Anno 2014 || Link n°2

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QUI ED ORA Lo tsunami delle Europee. Interventi di de Giovanni, Casavola e Di Maio

OFFICINA DELLE IDEE Cambiare la Costituzione con saggezza. Abolizione del Senato: alibi o panacea?

CULTURA E FORMAZIONE

ANNO II | NUMERO 2 | € 4,00

Viaggio nella II Università di Napoli. L’altra Campania! Cilento e alta Irpinia

Il lavoro prima di tutto! Le norme in sè non creano lavoro. Il Jobs act di Renzi


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lettere ed opinioni Una bella testimonianza di amore Caro Direttore, mi ha molto colpito questa lettera piena d’amore che ho ricevuto da una donna che viene a pregare da una località vicina nella nostra Rettoria S. Maria della Speranza. “Sono una mamma di 53 anni con un marito e due figlie. L’anno prossimo, se Dio vuole, festeggiamo 25 anni di matrimonio. Ritengo che non sia facile far camminare nella tranquillità quotidiana e soprattutto economica, ma nel rispetto dell’amore profondo e reciproco di entrambi. Personalmente il nostro amore è sempre lievitato come il pane, e non come il giorno del matrimonio ma ben oltre, giorno per giorno, anno per anno, si diventa “una cosa sola”. L’amore nostro è talmente grande che non si può fare a meno l’uno dell’altra. Purtroppo non è per tutti l’unione solidale, ci sono tante situazioni (separazioni), aumentano sempre di più ed a pagarne le spese sono sempre i figli. Nella nostra società, nel nostro mondo di oggi del presente e del futuro c’è un elemento più importante su cui fare affidamento e che può dare un po’ di sicurezza: la famiglia. La famiglia cristiana non è perfetta, non è di pietra, ma è semplicemente pulita, coraggiosa e serena.” Domenico Pizzuti

A Benevento la pelle tra arte e scienza Caro Direttore, in questi mesi ho avuto modo di apprezzare la sua rivista per il taglio interdisciplinare e per l’apertura culturale perseguiti. D’altronde il nome “link” non può che evocare correlazioni a catena e rimandi ai collegamenti ipertestuali. Le voglio quindi anticipare la notizia di un evento che si terrà a Benevento dal 24 al 27 settembre. L’appuntamento è costituito dal congresso nazionale annuale dei dermatologi ospedalieri, riuniti sotto la sigla ADOI. Il convegno avrà un forte impatto visivo con la città, collocando una struttura temporanea proprio davanti alla Rocca dei Rettori e varie sedi del centro storico saranno coinvolte come sale congressuali e come sedi conviviali. E il territorio ha risposto proponendo attività e manifestazioni che si terranno proprio in concomitanza della “quattro giorni” scientifica. Mostre d’arte, di fotografia, finanche di filatelia, incontri a carattere sociale, oltre a un concerto jazz, si alterneranno nel periodo del congresso, spesso avendo come tema proprio la valenza simbolica della pelle. Tanto da determinare un programma di eventi che andrà sotto il titolo di “Dentro e fuori la pelle”. Il punto concettuale di partenza sarà che il corpo umano, anche se determinato dalla genetica e dalla biologia, certamente ha dimensioni fisiche, sociali, politiche, tecnologiche e simboliche. Spero, Direttore, di averla incuriosita e interessata per quella che sarà una manifestazione dai caratteri profondamente innovativi. Enzo Battarra

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lettere ed opinioni Mondiali di calcio sì, ma occhio ai diritti umani Caro Direttore, Le scrivo mentre sono in corso i mondiali di calcio 2014 proponendole alcune considerazioni che vanno oltre lo “spettacolo”. Il Brasile della manifestazione sportiva più importante e famosa al mondo sembra voler nascondere ai turisti e ai riflettori dell’intero pianeta la povertà che caratterizza le zone meno fortunate del Paese. I Mondiali di calcio infatti, per le periferie più degradanti del Brasile, sono sinonimo di autentico disagio: le abitazioni di interi quartieri popolari sono state abbattute ed è stata messa a punto una vera e propria ingiustificabile “pulizia umana”. A pagare le spese per un biglietto da visita più decoroso sono stati adulti e bambini a cui è stata sottratta la propria povera dimora a favore di parcheggi e residenze per i turisti del calcio. Paradossalmente, nel Paese in cui non c’è abbastanza denaro per costruire strutture per la quotidianità, sono stati organizzati i Mondiali di calcio probabilmente più costosi della storia. Dinanzi ad un maestoso stadio che dopo i Mondiali diventerà un carcere temporaneo (lo stadio di Manaos “Arena Amazonia”), all’allarme sanitario e all’emergenza povertà, c’è da chiedersi se la lente d’ingrandimento che poserà sul Brasile in festa di questi mesi, si allargherà anche sul piano geopolitico per il rilancio delle ambizioni del Paese carioca, dando un po’ di luce alle vaste aree lasciate nell’oscurità. Franca Pietropaolo

Riforma del Senato: urgenza e miti da sfatare Caro Direttore, vorrei sintetizzare l’esame di un argomento che meriterebbe un trattato di discreta lunghezza ma limiterò ad alcune considerazioni. Ragioni ideologiche di basso profilo, hanno impedito all'Italia di dotarsi di un sistema agile e democratico di approvazione delle leggi, condannando la normazione a funzionare soprattutto grazie all'attività del Governo; di tal ché, un iter che avrebbe dovuto garantire l'approvazione di norme quanto più ponderate ed inclusive possibile, ha rappresentato, nei fatti, un autentico volano per la decretazione delegata o d'urgenza, che è quanto di meno democratico e ponderato esista in natura. Non è questa la sede per elencare i guasti, le inefficienze, le antinomie e l'ipertrofismo della legislazione (soprattutto penale) italiana; questa è la sede per rammaricarsi del tempo perduto se, a quasi vent'anni dalla bicamerale per le riforme, oggi siamo costretti a “correre” per dare finalmente il senso che qualcosa impercettibilmente si muova. Il voto del 25 maggio dovrebbe dare una discreta accelerazione alle riforme istituzionali; dovrebbe. Credo che Matteo Renzi, il Premier che vuole “fare”, non sia sufficientemente affiancato nella sua corsa dal sistema politico-istituzionale-burocratico e dottrinario che, piuttosto, frena. E, dunque, dopo vent'anni di sofismi inconcludenti, per le concrete proposte di riforma bisogna ancora attendere e sperare. Mi preme sottolineare l'urgenza delle riforme, che venivano già definite improcrastinabili ed indefettibili all'epoca del mio corso di diritto costituzionale. Esattamente 17 anni fa. Alessandra Iadevaia Cara Alessandra, in questo numero di Link, in Officina delle idee, abbiamo esaudito la tua richiesta. Parliamo delle riforme, della legge elettorale e dell’abolizione del Senato. Spero con moderazione e saggezza. (S.C.) 4 |



SOMMARIO

Foto di copertina di Salvatore Laporta

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QUI ED ORA EDITORIALE - L’Italia c’è ed è di più della paura Samuele Ciambriello

