceri? Un ricorso al “simbolico”, senza sostanza, o, diversamente, un linguaggio che alle parole preferisce gesti che comunicano una verità di comportamento tutt’al-
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tro che solo esteriore? Ci sarà tempo per approfondire. “Ci sono santi di tutti i giorni, i santi “nascosti”, una sorta di classe media della santità” di cui tutti dobbiamo fare parte”. Così aveva detto nell’omelia del 14 aprile alla Basilica di S. Paolo fuori le mura, parafrasando uno scrittore a lui caro il francese Jeseph Malègue (1876-1940). Il bisogno di testimoniare la fede nella vita concreta, non solo a parole e non solo attraverso gesti esemplari ed eroici, ma nella quotidianità, una santità ordinaria che torna nelle tante santità contemporanee, valorizzate da Giovanni Paolo II nel numero straordinariamente vasto di canonizzazioni avviate nel suo pontificato. “Mi viene in mente un consiglio di S. Francesco – aveva poi proseguito – il quale si raccomandava: predicate il Vangelo e se fosse necessario anche con le parole. Predicare con la testimonianza”. E poi aveva aggiunto quello che sembra un assioma e che invece è stato, anche di recente disatteso: “L’incoerenza dei fedeli e dei pastori tra quello che dicono e quello che fanno mina la credibilità della Chiesa”. La sua non è l’allusione ad una generica coerenza, per promuovere comportamenti virtuosi, in quel trionfo della morale, in quell’abuso dell’etica che sembra dilagare nei nostri tempi, come a compensare un vuoto, perché suona come un appello sempre estrinseco e formalistico. In lui il riferimento è al cambiamento interiore, alla scelta interiore che per convinzione e coscienza produce un giusto e buon comportamento. E, quindi, il passaggio ulteriore è all’affidamento alla forza del Signore e dunque la coerenza è solo e semplicemente un fatto di fede. Ingredienti fondamentali di quelli che un giorno si sarebbe chiamato dialogo con il mondo e che poi si è trasformata nella sua accettazione acritica, in un malinteso senso di realtà che escludeva ogni possibile forma di cambiamento. In questo Papa c’è la semplicità, la nudità di quel Vangelo sine glossa che fa parlare gli atti concreti. E niente è più comunicativo di questo per un’umanità che ha bisogno di verità e di autenticità come del pane.
IL PAPÀ DEI POVERI
Papa Francesco e le sfide del mondo contemporaneo La Chiesa al fianco degli ultimi di Antonio Camorrino
* Dottore di ricerca
L
a dimensione storico - sociale che accoglie Papa Francesco presenta caratteristiche particolarmente complesse. Il pontefice opera in uno scenario molto diverso da quello in cui la Chiesa ha tradizionalmente dato corpo alle sue pratiche. Quest’ultima deve infatti, in epoca contemporanea, raccogliere una sfida che ha aspetti ambivalenti. Se il diffuso sentimento di disorientamento che caratterizza l’uomo dei nostri tempi costituisce terreno fertile per un ritorno della religione (tant’è che da più parti si parla di de-secolarizzazione del mondo tardo-moderno), questa non può, come un tempo, fondare la sua azione esclusivamente sul trascendente. Rifiutando la soluzione fondamentalista – che reagisce alla modernità negandola conferendo così alla legge religiosa il primato su quella positiva – la Chiesa cattolica, per attirare i fedeli, li ri-
chiama a valori universali, semplici, dal forte afflato ecumenico. In un momento storico di crisi profonda, il suo massimo rappresentante ha deciso d’ispirarsi – lo prova la scelta del nome pontificale – agli insegnamenti del Santo di Assisi. Sin da subito, ha, quindi, richiamato la Chiesa ai suoi compiti originari: essere al fianco degli ultimi, conformarsi ad ideali di povertà e di profonda spiritualità. La predilezione per il creato e la pace tra le nazioni costituiscono messaggi fondanti della sua azione che, come gli altri, hanno radici profonde. Auto-definirsi semplicemente “Vescovo di Roma” è un ulteriore passo in direzione della restituzione della Chiesa ad una dimensione più umile ed a misura d’uomo. Queste azioni sono cariche di valore simbolico e istituiscono delle sicure analogie con l’operato di S. Francesco. Così come il poverello d’Assisi rinunciò alle ricchezze mon-
in Sociologia e ricerca sociale presso Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Napoli, Federico II.
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APPROFONDIMENTI
dane per dedicarsi alla diffusione della parola di Cristo per mezzo di una scelta radicale, così sembra voler fare Papa Bergoglio. In questo senso, la Chiesa deve, oggi, essere presentata come un’istituzione finalizzata alla salvezza degli uomini e non come un “potere” teso al suo accrescimento ed alla sua auto-conservazione. Non potendo fondare la legittimità della propria missione – come accadeva un tempo – su fonti ultraterrene, il Pontefice fa appello a una dimensione spirituale più intima, centrata sulla rilevanza dell’azione individuale e, per molti versi, profondamente anti-istituzionale. La centralità conferita a questi aspetti è tipica delle personalità carismatiche le quali, storicamente, trovano nei periodi di crisi l’ambiente sociale ideale per affermarsi. Il carattere articolato dell’impresa che la Chiesa si trova a dover affrontare nella contemporaneità, si presta ad una migliore La Chiesa deve, oggi, essere comprensione, comunpresentata come un’istituzione que, solo se comparato alla funzione che questa finalizzata alla salvezza ha tradizionalmente asdegli uomini e non come solto nelle società umane. un “potere” teso al suo Da un punto di vista soaccrescimento... Il Pontefice ciologico – vale a dire attenendosi ad un’anafa appello a una dimensione lisi distaccata dei fenospirituale più intima. meni sociali che non incorra in giudizi di valore – la religione si può definire come l’impresa umana tesa alla costruzione di un cosmo sacro. Il Cristianesimo deve il suo successo millenario alla sua capacità di offrirsi come un dispositivo sociale di spiegazione del mondo che pare affondare le radici in una sfera altra rispetto alla dimensione umana. Lo strumento istituzionale che ha saputo mediare i significati trascendenti traducendoli in un linguaggio, non solo comprensibile ai più, ma anche in grado di conferire senso alle esistenze, è rappresentato dalla Chiesa. Per molti secoli questa è riuscita a socializzare gli uomini alla devozione e alla fedeltà delle sue prescrizioni dottrinarie. Il mondo in cui essa operava era però molto diverso da quello attuale. Nelle società tradizionali vige, infatti, un regime eteronomo: la legge, i principi ed i valori che fondano l’ordine vengono percepiti come provenienti da una fonte esterna all’or-
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ganizzazione sociale. Gli uomini non devono, dunque, occuparsi di istituire norme che regolino le loro condotte, ma devono limitarsi a conformare le loro azioni alla tradizione, quest’ultima intesa come l’insieme delle pratiche e delle credenze riflesso di un nomos divino totalmente ricevuto (Gauchet, Marcel (1992), Il disincanto del mondo). In un mondo siffatto, la religione permea ogni aspetto della vita e, se da un lato costringe gli uomini in un paesaggio sociale immobile ed immutabile in cui gli spazi di libertà sono notevolmente ridotti, dall’altro, conferisce alle esistenze profonde sicurezze psicologiche. Queste condizioni socio-storiche hanno permesso alla Chiesa ed ai suoi rappresentanti un’affermazione terrena indiscussa che, come si sa, è durata secoli. La modernità costituisce un punto di rottura radicale con le precedenti modalità di esserenel mondo. La secolarizzazione recide la catena dell’essere che legava il Cielo alla Terra. In sociologia, questa fase, è stata definita da Weber disincanto del mondo. Gli uomini finiscono col rifiutare qualsiasi intromissione dell’invisibile nei loro affari terreni, relegando tutto ciò che non è comprensibile per mezzo della Ragione al rango di superstizione e inciviltà. La nascita del soggetto moderno coincide dunque, per molti versi, con la sua liberazione dai dettami ferrei imposti dai sistemi religiosi. I conseguimenti dell’Illuminismo hanno però un significativo rovescio della medaglia. L’acquisita consapevolezza che il principio ordinatore su cui si fonda l’organizzazione sociale è di origine umana, determina una sistematica messa in discussione dei suoi presupposti producendone un’erosione costante. L’autorità trascendente che prima legittimava in modo vigoroso le istituzioni, una volta licenziata, trascina gli uomini nel dubbio. È per questi motivi socio-storici che Papa Francesco si trova di fronte ad una sfida particolarmente complessa, per quanto affascinante. Henry Thode, uno dei più noti studiosi di S. Francesco, definisce quest’ultimo come il fondatore del “movimento del senso di umanità”. Mi pare che questa massima possa essere, ai nostri giorni, un ottimo auspicio per l’opera futura di un pontefice che proprio a questo Santo s’ispira.
di Antonio Mattone
* Comunità di Sant’Egidio.
Il pastore con l’odore delle pecore Il Papa dei gesti semplici ed evangelici
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uando la sera del 13 marzo la fumata bianca annunciò l’elezione del nuovo Papa, gli occhi del mondo erano tutti rivolti alla loggia centrale della basilica di San Pietro e aspettavano con impazienza l’annuncio del cardinale protodiacono, ma soprattutto erano in attesa che il 265esimo successore di Pietro si affacciasse e parlasse alla grande folla che gremiva la piazza. Nel suo volto e nelle sue prime parole si sarebbe potuto scorgere qualche tratto dell’umanità e del programma pastorale del
nuovo pontefice. Le campane che suonavano a festa accompagnavano contemporaneamente sentimenti di gioia e di trepidazione. Chi sarebbe stato il successore di Benedetto XVI? La scelta di Jorge Mario Bergoglio, Cardinale di Buenos Aires, che con il nome inedito di Francesco diviene il nuovo Papa, lasciò stupiti un po’ tutti, probabilmente lui per primo. Agli amici della Comunità di Sant’Egidio di Buenos Aires con cui doveva concordare la data di una celebrazione per ricordare il sacrificio dei “nuovi martiri” aveva detto: “Non
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APPROFONDIMENTI
so quando finisce il conclave, quando ritorno stabiliremo il giorno”. La sua provenienza, il nome che nessun pontefice aveva mai osato assumere, lasciavano intravedere, fin dai primi istanti, molte novità. Ma è stato il suo “buonasera” a stupire e a conquistare il mondo. Da dove viene il segreto di questo Papa “che i cardinali sono andati a prendere quasi alla fine del mondo”? Le prime parole e i primi gesti del nuovo vescovo di Roma hanno colpito per la sconcertante semplicità. Vederlo rinunciare alla berlina d’ordinanza e prendere diligentemente posto su un pulmino assieme agli altri cardinali, oppure scorgerlo mentre cerca di pagare il conto nell’albergo in cui ha alloggiato prima dell’inizio del conclave, sono immagini che hanno fatto il giro del mondo e che sono arrivate al cuore della gente.
Papa Bergoglio vuole avere un contatto diretto con le persone, come i pastori stanno accanto alle pecore del gregge fino a sentire e respirare il loro odore. Papa Francesco è il Papa dei gesti semplici ed evangelici. Lo ricordiamo quando in una gremita piazza San Pietro ha fatto fermare la papamobile per abbracciare un disabile, generando apprensione nel servizio di sicurezza, ma anche un grande sorpresa nella gente. In questo modo, il Papa ha vissuto, in prima persona, quelle parole che ha poi rivolto al clero di Roma nella sua prima messa crismale, e che indicano il suo orientamento pastorale: “vi chiedo di essere pastori con ‘l’odore delle pecore’, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini”. Papa Bergoglio vuole avere un contatto diretto con le persone, come i pastori stanno accanto alle pecore del gregge fino a sentire e respirare il loro odore. La Chiesa e i suoi ministri devono vivere tra i problemi e le difficoltà degli uomini e delle donne di oggi, per testimoniare e
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sostenere tutti quelli che sono in situazioni di disagio e povertà. Quando il giovedì santo si è recato nel carcere di Castel del Marmo per la lavanda dei piedi non ha fatto grandi affermazioni o lunghi discorsi. Ma chinarsi ai piedi di quei giovani detenuti, guardarli negli occhi è stata la più convincente predicazione che ha colpito e commosso molti carcerati. La figura di Jorge Mario Bergoglio non è quella di un cristiano rivoluzionario né rappresenta una rottura con la visione dei suoi predecessori. La Chiesa nella sua sapienza è come quello scriba saggio che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Papa Francesco non ha ricette originali, né nuovi ideali di chiesa. Infatti, appena eletto, nel suo breve discorso ai fedeli in piazza San Pietro, ha voluto rimarcare con grande chiarezza il primato assoluto della preghiera per la vita dei credenti, chiedendo di pregare per Benedetto XVI, per il mondo e sorprendendo tutti ha invitato il popolo a invocare su di lui la benedizione di Dio e a farlo in silenzio prima che lui desse al popolo la sua benedizione: “La preghiera del popolo che chiede la benedizione per il suo vescovo”. Emerge una visione di Chiesa-comunione e di Chiesa-popolo che sono formule centrali del Vaticano II, e che insistono sul legame del clero con il popolo. In Papa Francesco, si intravede il pensiero di Giovanni XXIII “non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Non c’è bisogno di inventarsi nuove formule tanto meno di adattare la Parola di Dio ai tempi che viviamo. Piuttosto, i credenti sono chiamati a vivere quell’autenticità evangelica richiamata anche dal nome che Bergoglio ha scelto per il suo pontificato. Colpisce l’affetto e l’entusiasmo con cui è stato accolto non solo dai cattolici, ma anche dai non credenti. Qualcuno ha affermato di essere tornato in chiesa dopo essere stato lontano per tanto tempo. Bergoglio è diventato il Papa della simpatia. Un atteggiamento non superficiale, né sentimentale, ma è la capacità di partecipare alla vita altrui e ai suoi problemi. Il popolo e la gente comune si sente compresa, partecipa e lo accompagna nel suo cammino. Per tutti i cristiani, la figura di Papa Francesco rappresenta una guida concreta, che con la sua paternità e la santità semplice orienta tanti in questo mondo scombussolato. Richiama ad essere vicini a quelle “periferie
Papa Francesco non ha ricette originali, né nuovi ideali di chiesa. Nel suo breve discorso ai fedeli in piazza San Pietro, ha voluto rimarcare con grande chiarezza il primato assoluto della preghiera per la vita dei credenti, chiedendo di pregare per Benedetto XVI, per il mondo e, sorprendendo tutti, ha invitato il popolo a invocare su di lui la benedizione di Dio e a farlo in silenzio prima che lui desse al popolo la sua benedizione.
esistenziali”, del dolore, delle ingiustizie, di ogni miseria che vivono tanti uomini e tante donne nel nostro tempo. È l’immagine di una chiesa non “chiusa in se stessa, non autoreferenziale che non vive in sé, di sé, per sé”, ma che evangelizza con gesti semplici, imitando la compassione di Gesù. Così l’amore di Dio può raggiungere ogni uomo e si fa misericordia e perdono. “Dio non si stanca mai di perdonare! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono!”, ha affermato nel suo primo Angelus. Parole che richiamano al senso di responsabilità dei credenti che tanto spesso vivono un cristianesimo grigio senza visioni, tutto incentrato su se stessi. Da primi giorni del pontificato emerge una speranza: quella di una Chiesa che nella continuità con la tradizione e nel confronto costante con la Parola di Dio ed il mistero del Figlio incarnato, possa sempre più e sempre meglio cogliere i segni dei tempi. Una Chiesa che riesca in maniera più profonda ad annunciare non se stessa, ma il Regno di Dio!
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Foto di Mario Laporta
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di Francesco Fimmanò
* Ordinario di Diritto Commerciale presso l’Università del Molise. Preside di Giurisprudenza presso l’Unipegaso.
Imprese in crisi ed ordinamento giuridico-economico Efficienza delle procedure concorsuali riformate e credit crunch
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n Italia esiste uno svantaggio competitivo rappresentato dai costi di sistema della crisi delle imprese connessi all’inefficienza delle procedure concorsuali, ripetutamente riformate negli ultimi anni. I costi e la durata di queste ultime rimangono di gran lunga le più elevate d’Europa e le percentuali di recupero sono tra le più basse. Le Corti comunitarie e l’FMI hanno stigmatizzato il problema. Si è stimato che la durata media di una procedura in Italia è di otto anni, contro i tre della Francia, due della Germania, uno della Svezia e addirittura meno di uno per il Regno Unito. Già dieci anni fa si osservava che usando come strumento di valutazione dell’efficienza normativa i parametri di “Basilea due” l’azione di recupero nel nostro ordinamento costa ai creditori di più che in ogni altro Paese a capitalismo avanzato con una pesante ricaduta sul costo del denaro. La situazione incide sul livello dell’onerosità e della disponibilità del credito bancario e sul livello del premio di rischio. Tutto questo genera la ritardata riallocazione dei valori aziendali, dei fattori produttivi e degli stessi rischi
assunti, che rimangono per anni imprigionati nelle imprese in default fino ad essere del tutto annullati. Non a caso l’Italia dopo la fase di recessione, nella quale i dissesti si sono moltiplicati in modo esponenziale vive una ripresa molto lenta, nonostante il pesante e reiterato intervento normativo (dal decreto competitività del 2005 al decreto sviluppo del 2012). L’alveo di riferimento della vecchia legge era un’economia mercantile ed un sistema di imprese, i cui fattori della produzione, compreso il lavoro, si presentavano mobili e facilmente assorbibili dal mercato. Oggi l’impresa non può più essere considerata come una diretta proiezione dell’imprenditore, ma va vista come una realtà oggettivamente rilevante cui l’ordinamento accorda tutela ed assegna uno specifico ruolo ed alla quale sono riferibili, in certi limiti, situazioni e rapporti autonomi rispetto a quelli che fanno capo all’imprenditore. In questa ottica, la contrapposizione tra conservazione dell’azienda e tutela del ceto creditorio può considerarsi superata. Difatti, più è attivo il ruolo attribuito dalla legislazione ai
Procedure troppo punitive possono favorire l’azzardo diretto a scongiurarle, ridurre gli investimenti poco rischiosi ed indurre il controllante a ritardarne l’avvio.