Europee: cosa è successo al nazionale Massimo Adinolfi

In Italia c’è una democrazia non bipolare Pietro Perone

Lo tsunami delle Europee Umberto De Gregorio

Il politologo Marco Tarchi analizza e bastona Anna Summonte

Intervista a Biagio de Giovanni Non mi sembra di vedere nel mezzogiorno una nuova classe dirigente Marcello Curzio

La vittoria del radicamento e del partito Marco Staglianò

Quadro politico regionale delle Europee Marcello Curzio

Intervista a Luigi Di Maio Il Grillo Rampante dei Cinque Stelle, da Pomigliano a Montecitorio a cura di Anna Summonte

Continuare il lavoro di Matteo Renzi anche a livello locale a cura di Pierluigi Melillo

OFFICINA DELLE IDEE - Il sistema delle riforme Europa – Italia: il cammino delle riforme Anna Malinconico

Cambiare la Costituzione ma con saggezza Domenico Lucà

Intervista a Diego Lazzarich Il risultato delle elezioni europee e i nuovi scenari politici a cura di Maria Beatrice Crisci

Sul tema delle riforme che cosa è successo nel Pd Laura Puppato

Nuove Province dal futuro ancora incerto a cura di Pellegrino Giornale

APPROFONDIMENTI Il sistema delle partecipate pubbliche: la scheda Marianna Quaranta

La funzionalizzazione pubblica delle società partecipate Alberto Barbiero

Enti locali ed organismi partecipati Gianluca Battaglia

Il tema dei trasporti nelle partecipate pubbliche: l’esperienza di Sepsa Raffaello Bianco

Intervista a Giuseppe Maisto La partita dei finanziamenti europei va ancora giocata a cura di Samuele Ciambriello


Link. 56 60 63 66 67 69 75 77 78 80 82 84 86 88 90 94 96 99 101 104 105 107 110 112

SPECIALE: Jobs act di Renzi Verso una nuova Europa? Priorità al lavoro e all’innovazione Massimo Lo Cicero

Il cd. decreto Poletti e la “liberalizzazione” del contratto a termine Paola Saracini

Jobs Act: pensavo fosse un buon lavoro, invece è ancora flessibilità Francesco Pirone

L’impatto della proposta renziana sull’occupazione Anna Rea

Le norme in sé non creano lavoro Franco Tavella

CULTURA E FORMAZIONE SUN, viaggio all’interno della Seconda Università di Napoli Maria Beatrice Crisci

Diritto allo Studio Gennaro Zollo

Omaggio al bello e alla cultura a cura della Redazione

Il Premio Strega arriva a Benevento con note a sorpresa e storie speciali Rosaria De Bellis

Un piano per ricucire la città di Salerno Mico Capasso

Gaetano Pascale, un agronomo Sannita per Slow Food Italia Pellegrino Giornale

Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni Peppe Tarallo

Intervista al sindaco Marino Sarno L’altra Campania quella degli spazi e dei paesaggi Marco Staglianò

L’Aeronautica fuori dalla Reggia: scoppia la querelle tra Governo e Comune Maria Beatrice Crisci

La strada dei veleni tra il Vesuvio ed il mare Raffaele Perrotta

Il carisma e la missione di Rino Fisichella Pellegrino Giornale

Educare in tempo... Antonio Borriello

Piano di Zona di Battipaglia Salvatore Gargiulo

WELFARE Un viaggio a Scampia tra le associazioni che operano per la Pace e per i giovani Raffaele Perrotta

Il campanello di Ida Claudia Procentese

“La gente chiede la certezza della pena. A quale scopo?” Don Virgilio Balducchi

Il contrassegno dei disabili secondo il modello UE Claudio Roberti

recensione - In nome delle curve Fabrizio Denunzio

recensione - Il catechismo del pallone Nicola Mastrocinque

Trimestrale di Cultura e Formazione politica Anno II, numero 2, 2014 Registrazione del Tribunale di Napoli n. 52 del 09 ottobre 2012 ISSN - 2282-0973 Direttore Responsabile Samuele Ciambriello Coordinamento Editoriale Marianna Quaranta Comitato Editoriale Massimo Adinolfi Sergio Barile Filippo Bencardino Luca Bifulco Antonio Borriello Paola Bruno Gian Paolo Cesaretti Umberto De Gregorio Dario Stefano Dell’Aquila Francesco Fimmanò Salvatore Gargiulo Nicola Graziano Giovanni Laino Massimo Lo Cicero Anna Malinconico Marco Musella Marino Niola Stefania Oriente Gianfranco Pecchinenda Patrizia Perrone Francesco Pirone Paolo Ricci Francesco Romanetti Marco Staglianò Segreteria di Redazione Tel. +39 081.19517494 Fax. +39 081.19517489 e- mail: info@linkabile.it Editore LINKOMUNICAZIONE S.r.l. Amministratore unico: Silvio Sarno Centro Direzionale Isola G/8 80143 Napoli P.IVA /Cod. Fisc. 07499611213 Amministrazione e Abbonamenti Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Tel. 081 19517508 Fax 081 19517489 Dal lunedì al venerdì 9,30 - 14,00 e- mail: info@linkabile.it Abbonamento annuale 15,00 euro conto corrente postale intestato a: Linkomunicazione S.r.l.: C/C 001013784739 oppure, bonifico bancario sul conto intestato a LINKOMUNICAZIONE S.r.l. IBAN: IT24W0760115100001013784739 Foto di Agenzia Controluce Via Salvator Rosa, 103 - Napoli Fotocomposizione e stampa Poligrafica F.lli Ariello s.a.s. Corso Amedeo di Savoia, 172 - Napoli | 7


EDITORIALE L’Italia c’è ed è di più della paura Vittoria straordinaria e storica del Pd di Renzi. Nel Paese gli astenuti restano il primo partito. Grillo arretra. Berlusconi cade. La corruzione aumenta.

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difficile dare spazio a molte interpretazioni sul risultato delle Europee. Andiamo con ordine. Vince Renzi e lo tsunami si chiama Pd. In un’Europa dove i cittadini puniscono i governi in carica ed avanzano gli euroscettici, il Premier Renzi questa sfida la vince, anzi la stravince ed è Grillo, questa volta a prendersi “il Malox”. Sconfitto il populismo, la rabbia non paga, Grillo arretra. Grillo al 21%, perde tre milioni di voti rispetto alle elezioni politiche dello scorso anno. Debacle di Forza Italia che scende al 16%. Berlusconi cade. Si chiude definitivamente l’era di Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra di Alfano, super imbottito di uomini di governo e potere si salva superando la quota del 4% Forza Italia, con i suoi alleati, resta comunque il secondo polo, anche se ridimensionato e in molte parti d’Italia terzo partito. Fa notizia anche il flop dei “montiani”, che passano dall’8% preso alle lezioni politiche ad un modestissimo 0, 9%. Segno che i suoi rappresentanti oltre che miracolati non sono nemmeno radicati sui territori provinciali. Ai postfascisti della Meloni non basta l’onda francese. Risorge il carroccio grazie a Salvini che prende nel Mezzogiorno, lui come preferenze 12. 553 voti. Mi avvalgo della facoltà di non capire. «Un risultato storico, ma ora serve umiltà e