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creditori, più rapidamente e proficuamente avviene la liquidazione dell’impresa insolvente. Nè si può ormai concepire l’interesse dei creditori in modo univoco ed omogeneo, considerato che questi ultimi sono spesso portatori di interessi divergenti. Accanto alla finalità dell’efficienza ex post, la legislazione fallimentare si propone di massimizzare l’efficienza ex ante e di garantire l’efficienza nella fase intermedia (pre-insolvency) che esige misure che incentivino il debitore a rivelare tempestivamente lo stato di difficoltà e a non assumere comportamenti azzardati (moral hazard) per tentare di evitarla. Procedure troppo punitive possono favorire l’azzardo diretto a scongiurarle, ridurre gli investimenti poco rischiosi ed indurre il controllante a ritardarne l’avvio. Ciò spiega l’esistenza di disposizioni in diversi ordina-
È evidente che allo stato la sensibilità ai temi dell’impresa di un giudice delegato è diversa da quella di un pubblico ministero, ma non è possibile che ciascuno debba guardare solo al proprio ruolo senza tener conto del sistema complessivo. menti (ora adottati anche dall’Italia) sul discharge, l’esdebitazione, l’exempt property ed il consenso sempre più ampio sull’opportunità di ricorrere alla sanzione penale solo per colpire i comportamenti più gravi connessi al dissesto. Si è, tuttavia, posta in evidenza la difficile compatibilità esistente tra l’obiettivo di indurre elevati livelli di effort da parte dell’imprenditore e la finalità di favorire una tempestiva emersione della situazione di crisi. Procedure fallimentari dure favoriscono il primo obiettivo, ma ostacolano il secondo; mentre procedure fallimentari morbide hanno l’effetto opposto. La questione è dunque arrivare presto ed evitare anche in via cautelare gli enormi danni all’economia derivanti dal tardivo dissesto non solo per i creditori ma più in generale per gli equilibri del mercato anche sul piano della concorrenza.
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Salvaguardia dei valori aziendali e tutela cautelare È rinvenibile nella legge fallimentare riformata un micro-sistema che consente, l’uso alternativo dell’istruttoria preconcorsuale, orientandola a funzioni di monitoraggio in modo da acquisire la reale dimensione e dinamica dell’impresa in crisi, della sua composizione e struttura, della consistenza degli assets e delle relazioni implicite ed esplicite intessute con il mercato. Il Tribunale può emettere “provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa... che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza”. Tali provvedimenti sono adottati su istanza di parte (creditore, pubblico ministero o debitore stesso). Anche l’istituto dell’automatic stay introdotto di recente dal decreto sviluppo n. 83/2012, ha questa funzione cautelare anticipatoria con riguardo alle c.d. problematiche dell’azione collettiva. A queste si aggiungono i provvedimenti cautelari di natura penale incidenti sull’impresa (sequestri preventivi, misure di prevenzione c.d. antimafia, sequestri per equivalente, confische), che possono incrociare le procedure concorsuali o “scontrarsi” addirittura con le stesse. Al riguardo si pongono questioni non solo di concorrenza e prevalenza, ma anche di giurisdizione rispetto ai provvedimenti conservativi assunti. L’impresa in crisi nelle diverse prospettive ordinamentali Se l’impresa nella prospettiva degli stakeholders ha anche una responsabilità sociale, l’apparato statale ha una responsabilità verso l’impresa nell’interesse del valore costituzionale dell’economia. Le recenti clamorose vicende italiane (ad es. il caso Ilva) dei delicati rapporti tra le diverse prospettive dell’ordinamento evidenziano quanto sia decisivo sviluppare una sensibilità comune ed interdisciplinare. Spesso, ad esempio, si confonde la responsabilità - anche penale - dell’imprenditore con quella dell’impresa, finendo con l’azzerare la seconda per sanzionare il primo. Oppure si
Oggi l’impresa non può più essere considerata come una diretta proiezione dell’imprenditore, ma va vista come una realtà oggettivamente rilevante cui l’ordinamento accorda tutela ed assegna uno specifico ruolo ed alla quale sono riferibili, in certi limiti, situazioni e rapporti autonomi rispetto a quelli che fanno capo all’imprenditore.
Foto di Gianni Fiorito
confonde la tutela cautelare statica con quella dinamica necessaria al mantenimento dell’attività economica. È evidente che allo stato la sensibilità ai temi dell’impresa di un giudice delegato è diversa da quella di un pubblico ministero, ma non è possibile che - di fronte ai gravi problemi del Paese - ciascuno debba guardare solo al proprio ruolo senza tener conto del sistema complessivo. Così il recente intervento normativo che ha introdotto il Tribunale delle imprese avrebbe dovuto inglobare tutte le diverse competenze e non solo quella “civilistica” proprio per offrire un assetto unitario interdisciplinare che oggi drammaticamente manca. I magistrati e più in generale gli operatori ed interpreti del settore penale, amministrativo o contabile dell’economia, devono avere una conoscenza tecnica delle categorie giuridiche dell’impresa e soprattutto una sensibilità ai relativi temi, ancora maggiore di quelli del settore civile e fallimentare, considerato il ruolo
ormai ancora più delicato e l’interventismo che si è osservato nel settore. Basti pensare all’esponenziale aumento negli ultimi anni di ricorsi di fallimento esperiti dai pubblici ministeri. Non a caso il recente decreto contenente “misure urgenti per la crescita del Paese” ha rinovellato la legge fallimentare con norme come la prosecuzione coatta dei contratti di imprese in concordato preventivo da parte delle stazioni appaltanti. Si tratta di norme che riproducono quanto già disciplinato in tema di esercizio provvisorio dell’impresa fallita e di amministrazione straordinaria ma la loro introduzione evidenzia l’avvertita necessità di inculcare ad operatori di altri settori dell’ordinamento che alcuni interessi, come quello dell’economia, prevalgono su interessi dei singoli al fine di salvaguardare il valore della riallocazione delle imprese in crisi nel mercato. Quando il legislatore deve adottare la overregulation per spiegare agli interpreti ciò che già è ovvio, ossia che i diritti del terzo contraente vengono sacrificati nelle procedure concorsuali, in funzione di un interesse superiore, non è un buon segnale. Analogamente, in altre fattispecie concrete, i diversi interessi dello Stato devono prevalere a contrario su quelli dei creditori e dell’economia. Si tratta in tutti i casi di armonizzare ed equilibrare tali interessi apparentemente divergenti, ponendo al centro del sistema l’impresa. D’altra parte assistiamo all’emersione di una nuova categoria di “crisi dell’impresa”, che è la crisi di legalità e con essa assistiamo alla creazione di nuovi istituti, quale quello del “congelamento” (d. lgs. 22 giugno 2007, n. 109), che pongono l’antico problema del contemperamento degli interessi in gioco. Analogamente, occorre comprendere quando il valore costituzionale dell’economia è, invece, recessivo rispetto ad altri valori di rango ancora più elevato quali i diritti fondamentali dell’uomo. Occorre insomma individuare i problemi ed avviare il dialogo tra gli interpreti diversi del diritto dell’economia, in modo da trasformare un difficile incontro in un armonico confronto in cui tutti “remano dalla stessa parte, anche se questo talora dovesse significare andare controcorrente”.
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di Nicola Graziano
* Magistrato.
La crisi delle imprese nelle aule di giustizia Gli interventi del Legislatore e l’inarrestabile declino dell’impresa italiana
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distanza di quasi un anno dalla ennesima riforma del fallimento, che avrebbe dovuto contenere una pioggia di novità normative davvero efficaci per salvare le imprese in crisi, ci si interroga sulla effettività delle recenti norme introdotte dal Legislatore del 2012. Queste brevi riflessioni costituiscono un bilancio (a dire il vero poco soddisfacente) sulla capacità delle recenti norme (in particolare quelle contenute nella Legge n. 134 del 2012) di incidere sulla crisi aziendale e cioè sulla loro idoneità a migliorare ed agevolare la gestione della crisi aziendale. E’ stato veramente previsto un rinnovato sistema normativo che ha evitato il default del sistema imprese (piccole, medie e grandi)? Oppure il ricorso a strumenti di composizione negoziale della crisi, in alternativa al fallimento, ha finito per essere solo uno percorso di continuazione della lenta agonia
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nella quale versano le imprese italiane? Per dare una risposta bisogna partire da lontano e cioè dal Parlamento che ha il potere di legiferare. Troppo spesso si assiste ad una notevole distanza tra il Legislatore e la realtà concreta, quasi come se si trattasse di mettere in relazione due monadi incomunicabili e, purtroppo, non solo nel settore della crisi di impresa, questa distanza si avverte e si vede nei fatti concreti (si pensi, ad esempio, alle questioni etiche ovvero a quelle attinenti la manifestazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano, quali espressione della sua libertà e dignità che il Legislatore, troppo spesso, tenta di disciplinare infarcendo le norme di pregiudizio e preconcetto contro il nuovo che socialmente avanza). Nel campo della crisi di impresa si è spettatori di questa distanza e, quindi, si è costretti ad assistere ad un (apparentemente non) inarrestabile declino dell’impresa italiana.
Il Tribunale di Napoli si è reso attivo protagonista della istituzione del Tavolo di Lavoro “Crisi d’impresa, procedure concorsuali e best practice” istituito a Napoli e composto dai Giudici fallimentari del Tribunale di Napoli, Esponenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e del Consiglio dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Napoli, Professori Universitari, Curatori Fallimentari e rappresentanti dei principali Istituti di Credito Italiani.
Appare utile richiamare la plastica, ma efficace, immagine di Karl Binding il quale, sia pure riferendosi al sistema normativo penale, definisce il Legislatore come colui che tra le onde della vita quotidiana lascia giocare davanti ai suoi piedi le azioni che dopo raccoglie con mano pigra.
Chi scrive è un Magistrato della Repubblica Italiana che è ben consapevole, da una parte, di essere soggetto soltanto alla Legge (art. 101 Cost.) ma, dall’altra, della funzione sociale della norma giuridica come strumento di intervento pregnante e penetrante su ogni strato del tessuto sociale.
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Chi scrive riflette spesso sul ruolo pretorio dei Giudici e sulla forza che dall’interpretazione può riconoscersi alle norme giuridiche. Orbene, per ritornare alla riflessione principale, si assiste inevitabilmente a questa distanza tra Legislatore e realtà e questo è particolarmente vero con riferimento alle problematiche della crisi di impresa. Il Legislatore ha inteso fornire molteplici strumenti quali l’anticipazione della protezione del patrimonio del debitore nelle more dell’utilizzo di uno strumento anti crisi, ovvero, la previsione di regole per la salvaguardia della continuità aziendale con possibilità di contrarre nuova finanza, ovvero, l’introduzione specifica del concordato in continuità con possibilità di partecipazione ad appalti pubblici e raggruppamenti temporanei di impresa, ma tali rimedi o strumenti sono apparsi, Magistrato della Repubblica già dalle prime applicazioni, come delle armi Italiana ben consapevole, da spuntate. parte sua, di essere soggetto Bisognava prevedere strumenti che consensoltanto alla Legge ma tissero di immaginare altrettanto consapevole della una nuova iniezione di fiducia per le imprese, funzione sociale della norma prevedere la ripresa della circolazione della giuridica come strumento di liquidità e, invece, stetutela del tessuto sociale. rili sono state sia la previsione normativa che ha istituito il Tribunale delle Imprese (Legge n. 27/12) e il D.Lgs. n. 192/2012 di recepimento della direttiva contro i ritardi di pagamento della Pubblica Amministrazione (in vigore dal 1° gennaio 2013) volto a trasporre nell’ordinamento interno la direttiva n. 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La ratio della disciplina è quella di favorire la tempestività dei pagamenti fra imprese ma, soprattutto, di quelli della P.A. alle imprese, nella consapevolezza che, soprattutto le piccole e medie imprese e gli artigiani subiscono un evidente danno dal ritardato pagamento che può pregiudicare la loro stabilità finanziaria, così esponendole a situazioni di insolvenza, con il rischio di determinare effetti a catena tali da ripercuotersi anche sui livelli occupazionali (si può, cioè, continuare a fallir per l’insolvenza altrui?).
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Parole alle quali non sembrano (ancora) essere seguiti fatti concretamente efficaci perché forse non si trattava tanto di salvare le imprese in crisi ma certamente di salvare le imprese dalla crisi. E intanto dall’osservatorio del Tribunale fallimentare di Napoli (attualmente esercito le funzioni di Giudice Delegato ai fallimenti) nulla si intravvede all’orizzonte, se non nuvole nere che preludono al maggiore aumento dei ricorsi di fallimento, non solo più delle piccole e medie imprese, ma anche delle grandi imprese napoletane ovvero all’uso troppo spesso strumentale del ricorso al concordato in bianco come mezzo per allontanare, sia pure di qualche mese, la soglia del fallimento. Nulla, però, va lasciato intentato, quindi, va segnalato lo sforzo del Tribunale di Napoli che si è reso attivo protagonista della istituzione del Tavolo di Lavoro “Crisi d’impresa, procedure concorsuali e best practice” istituito a Napoli e composto dai Giudici fallimentari del Tribunale di Napoli, Esponenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e del Consiglio dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Napoli, Professori Universitari, Curatori Fallimentari e rappresentanti dei principali Istituti di Credito Italiani. Da questo autorevole gruppo di lavoro stanno emergendo proposte, non solo interpretative, ma anche normative, per far fronte, in modo fattivo e cioè proponendo soluzioni, alla fiorente crisi delle imprese. Un nuovo modo per dialogare tra i protagonisti della crisi d’impresa nella speranza che si individuino modalità che possano far intravvedere una seria e concreta inversione di rotta. Nel frattempo si è insediato un nuovo governo, con tanti se e tanti ma, soprattutto annunciando grandi proclami, anche a favore delle imprese. Si attendono grandi novità normative, quelle novità che spero possano essere il frutto di un’attenta analisi delle problematiche in cui versano le imprese italiane in crisi, e che possano finalmente dimostrare che la sopra descritta distanza tra Legislatore e realtà concreta può essere colmata, anzi verrà colmata nell’interesse dell’occupazione e del lavoro e della ripresa dell’economia italiana.
IL LEGISLATORE E LA CRISI D’IMPRESA
Spunti di riflessione sulla legge fallimentare I correttivi apportati dal Decreto Sviluppo di Marianna Quaranta
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l diritto fallimentare ha conosciuto negli ultimi anni importanti cambiamenti. Il sistema di governo della “crisi ” basato su procedure a carattere satisfattorio si è rivelato inadeguato ed insufficiente, tanto da porre in evidenza la necessità di un intervento significativo incentrato sulla funzione di prevenzione (della crisi). Mutuando la prospettiva anche da esperienze di ordinamenti stranieri, il legislatore ha spostato l’attenzione dal concetto di insolvenza dell’imprenditore a quello di crisi dell’impresa. Questa viene definita come una perturbazione o improvvisa modificazione di un’attività economica organizzata, prodotta da molteplici cause ora interne al singolo organismo, ora esterne, ma, comunque, capaci di minarne l’esistenza o la continuità (S. PACCHI PEDUCI, Crisi di impresa e procedure concorsuali alternative, in Riv. Dir. Fall., 1998, p.996). Parimenti si è posta l’attenzione sulla cosiddetta “tensione finanziaria”, ovvero sulla situazione di asincronia dei flussi di gestione corrente superabile, in fase iniziale, mediante interventi sia endogeni che esogeni volti a scongiurare la crisi di cui, per l’appunto, la tensione finanziaria viene interpretata come il segnale premonitore. In questa prospettiva, va rappresentato che i
correttivi alle procedure concorsuali finalizzati alla modernizzazione della disciplina della crisi di impresa, prima di arrivare al D.L. 22 giugno 2012 n. 83 conv. con L. 7 agosto 2012 n. 134, cd. Decreto Sviluppo, si sono realizzati in tre tempi: con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35 conv. con mod. L. 14 maggio 2005, n. 80 recante Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico sociale e territoriale; il D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 recante Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80 ed il D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169 recante Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80. Gli obiettivi sono stati, essenzialmente, di incentivare l’emersione precoce della crisi garantendo nel contempo una tutela diretta del ceto creditorio; offrire procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale della crisi; garantire una gestione rapida ed efficiente della crisi. Nel 2010 con il D.L. n. 78,
Il successo dei correttivi è subordinato all’esigenza di innestare un cambiamento culturale che stimoli l’adozione di rimedi efficaci e tempestivi.