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lavoro. Ora al lavoro per un’Italia che cambi l’Europa» a fari accesi il premier Renzi, che ora può festeggiare quello che nessun leader della sinistra italiana ha mai ottenuto e cioè una vocazione maggioritaria forse finalmente compiuta. Il Pd passa dal misero 25% alla sognata soglia psicologica del 30% fino al miracolo del 40%, cioè una vittoria straordinaria del suo uomo solo al comando. Governo stabile e Merkel avvisata. Pronto Renzi a chiedere in Europa una poltrona forte. A chiedere e fare le riforme strutturali in Italia, come dice lui e quando dice lui. Sommessamente però ricordo al Premier che sui territori c’è il volto sfigurato dei suoi dirigenti, le lotte intestine dei ras, poca democrazia interna e anche come è successo anche per le Europee, mancato coinvolgimento della base per scegliere i candidati. Ed ancora ricordo, ma a tutti, che nel Paese gli astenuti restano il primo partito. Il dato delle Europee rappresenta il nuovo primato negativo: i votanti per la prima volta sono scesi al di sotto del 60%. Gli elettori sono spaventati, arrabbiati per una politica che giudicano troppo autoreferenziale, incurante dei bisogni dei cittadini, troppo dedita a litigare e in molti casi a rubare. L’astensionismo, sebbene abbia motivazioni diverse e rappresenti classi sociali diverse, deve far riflettere e far mettere in campo so-


di Samuele Ciambriello

luzioni. Renzi sa bene della diaspora del centrodestra, che i grillini restano sempre protagonisti, così come i suoi alleati di governo lo continueranno a pungolare ma lui ha il consenso elettorale dalle dimensioni plebiscitarie ed un’arma micidiale quella delle elezioni anticipate. Ma Renzi sa anche che l’Italia c’è ed è più forte della paura. Vediamo nel dettaglio la vicenda dei flussi elettorali. Il Pd è il primo partito in Italia, è una novità assoluta. È il primo partito in tutte le province italiane con l’eccezione di Isernia Sondrio e Bolzano. Va ricordato subito che mancano sette milioni di voti che si erano espressi alle ultime Politiche del 2013 e che non si sono “presentati” alle Europee. Il Pd di Renzi appare un post-partito personale e suggestivo, aggregante ed in fieri, unitario (dal punto di vista delle legioni interne) e su scala nazionale. Fino allo scorso anno la base elettorale del Pd era concentrata nelle regioni dell’Italia centrale nella zona rossa. Oggi il Partito democratico è nazionale, ha coinvolto nella sua crescita le regioni del Centro, ma anche territori ostili alla sinistra, come il mitico Nord-Est e ritorna alla grande al Sud. Dovunque recupera un consenso dei ceti medi autonomi, dei liberi professionisti, quelli delle partite iva, degli imprenditori. Un anno fa il partito più votato dagli artigiani risultava il M5S. Sembrano, quindi, inutili e fuorvianti le analisi di Grillo e del giovane Di Maio che parla del voto giovanile e censura il voto degli anziani. Il Pd ha guadagnato oltre due milioni e mezzo di voti in un anno, mentre il M5S ne ha perduti quasi tre. Il Pd si è avvantaggiato della fiducia personale di Renzi, ma anche della sua organizzazione, della ritrovata compattezza interna. Il Pd recupera tra i pentastellati, al nord tra i leghisti e quelli di Scelta civica. Il Pd conquista 7 elettori berlusconiani su

100. Primato per il Pd anche tra i 18-24enni. Insomma Renzi svuota il centro e recupera parte importante del voto che nel 2013 era transitato verso Grillo infine il voto cattolico, che ci aiuta a capire gli spostamenti in un anno. Il Pd ottiene la percentuale più alta tra i fedeli che frequentano assiduamente le Chiese. Il contrario di quanto storicamente avveniva per i partiti di sinistra, dove solo una piccola parte, anche considerevole era catto-comunista. Il M5S ha tra i suoi punti di forza l’elettorato non cattolico. Il voto europeo recupera quindi una trasversalità del Pd, sia in termini politici che in termini sociali. Si è aperta una nuova fase, molto fluida. Ed in questo senso il consenso va mantenuto e riconquistato soprattutto tra gli elettori “liquidi!”. Credo che la vittoria schiacciante di Renzi, il suo recupero sia dovuto soprattutto a questi tre fattori o aspetti: la proposta autorevole di governo del fare e di rapporto con l’Europa, senza subalternità o cappello in mano, la capacità di promuovere temi simbolici e gridati da Grillo (costi della politica, peso della burocrazia, abolizione delle Province e del Senato, vendita di auto blu...), ed infine il coraggio personale, ci ha messo la faccia, a volte di un angelo presepiale, a volte quella sorridente di chi non fa politica per mestiere. Renzi vuol cambiare il Paese. Adesso ha più forza e più slancio per provarci. Diciamo la verità è più forte il disgusto quando leggo dei politici e degli amministratori della cosa pubblica che, approfittando del potere, rubano, corrompono e si lasciano corrompere. Non vorrei che scomparisse l’indignazione dei cittadini onesti. Evitiamo la rassegnazione. 

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Foto di Mario Laporta

QUI ED ORA


di Massimo Adinolfi

* Professore Associato,

Europee: cosa è successo al nazionale

Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute presso l’Università di Cassino

Incrinata la fiducia nel progetto europeo

Le prospettive e l’Europa politica Se dunque le forze politiche euroscettiche hanno ottenuto un successo significativo, non è per caso o per una congiuntura sfavorevole, ma per un limite strutturale dell’europeismo istituzionale. Quello che ci ha portato sin qui, e che non riesce a portarci oltre.

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acciamo due conti. Se si sommano i neoeletti al Parlamento europeo che non appartengono ad alcun gruppo politico, o ad alcun gruppo politico del Parlamento uscente, si arriva alla non modica quantità di 101 parlamentari. 101 su 751: una forza parlamentare di tutto rispetto. Che cerca casa. Che non si riconosce nelle famiglie politiche tradizionali, e che mantiene diffidenza e una certa qual estraneità alle liturgie di Bruxelles. I due principali raggruppamenti politici, quello dei popolari e quello dei socialisti (quest’ultimo ridenominato. Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo, un nome che neanche Lina Wertmüller), sommati insieme contano in tutto 405 rappresentanti, poco più della metà. Sono sufficienti questi pochi numeri per capire il significato del voto dello scorso 25 maggio. Noi siamo abituati a leggerlo in chiave nazionale, anche perché tutta la campagna elettorale si svolge – e anche questa volta si è svolta – con argomenti che poco hanno a che fare con le politiche europee. Al dato nazionale occorrerà dunque dedicare tre brevi considerazioni finali. Eppure il dato più significativo emerge con chiarezza solo se si guarda al contesto generale. E quel dato mostra con evidenza una cosa: che la fiducia nel progetto europeo è oggi parecchio incrinata. Che i partiti maggiori non sono più tanto maggiori. C’entra la crisi, naturalmente, e una disciplina di rigore finanziario che deprime i consumi, frena gli investimenti, restringe gli spazi del credito bancario alle imprese e alle famiglie. Ma c’entra anche il cono d’ombra in cui sem-

bra precipitata l’intera architettura europea. Basti pensare che in queste elezioni era per la prima volta in gioco la Presidenza della Commissione: con un’analogia purtroppo molto approssimativa, si tratta pur sempre del Primo Ministro dell’Unione. I socialisti hanno candidato il tedesco Martin Schultz, i popolari hanno candidato il lussemburghese Jean-Paul Juncker. Ma quanti elettori europei hanno sentito di contribuire a questa scelta? E quanti hanno voluto considerarla decisiva? Il risultato, peraltro, costringe molto probabilmente i due principali schieramenti a tentare un accordo, e soprattutto affida l’intesa a un processo lungo e complesso, e a trattative fra governi che si concluderanno solo in autunno, rendendo così molto labile agli occhi dell’opinione pubblica il rapporto tra la figura del Presidente e l’esito del voto di maggio. Se dunque le forze politiche euroscettiche hanno ottenuto un successo significativo, non è per caso o per una congiuntura sfavorevole, ma per un limite strutturale dell’europeismo istituzionale. Quello che ci ha portato sin qui, e che non riesce a portarci oltre. Oltre Maastricht, oltre un concerto di regole che sembra pensato per conservare l’esistente, e incapace di indicare una prospettiva. La prospettiva è infatti l’Europa politica. Ma al momento si tratta di un’esigenza vaga, più che di un programma realistico. E soprattutto di un’esigenza che sembra ritagliata su misura per alcuni, non per tutti. Il nodo della moneta unica, e le politiche di austerity che lo hanno stretto attorno al collo delle economie periferiche, è infatti ben lungi dall’essere allentato. Prende così forma una contrapposizione esi-

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QUI ED ORA

ziale: da una parte i partiti europeisti tradizionali, che difendono l’Europa come spazio inclusivo di diritti e di libertà, dall’altra un brusco richiamo alla volontà calpestata dei popoli e alla difesa esclusiva degli interessi nazionali. La pace e i commerci rischierebbero un’altra volta di urtarsi contro muri di incomprensione, eretti per difendere comunità nazionali un’altra volta ripiegate su se stesse. L’Europa – prima la Comunità, poi l’Unione – è stata costruita politicamente proprio per evitare questo rischio. Ma ora il rischio si ripresenta: con le formazioni apertamente reazionarie che hanno ottenuto risultati sorprendenti in Austria e Danimarca; con il clamoroso successo del Front National di Marine Le Pen, divenuto in Francia il primo

Un’ Europa così non può andare da nessuna parte: i nazionalismi e i populismi euroscettici mettono in pericolo i progressi compiuti nei decenni scorsi partito; con l’altrettanto clamorosa affermazione, in Gran Bretagna, del partito indipendentista di Nigel Farage, quello con cui Grillo pare voglia stringere un’alleanza, nonostante (o forse proprio per) la forte vena di intolleranza xenofoba che lo percorre. E anche in Spagna e Grecia, dove si sono imposte formazioni politiche nuove, ancorate a sinistra (Podemos, figlia della protesta degli indignados, e la lista di Alexis Tsipras) si tratta di forze apertamente critiche nei confronti dell’establishment europeo, con qualche tratto populista e una forte carica di critica sociale. Un’ Europa così non può andare da nessuna parte: i nazionalismi e i populismi euroscettici mettono in pericolo i progressi compiuti nei decenni scorsi, ma coloro che si sentono eredi della migliore civiltà europea non possono più pensare di costruire un’Europa per i popoli e tuttavia senza i popoli, anzi quasi a loro dispetto. Non possono cioè immaginare le migliori e

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più avanzate disposizioni per il godimento di beni e diritti fondamentali, e riservarle però a pochi, restringendo sempre di più il cerchio di coloro che, di fatto, ne possono fruire. Senza una robusta iniezione di democrazia, insomma, e soprattutto senza un nuovo investimento di senso nel progetto europeo, non basterà votare qualche piccolo aggiustamento al prossimo Consiglio Europeo per ridare slancio all’Unione. È bene che Renzi lo sappia. L’Italia si appresta, infatti, a tenere la guida nel prossimo semestre europeo. E il risultato del Pd rappresenta la più vistosa eccezione al quadro finora descritto. È la prima delle tre considerazioni finali che il voto italiano merita: su quella eccezione bisognerà fare leva. Seconda considerazione: Renzi ha vinto per tre motivi. Da tenere tutti e tre presenti. Ha vinto perché non è apparso in alcun modo compromesso con la grigia e tecnocratica Europa, da noi ben rappresentata da Monti (il voto dello zero virgola di «Scelta europea» è la più eloquente illustrazione di quale Europa gli italiani vogliano). Ha vinto poi perché ha saputo interpretare una pressante richiesta di cambiamento. E ha vinto perché non è apparso subalterno a nessun potere costituito: non in Italia e neppure fuori dall’Italia. La scontentezza che negli altri grandi paesi europei ha penalizzato le famiglie politiche tradizionali – ad eccezione della Germania, dove la Merkel incassa il dividendo della posizione che in Europa ha saputo assicurare al suo Paese, e dove anche l’SPd recupera proprio grazie alla scelta di andare al governo con la Cancelliera – ha così premiato il Pd, oltre ogni aspettativa. E ha ridimensionato le altre forze politiche. Il centrodestra si è ridimensionato da solo, essendosi presentato diviso, incapace di progettare un dopo Berlusconi e incapace pure di un posizionamento politico chiaro rispetto al governo e rispetto alle prossime scelte a Bruxelles. Grillo invece è stato indubbiamente ridimensionato dalla fiducia accordata dagli italiani a Renzi. Impossibile dire se la parabola discendente del Movimento continuerà anche alle politiche. E questa è la terza e ultima considerazione: le previsioni sono difficili, ma un fatto è certo, il voto alle Europee non si riproduce tale e quale alle politiche, per quanto lo si sia caricato di un significato nazionale. Meglio, al riguardo, non nutrire facili illusioni. 


di Pietro Perone

In Italia c’è una democrazia non bipolare Renzi e il suo governo sono più forti, Forza Italia resta in campo come terzo leader, Grillo consolida il suo 20%

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atteo Renzi stravince alle elezioni europee andando ben oltre l’impresa di arginare il Movimento e rimette in pista il suo partito, il Pd, dopo il quasi pareggio delle Politiche 2013 messo a segno da Bersani. Legittimato a guidare il governo e anche i democratici, fine per ora dei mugugni interni. A sua volta, il comico genovese dimostra di essere tutt’altro che un fenomeno passeggero: qualche punto in meno dell’exploit dello scorso anno, i grillini superano però il 20% ben altro dal “Fronte dell’uomo qualunque” di Giannini, movimento durato l’arco di un’elezione, quella dell’Assemblea costituente. Queste elezioni hanno, infatti, dimostrato che il paragone non regge e Grillo, piaccia o no, è a tutti gli effetti un protagonista della vita politica italiana. Governo stabile? È pressappoco messo come era prima delle Europee: l’attuale maggioranza va ben oltre il 40%, ma la trazione, rispetto ai mesi scorsi, è esclusivamente democratica, visto che NCD lotta per superare la soglia del 4 per cento e Scelta Europea, ex Civica, quasi scompare, passando dall’8, 3% allo 0, 8% nonostante il soccorso del “compagno” Tabacci. Insomma, se si fosse votato per le politiche, per costruire il Governo, c’era bisogno al massimo di Forza Italia, né di Monti, né di Alfano. E così Silvio Berlusconi raggiunge metà del risultato che si era prefisso: vede crollare Forza Italia sotto il 20%, ma resta in campo come terzo leader, nonostante i servizi sociali. L’ex Cavaliere resta in campo per continuare lungo la strada delle riforme intrapresa con Renzi, ma se vorrà ricostruire il centrodestra non potrà continuare a snobbare Alfano, ancor di più la Lega, premiata dal vento anti-euro spirato in tutto il continente. Non è finita come in Francia dove il Fronte