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SPECIALE RIFORMA FALLIMENTARE
convertito con modificazioni dalla Legge 30 luglio 2010 n. 122, sono stati introdotti ulteriori correttivi finalizzati principalmente a stimolare l’uso del concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed i piani attestati di risanamento. Tuttavia, in fase di applicazione, gli obiettivi perseguiti non potevano dirsi compiutamente realizzati e l’uso dei nuovi istituti è stato fortemente penalizzato da pesanti incertezze normative e lacunosità della disciplina. Il concordato preventivo Con il Decreto sviluppo il legislatore ha cercato di colmare i vuoti cui si è accennato, puntando sull’incentivare l’impresa a denunciare per tempo la propria situazione di crisi, piuttosto che assoggettarla a misure di controllo esterno che la rilevino (Relazione al DDL). In quest’ottica, vanno esposte, sinteticamente, le principali novità relative all’istituto del con-
Gli obiettivi sono stati, essenzialmente, di incentivare l’emersione precoce della crisi garantendo nel contempo una tutela diretta del ceto creditorio; offrire procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale della crisi. cordato preventivo. L’imprenditore ha la possibilità di presentare la cosiddetta proposta concordataria differita, depositando il ricorso per l’ammissione, unitamente ai bilanci degli ultimi tre esercizi, riservandosi di presentare la proposta di concordato, il piano e la documentazione relativa in un termine fissato dal giudice compreso tra i 60 ed i 120 giorni, con obblighi informativi periodici (art. 161 L.F.). Dalla data di pubblicazione del ricorso nel Registro delle imprese opera il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari, nonché, il divieto di acquisire titoli di prelazione (cd. automatic stay). Ai fini dell’ammissibilità della proposta concordataria differita, il debitore nei due anni
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Foto di Anna Monaco
precedenti non deve aver presentato altra proposta alla quale non abbia fatto seguito l’ammissione alla procedura di concordato preventivo. Le ipoteche giudiziali iscritte entro 90 giorni antecedenti la data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato. Il debitore, a seguito del deposito della domanda di ammissione può chiedere lo scioglimento di taluni contratti in corso di esecuzione, l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili, nonché a compiere atti di straordinaria amministrazione. I creditori possono contestare ai sensi dell’art. 180, co 4, L.F., la proposta concordataria sotto il profilo della convenienza (cd. cram down).
Gli accordi di ristrutturazione del debito Con riguardo agli accordi di ristrutturazione, la normativa è intervenuta sull’art. 182 bis L.F., introducendo una codificazione degli indici oggettivi dell’effettiva attuabilità dell’accordo per il soddisfacimento dei creditori non aderenti. In particolare, il decreto prevede che l’accordo disciplini il pagamento dei creditori non aderenti in modo che esso avvenga entro 120 giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti alla data dell’omologa ed entro 120 giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti al momento dell’omologa. La domanda di omologazione dell’accordo deve essere accompagnata da una relazione tecnica attestante non solo l’attuabilità dell’accordo, ma anche la veridicità dei dati aziendali. Il professionista chiamato ad attestare il piano non è più tenuto a certificarne la ragionevolezza, bensì la fattibilità. Le sanzioni penali a carico del professionista che esponga informazioni false o ometta di riferire informazioni rilevanti è la reclusione da 2 a 5 anni ed una multa da 50.000 a 100.000 euro.
Il sistema di governo della “crisi ” basato su procedure a carattere satisfattorio si è rivelato inadeguato ed insufficiente, tanto da porre in evidenza la necessità di un intervento significativo incentrato sulla funzione di prevenzione (della crisi).
La revocatoria fallimentare Intervenendo sull’art. 97, co.3, lett. c) e d) L.F., la novella ha ampliato le ipotesi di esenzione da revocatoria per i contratti di vendita ed i contratti preliminari di vendita regolarmente trascritti che abbiano ad oggetto immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente, sempre che, alla data di dichiarazione del fallimento, tale attività sia effettivamente esercitata o siano comunque stati compiuti investimenti per darvi inizio. Sono, altresì, esentati dalla revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente poste in essere dopo il deposito del ricorso per l’ammissione al concordato preventivo. Il successo dei correttivi apportati, testé descritti, è subordinato all’esigenza di innestare, attraverso l’applicazione della recente riforma, un cambiamento culturale che di fronte alle difficoltà dell’impresa non persegua una logica punitiva, ma registri le stesse come una situazione che, in determinati periodi, può definirsi fisiologica stimolando l’adozione di rimedi efficaci e tempestivi.
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SPECIALE RIFORMA FALLIMENTARE
INTERVISTA A GIANNI LETTIERI
Imprenditori a confronto con la legge fallimentare Negli Stati Uniti ad un imprenditore che fallisce viene data la possibilità di riprovarci: se non ha truffato o rubato a cura della Redazione
L
a recente riforma della legge fallimentare operata dal cosiddetto decreto sviluppo ha potenziato gli strumenti offerti all’impresa in crisi per “uscire dalla crisi”, in modo meno devastante e con possibilità di recupero. A Gianni Lettieri, imprenditore napoletano, presidente della Meridie Spa e della Atitech Spa, è stato chiesto se ed in che modo i correttivi apportati hanno beneficiato l’imprenditoria. Come ha inciso la riforma fallimentare sull’imprenditoria? Ha alleggerito la posizione dell’ imprenditore? Per certi versi si, ad esempio si è molto ridotta l’autonomia dei magistrati nella dichiarazione di fallimento di un impresa: prima se veniva bocciato il concordato preventivo la dichiarazione era pressoché inevitabile, oggi, vi sono invece maggiori possibilità che ciò non accada.
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È evidente che per l’economia di un territorio evitare il fallimento delle imprese è importante, diversamente si distrugge un indotto in termini di posti di lavoro, tecnologia ed innovazione difficilmente recuperabile. Esemplificando, spesso i curatori nel ricostruire la massa fallimentare hanno estrapolato valutazioni relative a marchi, brevetti, aziende e magazzini per importi considerevoli ed adeguati. Dopo qualche anno la gestione senza criteri manageriali ha ridotto i valori a zero o quasi con perdite per tutti, imprenditori, creditori e dipendenti. Nel rispondere alla seconda parte della domanda mi sento di dire che in effetti, la posizione dell’imprenditore si è alleggerita perché può presentare istanza di concordato e dopo presentare i piani, ma può anche utilizzare lo strumento di cui all’art.182 bis L.F. (ovvero gli accordi di ristrutturazione dei debiti) che è molto più semplice ed è l’imprenditore a gestire. A mio avviso però, andava mantenuta l’am-
Gianni Lettieri È un imprenditore napoletano, Presidente e fondatore di Meridie Spa, prima investment company interamente privata istituita nel Meridione. Già Presidente dell’Unione Industriali di Napoli dal 2004 al 2010 e anche Presidente della Atitech Spa.
Foto di Salvatore Laporta
ministrazione controllata sul modello del Chapter 11 degli Stati Uniti, ma credo che il 182 bis L.F. può sopperire. Gli istituti, introdotti e modificati, dalla riforma fallimentare volti a favorire l’incontro tra le esigenze dei creditori e quelle degli imprenditori (ad es. accordi di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo), hanno sortito gli effetti sperati? Come le ho già anticipato per certi versi direi di si. Specie in questo momento di crisi, ricorrere al 182 bis L.F. può essere una salvezza come pure il concordato in continuità che è uno strumento utile per rimettere in carreggiata l’impresa. Tempi della giustizia: il tentativo di semplificare la procedura fallimentare ha accorciato i tempi della giustizia? Ha ottimizzato la funzione della procedura?
Certo per il fatto stesso che si può presentare richiesta di concordato in bianco e poi presentare il piano agevola molto, anche il 182/bis è certamente più rapido, il tribunale fa solo da notaio in questo caso, ma gli autorevoli pareri del prof. Francesco Fimmanò, del giudice dott. Nicola Graziano e dell’avv. Marianna Quaranta sapranno, meglio di me, fornire risposte adeguate. Da imprenditore dico che il nostro Paese dovrebbe maturare proprio nel modo di considerare il fallimento. Veda negli Stati Uniti ad un imprenditore che fallisce viene data la possibilità di riprovarci; certo se non ha truffato o rubato, ma, in questo caso, va in galera. Viceversa se l’impresa fallisce per un investimento sbagliato fatto in buona fede o perché il mercato in crisi: bhè, allora gli viene riconosciuto il diritto di riprovare! Da noi, ancora oggi, l’imprenditore fallito è marchiato a vita.
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WELFARE
VENT’ANNI DI AMICIZIA CON I POVERI
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di Laura Guerra
Per strada si incontrano i nuovi poveri: uomini separati, cassa integrati, disoccupati.
Foto di Salvatore Laporta
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n’amicizia lunga 20 anni. E’ quella fra i poveri, i clochard di Napoli e i volontari della Comunità di Sant’Egidio che da due decenni, nelle notti e per le strade partenopee tendono la mano a chi è solo per strada. Offrire la cena o un thè caldo non è che un modo semplice per fermarsi, presentarsi, chiamarsi per nome, tornare la sera dopo. In una parola, fare amicizia. Oggi, dopo 20 anni, i pasti distribuiti sono aumentati: circa 60.000 l’anno e sono più sostanziosi, ma lo spirito non è cambiato: quello dell’amicizia familiare che conosce il nome, i volti e le storie di ognuno. Circa 800 le persone incontrate nell’ultima rilevazione, quasi 900 raggiunte ogni settimana dal servizio Amici per la strada, servizio che si ripete puntuale ogni sera da venti anni.
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WELFARE
Un ventennale di incontri celebrati in un convegno molto partecipato, affollato di relatori qualificati e da un pubblico numeroso e attento, sebbene la povertà di questi tempi di crisi e di difficoltà non sia un argomento né facile, né nuovo. Anzi presenta l’irrompere sulla scena sociale delle cosiddette nuove emergenze che determinano i cosiddetti nuovi poveri. E per strada non si incontrano solo i disagiati storici, ma i uomini separati, i cassintegrati, i disoccupati. Persone che fino a non molto tempo vivevano una quotidianità normale, una vita normale. Come ha detto Benedetta Ferone, responsabile dell’area senza dimora della Comunità di Sant’Egidio: “ il grande bisogno che emerge nell’incontro è di qualcuno che ti ascolti e a cui interessi di te. In 20
Dove Mangiare Dormire Lavarsi, pubblicata con il sostegno del Centro Servizi per il Volontariato di Napoli. Soprannominata guida Michelin dei poveri è il prezioso vademecum che raccoglie non solo gli indirizzi per risolvere le prime necessità quando si vive per strada: mense con orari e giorni in cui si servono i pasti; servizi doccia e cambio biancheria; centri di accoglienza notturni; ma anche quelli dei servizi pubblici sanitari, di orientamento al lavoro e novità di quest’anno, l’elenco delle fontane pubbliche accese. Perché se in una vita normale l’accesso all’acqua è un gesto normale quando si vive per strada, soprattutto nei giorni di calura estiva, rinfrescarsi diventa un problema. Il libricino è in distribuzione gratuita soprattutto nelle sedi di gruppi e associazioni della
Un’amicizia lunga 20 anni. È quella fra i poveri, i clochard di Napoli e i volontari della Comunità di Sant’Egidio. I pasti distribuiti sono circa 60.000 l’anno. Circa 800 le persone incontrate, quasi 900 raggiunte ogni settimana dal servizio Amici per la strada, servizio che si ripete puntuale ogni sera da venti anni. anni la nostra presenza in strada è diventata luogo di incontro e di presa in carico di tanti, la cui vita è cambiata. Possiamo affermare che vivono per strada oggi a Napoli, e in provincia, persone che hanno perso il lavoro e sono impoverite dalla crisi. L’Istat rileva l’età media di 42 anni e afferma che il 28.3% delle persone lavora, ma continua a star per strada, non riuscendo a sostenere i costi di una casa. Allo stesso tempo, aumentano coloro che vengono a prendere il pasto alle distribuzioni pur avendo casa, gli stessi che mangiano nelle mense: madri con bambini o anziani soli, a cui la pensione non basta per sopravvivere”. bisogna rafforzare la rete, conclude la Ferone - perché chi vive sul crinale di questa fragilità non scivoli nella povertà estrema, fino a giungere alla vita per strada”. La guida Michelin dei poveri E proprio per rinforzare i nodi e le maglie della rete che per l’occasione è stata presentata la settima edizione della guida Napoli
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rete che in questi venti anni si è attivata a ed una grande risorsa per la città: dalle Caritas parrocchiali, alla caritas Diocesana e regionale, al Centro di Prima Accoglienza comunale di via de Blasis, l’asilo temporaneo Sant’Antonio La Palma, i servizi sociali del Comune, le Asl, il centro di coordinamento di via Pavia, l’ Unità Mobile di primo intervento in strada, la Croce Rossa, i sindacati, le cooperative, il Seminario maggiore, le Figlie della Carità, la fondazione In Nome della Vita, la fondazione Massimo Leone, la fondazione Iacometti, le tante parrocchie e associazioni, gli Alcolisti Anonimi, le mense di san Francesco e santa Chiara, santa Brigida, Sant’Antonio da Padova. Il commento di Bruno Limone, qualche disavventura in strada ormai alle spalle, oggi redattore del mensile di strada Scarp de’ Tenis Numeri, numeri già grandi e purtroppo in aumento costante sono i numeri dei poveri, dei disadattati, dei nuovi disagiati. La Co-
Scarp de’ Tenis: il mensile della strada scritto e venduto dai senza dimora Eccoci: siamo quelli con la pettorina rossa. I redattori e venditori di Scarp de’ Tenis, mensile di strada che si può acquistare in strada o nelle parrocchie della Diocesi di Napoli. LA REDAZIONE DI NAPOLI - Siamo 13 giornalisti e venditori un po’ speciali, abbiamo la redazione nel cuore di Napoli, a Largo Donnaregina dove frequentiamo i laboratori di scrittura narrativa e giornalismo per scrivere e raccontare la realtà che ci circonda. Con l’educatrice Rosa D’Aniello facciamo anche il laboratorio di strada che ci serve per raccontare e capire i sentimenti e i conflitti che abbiamo vissuto e viviamo. Perché abbiamo storie difficili alle spalle, abbiamo conosciuto il disagio e l’asprezza della strada e a Scarp proviamo a riprogettare il nostro futuro. Il giornale costa 3 euro ed un euro va al venditore, anche gli articoli che scriviamo ci vengono retribuiti. E così un po’ alla volta, mettendo qualcosa da parte si riesce a lasciare il posto letto nei dor-
La guida Michelin dei poveri È un vademecum per i nuovi poveri: aumentano coloro che vengono a prendere il pasto alle distribuzioni pur avendo casa, gli stessi che mangiano nelle mense: madri con bambini o anziani soli, a cui la pensione non basta per sopravvivere.
mitori e a pagarsi una stanza per contro proprio. UN PO’ DI STORIA - Scarp de’ Tenis è nato a Milano nel 1996 da un’idea di Pietro Greppi, si chiama così non solo per la celebre canzone di Jannacci, ma anche perché, ancora oggi, le scarpe di tela sono le calzature più indossate dai clochard: sono comode ed economiche. Alle sedi storiche di Milano e Napoli si sono aggiunte negli anni le redazioni di Torino, Genova, Vicenza, Rimini, Firenze, Catania e Palermo. È un giornale di strada no profit, è diretto da Paolo Brivio e realizzato dalla cooperativa Oltre; siamo un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro, un progetto di comunicazione e il primo passo per recuperare dignità. La redazione napoletana, inizialmente sostenuta dalla Caritas diocesana, è gestita dalla «Locomotiva» cooperativa so-
munità di Sant’Egidio da vent’anni si presta ad aiutarli ogni giorno. Dicono che si registra una crescita della povertà del 120% dal 2008 una cosa abnorme, vuol dire che in soli 5 anni migliaia di persone hanno visto la propria vita andare in pezzi, cambiare abitudini, o essere costretti a non averne affatto e dover capire che quel che ieri era importante o necessario oggi è da buttare via. Le foto di famiglia? Via non servono; e neanche servono quei vecchi vestiti, la collezione di cartoline o di modellini. Via, che te ne fai se neanche hai dove metterle, e dimentica anche l’indirizzo di casa e anche il numero di telefono fisso, il saluto al portiere, il pensiero di chiudere il gas. Scordati di tutto, scordati di ricordare che il ricordo fa male e va ad ingrossare il numero di quelli che hanno
ciale fondata dieci anni fa da un gruppo di scout, e guidata da Danilo Tuccillo. L’èquipe di lavoro è formata da Luca Rossi, coordinatore; Rosa D’Aniello; educatrice, Laura Guerra, giornalista; Antonella Sansone, segretaria di redazione.
solo bisogno di mangiare, dormire, lavarsi. Primordiali come vecchi elefanti. E fossero solo vecchi quelli aiutati da Sant’Egidio, i volontari ne incontrano di sempre più giovani, anche fra i 18 e i 35 anni che chiedono aiuto perché senza lavoro. La Michelin dei poveri quindi è importantissima: nata alcuni anni fa, in ogni edizione informa aiuta, facilita la vita di strada. A Napoli sette edizioni e 3500 copie che girano di mano in mano e indicano di centri di accoglienza, delle mense nuove che aprono, degli ambulatori, dei centri di ascolto e delle case di cura e di tanto altro. Un nuovo povero quando la consulta, intanto non si sente più solo nella sua nuova vita, ma prova ad essere come un “nuovo turista” assurdo, disperato, ma non solo.