Nationale è il primo partito e provoca il crollo del PS, tanto che il presidente Hollande ormai è in bilico, un soffio di quel ciclone ha superato le Alpi e investito anche l’Italia. Questo forse il merito più grosso è di Renzi: recuperando un mare di consensi rispetto a Bersani ha fatto in modo che Grillo non diventasse la nostra Marine Le Pen, facendo in modo che il Paese rimanesse nell’alveo delle altre democrazie europee dove la contesa per la guida della Commissione UE resta, nonostante la perdita di seggi delle forze tradizionali, tra PSE e PPE. L’ultima lezione che arriva da questo voto, oltre all’astensionismo crescente, ma non dirompente come altrove, è la conferma che restiamo una democrazia non bipolare: Renzi, Grillo e un centrodestra non più a immagine e somiglianza di Berlusconi. Difficile immaginare che NCD-UDC, Lega e FDI possano allearsi alle politiche con il Pd in parlamento bisogna forse fare ancora i conti con tre poli. Per rimanere nel campo delle simulazioni, riversando i voti delle Europee nell’Italicum l’unico vincitore sarebbe Renzi senza ricorrere neanche al ballottaggio. Scenario che potrebbe allontanare la legge elettorale così come è stata immaginata in questi mesi, visto che taglierebbe tutti fuori dalla corsa per Palazzo Chigi. Il premier però adesso è depositario di un consenso elettorale dalle dimensioni plebiscitarie e ha in mano un’arma micidiale, quella delle elezioni anticipate. Stesso discorso per le riforme: potrà Berlusconi sottrarsi al patto del Nazareno correndo il rischio di ritrovarsi molto presto in campagna elettorale senza un leader e senza una coalizione? Non c’è stato un terremoto come a Parigi, ma le “scosse” di questi risultati produrranno non poche novità anche a Roma e forse nel segno della stabilità. 

Renzi stravince le Europee Il premier però adesso è depositario di un consenso elettorale dalle dimensioni plebiscitarie e ha in mano un’arma micidiale, quella delle elezioni anticipate. Stesso discorso per le riforme: potrà Berlusconi sottrarsi al patto del Nazareno correndo il rischio di ritrovarsi molto presto in campagna elettorale senza un leader e senza una coalizione?

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QUI ED ORA

di Umberto De Gregorio

Lo tsunami delle Europee Il Pd che Renzi ha in testa

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atteo Renzi porta il Pd oltre la soglia storica del quaranta per cento, e porta in Europa un grande partito italiano in grado di far sentire autorevolmente la sua voce. Sembra un miracolo ma non lo è. Piuttosto, è il frutto di una strategia lucida e portata avanti con determinazione. Certo, l’isteria di Grillo ha aiutato, ma il Pd oltre il 40 per cento era esattamente l’obiettivo per il Pd che Matteo Renzi aveva in testa. Qualcuno lo aveva definito, un anno fa, come “il tipico esempio di uomo liberal socialista o einaudiano lontano dalla cultura marxista e che non detesta i capitalisti”. Quel che di Renzi non piaceva alla Sinistra - che lo additava addirittura come un nemico – era esattamente questo: Renzi non odia i capitalisti ma al contrario crede negli imprenditori, nel “privato” che crea ricchezza; e crede nel “pubblico” come soggetto regolatore e non gestore. E tuttavia si sente di sinistra. Certo, esistono due modi di intendere la sinistra. Esiste la sinistra (ma anche la destra) statalista, ed esiste la sinistra liberale non statalista. Renzi si è dimostrato nei fatti un “rottamatore” della vecchia politica perché ha rivoluzionato la geografia politica italiana. Molti che sino a ieri votavano a destra o al centro, convinti che solo lì ci fosse la difesa della libertà d’impresa (e di professione) e la difesa dello Stato, oggi hanno votato a sinistra, per Renzi. Perché oggi Renzi rappresenta un modo positivo di essere Stato. Due visioni della sinistra si sono contrapposte negli ultimi trent’anni in Italia: quella delle pari opportunità e quella dell’appiattimento, quella del “Pubblico” ingombrante e dissipante le risorse e quella del “Pubblico” soggetto regolatore. Bersani proponeva un’alleanza politica ampia con baricentro spostato verso la sinistra radicale e marxista. Renzi ha invece fatto del Pd un partito riformista e liberale di sinistra, in grado di governare l’Italia e ridare slancio alle imprese

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italiane ed estere, che da anni oramai hanno smesso di investire nel nostro Paese. Oggi esiste una nuova sinistra in Italia, con un bacino elettorale enorme. Il Pd di Matteo Renzi è in grado di dialogare con Vendola come con Monti e forse domani di inglobarli in un progetto di grande partito pluralista. Renzi ha rottamato il vecchio concetto di sinistra caro ai sindacati, si è posto come l’uomo che guarda oltre i diritti acquisiti e cerca di ridare una possibilità di futuro a chi non ha diritti. Renzi è la sinistra che vede nell’Europa un’opportunità e non un padrone. Bersani voleva fare una grande ammucchiata da Casini a Vendola con un Pd sotto il trenta per cento. Renzi ha costruito un grande partito autonomo ed autorevole, in grado di dettare condizioni ai suoi alleati eventuali e non costretto a doverle subire dai suoi alleati necessari. Il risultato storico dell’aver superato la soglia del 40 per cento è frutto di una strategia che voleva fare del Pd un grande partito popolare riformista e superasse una concezione antica della sinistra che non riusciva ad avere un consenso autonomo sufficiente a governare con autorevolezza. Ma, paradossalmente, gli avversari di Matteo Renzi, nelle ultime settimane di campagna elettorale, hanno reso, con il loro comportamento, più celere questo percorso. Berlusconi ha dipinto Grillo per quello che era e Grillo ha gettato la maschera: la sua era soltanto una “provocazione” politica, che se per caso fosse diventata “maggioranza” politica avrebbe destabilizzato il paese con danni enormi per tutto il sistema Italia. Questa consapevolezza è entrata nel cuore e nella testa degli italiani, che hanno visto nel Pd a guida Renzi l’unico baluardo credibile all’irresponsabilità di chi si proponeva di scassare ma senza alcun progetto di ricostruire. La vittoria di Renzi è tuttavia ancora una vittoria incerta nel Mezzogiorno. Non tanto per il risultato (35 per cento contro un dato nazionale al 41) quando per la classe politica che lo