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WELFARE
CARCERI ITALIANE
Foto di Carlo Hermann
In carcere le parole ed i gesti hanno un altro significato
Storie di ordinaria indifferenza Considerazioni dopo la visita al carcere di Benevento di Ninfa Rossi
“S
to entrando nel luogo dove l’uomo perde il libero arbitrio, dove a persone imprigionate viene tolta la possibilità di scegliere per la propria vita, limitandoli a norme ed attività imposte da un potere superiore”. Queste le parole che mi attraversavano la mente, stavo entrando per la prima volta in un carcere e ancora non comprendevo altro che l’istituzione, ne conoscevo la struttura, le gerarchie interne, gli iter burocratici necessari ad ac-
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cedervi, ma non i detenuti. La casa circondariale di Benevento ne ospita poco più di quattrocento, una delle poche carceri in Italia dove non è sentito il problema del sovraffollamento. Mi ero, da sempre, posta una domanda: in che modo persone che scontano una pena detentiva, ritenute socialmente pericolose, riescano a coabitare, senza scegliersi, in stanze tanto piccole, per tutta la giornata, per mesi, anni, decenni quando noi, liberi di sceglierci un partner tra miliardi di persone nel mondo veniamo presi da sensi di
In carcere si riesce a convivere non giudicando mai nessuno, il verbo giudicare non fa parte del vocabolario di un detenuto, giudicare è prerogativa di un giudice.
oppressione ed improvvise smanie di libertà per di banali incomprensioni? Ad alcuni detenuti ho sfacciatamente domandato come fosse possibile che, dopo aver vissuto nell’inosservanza di leggi e consuetudini sociali possano, poi, in carcere autoregolarsi attraverso norme talmente rigide da scandire ogni singolo momento della giornata. Mi riferisco alla maniacale dedizione per l’igiene che dimostrano, all’attenzione che viene data al momento del pasto in ogni cella, quasi da farlo sembrare un rituale religioso e all’importanza per le “piccole cose”, come un sorriso, un saluto, uno sguardo. Si può credere che sia il comune istinto di conservazione a far si che in carcere viga un’organizzazione tale che la convivenza forzata dei detenuti non irrompa in continui conflitti, In carcere anche sono loro stessi a sotun semplice sorriso tolineare l’importanza del “quieto vivere” in ha connotazioni diverse, un contesto che di è di scherno o di stima quieto ha ben poco, ma ciò non toglie che reciproca, ed in quest’ultimo in carcere esistano vacaso sono poche lori tanto forti da determinare un codice le persone a cui inviolabile della conlo si concede. vivenza. Un valore per le scienze sociali è “una concezione del desiderabile, esplicita o implicita, distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, che influenza l’azione operando una selezione tra i modi, i mezzi e i fini disponibili.” E sono proprio i valori che, paradossalmente, costituiscono la colonna portante della sub - cultura carceraria da quando l’istituzione carcere esiste. Insomma, i detenuti riescono a convivere perché hanno delle regole, non scritte, eppure talmente forti da determinare un’assimilazione involontaria di prigione in prigione, di generazione in generazione, senza che mai se ne sia potuta mettere in discussione la rilevanza. Da liberi, dimentichiamo troppo spesso di tener fede ai nostri ideali, alle nostre convinzioni, li perdiamo di vista, nel frenetico e caotico mondo che abitiamo, chi vive in
carcere, invece, non deve, non può, dimenticare di essere rispettoso ed omertoso. Il rispetto per i detenuti più anziani, esulati dallo svolgere ogni tipo di incombenza fisica; il rispetto per il capo stanza, cui è affidato l’andamento della cella, o del capo sezione, cui ci si rivolge per risolvere le difficoltà e mantenerne l’ordine. In carcere si riesce a convivere non giudicando mai nessuno, il verbo giudicare non fa parte del vocabolario di un detenuto, giudicare è prerogativa di un giudice. In carcere dire ad un compagno “hai sbagliato” è tanto grave quanto accusarlo di essere un “infame”, significa che quella persona non è più degna di rispetto e che da quel momento in poi gli si respingerà perfino il saluto, gesto che abitualmente, invece, non si nega a nessuno. In carcere, non si è liberi di avere lo stesso tipo di litigi che si avrebbero all’esterno, c’è l’adattamento, la pazienza e quando l’uno e l’altra cedono sopraggiunge l’importanza del quieto vivere, la paura di ripercussioni da parte dell’istituzione, o dei concellanei, quindi l’orgoglio e la rabbia vanno contenuti in ogni modo possibile, fino alle più estreme forme di sopportazione. In carcere, gli ultimi arrivati vengono messi a proprio agio, accolti in quell’ambiente come fosse una famiglia fino alla costruzione della fiducia e del rispetto che arrivano a tempo dovuto, dopo averne testato l’affidabilità. In carcere anche un semplice sorriso ha connotazioni diverse, è di scherno o di stima reciproca, ed in quest’ultimo caso sono poche le persone a cui lo si concede. In carcere, ciò che avviene tra i detenuti non viene riportato ai rappresentanti dell’istituzione, in nessun caso, qui opera la legge del più forte e ciò che conta è la capacità di sapersela cavare da soli in ogni situazione. Non stupisce che il carcere, come ogni civiltà conosciuta, condizioni l’atteggiamento di chi lo abita, ma che esso ne modifichi nel profondo i valori, le indoli ed il temperamento dei reclusi va tenuto presente quando pensiamo alla fatica che può costare ad un uomo passare da libero a detenuto e, forse di più, da detenuto a uomo libero.
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WELFARE
PORTASANGENNARO EXHIBITION
“Porta San Gennaro” del maestro Esposito rappresenta simbolicamente il Santo con il colore rosso divino.
San Gennaro simbolo di contemporaneità In mostra a Napoli Lello Esposito di Rossella Salluzzo
“P
orta SanGennaro è il simbolo di cambiamento, della sfida continua nel voler andare oltre, restando sempre a Napoli. Sotto l’occhio vigile di San Gennaro”. Così Lello Esposito definisce l’opera che rientra nell’esposizione site-specific realizzata per il Renaissance Naples Hotel Mediterraneo in via Nuova Ponte di Tappia. Esposito vive e lavora tra le città di Napoli e di New York. Scultore e pittore, da circa trenta anni, concentra la sua attività artistica
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su Napoli e i suoi simboli: Pulcinella, la maschera, l’uovo, il teschio, il Vesuvio, il cavallo, San Gennaro e il corno nelle varie e possibili metamorfosi. La mostra, presentata dallo scrittore e intellettuale francese Jean-Noël Schifano, si compone di dodici opere. Sculture e installazioni, di cui due inedite, trasformano la hall dell’hotel in uno spazio-museo nel cuore di Napoli. È un mix di vetroresina, terracotta e alluminio che reinterpreta l’effigie di San Gennaro. Il Santo, nell’Opera di Esposito, è associato ai simboli dell’uovo,
La mostra sostiene un fil rouge tra arte e religione, creatività e innovazione. Una collezione, quindi, tutta da scoprire all’insegna del rosso: colore del sangue che si liquefa nelle ampolle e del fuoco che plasma le Opere e che è presente nella sua forza più vitale.
del corno e del vulcano. La spiritualità di San Gennaro appare, in tutta la sua forza, nelle imponenti sculture e nelle sinuose installazioni dove i colori e i materiali sembrano dar vita al Santo stesso. “Porta San Gennaro”, oltre ad essere il titolo dell’esposizione è la più antica porta della città di Napoli. Inglobata, attualmente, in un complesso di abitazioni che si affaccia sull’ampia via Foria, Porta San Gennaro è menzionata già in documenti risalenti all’anno 928, quando la paura per i Saraceni, che in passato avevano distrutto la città di Taranto, si impossessò dei Napoletani. L’appellativo di Porta San Gennaro è dovuto al fatto che rappresenta l’unica strada per raggiungere le famose e omonime catacombe. Percorrendo, infatti, la hall dell’albergo Mediterraneo, il visitatore avverte la sensazione di attraverLa spiritualità sare quell’antica porta di San Gennaro appare, che, un tempo, conduceva nel regno dei in tutta la sua forza, morti, ma che oggi è la nelle imponenti sculture porta d’accesso ad un luogo ammantato di e nelle sinuose installazioni sacralità e di devodove i colori e i materiali zione per il Patrono di Napoli. sembrano dar vita “PortaSanGennaro” al Santo stesso. del maestro Esposito rappresenta simbolicamente il Santo con il colore rosso divino. La mostra sostiene un fil rouge tra arte e religione, creatività e innovazione. Una collezione, quindi, tutta da scoprire all’insegna del rosso: colore del sangue che si liquefa nelle ampolle e del fuoco che plasma le Opere e che è presente nella sua forza più vitale. Un’esposizione che mette in risalto il potere scaramantico e taumaturgico, che accomuna i napoletani nel chiedere buoni auspici a San Gennaro. La mostra si sostanzia nella realizzazione di un percorso di arte contemporanea, dedicato a San Gennaro. Affascinante è la testa del Patrono partenopeo incastonata su un lungo corno, l’antico talismano dal potere apotropaico, le cui origini propiziatrici risalirebbero addirittura all’età neolitica, trasmesseci poi intatte, fino ai nostri giorni, attraverso l’epoca romana e il Medioevo.
I Napoletani, da sempre, festeggiano San Gennaro il 19 settembre, il primo sabato di maggio, che ricorda la traslazione delle sue reliquie dal Marcianum, Agro Marciano, presso la solfatara di Pozzuoli, alle catacombe di Capodimonte, e il 16 dicembre, data dell’intercessione che permise di salvare la Città dalla terrificante eruzione del Vesuvio del 1631. Il 16 dicembre 1631, infatti, dopo un periodo di quiete che forse durava dal 1139, fin dalle prime ore dell’alba l’iracondo vulcano cominciò ad infuriarsi: la terra tremò, ceneri, fiamme e lapilli infierirono sui campi coltivati e sui centri abitati seminando terrore, rovina e morte. La colata piroclastica, inarrestabile, travolse ogni cosa e sembrò minacciare anche la città di Napoli. Migliaia di fedeli in fuga dai vari paesi vesuviani, fortemente impauriti dall’evento, trovarono rifugio e salvezza nel Santuario della Madonna dell’Arco. A Napoli, invece, un popolo sotto shock non solo implorava l’intercessione della Vergine e dei Santi, ma esigeva, come sempre, anche l’intervento taumaturgico di San Gennaro. Il cardinale Francesco Boncompagno, che si trovava a Torre del Greco, non potendo intraprendere, perché impraticabile, la via di terra, raggiunse Napoli via mare e si precipitò nel Duomo. Dalla Cattedrale partirono tre grandi processioni con il busto e il reliquiario contenente le ampolle custodi del sangue del Martire. Alle processioni partecipò tutta Napoli. Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo, nel suo famoso e straordinario dipinto, rese ciò che – vox-populi – avvenne in quel frangente. Ancora una volta San Gennaro ebbe cura della sua Napoli preservandola dalla furia devastatrice del Vesuvio. San Gennaro, o meglio il suo busto, è posto da Esposito, su una gigantesca sfera ovoidale. il simbolo della Risurrezione. La mostra “PortaSanGennaro” di Lello Esposito è meritevole di elogio, perché è un alto contributo all’arte scultorea e a quella figurativa che, in un intrecciarsi felice, testimonia, rinnova e vivifica, attraverso una complessa traccia socio-antropologica, l’essenza culturale e spirituale, interiore ed esteriore, della città di Napoli.
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INTERVISTA A ROSSELLA MICCIO
Emergency arriva a Ponticelli. “Un partito nuovo per un buon governo Memoria politica dopo 16 mesi di governo” di Paola Bruno
E
mergency l’associazione italiana indipendente e neutrale, di Gino Strada nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà, aprirà a Ponticelli, Napoli, un poliambulatorio di medicina di base nel Parco pubblico Fratelli de Filippo presso locali concessi ad uso gratuito dal Comune di Napoli. Da una intervista alla responsabile di emergency Rossella Miccio abbiamo appreso che Emergency sta portando avanti dal 2006 il Progetto Italia. Anche in Italia spesso il diritto alla cura è un diritto disatteso, quindi Emergency ha deciso di affiancare il sistema sanitario pubblico per sostenere ed orientare i cittadini ed i migranti più bisognosi. Quali sono le ragioni e quali sono le necessità che vi hanno spinto ad intraprendere l’apertura di un ambulatorio a Napoli, nel quartiere Ponticelli? In Campania la situazione sanitaria dei cittadini è assai critica, abbiamo una prospettiva media di vita più bassa di due anni rispetto alla madia nazionale ed un forte disagio sociale
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che si riversa sulle strutture sanitarie. Noi di Emergency crediamo in un sistema sanitario pubblico gratuito e di eccellenza per tutti, quello che stiamo cercando di realizzare con il Progetto Italia è un’integrazione al sistema sanitario pubblico e non la sostituzione. Cerchiamo di agire nelle zone a maggior disaggio sociale come a Palermo, a Castel Volturno dove abbiamo un ambulatorio mobile, a Marghera, operiamo nelle zone dove viene richiesta la nostra presenza e dove dalle indagini che effettuiamo abbiamo riscontrato un’effettiva necessità di cura e di assistenza sanitaria dei migranti e delle fasce più deboli. Esiste già un accordo con il Comune di Napoli, oppure se ci sono ostacoli burocratici al progetto? Abbiamo avuto la massima disponibilità dal Comune di Napoli per realizzare il progetto di un poliambulatorio di medicina di base. Il primo sopralluogo è stato effettuato nel settembre 2012. Abbiamo già un accordo per l’uso gratuito di una palazzina del Parco pubblico Fratelli de Filippo di Ponticelli. L’unica cosa che manca è autorizzazione della Regione Campania e dall’assessore alla Sanità regionale all’esercizio dell’attività ambula-
toriale. Noi come Emergency abbiamo stilato un protocollo d’intesa tra Emergency, Comune, Asl Napoli 1 e Regione Campania e aspettiamo da un anno circa la firma di questo protocollo. Una volta ottenuta la firma del protocollo ci occorreranno circa 2 mesi per attrezzare e ristrutturare l’edificio che si trova in buone condizioni. Avete già attivato una raccolta di fondi per questo progetto? Gino Strada ha presentato il progetto Programma Italia in una serata organizzata dal Rotary di Napoli e di Caserta, ma attualmente non abbiamo ricevuto fondi o non ne abbiamo ancora avuto comunicazione. Quello che vorrei fare è un appello a tutti i cittadini ed i professionisti medici che vorranno sostenere con il loro impegno questo progetto, abbiamo bisogno di volontari e di fondi, tutte le notizie potranno essere disponibili sul nostro sito appena l’iter burocratico sarà terminato.
CONCESSIONARIA AV-BN-FG E PROVINCE
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RICERCA E INNOVAZIONE
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di Rosaria De Bellis
Benevento: la Silicon Valley del Sud Provincia, Università e Associazioni promuovono la ricerca di giovani talenti
È
possibile raccontare storie che appaiono incredibili, persone comuni che hanno inventato meraviglie, un mondo che cambia nonostante tutto, grazie alla rete. E’ possibile raccontare la rivoluzione degli innovatori che avanza. Cambiano scienza, educazione, politica, cambia il modo stesso di vivere. Eppure la maggioranza sembra non accorgersene e l’Italia fa fatica a svegliarsi. “Cambiamo tutto” è il leitmotiv che abbiamo sentito pronunciare a Benevento dove sembra emergere un’Italia e un Mezzogiorno diverso che sa rimboccarsi le maniche e, grazie alla rete, raggiungere risultati impensabili negli anni passati. Per un momento mettiamo da parte disoccupazione, scarsa competitività ed emigrazione giovanile. Dal Sannio vengono fuori piccole storie che s’intrecciano a grandi avventure come quella di costruire un polo dell’innovazione e della ricerca in un’area interna della Campania, mettendo assieme le istituzioni del territorio e associazioni di imprese giovani in grado di produrre idee e progetti per il mondo 3.0. A Benevento c’è chi crede all’innovazione senza permesso, quella che cambia le cose no-
nostante tutto attorno remi contro il cambiamento. Stiamo parlando di Carmine Nardone che, dopo 20 anni in Parlamento e 10 alla Provincia, ha dato vita a “Futuridea”, un’associazione che riunisce esperti interessati all’innovazione utile e sostenibile in molti campi come sicurezza e legalità; ICT e soft computing per bioinformatica e nanotecnologie; spazio e osservazione della terra; ambiente e territorio; eco-energia; biotecnologie, biodiversità ed alimentazione; comunicazione e nuovi media; tecnologia e disabilità; nuove tecnologie e sicurezza sul lavoro; ambienti virtuali e aumentati; bioetica. Un lungo di confronto e di ideazione per dare a tutti, specialmente ai giovani cervelli del Sud, la possibilità di provarci, di costruire il proprio sogno, di diventare startupper. L’obiettivo è fare squadra, creare una rete di innovatori, migliorare le cose, un pezzetto alla volta. “L’idea della nostra associazione – racconta Nardone – è nata nel 2008 innanzitutto leggendo un rapporto dell’Ocse che parlava dei ritardi enormi accumulati dall’Italia nell’uso della conoscenza utile che potrebbe essere chiaramente applicata o integrata. Nello stesso
Carmine Nardone che, dopo 20 anni in Parlamento e 10 alla Provincia, ha dato vita a “Futuridea”, un’associazione che riunisce esperti interessati all’innovazione utile e sostenibile in molti campi come sicurezza e legalità.