Renzi vince nonostante la nomenclatura Il risultato storico dell’aver superato la soglia del 40 per cento è frutto di una strategia che voleva fare del Pd un grande partito popolare riformista e superasse una concezione antica della sinistra che non riusciva ad avere un consenso autonomo sufficiente a governare con autorevolezza.

rappresenta, che difatti nelle elezioni amministrative dimezza il risultato ottenuto dal Pd alle Europee. In altri termini, quando si tratta di votare alle Europee, il Pd di Matteo Renzi ottiene un risultato molto buono, ma quando si tratta di votare i rappresentanti locali di quel Pd nel mezzogiorno il risultato è molto meno buono. C’è ancora tanto da fare e d’altronde lo stesso Renzi ha affermato che “la rottamazione è appena iniziata”. Ma rottamazione di cosa? Ecco, su questo occorre intendersi. La rottamazione, lo sappiamo tutti, non è un fatto anagrafico, ma una questione culturale. Occorre riportare il voto di opinione - che Renzi riesce a conquistare personalmente alle competizioni europee e nazionali - anche sul piano locale. E per fare questo occorre una selezione della classe dirigente diversa rispetto al passato, una selezione rapportata non più soltanto alla “militanza” ed alla “appartenenza” ma alla “competenza” ed alla “serietà” (oltre che ovviamente alla “moralità” ed alla “innovazione”). Ma anche sul piano dei contenuti il Pd deve molto lavorare sul tema Mezzogiorno. Nel suo programma delle primarie Renzi non ha mai usato la parola “Sud”. Come non ha mai usato la parola “Nord”. Per la prima volta un leader politico omette di affrontare la questione territoriale. Una carenza o forse un nuovo modo di porsi in politica. Al di la della retorica, infatti, oggi vi è infatti la consapevolezza diffusa che l’assistenzialismo non è una buona medicina. La medicina per il Sud è quella per l’Italia. Ma una volta arrivato a Palazzo Chigi, Renzi scopre di essere costretto ad affrontare questioni di carattere territoriale e che non è affatto semplice “cambiare verso”. Prendiamo Bagnoli. Ebbene, capita che Renzi dichiari che voglia metterci la faccia su questa storia e tuttavia la società “Bagnoli futura S.p.A.” fallisce proprio a causa di un’istanza presentata da una società (Fintecna) che è posseduta e diretta dal Governo. Una scelta? No, le carte sono andate avanti senza una direzione politica chiara, senza un approccio strategico definito, ed alla fine a decidere sulla controversia tra enti pubblici sono stati i giudici. Aiuterà il fallimento di “Bagnoli futura S.p.A.” a cambiare verso all’approccio politico alla vicenda? Lo vedremo, per ora quel che è certo è che si è proceduto ancora con troppa improvvisazione e poca competenza. La questione territoriale ne-

cessita di una classe politica seria e competente e che guardi lontano. Il movimento di Renzi rappresenta il desiderio di voltare pagina, un movimento di opinione che si allarga spontaneamente ritrovando in Matteo la possibilità di poter esprimere un voto che non sia per la vecchia politica e non si rassegni all’antipolitica. A Napoli ed in Campania la nomenclatura del partito che era stata quasi interamente schierata durante le primarie del 2012 contro Renzi, oggi lo appoggia. Renzi ha incassato questo appoggio per vincere. Ma ora occorre portare avanti con decisione il processo di rinnovamento. Partendo dalla rottamazione di un concetto: quello del politico a vita, di chi pensa che la politica sia un mestiere a tempo indeterminato, un’occupazione e non una distrazione temporanea dalla propria occupazione. Renzi sembra avere un concetto di comunicazione moderno e disinvolto ma soprattutto sembra aver intuito che oggi la vera battaglia non è tra destra e sinistra ma tra la politica e l’antipolitica: per questo motivo si rivolge anche ai delusi di Berlusconi, perché il suo elettorato di riferimento è composto da quella parte della popolazione che è stanca di una politica retorica e ripetitiva. Nel Mezzogiorno questa speranza di poter praticare, o almeno sognare, una politica che non sia mero clientelismo e/o affiliazione al capobastone di turno si era affievolita. Ed è per questo motivo che il richiamo di Renzi risulta ancora potenzialmente seduttivo. Matteo Renzi sembra in grado di spostare parte dell’elettorato dall’area della protesta (con voto o con astensionismo) a quella di governo; di deviare masse consistenti di voti da destra a sinistra. Di cambiare l’identità stessa del Partito Democratico e la sua collocazione baricentrica nella geografia politica del paese. Di archiviare il concetto di politico di professione ed a vita, di concepire un partito leggero e con costi della politica molto più ridotti per le casse dello Stato con l’abolizione (o drastica riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti. Di avviare una nuova stagione di riforme dove il Mezzogiorno viene archiviato come problema specifico ma viene allo stesso tempo affrontato come tema centrale per lo sviluppo dell’intero paese. La strada è lunga, il voto delle Europee da l’entusiasmo necessario per percorrerla senza tentennamenti. 

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di Anna Summonte

Il politologo Marco Tarchi analizza e bastona La destra? La demagogia non basta. Senza una rifondazione culturale (vera) non ha futuro

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a decenni Marco Tarchi, senza dubbio uno dei migliori politologi italiani, studia con attenzione e senso critico la scena italiana e internazionale. I suoi libri e le pubblicazioni da lui dirette – “Diorama Letterario” e Trasgressioni” – rappresentano una vera miniera d’idee per capire la politica italiana ed in particolare il mondo della destra. Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni, ha ricevuto in eredità il simbolo di Alleanza Nazionale. Ma alle Europee non ha superato la soglia di sbarramento del 4 per cento. È la ripartenza giusta per il rilancio della destra italiana? Non è andata bene. Diciamolo chiaramente. Trovare giustificazioni, aggrapparsi all’aritmetica, giocare col bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto è un segnale pericoloso, è come aver paura di guardarsi allo specchio. Fratelli d’Italia – dopo una partenza in quarta – ha finito per pagare la polarizzazione creata dai media sui tre principali competitor e quindi ha avuto poche possibilità di manovra. Ma le migliori vittorie si costruiscono proprio sulle grandi sconfitte, se si è capaci di agire e se si conserva la lucidità. Si parta da un dato: la destra va rivoltata come un pedalino. Non tanto rifondato quanto rivoluzionato. Si abbia il coraggio di farlo, senza rancori e senza dispetti. Non serve Robespierre, serve ritrovare le energie giuste e l’entusiasmo che si è volatilizzato. La figura della Meloni sembrava raccogliere attorno a sé consenso e aspettative positive unanimi. Alcuni osservatori però non sono stati convinti dai suoi “compagni di viaggio”. Che ne pensa? La Meloni ha dalla sua l’età, che in una fase di giovanilismo imperante – di cui Renzi è l’incarnazione per adesso suprema – conta,

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nonché lo stile aggressivo, l’irruenza discorsiva. Quanto ai “compagni di viaggio”, credo che per ora non si possa dire altro se non che questo è quel che passa il convento. Certo, è lecita l’impressione che l’aggregazione sia fortemente eterogenea. Il che, nel caso di un non immediato decollo nei consensi – e quindi nei seggi da spartire ai vari livelli istituzionali – è premessa sicura di future scissioni. Del resto, la politica post-ideologica propone a tutti i partiti ostacoli e dilemmi di questo tipo. Va aggiunto però che il futuro di Berlusconi – la sua scomparsa o meno, in tempi brevi, dalla scena politica – avrà un peso determinante sugli sviluppi futuri anche di questa formazione. In una recente intervista all’Espresso, ha sottolineato come il Movimento 5 Stelle stia calamitando il consenso prima assegnato ai poli radicali. È Grillo il surrogato della “nuova destra”? Ma, soprattutto, Grillo è di destra o di sinistra? Grillo non è né di destra, né di sinistra e questa è la chiave del successo del suo discorso in larghe fasce della pubblica opinione. È un populista allo stato puro, post-ideologico, che offre al pubblico occasioni di sfogo, e talvolta proposte, adatte alla situazione di crisi in cui l’Italia da un pezzo è impantanata. Il problema, per lui, è che buona parte del ceto politico, cioè dei gruppi parlamentari e consiliari, del Movimento 5 Stelle, reclutata attraverso la roulette della selezione via web, non si è formata in modo coerente rispetto al discorso che Grillo è andato sostenendo dal 2005 in poi. Qual è il senso di essere ‘di destra’ nel XXI secolo? O meglio, quali sono i “nemici da combattere”? È difficile, a chi come me è convinto da decenni che le categorie di sinistra, destra e cen-

Una Destra anti-europea L’UE non esprime alcuna indipendenza reale, legata mani e piedi com’è al partner transatlantico – che in realtà ne teme e comprime la concorrenza in molti campi e la colonizza culturalmente.


tro siano incapaci di rappresentare le vere linee di conflitto che attraversano le società contemporanee, rispondere a questa domanda. In termini politologici classici, ci si potrebbe richiamare alla coppia oppositiva conservatorismo contro progressismo. Ma mi pare che da molto tempo in molti campi – a partire da quello delle cosiddette scelte etiche – le destre esistenti abbiano ceduto agli avversari, facendone proprie molte idee di fondo. Oggi a destra si ha una sorta di terrore di sentirsi accusare di tradizionalismo, etichetta che porta con sé una sfilza di accuse (omofobia, bigottismo, xenofobia, localismo e via dicendo). La linea Maginot sulla quale le destre si sono attestate è quella della sicurezza, ovvero della promessa, peraltro di rado mantenuta, di garantire, nella nostra epoca legittimamente popolata da timori, ordine e tranquillità individuale e collettiva. È un terreno fragile, su cui una sinistra ormai acquisita alla logica dell’individualismo, può facilmente incalzarla. E poiché in molti altri campi, a partire dalla politica internazionale e da quella economica, ma anche allargando la visuale a quanto concede l’adesione all’ideologia dei “diritti umani” e alle sue conseguenze, distinguere idee di destra e di sinistra è diventato quasi impossibile, credo

che chi ancora si sente attaccato all’etichetta di destra dovrebbe procedere oggi a una radicale rifondazione dei referenti culturali riconducibili a questa area. Il tema caldo oggi è l’Europa. Il significato di “Europa unita” è incompatibile con il valore di sovranità nazionale? In astratto, certamente no. Niente impedisce di ipotizzare un’Europa capace di recuperare il valore fondante e unificante delle tradizioni culturali che hanno portato a pensarla per millenni come un continente non solo in senso geografico, e quindi votata a un’autentica indipendenza. Ma se per Europa si intende l’attuale Unione Europea, il discorso cambia drasticamente. Perché l’UE non esprime alcuna indipendenza reale, legata mani e piedi com’è al partner transatlantico – che in realtà ne teme e comprime la concorrenza in molti campi e la colonizza culturalmente –, e si è trasformata nel classico gigante dai piedi d’argilla, che non esprime grandi progetti ma regolamentazioni e divieti, limita le sovranità degli stati membri ma non trova mai, di fronte ai problemi che travagliano molti di essi, le sintesi aggreganti che sarebbero necessarie per dar vita ad un macro-aggregato realmente democratico. 

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INTERVISTA A BIAGIO DE GIOVANNI

Non mi sembra di vedere nel mezzogiorno una nuova classe dirigente A Napoli il Pd non esiste. Renzi ha unificato il Paese a cura di Marcello Curzio

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a location è a dir poco suggestiva e ricca di storia: è la Sala del Capitolo del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore. Anche il tema dell’incontro, in una piacevole serata di fine maggio, calza a pennello: “L’orgoglio è un pensiero... pensato a Napoli”, con una lectio magistralis del filosofo Biagio de Giovanni sul tema “Giambattista Vico filosofo napoletano” che nacque, visse ed operò proprio a due passi dal magnifico complesso monumentale di San Domenico Maggiore. Con Biagio de Giovanni, filosofo della politica, proviamo a tracciare qualche linea e a mettere qualche punto fermo nel dibattito post-elettorale per le Europee. Professore, il Sud, in questa ultima campagna elettorale, non è sembrato al centro della campagna di Matteo Renzi. Solo negli ultimi giorni, nelle ultime settimane, il segretario-premier ha recuperato. Ma, alla fine, ha stravinto. Smentendo tutte le Cassandre. Come mai, secondo lei? È vero, l’attenzione di Renzi sui temi del

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Mezzogiorno non è stata molto forte. Sta recuperando, forse in ritardo. Ma anche il Sud, tutto il Sud, ha partecipato meno di altre parti del Paese alla sua operazione di svecchiamento del Partito democratico. Così, il Sud non è apparso decisivo per la strategia di Renzi. Perché? Quali sono stati i motivi? Renzi punta sulla specificità italiana, del Paese tutt’intero, nell’ambito dell’Europa. Vuole ricollocarne l’identità complessiva. In questo contesto è difficile far emergere il Mezzogiorno. Scelta o dimenticanza? Una scelta. Ma c’è dell’altro. Sarebbe? Al Sud il Partito democratico non esiste. Quello che dice un politico come Michele Emiliano, sindaco uscente di Bari, sulla necessità di un rapporto del Pd con il Movimento 5 Stelle, è assai eloquente su questa evanescenza del Pd al Sud. La sottovalutazione elettorale che Renzi fa del Mezzogiorno, alla fine, paradossalmente lo ha aiutato.


Al Sud il Pd arretra A Napoli, il Partito democratico non esiste. E di conseguenza non ha un gruppo dirigente che possa realmente influire nelle scelte nazionali. Questo è il frutto di una totale assenza di dibattito interno.