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RICERCA E INNOVAZIONE
tempo ci siamo accorti che è avvenuta una modifica sostanziale nelle procedure dell’innovazione. Il modello Schumpeter che puntava sull’imitazione dell’innovatore di punta, non ha più futuro. Oggi l’innovazione è legata al tema dell’originalità e la competitività non si gioca più sull’imitazione che è destinata a essere subalterna. Volevamo colmare, infine, il ritardo nell’adozione dell’innovazione nel Mezzogiorno. Su questo c’è una vera e propria emergenza.” Futuridea è iscritta all’anagrafe del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e si è dotata di un Comitato scientifico interdisciplinare per creare sinergia tra le diverse innovazioni che vengono prodotte in questo laboratorio delle idee. “Le tecnologie che producono più insostenibilità nello sviluppo sono diventate prevalenti rispetto a quelle che producono più sostenibilità – mette in guardia Nardone -. C’è quindi la necessità di orientare una scelta precisa. Infatti noi ci occupiamo non di tecnologia e innovazione in genere ma facciamo una selezione delle innovazioni che possono dare più sostenibilità allo sviluppo e contemporaneamente più competitività”. Per questo l’associazione ha siglato convenzioni con l’Università degli studi del Sannio e con il Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) per un’attività di studio sulla qualità del suolo e sui rischi della sua desertificazione ed anche sulla riconversione dell’energia da combustibile fossile in rinnovabile. Con l’Enea si sta lavorando invece ad una metodologia di prototipazione virtuale integrata con altre tecnologie di realtà alimentata. C’è già un’azienda di giovani talenti beneventani che è impegnata su questo campo ed è la SpinVector. Nel corso degli anni, inoltre, sono stati realizzati prototipi, direttamente o indirettamente, creando una piccola rete di soggetti innovatori orgogliosi di trasferire nell’attività imprenditoriale qualche idea progettuale, delle innovazioni particolarmente promettenti. Quattro Gruppi di Azione Locale (GAL) hanno chiesto recentemente il supporto di Futuridea per la costruzione di piccoli laboratori di supporto territoriale dell’innovazione in cui si punta da una parte a selezionare i giovani talenti e dall’altra a creare condizioni produttive. Nel cassetto dei sogni, infine, c’è il progetto “MELA” un grande polo di ricerca diretto dal prof. Anto-
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nio Iavarone, che si occupi di nanotecnologia e biotecnologia. “Anche nelle istituzioni serve una nuova cultura dell’innovazione. C’è bisogno di una connessione più finalizzata con il territorio e con le esigenze di sviluppo”, osserva Nardone concludendo il suo ragionamento. Una distanza che a Benevento si sta finalmente colmando anche grazie alla creazione del Centro Studi che la Provincia ha lanciato in cooperazione con la locale Università. Un centro di trasferimento delle innovazioni ed un punto di riferimento per il sistema produttivo locale dove 15 giovani ricercatori, coordinati dal prof. Ettore Varricchio, studiano settori strategici per lo sviluppo del Sannio a partire dall’ambiente, dall’agro-alimentare, alla zootecnia e alla biotecnologia. Sono state prodotte 35 tesi di laurea e pubblicati circa 30 lavori (dal 2009) su riviste specializzate internazionali. “Il Centro Studi – sintetizza Varricchio - è un centro di trasferimento di ricerca applicata, studia nuovi processi produttivi per migliorare la qualità del prodotto anche quella funzionale nell’ottica di salvaguardia ambientale perché oggi non possiamo più permetterci di produrre inquinando”. Un’esperienza positiva che emerge anche dalle parole di Vittoria Lombardi, borsista 27enne: “E’ questa una grande opportunità che ti permette di fare ricerca, di avere esperienze con le aziende, di osservare i sistemi produttivi. Tutto ciò rappresenta un modo diverso per avere il massimo e interagire con le aziende”.
Dal Sannio vengono fuori piccole storie che s’intrecciano a grandi avventure come quella di costruire un polo dell’innovazione e della ricerca in un’area interna della Campania, mettendo assieme le istituzioni del territorio e associazioni di imprese giovani in grado di produrre idee e progetti per il mondo 3.0.
LE ECCELLENZE IRPINE
Il Sud eccelle: Biogem, un modello da esportare Ortensio Zecchino racconta la sua creatura: un Centro di ricerca genetica e di alta formazione ad Ariano Irpino, nel cuore della Campania interna. Un’eccellenza assoluta nel panorama italiano e non solo, un’impresa socio-economica che attira professionalità, forma il futuro e crea indotto.
Ricerca e sapere rappresentano le due leve su cui il Vecchio Continente dovrebbe puntare per vincere la sfida della modernità. Dal dogma del rigore si possa passare a politiche di crescita, perché non è l’Europa che dipende dalla Germania, ma viceversa.
a cura di Marco Staglianò
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residente Zecchino, che fa Biogem? «Biogem è un Istituto di ricerca genetica. Qui si studiano le connessioni e le relazioni tra i geni, ovvero la mappatura del dna. Ci avvaliamo di uno stabulario tra i più grandi d’Europa, di scienziati di primissimo livello ed offriamo sevizi di alta tecnologia. La missione di Biogem è contribuire all’avanzamento della ricerca scientifica, al trasferimento delle conoscenze al mondo della salute e dell’indu-
stria, all’offerta di formazione e divulgazione scientifica, alla realizzazione di servizi avanzati in discipline quali Biologia, Medicina, Biotecnologie, Bioetica, Biogiuridica, Bioinformatica, Gestione dell’innovazione e della conoscenza. Ma Biogem è, in primo luogo, un luogo di crescita formativa che attrae studenti da tutt’Italia avvalendosi delle competenze di professori e ricercatori di primissimo livello. Allo stato ospitiamo 80 tra studenti e ricercatori che vivono qui, in questo territorio, e molti
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RICERCA E INNOVAZIONE
dei quali, mi riferisco al corpo docente, hanno acquistato casa e messo su famiglia. Tutti i nostri corsi sono finanziati con i soldi delle aziende e assicurano un placement del 95%. Un record assoluto per l’Italia. Biogem è anche un’impresa socio economica, la più grande del territorio in termini di bilancio ed è in grado di attirare professionalità e di creare indotto. Ma è anche un vettore di conoscenza per le nuove generazioni: il nostro museo della terra e della vita ospita ogni anno migliaia di scolari al pari della nostra quadrisfera che consente di assistere ad una multiproiezione di quattro filmati sincronizzati in un caleidoscopio tecnologico, grazie ad un complesso gioco di monitor e specchi, come nel centro di una sfera, che ci proietta in un viaggio mozzafiato alle origini della vita. Biogem, infine, è anche un’impresa che compete a livello globale, che ha vinto la sfida dell’internazionalizzazione entrando in mercati quali il Quatar. È un modello assoluto, è il segno di una riscossa possibile contro la desertificazione delle aree interne del Meridione, sempre più strette nella morsa di un progressivo impoverimento sociale ed economico». Lei è uno storico del Diritto e proprio qui a Biogem ospita ogni anno il meeting delle due Culture. L’obiettivo è quello di scardinare il muro che separa la cultura umanistica da quella scientifica… «Sì, siamo stati abituati a vedere le due culture sempre distanti ed in contrapposizione. Dei pericoli che si celano dietro questa dicotomia forzata ne parlò per la prima volta, ormai cinquanta anni fa, Charles Snow. Oggi l’inganno di quella separatezza emerge in tutta la sua evidenza ogni qualvolta la politica viene chiamata in causa per regolamentare questioni di enorme delicatezza come il fine vita, il nucleare, l’utilizzo delle cellule staminali. Solo rinunciando a quella separatezza possiamo davvero comprendere il nesso tra le leggi, l’ordine costituito dalle regole e l’interiorità dell’uomo. Sul punto il Cardinale Carlo Maria Martini ci ha lasciato in eredità inestimabile che noi, umilmente, proviamo a fare nostra». Il nostro sistema è ormai al collasso, quali le ragioni?
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Biogem è un luogo di crescita formativa che attrae studenti da tutt’Italia avvalendosi delle competenze di professori e ricercatori di primissimo livello.
«Guardi, io fui l’artefice della grande riforma che introdusse il meccanismo del tre più due per adeguare il sistema universitario nazionale a quello europeo soprattutto per quel che riguardava i tempi dei nostri percorsi formativi. Il punto è che quella riforma è stata completamente distorta perché se noi immaginavamo la triennale come una laurea completa che avrebbe dovuto consentire l’inserimento nel mercato del lavoro, oggi non si capisce a cosa serva e cosa sia. Il punto, come le dicevo, è che la nostra riforma guardava all’Europa dove, appunto, i tre anni assicurano il placement. Poi spetta al laureato decidere se fermarsi lì o se scegliere un master o i due anni per la specialistica. In Italia questo non è avvenuto perché ad una rimodulazione dell’offerta formativa funzionale si è preferito ovviare “zippando”, mi lasci passare il termine, i saperi in un calderone senza senso e moltiplicando i corsi di laurea. Oggi ne abbiamo oltre cinquemila e questo è uno scandalo senza precedenti che
noi abbiamo reso possibile, proprio con quella riforma, dando seguito al dettato della Carta in merito all’autonomia didattica. Lo spirito di quella riforma è stato tradito, il sistema accademico ha risposto alla sfida dell’autonomia con la conservazione e oggi ci ritroviamo con tempi ancora più lunghi di allora, con un’offerta formativa molto più scadente e con un enorme problema di competenze e di qualità delle nostre risorse umane». Di certo non se ne esce tagliando, così come è stato fatto in questi venti anni, le risorse da investire nel sapere e nella ricerca. «Sì, in questi anni abbiamo assistito alla barbarie dei tagli lineari che hanno prosciugato anche la speranza. Ma il punto è nella qualità delle classi dirigenti. Io ero ministro nel governo Amato ed il titolare del Bilancio era un signore che si chiamava Carlo Azeglio Ciampi. Bene, ricordo che tenni in ostaggio il Consiglio
dei Ministri per mezza giornata fin quando non mi furono riconosciute le risorse necessarie. Non credo che i diversi ministri succedutisi in questi anni avessero l’autorevolezza necessaria per opporsi al Tremonti di turno». Intanto l’Europa spinge sul rigore e soldi per investire nella ricerca, nella scuola e nell’università, non ce ne sono... «La ricerca ed il sapere rappresentano le due leve su cui il Vecchio Continente dovrebbe puntare per vincere la sfida della modernità. Sono ottimista nella possibilità che dal dogma del rigore in funzione del debito si possa passare a politiche di crescita, perché la Germania sta capendo. Si stanno rendendo conto che non è l’Europa che dipende dalla Germania, ma viceversa. A quel punto, tuttavia, tutto dipenderà dalla volontà politica delle nostre classi dirigenti. Occorre capovolgere completamente la scala gerarchica delle priorità».
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CULTURA E FORMAZIONE
di Donato Di Sanzo
* Università di Salerno Dipartimento di Sociologia, Analisi Sociale, Politiche Pubbliche, Teoria e Storia della Istituzioni.
Storia dell’Università di Salerno La terza Università del Mezzogiorno si concentra nell’innovativo Campus di Fisciano
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a storia dell’Università di Salerno affonda le radici nei secoli. Benché, infatti, la presenza di una vera e propria Scuola Medica in età antica sia ancora oggetto di discussione fra gli storici (Cfr. I. Gallo, L’età Antica, in A. Musi, M. Oldoni (a cura di), Storia dell’Università di Salerno. Dall’età antica all’età moderna, Vol. 1, Arti Grafiche Boccia Edizioni, Salerno, p. 16.), è accertata l’esistenza di una «lunga tradizione della città nel campo della medicina», risalente al «breve periodo bizantino della Sa-
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lerno medievale (VI-VII secolo)» (Ivi, p. 3.). Da tale tradizione sarebbero scaturite le circostanze che portarono alla fondazione della Scuola Medica, un’istituzione in grado di impartire gli insegnamenti di Ippocrate e di Galeno ai propri laureati, che nel Medioevo raggiunse la sua massima autorevolezza, sino ad ottenere il riconoscimento legale dell’imperatore Federico II di Svevia nel 1231 e a diventare una delle prime e delle poche universitas presenti in Europa (Cfr. Ibidem.). A partire dal XIV secolo, tuttavia, la Scuola
A partire dagli anni ’90, tutte le facoltà sono state stabilite nel Campus di Fisciano, che,progressivamente, si è dotato di nuove strutture, funzionali all’aumento regolare di iscrizioni da cui fu interessato l’Ateneo.
Medica Salernitana affrontò una lunga crisi, dovuta alla diffusione e alla crescita di molti altri poli universitari in tutto il continente europeo. Il declino degli studi in medicina a Salerno coincise con il contemporaneo ricollocamento dei luoghi di produzione del sapere, che favorì la fioritura di più vivaci università nel nord dell’Italia e dell’Europa (Cfr. A. Musi, L’età moderna, in A. Musi, M. Oldoni (a cura di) Storia dell’Università di Salerno cit., p. 210.). La crisi giunse al termine nel 1811, quando Gioacchino Murat emanò il decreto organico per l’istruzione pubblica, che determinò l’elevazione dell’università di Napoli a unica istituzione in grado di conferire titoli accademici e la conseguente chiusura della Scuola Medica Salernitana (Ivi, p. 284). L’entrara in vigore del decreto murat-
screto sviluppo dell’attività dell’istituto di magistero, fu approvato il primo statuto dell’università. A metà degli anni ‘60 il numero degli iscrizioni crebbe anche in seguito alla modifica dello statuto, che precedentemente escludeva le donne dalla possibilità di accedere alla facoltà (Cfr. G. D’Angelo, Salerno e la sua Università: polemiche tra due protagonisti, in L. Rossi (a cura di), Studi di storia in memoria di Gabriele De Rosa. L’Ateneo di Salerno al suo primo Rettore, Plectica, Salerno, 2011, p. 608.). La fondazione ufficiale dell’istituzione universitaria si ebbe, tuttavia, nel 1969, con l’entrata in vigore del decreto che convertì l’istituto di Magistero in Università degli studi di Salerno, firmato dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Lo storico Gabriele De Rosa, che sin dal-
tiano, intervenuta nel 1812, inaugurò un lungo periodo di assenza degli studi universitari dalla città di Salerno. La vacanza fu interrotta nei primi mesi del 1944, quando, nel clima della Salerno capitale del regno d’Italia del Sud, il ministro salernitano della Pubblica Istruzione del governo Badoglio, Giovanni Cuomo, riuscì ad ottenere l’istituzione dell’Istituto Parificato di Magistero, riservato ai soli uomini, nucleo a partire dal quale sarebbe generata l’università. Protagonista della vicenda fu anche un giovane professore, Riccardo Avallone, umanista e latinista, che si spese vivamente per l’apertura della nuova facoltà in città (Cfr. R. Avallone, Per una storia del Magistero ovvero dell’Università degli studi di Salerno, Edizioni “Il Sapere”, Salerno, 1999.). Nel 1951, in seguito al di-
l’inizio degli anni ’60 aveva spinto per l’istituzione dell’ateneo, ne divenne il primo rettore e lavorò affinché fossero istituite nuove facoltà in città. Il mandato di De Rosa si concluse nel 1974, quando il rettore si trasferì alla Sapienza di Roma. Nel 1982, con giurista Vincenzo Buonocore al rettorato, iniziò il trasferimento delle prime facoltà dal centro di Salerno al nuovo Campus di Fisciano, dopo che già nel 1979 la sede di alcuni corsi di studio era stata trasferita in strutture appositamente costruite a Baronissi. La decisione di localizzare il nuovo polo universitario in prossimità della valle dell’Irno, così come avvenne in occasione dell’insediamento di comparti industriali e distretti produttivi (Cfr. A. Conte, Giochi di palazzo e montagne di carta sullo sfondo della rivolta popolare di Eboli nel 1974, in
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CULTURA E FORMAZIONE
Da quando si è trasferita nel Campus di Fisciano, l’Università di Salerno è diventata il terzo ateneo nel Mezzogiorno per numero di studenti iscritti.
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via di pubblicazione.), fu oggetto del dibattito politico interno soprattutto alla Democrazia Cristiana, rappresentata, in Campania, fra gli altri, dalla figura di Ciriaco De Mita, politico avellinese che sarebbe diventato segretario nazionale del partito e, in seguito, Presidente del Consiglio. Questi lavorò affinché l’università fosse trasferita a metà cammino fra i centri urbani dei due capoluoghi, Salerno e Avellino. A partire dagli anni ’90, tutte le facoltà sono state stabilite nel Campus di Fisciano, che, progressivamente, si è dotato di nuove strutture, funzionali all’aumento regolare di iscrizioni da cui fu interessato l’ateneo. L’istituzione, nel 2006, della facoltà di Medicina, collocata nei plessi di Baronissi, ha rappresentato un traguardo storico per l’intera università, che, arricchendo la propria offerta didattica e formativa, ha idealmente
tra docenti e ricercatori. Grazie ad una serie di interventi edilizi succedutisi nel tempo, essa ha legato la sua identità soprattutto ai numerosi servizi offerti: alloggi per 384 posti letto destinati a studenti e docenti (e altri 480 in via di realizzazione); mensa per 1400 posti; biblioteca centrale con oltre 600 postazioni studio e 500.000 unità bibliografiche (ora destinata solo a pubblicazioni di carattere umanistico, poiché da poco è stata inaugurata una struttura gemella dedicata alle pubblicazioni scientifiche); presidio sanitario in grado di offrire visite specialistiche (gratuite per gli studenti); Centro di counseling psicologico; asilo nido per 60 bambini destinato a figli dei dipendenti e degli studenti; strutture sportive; teatro presso il quale si svolgono corsi di recitazione; webradio con servizio “rewind” per registrazione audio-video di convegni, se-
riallacciato la propria esperienza alla secolare tradizione degli studi medici, che, in epoca medievale, fece della Scuola Medica Salernitana uno dei più importanti poli universitari d’Europa. Da quando si è trasferita nel campus di Fisciano, l’Università di Salerno è diventata il terzo ateneo nel Mezzogiorno per numero degli studenti iscritti (poco più di 40.000), frequentanti i corsi di laurea di primo e secondo livello, di dottorato e di specializzazione, di master e della Scuola di Giornalismo (la prima nata al Sud), organizzati dai 16 Dipartimenti presso i quali sono incardinati i circa mille
minari e lezioni ; company-tv in grado di produrre programmi per la “tv d’attesa”, con una copertura iniziale di 60 monitor; interventi di risparmio energetico (autoproduzione di circa il 40% del fabbisogno); un terminal bus, dove operano 17 aziende di trasporto che garantiscono collegamenti con 75 comuni differenti e circa 300 corse giornaliere; un parcheggio multipiano gratuito per 850 posti, oltre a numerosi parcheggi interrati e scoperti; e, ancora, sportello bancario, ufficio postale, posto di polizia, negozio di merchandising, i servizi di bike sharing e navetta interna. Infine, a testimo-
nianza della vitalità che si respira nel Campus, vanno ricordate le oltre cinquanta associazioni studentesche, impegnate nella promozione di numerose iniziative. Una realtà, insomma, A leggere le annuali che costituisce un caso valutazioni dedicate agli atenei unico nel Mezzogiorno delle cattedrali del deitaliani, il Campus di Fisciano serto, dello sperpero di non sarebbe altro risorse pubbliche, delle opere avviate e mai che una bellissima scatola completate. Una realtà, vuota l’ennesimo come mi dicono in più occasioni amici i quali specchio di una la visitano per la prima “questione meridionale”. volta, che non ti aspetti di trovare al Sud. E della quale il Sud non riesce ad andare fiero, quasi incapace di esibire le testimonianze
litecnico di Bari, piazzatosi 22°). In realtà, se si considerano gli indicatori utilizzati per giungere a tali risultati (numero e qualità degli occupati, abbandono degli studi, tempo impiegato per laurearsi), è evidente che i posti in classifica non riguardano gli atenei, ma la realtà socio-economica all’interno della quale operano. Oltre alla diverse e ben note opportunità di impiego presenti nelle diverse aree, basti considerare, ad esempio, che dei 4.399 laureati a Salerno nel 2011 (20,7 in Lettere, 18,7% in Economia, 16 in Scienze della Formazione, 12 in Ingegneria, 10,6 in Scienze matematiche, 8,4 in Giurisprudenza, 5,3 in Lingue, 4,2 in Scienze Politiche, 3,8 in Farmacia), solo il 7,7% proveniva da famiglie con entrambi i genitori laureati e il 14,3 con almeno uno dei due, mentre nel 45,8 dei casi avevano un titolo di scuola superiore e ben
che contraddicono i luoghi comuni ormai invalsi. D’altronde, a leggere le annuali valutazioni dedicate agli atenei italiani, il Campus di Fisciano non sarebbe altro che una bellissima scatola vuota, essendo l’Università di Salerno ormai da qualche anno relegata agli ultimi posti di una classifica che sembra l’ennesimo specchio di una “questione meridionale” tutt’altro che esaurita (terz’ultima nel 2012, insieme a quella del Salento ed immediatamente prima delle napoletane L’Orientale e Parthenope, mentre le prime trenta posizioni sono occupate da università del Centro-nord, ad eccezione del Po-
il 31,4 titoli inferiori o nessun titolo. Ciò significa che, alla pari delle altre università meridionali, anche quella di Salerno parte da basi di partenza molto più basse rispetto a quelle diffuse nel Centro-nord e che risultati diversi, rispetto ad aree più evolute, non possono indurre ad individuare le cause in una peggiore qualità della didattica o in un’antropologica indolenza di docenti e studenti, ignorando l’investimento che istituzioni e famiglie stanno compiendo per lo sviluppo economico e il progresso civile della propria terra.
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CULTURA E FORMAZIONE
IL RICORDO DI MIO PADRE
In Chiaromonte necessità ed assillo della mediazione Rispetto per i diritti dei cittadini, la Legge, la Costituzione di Franca Chiaromonte
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ono trascorsi vent’anni dalla morte di mio padre Gerardo Chiaromonte. Lo abbiamo di recente ricordato in un convegno alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di altri illustri relatori che di lui hanno sottolineato la grande capacità di mediazione e il suo ruolo durante la fase della solidarietà democratica. Spesso mi domando come sarebbero le nostre conversazioni. Come parleremmo di figure politiche controverse del nostro
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Parlamento (penso a Silvio Berlusconi), oppure della deriva antiberlusconiana di parte della sinistra italiana così come dei più complessi rapporti tra politica-giustizia che attanagliano la vita politica italiana da sempre. Mio padre Gerardo era un acceso garantista, così come ritengo di esserlo anch’io, con la convinzione di chi, non solo ha vissuto gli anni di Tangentopoli da dirigente politica, ma di chi ne ha anche vissuto e visto il seguito fino ai giorni nostri. Per questo, e per lui anche, non mi pento ancora della battaglia che ho condotto per tutta la
Gerardo Chiaromonte è stato ricordato in un convegno alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di altri illustri relatori che di lui hanno sottolineato la grande capacità di mediazione e il suo ruolo durante la fase della solidarietà democratica.
scorsa legislatura per ripristinare l’immunità parlamentare. Il 7 marzo del 1993 (a poca distanza dai fatti di Milano e riprendendo in parte le parole che Conso pronunciò alla Camera), mio padre scriveva sulle pagine dell’Unita’: “sono convinto che il discorso di Conso può veramente rappresentare un punto di partenza per il rispetto pieno, da parte di tutti, della legalità democratica, delle norme dello Stato di diritto, della divisione rigorosa dei compiti e delle prerogative di ogni organo dello Stato. Questa mi sembra la via maestra per superare la tensione, oggi esistente, tra magistratura, politica, istituzioni democratiche. Non c’è che una via: che ognuno rispetti le competenze altrui, i diritti dei cittadini nel rispetto delle leggi e della Costituzione”. Queste parole valevano Ho sempre pensato che il livello allora e valgono ancor oggi anche se, indubmorale e la forza intellettuale biamente, il quadro è notevolmente peggiodi una persona si misurano rato. Quella di oggi apanche dal modo come sa pare una crisi ancora più profonda poiché ininvecchiare: senza rinunciare veste le rappresentanze per ipocrisia o per opportunismi, politiche e sociali e l’intero mondo delle e pur di restare alla ribalta, istituzioni. a ciò che si è stati e si è. Alla crisi sociale che sta attanagliando il vecchio continente si affianca culturalmente la fine del presunto meccanismo virtuoso che pareva rendesse indissolubile il rapporto tra capitalismo e democrazia. A ben guardare entra in crisi l’idea stessa di una evoluzione virtuosa del sistema. Di fronte a tali sconvolgimenti non solo manca la sinistra, ma non si vede neppure l’ombra di una classe dirigente in grado di traghettare il Paese fuori dal caos. La nostra generazione (non certo quella di mio padre) ha totalmente fallito, non solo nella sua esperienza politica e di governo, ma anche nel compito di formare una classe dirigente nuova e che potesse sostituirla. Scarseggia la preparazione politica e culturale più in generale. Noi stessi pretendiamo sempre meno dalla nostra esperienza e non riusciamo a proteggere quei giovani che si affacciano alla politica pronunciando qualche parola di verità.
Ad esempio, che ridurre il numero dei parlamentari non vuol dire ridurre i costi per la nostra Repubblica, ma ridurre la rappresentanza dei cittadini, oppure che far fare ad un parlamentare una sola legislatura vuol dire condannarlo ad imparare un mestiere a metà. La contestazione alle cattive istituzioni può trasformarsi facilmente in una critica alle istituzioni giudicate (spesso a ragione) inutili. Sarebbe invece nostro compito indicare i problemi veri, riformare dove è necessario farlo e fare del dialogo politico tra le diverse parti non una chimera ma una necessità reale per questa nostra dolente democrazia. In mio padre l’incessante necessità della mediazione è stato un assillo e mai come oggi ne condivido le ragioni. Di lui mi mancano molte cose, ma molte ne ho conservate nella mia attività’ politica, credo anche che mi abbia proprio lui aiutato a lasciare l’attività parlamentare spero con dignità! Un giorno Gerardo scrisse: “Sento che si avvicina, per la mia navigazione, il momento di ammainare le vele. Lo esigono le ragioni del tempo e anche della politica. Ho sempre pensato, d’altra parte, che il livello morale e la forza intellettuale di una persona si misurano anche dal modo come sa invecchiare: certo, senza rinunciare per ipocrisia o per opportunismi, e pur di restare alla ribalta, a ciò che si è stati e si è; senza l’ambizione irrealistica di voler restare a tutti i costi in prima fila...”. Difficile non pensare ai tanti tra noi che ancora non si accorgono del tempo che passa e ci passa. A tutti noi allora ancora un consiglio, sempre di mio padre per ricordarlo infine ai 20 anni dalla sua scomparsa: “ ma sento di dirti ... noi dobbiamo recuperare un rigore nella vita personale e pubblica, la nostra e del partito ... vi auguro di riprendere il vostro ruolo nella città, tra la gente umile, i lavoratori, come spetta ad una grande forza democratica quale voi siete. Tutto ciò ve lo dico non per paternalismo. Sono vecchio, sono in questo partito dal 1943 ... queste cose posso dirle per l’esperienza che ho. Ma soprattutto ve lo dico per la passione che mi lega a voi, a questo vostro partito, e ve lo dico con franchezza e con amore ...”
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MOSTRA DEI MAESTRI SCUOTTO ESSEARTE mette insieme artisti interessanti e interessati per scommettere sull’incontro diretto col pubblico, mettendo al centro l’opera, piccola o grande che sia. Perché è nel “pezzo” che si riflette la capacità, il talento e la poetica dell’artefice.
Essearte la galleria dei talenti interessanti ed interessati Uno spazio pro-oggetto per l’opera al centro della discussione a cura della redazione
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SSEARTE ha inaugurato i suoi spazi il 20 aprile scorso presentando al pubblico le opere di 29 artisti. La galleria è gestita dal collettivo Scu8, gruppo di artisti che comprende i fratelli Salvatore, Emanuele Lello Scuotto e Alba La Marra. Si tratta di uno spazio-pro-oggetto che mette “l’opera” al centro della discussione. La galleria privilegia l’oggettualità dell’arte, il suo rendersi fruibile grazie all’oggetto in cui si esprime. È nel rendere tangibile e sensitivamente percettibile il messaggio che l’arte si
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manifesta. L’idea resta imperativa ma non può bastare a se stessa se non si completa nell’opera. Lo scollamento tra l’idea e l’opera a vantaggio della prima ha prodotto fenomeni che non coincidono con l’intenzione di riportare il segno dell’artista nel tessuto dell’opera d’arte. Questo, invece, è l’obiettivo primario della galleria: promuovere e rinsaldare la contiguità tra l’artista e il suo fare, proporre uno spazio condiviso tra artisti disposti a mettersi in gioco, rinunciando all’autoreferenzialità e uscendo dalle regole del sistema che scavalca la poetica
per sovrastrutturarla con criteri di mercato. Una ripartenza dal basso nel cui contesto la galleria vuole essere uno spazio gestito e organizzato da artisti e non da galleristi. L’artista torna al centro delle scene ritirando le deleghe. ESSEARTE conta di mettere insieme artisti interessanti e interessati a scommettere sull’incontro diretto col pubblico, mettendo al centro l’opera, piccola o grande che sia. Perché è nel “pezzo” che si riflette la capacità, il talento e la poetica dell’artefice. L’artista che si “concede completamente”, anche in un piccolo frammento, offre al potenziale nuovo collezionista un approccio economico più facile e permette di avvicinare all’arte contemporanea un pubblico più ampio. La galleria si trova nel cuore del centro storico di Napoli, in via Nilo 34, nello storico palazzo del Real Monte Manso di Scala dove, all’interno del cortile, numerosi artisti ed artigiani creano i propri lavori negli atelier organizzati all’interno del cortile. Proporre spazi espositivi dedicati all’arte
contemporanea in questo luogo è una scelta motivata dalla volontà di valorizzare l’arte, in tutte le sue espressioni, in una cornice stimolante, accogliente e intrisa di storia. Dopo l’apertura degli spazi e la presentazione dei 29 artisti, il primo appuntamento della galleria pro-oggetto è con la video arte. Protagonisti Pasquale Napolitano e Vincenzo Spagnuolo con INTERSECT, percorso espositivo che prevede un’installazione video e una serie di lavori dei due artisti atti a mostrare la metodologia di ricerca estetica che ha portato alla realizzazione del progetto. A giugno è in programma la mostraINcubo “VIETATO AI MINORI”: ogni artista avrà un cubo bianco all’interno del quale dovrà realizzare l’opera dedicata al tema. A novembre, sarà la volta di “MOSTRO… IL DIAVOLO – il decennio” che vedrà la riproposizione della grande mostra di opere dei Fratelli Scuotto che portò, nel 2003, agli onori della cronaca artistica il lavoro di questi artisti napoletani.
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CULTURA E FORMAZIONE
L’INTERVISTA
Napolitano: “politico di professione”. Intervista a Paolo Franchi, editorialista del Corriere della Sera e autore di “Giorgio Napolitano. La traversata da botteghe oscure al Quirinale di Valentina Capuano
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l volume di Paolo Franchi si presenta come una “biografia autorizzata”, firmata da chi si considera un amico del Presidente, e del resto la gradita presenza a Napoli, durante la presentazione, di Matteo Renzi, dell’on. Umberto Ranieri e del prof. Massimo Villone, hanno costituito un’ulteriore testimonianza dello spessore del Napolitano-politico, che si è sempre considerato “Un uomo della sinistra riformista, nella grande linea storica della
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socialdemocrazia europea”. Ho chiesto a Paolo Franchi, quando ha conosciuto Giorgio Napolitano? “La circostanza esatta in cui ho parlato con lui per la prima volta non la saprei indicare con precisione. Di sicuro risale a 40 e passa anni fa, quando guidava la commissione culturale del PCI, ed io, ventenne o poco più, ero il responsabile nazionale degli studenti
Napolitano riabilita la figura del “politico di professione”. “Bisogna difenderla dai giudizi sommari e grossolani. Fare della politica una scelta di vita, è stato il modo in cui molti hanno contribuito allo sviluppo della vita democratica nelle società dell’occidente europeo”.
comunisti. Di quel tempo ho, credo, una discreta memoria politica”. Quali sono i ricordi più belli che lo legano alla figura del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? “I miei ricordi di allora sul Napolitano, come lo chiamavano, riguardano episodi che con la politica propriamente detta, c’entrano fino ad un certo punto. Ad esempio, mi ha stupito non poco la dichiarazione di Raffaele La Capria, al quale ho chiesto lumi per la stesura di questo libro, sul Napolitano giovane, anzi, giovanissimo, nella Napoli dei primi anni ’40: “Pensandoci bene-mi ha detto. Quello studentello di tre anni più giovane di me, così a modo, così equilibrato, così per bene, era l’unico, tra gli stuIl concetto di patriottismo denti del liceo Umcostituzionale, ben noto agli berto, per il quale, si sarebbe potuto pronospecialisti e argomentato dal sticare (c’era ancora il filosofo tedesco Jurgen fascismo, c’era ancora Habermas è stato menzionato il re) un futuro da Capo dello Stato”.
per la prima volta da Napolitano durante le celebrazioni del 60° anniversario della Costituzione.
Qual è stato il merito principale di Giorgio Napolitano, cosa ne ha decretato la superiorità politica all’interno del suo partito? “Probabilmente Giorgio Napolitano non avrebbe gradito affatto essere definito un “intellettuale di avanguardia”, come ha detto Togliatti e come vuole un lessico marxista leninista che gli è sempre andato stretto. Ma è anche vero che senza la svolta di Togliatti, comunista, o almeno comunista a tempo pieno, Giorgio Napolitano non lo sarebbe diventato mai. Il suo merito, anche nel decennio precedente alla caduta del muro di Berlino, è stato, poi, di aver sempre lavorato per la strada della ricomposizione unitaria della sinistra italiana sull’unico terreno possibile, quello della socialdemocrazia e del riformismo”. Qual è il giudizio di Napolitano sulla politica?
Napolitano riabilita la figura del “politico di professione”. “Bisogna-dice-difenderla dai giudizi sommari e grossolani. Fare della politica una scelta di vita, secondo la famosa espressione di Giorgio Amendola, dedicarsi così interamente all’esercizio dell’attività politica, è stato il modo in cui molti hanno contribuito allo sviluppo della vita democratica nelle società dell’occidente europeo. Le involuzioni e finanche le degenerazioni del sistema dei partiti, il burocratizzarsi della figura dei politici di professione, divenuti spesso semplici soggetti e agenti di calcoli e giochi di potere, non possono cancellare i tratti positivi ed originari di quell’esperienza”. Quali sono stati i meriti di Giorgio Napolitano nel ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica? Napolitano ha saputo rappresentare, oltre che un’imprescindibile garanzia istituzionale, anche l’unica, forse, risorsa politica a disposizione del Paese sul piano interno come su quello internazionale. Ha, inoltre, sempre evitato derive presidenzialistiche anche quando avrebbe potuto far leva su una crisi politica ed economica gravissima, evitando, quindi, di esercitare poteri dei quali, in una democrazia parlamentare, il Capo di Stato non dispone. Cosa intende Napolitano con l’espressione “patriottismo costituzionale”? “Il concetto di patriottismo costituzionale, ben noto agli specialisti e argomentato dal filosofo tedesco Jurgen Habermas, convinto che, dopo Auschwitz questo sia l’unico patriottismo concesso, è stato menzionato per la prima volta da Napolitano durante le celebrazioni del sessantesimo anniversario della Costituzione, il 28 gennaio del 2008”. «Il patriottismo costituzionale - ha dichiarato - è il sostrato della coesione nazionale necessaria, chiunque governi, per affrontare i problemi del Paese e restituirgli il ruolo che gli spetta in un’Europa di cui è stato tra i fondatori»: è questa la nuova, moderna forma di patriottismo nel quale far rivivere il patto che ci lega: il nostro patto di unità nazionale nella libertà e nella democrazia.
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CULTURA E FORMAZIONE
RECENSIONE di Marino Niola
* Insegna Antropologia
La buona novella Storie di preti di frontiera Marino Niola presenta “La buona novella” di Ilaria Urbani prefazione di Roberto Saviano, Guida Editori
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l libro “La buona novella. Storie di preti di frontiera” di Ilaria Urbani (Guida editori, collana We Care) fa emergere non solo che le ferite di Napoli sono ferite del mondo, ma che l’idea stessa di periferia viene messa fortemente in discussione. E che la Chiesa spesso sostituisce lo Stato, sin dall’Alto Medioevo. Uno degli intervistati Don Tonino Palmese lo sa bene: il defensor fidei diventa il defensor civitatis, soprattutto dove la civitas è minacciata, offesa, sofferente, mancante. Questo punto di vista alto, non particolaristico, consente all’autrice di guardare alla cronaca, ai drammi delle periferie, con un altro occhio. Le testimonianze del libro sono di frontiera, anche nel senso proprio: sono avanti al resto. Fanno giustizia di un’ottica tutoriale, perfino etnocentrica, che guarda alle umanità lontano dai salotti, dai palazzi, dalle nomenclature anche culturali. Queste testimonianze rovesciano l’ottica e mostrano che, se proprio vogliamo dire chi sta avanti e chi indietro, ad essere indietro è il centro, non la periferia. I quartieri Bagnoli e Scampia sono alla stessa distanza dal centro, anzi forse Bagnoli è più lontana, ma sono periferie in due maniere completamente diverse. Questo libro ci
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invita a liberarci dell’etichetta pigra e di guardare che cosa c’è veramente dentro. E’ un’immagine mondiale di Napoli, dove alcune delle questioni irrisolte mostrano come proprio dalla periferia nascono anticorpi e sfide che ci portano a vedere questi luoghi di frontiere non come aree attardate, non come inerzie della Storia, ma, al contrario, “infanzia della metropoli” cioè i posti dove la città può crescere e può pensare di avere un futuro. E in questo senso le storie raccontate sono storie che cambiano il mondo. Come quella di Don Antonio Loffredo che della vocazione fa un servizio, un servizio vissuto senza eroismo ma per dare alle persone. Una speranza alta, obiettivi grandi. Il sacerdote racconta la nascita del terzo settore, ripercorre un tratto di storia italiana degli anni ’80, e lo fa parafrasando l’Eduardo di De Pretore Vincenzo, parla di “industrializzazione della società civile”: una lezione per gli economisti, per gli accademici. Si parla della communitas dove la dignità fa parte anche della piattaforma rivendicativa ed è alla base dell’unione delle imprenditorialità corporativa che unisce invece di dividere. Non si parla solo di soldi o di povertà materiale, si parla invece di dignità, si parla di umanità co-
dei simboli, Antropologia culturale, Antropologia dell’alimentazione e studio delle culture presso l’Università Suor Orsola Benincasa. Collabora con radio e televisioni italiane, francesi e svizzere. È editorialista de Il Mattino e de La Repubblica.
mune, e il racconto infatti, non è un caso, non è mai retorico. Si cita Giorgio La Pira, per dire come gli esempi virtuosi funzionino, perfino nel quartiere che sembra solo degrado come la Sanità: “I ragazzi sono come le rondini” Rimuovere la barriera tra le due dice La Pira “capiscono dov’è la primavera e ci città, per tornare a Napoli, aprire arrivano”. Non è un e fluidificare proprio in maniera caso che proprio nel rione Sanità nasce cardiologica un quartiere ghetto un’idea come quella di Don Loffredo: trasforsignifica proprio questo; mare in una risorsa le Napoli diventa non un caso Catacombe, luoghi sotterranei, quei luoghi che speciale, ma l’espressione sono sempre stati come anticipatrice di un problema. folclore, come sopravvivenza tutto al più. Trasformare questo passato, a volte rimosso dalla città in una risorsa per il futuro. “È la Storia che organizza il futuro” è proprio la bella metafora che usa Loffredo ed è curioso che questa metafora faccia pendant singolarmente con un’altra, dolorosissima, di Anna Maria Ortese che invece dice nè “Il mare non bagna Napoli” che “è la natura che organizza i dolori di Napoli, e non la Storia”. Rimuovere la barriera tra le due città, per tornare a Napoli, aprire e fluidificare proprio in maniera cardiologica un quartiere ghetto significa proprio questo: Napoli diventa non un caso speciale, ma l’espressione anticipatrice di un problema che già riguarda altre parti nel mondo. E anche in questo senso la scommessa sulla cultura che viene fuori da queste pagine diventa un’indicazione fortissima: i viaggi, l’educazione alla bellezza, l’uscita dai confini angusti. Padre Alex Zanotelli dice: ”Ho salutato come una benedizione questo momento di crisi, perché cambieremo le carte del gioco, emergerà un modo di agire che avrà l’uomo al centro e non questa economia falsa”. La buona novella induce a guardare proprio questo: non una Napoli in ritardo sull’economia che altrove celebra i suoi trionfi, ma il carattere taroccato e falso di questa economia che si pone ancora come modello, che
l’Europa ci pone come esempio. Da molte di queste interviste emerge anche l’istanza ecologica. E non è animismo credere che tutto abbia un’anima da rispettare. Zanotelli accomuna i diritti umani ai diritti della Terra perché l’uomo non è il padrone né del rione Sanità né della foresta Amazzonica. Questo significa guardare con un grandangolo alla città, e non con la camera fissa. Viene fuori anche un’idea bio-politica della fede per cui il problema dei rifiuti a Napoli, per esempio, manifesta in scala ridotta quello che avviene in tutto il mondo, nel macrocosmo. Quello che emerge dal coro delle voci che compongono questo libro è qualcosa di assolutamente lontano dalla oleografia partenopea, ma, casomai, ci fa vedere un nesso inquietante per certi versi, e pieno di speranza per altri, tra Napoli e il pianeta, e che mostra come la parte della città, apparentemente più lontana dai centri della cultura e del potere, sia quella che in questo momento produce gli anticorpi più vitali.
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CULTURA E FORMAZIONE
INIZIATIVE INDIPENDENTI Scambi di saperi, pratiche e competenze
Dall’occupazione dell’Ex Asilo Filangieri alla creazione del Centro di Produzione Indipendente La risposta alla crisi e alle politiche dei tagli alla cultura e alla ricerca delle lavoratrici e dei lavoratori dell’immateriale e dello spettacolo a cura del collettivo “La Balena”
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l 2 marzo 2012 la struttura denominata l’ex Asilo Filangieri, situata in Via Giuseppe Maffei n. 4, a Napoli, è stato occupato dal collettivo di lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale “La Balena” con l’obiettivo di attivare un percorso di riterritorializzazione del lavoro culturale e delle pratiche che ad esso soggiacciono. La struttura fino a quel momento era stata la sede della Fondazione Forum Universale delle Culture 2013, evento-fantasma gestito con malagrazia da logiche clientelari. In questi mesi, l’Ex Asilo Filangieri è stato attraversato da oltre 200 iniziative artistiche e culturali. È stato il luogo in cui compagnie, artisti e operatori della cultura hanno potuto
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sviluppare il proprio lavoro e condividerlo con la cittadinanza, in modo aperto e orizzontale (ad esempio attraverso le “prove aperte”); il luogo in cui si sono innescate pratiche condivise e collaborative che hanno costruito le premesse per lo sviluppo di una fucina culturale: un centro di produzione indipendente che metta a disposizione di tutta la comunità gli strumenti di produzione culturale (sala montaggio, palcoscenico, costumeria condivisa, biblioteca, per fare solo qualche esempio). Queste pratiche di condivisione sono la nostra risposta alla crisi: come lavoratrici e lavoratori dell’immateriale e dello spettacolo subiamo sulla nostra pelle le politiche dei tagli
La comunità di abitanti dell’ex Asilo porta avanti un Uso Civico della struttura animandola di iniziative e processi creativi che hanno trovato sintesi nella costruzione di un Centro di Produzione Indipendente.
alla cultura e alla ricerca e siamo consapevoli della necessità di inventare e far crescere processi innovativi di produzione culturale dal basso, in grado di liberare le forze creative e produttive. L’Asilo sta attivando un’altra economia fatta di scambi di saperi, pratiche e competenze in grado di innervare ed arricchire l’intero tessuto cittadino. La comunità di abitanti dell’ex Asilo porta avanti un Uso Civico della struttura animandola di iniziative e processi creativi che hanno trovato sintesi nella costruzione di un Centro di Produzione Indipendente. Cosa vuol dire un centro di produzione indipendente? Un centro di produzione culturale capace di districare i processi creativi, di ricerca, per creare nuovi modi per ripensare un mondo sommerso dalle conseguenze, sempre più drammatiche di una storia scritta da interessi personali ed egoistici, dai legami politici ed economici con le istituzioni, ma anche liberarli dalla sfera d’influenza di singole associazioni o personalità dominanti, garantire, dunque, l’indipendenza della produzione non soltanto dagli attori esterni, ma anche da quelli interni, gli stessi che la adoperano e rappresentano. A tal scopo abbiamo adottato
un modus operandi la cui alta definizione ci fa credere che, senza perdere il suo carattere spontaneo e informale possa permetterci di scindere il processo dal collettivo che lo ha avviato e aprirlo ad un’ampia comunità che andrà allargandosi continuamente. L’Asilo può e vuole diventare una fabbrica di sogni, una banca di saperi indipendente dalle intelligenze individuali e dai gusti e pareri personali ed ospitare, da oggi, e per i tempi a venire una soggettività multipla intenta a promuovere ed esprimere il benessere culturale e di sperimentazione di tutti i cittadini. L’assemblea di gestione, pubblica, dell’Ex Asilo Filangieri è il momento di interscambio tra i tavoli di lavoro (teatro, musica, cinema, arti visive, arti figurative, biblioteca condivisa, autogoverno, orto urbano) ed è l’occasione per confrontare e discutere i risultati prodotti e gli impegni futuri, il momento decisivo per determinare la produzione, l’autofinanziamento, la manutenzione dell’Asilo. L’assemblea è pronta ad accogliere anche interventi e proposte estemporanee e inconsuete, ma la partecipazione ai tavoli di lavoro è la condizione naturale per condividere e comprendere il processo civico in corso.
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DENTRO LA COMUNICAZIONE CONCETTI, CONCETTI, MODELLI, MODELLI, PERSONE PE RSONE “Divulgare “Divulgare significa far conoscere conoscere e comprendere comprendere non solo cose che ci appaiano misterose misterose e lontane, ma anche concetti ed espressioni espressioni che usiamo tutti i giorni in modo spesso inconsapev inconsapevole ole o superficiale. Far Far comprendere comprendere è dunque operazione operazione meritoria, fondamentale nei paesi anglosassoni dove dove l’approccio l’approccio divulgativo divulgativo della scienza è essa stessa una scienza e dove dove diventa diventa difficilissima la traduzione metafore opportuno traduzione pedissequa dei nostri testi spesso infarciti infarciti di concetti e metafor e che sarebbe sarebbe oppor tuno prima spiegare riguarda l’opera spiegare e poi esporre. esporre. Quando poi la divulgazione riguar da la comunicazione, non solo l’oper a è meritoria ma è soprattutto soprattutto coraggiosa”. coraggiosa”. Pinto)) (dalla postfazione di Ferdinando Pinto
Samuele Ciambriello Samuele Ciambriello, giornalista, è stato pr presidente esidente del Cor ecom Campania e componente del Comitato Nazionale Corecom TTvv e minor. minor. Attualmente è docente della Link Campus ed insegna ““Teoria Teoria e tecniche della comunicazione comunicazione”” all’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Salerno.
Michele Infante Teoria dell’informazione e della Dottore di ricerca ricerca in ““Teoria Michele Infante, Dottore versityy, ed ha sv comunicazione”, ha insegnato alla John Cabot Uno olto comunicazione”, Unoversity, svolto ricerca presso presso la New School for Social R esearch di New Y ork attività di ricerca Research York Universitat di Berlino. Berlino. Attualmente insegna “Corporate “Corporate Communication” e la Humboldt Universitat all’Università degli Studi Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli all’Università “Teoria e tecniche dei nuovi nuovi media” media” alla Link Campus University University di Napoli. e “Teoria
LA BUONA NOVELLA
Ilaria Ilaria Urbani Urbani
STORIE STORIE DI PRETI PRETI DI FFRONTIERA RONTIE RA
LLA A BUONA N NOVELLA OVELLA SStorie torie di p preti reti di ffrontiera rontiera
C COLLANA OL L A N A EDITORIALE E D I TO RIAL E WE CARE CAR E
Prefazione di Roberto Saviano
““Tredici Tredici uomini cor aggiosi che ci mostr coraggiosi mostrano dire parola ano quotidianamente cosa vvoglia oglia dir e la par ola missione, cosa signi fichi amar e il prossimo prossimo e cosa sia davv significhi amare davvero carrellata ero la chiesa. Questa carr ellata di storie necessarie, di esperienz e uniche, mostr esperienze mostra arrivare a chiaramente chiaramente come dal racconto, racconto, dalla denuncia possa arriv are il riscatto. riscatto. Come dal rracconto acconto di tredici tredici vite eccezionali, fatte di vittorie e spesso di sconfitte, sconfitte, si possa compr endere una terra terra e amarla anche se non ci appartiene. comprendere appartiene. Se poi quella è pr proprio oprio la tua terr terra, a, quella in cui sei nato e cr esciuto, ecco che queste esperienze esperienze ti danno le coordinate. cresciuto, coordinate. Ti Ti mostrano mostrano come che queste esperienz esperienze e ti danno le coordinate. coordinate. Ti Ti mostrano mostrano come poter vivere, vivere, come potercela potercela fare. fare. Come la disper azione può esser e tr asformata in sper disperazione essere trasformata speranza, anza, in vita.” prefazione (dalla pr efazione di Roberto Saviano) Saviano)
Ilaria Urbani Ilaria Urbani, giornalista, nata a Napoli nel 1980, collabor collabora a con “La R Repubblica” epubblica” e con il settimanale “D - La R Repubblica epubblica delle Donne Donne”. ”. Ha scritto per “Il Manifesto Manifesto”. ”. Ha collabor collaborato ato con Al Jaz Jazeera eera English e per l’emittente di stato gr greca eca E ERT. RT. Ha pubblicato un saggio sull’immigr sull’immigrazione azione nel libr libro o ““A A distanza d’offesa d’offesa”” (Ad Est dell’Equator dell’Equatore). e).
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UN GIUDICE PARTIGIANO DIRITTI, DI RITTI, POLIT POLITICA ICA E G GIUSTIZIA IUSTIZIA SOCIA SOCIALE LE A ALL TTEMPO E MPO DE DELLA LLA C CRISI R IS I dove Ma do ve sta scritto che un giudice debba rinunciare rinunciare a esprimere esprimere le sue idee politiche? ““sono sono un giudice e ho delle idee politiche politiche”. ”. La bellezza di Enzo Enzo Albano sta nella naturalezza naturalezza con la quale rivendica rimuovono, riv endica ciò che molti altri contestano, rimuo vono, negano, a destra destra come a sinistra. sinistra. È stata una profonda articoli scelta sapiente e pr ofonda quella di rraccogliere accogliere i suoi ar ticoli in materia di giustizia insieme a quelli strettamente più str ettamente legati all’attualità politica. Non esiste l’uomo togato scisso dall’uomo senza toga. l’uomo.. C’è chi vvorrebbe ridurre sorta depoliticizzato.. Enzo Esiste l’uomo orrebbe ridurr e il giudice a una sor ta di automa depoliticizzato Enzo Albano ha liberamente espresso rresistito esistito a questa de-umanizzazione e si è liber amente espr esso sulla politica e sui politici italiani, guerra, Palestina, democrazia sulla pace e sulla guerr a, su Cuba e sulla P alestina, sulla democr azia e sullo stato eccezionale. diritto.. La vita è qualcosa di ben più complesso rispetto al diritto Prefazione Gonnella)) (dalla P refazione di Patrizio Gonnella
Vincenzo Maria Albano magistrato, (1943 - 2011 †) magistr ato, giornalista, giurista, esponente di magistr magistratura atura democr democratica atica è stato, tr tra a l'altr l'altro, o, presidente pr esidente dell'undicesima sezione penale del TTribunale ribunale di Napoli e pr presidente esidente del TTribunale ribunale di TTorre orre Annunziata (Napoli) .
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CULTURA E FORMAZIONE
STORIA DEL PRIMO GOVERNO DOPO IL FASCISMO 106 |
di Vito Sansone
In mostra a Salerno la memoria delle tragedie del Novecento
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a Eboli a Salerno, andata e ritorno. Settant’anni dopo lo sbarco degli Alleati, la storia rivive nella memoria. Due musei, dove le truppe americane sbarcarono. Arrivarono dal mare per riconsegnare la libertà agli italiani. Le esperienze virtuose recenti tese a valorizzare la memoria delle tragedie del Novecento europeo (museo diffuso dello sbarco in Normandia e musei della Shoa) hanno spostato il baricentro della narrazione verso l’immagine e nuove forme di oralità, con l’interpretazione ragionata della storia che declina a vantaggio della sensazione, della simultaneità, dell’immediatezza e dell’impatto. Per questo, l’utilizzo delle immagini, dei suoni, dei sentimenti più in generale per ricostruire il modo in cui vennero percepiti e vissuti quei giorni drammatici da truppe di occupazione e popolazioni locali è uno degli aspetti più innovativi del progetto. Il MOA “Museum of Operation Avalanche” di Eboli ispirandosi a tali contenitori, è situato nell’antico monastero di Sant’Antonio, nasce il 9 Settembre di un anno fa con l’obiettivo di riportare al pubblico avvenimenti, documenti, luoghi e personaggi legati allo sbarco. Il Museo dispone di uno spazio multimediale e tridimensionale che attraverso immagini, musiche, video, fotografie e reperti è in grado di raccontare i diversi accadimenti legati agli eventi dell’Operazione Avalanche. L’aspetto emozionale rischia, tuttavia, se non è accompagnato da un parallelo processo di conoscenza, di finire, dice Giovanni De Luna come « un nastro magnetico dove si registra
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CULTURA E FORMAZIONE
sopra in continuazione», per questo accanto all’aspetto emozionale si è affiancato un vasto programma di approfondimenti scientifici sul periodo del Regno del Sud e più in generale sulla guerra “totale”, dove però non è la storia politica ad essere l’unica protagonista: «Per questo, l’allestimento statico del Museo, che occupa circa 1. 500 m², - dicono Marco Botta presidente Sofis che gestisce il Moa e Giuseppe Fresolone, storico e direttore del Moa - è improntato, da un lato, alla ricostruzione dell’aspetto militare con armi, divise, cimeli dei 4 eserciti protagonisti dei combattimenti, in buona parte frutto delle varie campagne di scavo intraprese nella zona dei combattimenti; dall’altro, con oggetti della cultura materiale dell’epoca, diari di guerra, documenti ufficiali e scritture private, a rievocare le condizioni Il MOA di Eboli è situato di vita, l’immaginario nell’antico monastero di collettivo, gli stili di vita delle comunità ca-pane Sant’Antonio, nasce il 9 che furono cata-pultate Settembre di un anno fa con al centro del conflitto più cruento della storia l’obiettivo di riportare al dell’uma-nità». pubblico avvenimenti, “Avalanche” è stata la più grossa operazione documenti, luoghi e anfibia mai realizzata personaggi legati allo sbarco. nella storia. Lo sbarco anglo-americano, secondo solo a quello della Normandia, avvenne nel limpido mare di Salerno, il 9 settembre del 1943. La “valanga” che si abbatté sul territorio salernitano e sul suo lunato golfo si estese in un’area compresa fra Maiori ed Agropoli. Furono impiegate 500 navi ed oltre 160 mila uomini, tra inglesi e americani, guidati dal generale Mark Clark, comandante della 5° armata. La città di Salerno si ritrovò, così, ad essere protagonista di uno degli episodi più incisivi della seconda guerra mondiale, che consentì il primo ingresso in Europa degli alleati. Il “D - Day” scattò alle 3, 30, a poche ore dalla firma dell’armistizio di Badoglio. Il compito della quinta e ottava armata fu quello di colpire alle spalle i tedeschi che risalivano dalla Sicilia. Tutto il conflitto costò 50 milioni di vittime e solo a Salerno tra i civili, di morti se ne contarono 700. Fin qui dai libri e da testimoni, le notizie storiche, dal 28 settembre, invece, l’“Operazione Avalanche” è divenuto
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anche a Salerno un museo, allestito dall’associazione Parco della Memoria della Campania, nei locali Di Via Generale Clark, un segno del destino, messi a disposizione dalla Regione. All’interno del museo si trovano divise, cimeli, documenti, manifesti, armi, materiali bellici, e persino un carro armato, alloggiato all’esterno insieme ad un mezzo da sbarco che fa bella mostra di sé. Lo spazio espositivo si serve di reperti e testimonianze, sapientemente raccolti da ogni parte del mondo e farà parte di una rete di nuovi musei, come quello che sarà situato a Napoli, sulle “4 giornate”, famose per aver determinato, a furor di popolo, la cacciata dei tedeschi dalla città e quello di Caserta sulle “stragi naziste” che nel territorio giustiziarono 800 civili con colpo alla nuca, non risparmiando neanche i bambini. “Lo sbarco e Salerno Capitale”, questo il titolo dato alla mostra, che sinteticamente racchiude il periodo in cui la città di Salerno entrò di diritto nella storia. La liberazione dell’Europa partì da Salerno, dice lo storico Nicola Oddati, docente universitario e presidente dell’associazione “Parco della Memoria”, citando Winston Churchill e sempre a Salerno, più tardi, divenuta capitale d’Italia, dal 10 febbraio al 15 luglio, si posero le basi della costituzione Italiana, L’associazione “Parco della Memoria” è stata ideata da Eduardo Scotti, giornalista salernitano di Repubblica, di cui è il segretario e come suo è il progetto che tenderà ad unire in rete nuovi musei per la conservazione della memoria. Pannelli di varia misura tappezzano tutto lo spazio a disposizione per racchiudere le drammatiche sequenze fotografiche di quei giorni, mentre nelle teche luminosissime si conserva materiale prezioso, perfino il berretto di un marinaio della nave “Nelson” su cui si firmò “l’Armistizio lungo” del 29 settembre ed ancora, un lucido paracadute di seta bianca e vecchie divise di guerra, fornite dalla Brigata Garibaldi, tra cui quella del tenente Antonio Amato, futuro generale, che partecipò alla battaglia di Mingano Montelungo, la prima combattuta dagli italiani a fianco degli alleati. «Un dato da tener presente - dice Eduardo Scotti - che in questo anno ricorre il settantesimo anniversario dello sbarco. A questo evento la città giunge impreparata, anzi è da considerarsi un attrattore in più per lo sviluppo turistico a cui si prepara. Basti pensare che per
Eduardo Scotti segretario del Museo dello Sbarco di Salerno.
il 6 giugno 2014, anniversario dello sbarco in Normandia, in quel luogo, non certo ricco di attrattive, di cui noi siamo abbondanti, ci sono già un milione e duecento mila prenotazioni, solo per l’evento». In quel settembre del 1943, l’Italia, il golfo di Salerno, la piana del Sele, avrebbero vissuto giorni di sangue e di lotta, di aspri combattimenti e gesta eroiche. Giorni di guerra, giorni di liberazione, che restano scolpiti nei ricordi della popolazione e di un intero territorio. Un evento che avrebbe cambiato la storia, l’Italia, la guerra mondiale e il destino di tutto il mondo. Possibili alternative al golfo di Salerno erano il golfo di Gaeta, scartato perché localizzato ad una distanza eccessiva dalla Sicilia, ed il golfo di Napoli, il quale era stato però minato per evitare gli sbarchi nemici. Solo apparentemente, però, il golfo di Salerno presentava caratteristiche morfologiche favorevoli ad uno sbarco. Le spiagge erano ampie, la visibilità apparentemente ottima, ma la piana ai lati del fiume Sele era stretta e lunga e dominata da alture che permettevano ad eventuali difensori di tenere sotto tiro le spiagge, i mezzi da
sbarco e le navi rimaste in rada da una posizione dominante: un vantaggio tattico di non poco conto. Gli obiettivi dell’operazione erano ben precisi: gli Alleati volevano prendere alle spalle i Tedeschi che si ritiravano attraverso la Calabria dopo aver abbandonato la Sicilia, impadronirsi dell’Italia meridionale e utilizzare gli aeroporti per attaccare obiettivi sensibili e strategici, raggiungere Napoli e liberare Roma. Nel momento in cui i soldati iniziarono a prendere terra, l’aviazione tedesca diede inizio ad una serie di attacchi aerei sulle navi in rada e sui mezzi da sbarco, provocando gravi perdite tra le file alleate. Per risposta i cacciatorpedinieri alleati dapprima misero a silenzio l’aviazione, e poi con la novità dell’utilizzo dei lanciarazzi, misero a tacere anche le difese costiere. All’apparire dell’alba, gli alleati erano arrivati alle porte di Cava de’ Tirreni ed una loro pattuglia, sul ponte di San Francesco, ebbe un primo scontro a fuoco con i tedeschi i quali concentrarono i loro carri armati lungo il Corso Umberto. La popolazione abbandonò il Borgo e si sparpagliò per la campagna mentre i soldati tedeschi, per approvvigionarsi, scassinarono le tabaccherie. Il 15 settembre, i tedeschi diedero inizio ad un piano di ritiro graduale, che prevedeva la distruzione di tutto ciò che era impossibile portar via e la cattura degli uomini da condurre nei campi di concentramento. L’offensiva finale vide la luce il 23 settembre: in quel giorno, fu superato il Passo di Molina di Vietri, lungo la SS18, per giungere a liberare l’Agro Nocerino Sarnese e portare l’ultimo attacco verso Napoli. La resistenza tedesca fu decisa. Prima di abbandonare Cava, i tedeschi provvidero a far saltare il ponte di San Francesco sulla strada nazionale e il ponte sulla ferrovia presso Villa Alba, allo scopo di ritardare l’avanzata degli anglo-americani, i quali però, in poche ore, ristabilirono la comunicazione con Salerno, mentre per l’avanzata dei loro carri armati si erano serviti della strada ferrata che i tedeschi non avevano toccata. Il 28 settembre la battaglia di Cava era conclusa e gli Alleati procedettero verso Napoli: l’operazione Avalanche era conclusa.
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CULTURA E FORMAZIONE
I TESORI DIMENTICATI
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di Beatrice Crisci
Percorsi di riqualificazione della Reggia di Caserta e di Carditello
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erra di Lavoro, terra borbonica. Qui il genio di Luigi Vanvitelli ha lasciato segni tangibili della sua grandezza, sia firmando in prima persona alcune opere colossali come la Reggia di Caserta e l’Acquedotto Carolino con i relativi Ponti della Valle, sia influenzando altri architetti di corte che pure hanno realizzato opere insigni. Tanta magnificenza ma oggi anche tanto degrado. Il maestoso Palazzo Reale vede la sua regalità offuscarsi per una crisi che è soprattutto economica. Difficile garantire una manutenzione adeguata quando le risorse diventano sempre più insufficienti. Eppure questo è un monumento consacrato nel 1997 dall’Unesco come bene di interesse mondiale. Un patrimonio che meriterebbe un’attenzione straordinaria e che invece ha la sfortuna di trovarsi in un territorio che non lo valorizza a dovere, come spesso viene denunciato dall’associazione Italia Nostra. Il Palazzo Reale ha subito ogni tipo di offesa: cementificazione selvaggia intorno al Parco, cave che fanno da fondale alla magnifica prospettiva ideata dal genio Vanvitelli, incuria negli spazi limitrofi, eterni venditori abusivi. Questo il grido d’allarme che si leva dal sodalizio che non risparmia critiche sulla
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CULTURA E FORMAZIONE
gestione della struttura. “Il vasto parco – racconta la presidente di Italia Nostra Maria Carmela Caiola – è lasciato nell’abbandono. Scarsi i fondi per la manutenzione, penuria del personale addetto alla vigilanza, utilizzo improprio come campo di calcio improvvisato o prato per picnic”. È questo il momento delle accuse reciproche e della difficoltà di dialogo tra istituzioni. Bisogna però sottolineare che, nonostante il momento oggettivamente difficile e travagliato, la Soprintendenza risponde cogliendo l’occasione per proporre a Caserta una mostra reduce dai successi del Palazzo delle Esposizioni di Roma e dello Spazio Oberdan di Milano, ovvero l’esposizione di fotografie di Robert Doisneau, che saranno visibili negli Appartamenti Storici nei prossimi
è la Reggia di Carditello che si trova in un drammatico stato di degrado, in un’area circondata da discariche legali e illegali, oggetto di atti vandalici e furti, che hanno colpito anche la parte centrale del complesso, restaurata anni fa dal Ministero per i Beni Culturali con i fondi del gioco del lotto. La masseria di Carditello, che nacque e si sviluppò a partire dalla seconda metà del ‘700, per volere di re Carlo III di Borbone e del figlio Ferdinando poi, come polo agricolo e zootecnico innovativo e d’eccellenza, sulla scorta della “città dell’utopia” di San Leucio, attende per il prossimo 20 giugno un doloroso verdetto, quello dell’ennesima battuta d’asta la cui base è fissata a dieci milioni di euro. Questo è quanto vale sul mercato una delle opere più significative del Sette-
Il maestoso Palazzo Reale vede la sua regalità offuscarsi per una crisi che è soprattutto economica. Difficile garantire una manutenzione adeguata quando le risorse diventano sempre più insufficienti. Eppure questo è un monumento consacrato nel 1997 dall’Unesco come bene di interesse mondiale. giorni. Sicuramente questo è un test di buon profilo che riesce a mettere da parte almeno per un momento le polemiche. Però è anche una risposta ed è la conferma che la Reggia deve essere volano di iniziative altamente qualificate. È sul piano delle attività culturali che il monumento potrà riaffermare la sua capacità di attrazione. Il Real Palazzo deve essere vivo e si deve alimentare della sua linfa naturale che non può essere altro che un’adeguata programmazione di eventi. Non solo la Reggia, ma anche il Real Belvedere di San Leucio e l’intero percorso dell’Acquedotto Carolino meritano di essere rivalutati e riqualificati. L’Acquedotto Carolino, in particolare, versa nell’abbandono: sempre più insistente la voce secondo la quale la Soprintendenza stia progettando di dismetterne la gestione, per consegnare il bene alle due Province interessate, con conseguenze preoccupanti per la frammentazione della gestione e per la mancanza di risorse finanziarie. Ultima tappa del nostro percorso borbonico
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cento italiano. Va detto, però, che negli ultimi anni, solo grazie all’incessante azione finalizzata alle aperture straordinarie del sito reale, operata dal consorzio di associazioni riunite sotto la bandiera di “Agenda21”, è stato possibile sottrarre la piccola perla barocca di campagna al degrado, all’abbandono e all’incuria cui sembrava essere destinata. Le ultime tre riaperture hanno contato più di 10.000 presenze e la loro perfetta riuscita è stata garantita dall’attività delle oltre 100 associazioni che hanno adottato il Real Sito. A correre in soccorso del monumento in agonia è anche l’arte. Cento artisti con generosità, con senso di responsabilità, centosei autori, per la precisione, hanno messo a disposizione le loro opere per un’asta che possa salvare Carditello dalla sua condanna a morte. Gli artisti hanno scritto il loro patto con la storia. Ora toccherà al mondo non perdere l’occasione per acquistare arte e al tempo stesso donare vita all’alta testimonianza borbonica. A ospitare l’evento “Cento Artisti
La Reggia di Carditello si trova in un drammatico stato di degrado, in un’area circondata da discariche legali e illegali, oggetto di atti vandalici e furti, che hanno colpito anche la parte centrale del complesso, restaurata anni fa dal Ministero per i Beni Culturali con i fondi del gioco del lotto.
per Carditello” è stato sabato 18 maggio e domenica 19 il Palazzo Mazziotti di Caiazzo. Una mostra e un’asta di beneficenza per le riaperture del Real Sito borbonico. Nell’occasione verranno esposte ben 113 opere. L’evento nasce da un’idea di Paola Riccio, presidente dell’associazione I Piatti del Sapere, nonché componente del Consiglio Direttivo di Agenda 21, con la preziosa collaborazione di Gabriella Ibello, responsabile di Nuovorinascimento, che ha curato l’allestimento della mostra e il catalogo virtuale. Scopo dell’evento è la necessità di reperire fondi che consentano di affrontare le
spese che ogni riapertura comporta, da quelle da corrispondere al Giudice della Sezione espropriazioni immobiliari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, alla sorveglianza, all’assicurazione, alle piccole manutenzioni, all’organizzazione di congressi, eventi, visite guidate, per poter offrire ai visitatori la migliore accoglienza. Tra gli oltre cento artisti, che hanno con la loro generosità aderito al progetto, ci sono nomi di prestigio campani, ma anche provenienti dal Belgio, Roma, Jesi, Barletta, Lecce, Pescara, Milano, Latina. | 113
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