Ma così non si eccede in semplificazione? Tutte le direzioni carismatiche semplificano. E non c’è dubbio che la direzione di Renzi sia carismatica, come lo è quella di Beppe Grillo e lo è, sebbene sempre più appannata, quella di Silvio Berlusconi. Ma questa semplificazione è spiegabile con quanto dicevamo prima: Renzi, nei suoi discorsi politici, coglie l’unità della crisi economica italiana che è così profonda da superare il dualismo classico tra Nord e Sud al quale eravamo abituati. E alla fine ha avuto ragione. Ero convinto, fin dalle prime battute di questa campagna elettorale per il voto europeo, che Renzi stravincesse, allargando di molto il recinto elettorale nel quale storicamente si è sempre mossa la sinistra italiana. Perché questa convinzione? Renzi è stato capace di toccare temi cari a strati sociali molto diversi dell’elettorato e sta dimostrando di avere una forte e personale capacità di unificare il Paese. Tutti i partiti, invece, hanno paura di un botto di Beppe Grillo. Credo che il Movimento 5 Stelle non abbia più la capacità di sfondamento che ha avuto nelle elezioni politiche. Grillo non ha saputo trasformare il proprio carisma in un progetto politico chiaro, anche minimamente coerente. Una parte ampia dell’opinione pubblica lo ha capito e lo ha punito alle urne. Professore, torniamo alle cose interne al Pd napoletano, dove c’è un renzismo diffuso. Sono tutti con il segretario, ma tra di loro si fanno la guerra. A Napoli, il Partito democratico non esiste. E di conseguenza non ha un gruppo dirigente che possa realmente influire nelle scelte nazionali. Questo è il frutto di una totale assenza di dibattito interno. È così. Che il Pd napoletano non abbia una linea su nulla, che contano i personalismi, lo si comprende dal modo in cui si relaziona con il sindaco Luigi de Magistris, che da solo, senza una giunta, senza una maggioranza stabile, fa quello che vuole in mancanza del contrappeso dell’opposizione. Il renzismo diffuso, come lei l’ha definito, non è in grado di costruire e proporre un’idea, un progetto di città. Non si contrappongono al sindaco e non lo appoggiano. Insomma, la più grande forza politica nazionale, che governa

l’Italia, non sa dire nulla su Napoli e sul sindaco. Renzi ne dovrebbe essere consapevole». Voltiamo pagina, parliamo dell’astensionismo record di Napoli e della Campania. Non crede che il disinteresse per la politica sia dovuto alla politica stessa? Sì, certamente c’è una responsabilità della politica, che è legata a molti fattori. È legata certamente ad una caduta di valori, ad una caduta di ideali e di idee. Ci sono stati momenti in cui la società era mobilitata intorno a grandi progetti politici. Se non ci sono grandi progetti politici è molto difficile che una generazione di persone giovani si avvicini alla politica. La politica continua a essere fatta sempre più all’interno di uno schema particolare e, appunto come Lei diceva, privo di valori e carico solamente di cattivi compromessi, badate, perché il compromesso in politica ci deve stare. E, allora, attenzione anche a un’altra cosa - è l’ultimo punto che volevo dire - attenzione poi a non prenderlo come un alibi, perché il disprezzo della politica, la diffidenza verso la politica spesso fa vivere anche più comodamente: io sto nella mia vita privata, appena esco dalla porta di casa, quello che succede lì fuori non m’interessa più perché c’è questa politica cattiva. E ultima cosa ancora: badate che questa critica della politica c’è stata sempre. Perché? Perché la politica è sempre inadeguata ai valori che vuole realizzare. Si parla spesso di politica in senso dispregiativo e probabilmente questo è dovuto a delle situazioni poco edificanti, cui abbiamo assistito anche a tutt’oggi. La politica non ha in realtà un significato più profondo e più importante all’interno di uno Stato e di una società? Weber, ne “La politica come professione”, dice una cosa molto bella: “il potere, la politica senza una fede, fede in senso laico, badate, non fede in senso strettamente religioso è pericolosa, cioè senza che una persona sia in qualche modo votata ad una causa è destinata ad essere preda del demonio”. Cioè il potere puro rischia di essere preda del demonio, perché naturalmente diventa una logica tutta entropica, tutta introversa, non si mette più in contatto con la realtà vivente degli uomini, i cittadini. 

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QUI ED ORA

di Marco Staglianò

La vittoria del radicamento e del partito La rivoluzione renziana passa per la riscoperta del collettivo

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ra le tante indicazioni che il voto dello scorso venticinque maggio ci consegna, c’è un dato inequivocabile che emerge dalla geografia delle preferenze. In qualche misura, ripercorrendo la storia ed il profilo dei candidati del Partito democratico che hanno ottenuto i maggiori consensi, ci ritroviamo dinanzi ad una riscoperta del valore della rappresentanza. Tanto più se poniamo la nostra attenzione sul Collegio Meridionale ed in particolare in Campania. L’affermazione dei vari Cozzolino, Paolucci e Caputo è, senza dubbio alcuno, frutto di un radicamento oggettivamente coltivato negli anni, di un dialogo costruito con i territori, di storie personali fatte di impegno e di militanza, di una riconoscibilità che oltrepassa la dimensione semplicemente partitica. E lo stesso vale per Gianni Pittella, che campano non è, ma in qualche misura lo è diventato ricercando un dialogo continuo con i territori e le comunità della prima regione del Mezzogiorno, anche attraverso una presenza assidua ed una prossimità in termini di azione istituzionale. Ma al successo di Cozzolino, Paolucci, Caputo e Pittella, si va ad aggiungere quello di Pina Picierno, volto di punta della segreteria renziana scelta nel ruolo di capolista, probabilmente la meno radicata tra i candidati democratici, che, tuttavia, ha avuto una straordinaria affermazione grazie, evidentemente, alla forza del partito, ovvero alla capacità del premier-segretario di richiamare all’appartenenza quel popolo che negli anni scorsi s’è sovente diviso, alla capacità di Renzi di far valere il primato del collettivo sui personalismi, sui distinguo figli di dinamiche territoriali che spesso, troppo spesso, hanno preso il sopravvento in momenti cruciali. E

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questo dato è certificato dalla geografia del voto democratico nelle aree interne, in Irpinia e nel Sannio, province che non hanno trovato rappresentanza nell’elenco dei candidati ma che hanno risposto alla grande consegnando un consenso diffuso ai candidati democratici, in primis alla Picierno e ad Andrea Cozzolino, ma in misura comunque significativa anche agli altri. È, dal nostro punto di vista, un risultato che trova genesi nell’intreccio tra radicamento e voglia di cambiamento, nella presenza in lista di personalità capaci di attrarre consenso in funzione di una storia personale ma, al contempo, pezzi di un tutto, protagonisti di una sfida collettiva che ha nel simbolo del Pd e nel volto del premier la sua sintesi. Sembrerà paradossale, ma Renzi, l’uomo della rottamazione, del partito leggero e della semplificazione, è riuscito a ricompattare il partito sui territori, a recuperare quel filo diretto tra vertice e base che sembrava irrimediabilmente spezzato. La vittoria della Picierno al Sud non è l’unica prova. Al suo fianco, nel ruolo di capolista nelle altre circoscrizioni, c’erano altri volti di donne democratiche, volti simboli di questo partito che sta cambiando pelle. Tutte hanno ottenuto affermazioni di rilievo, tutte sono state percepite dall’elettorato come le portatrici di un messaggio nuovo, come i volti di questo nuovo corso democratico, di questa nuova speranza di cambiamento. Lo spirito di appartenenza alla ditta, evocato da Pier Luigi Bersani in mille occasioni, sovente proprio per bacchettare il giovane Matteo, accusato in questi anni di essere un corpo estraneo al partito, è stata la vera arma vincente di Renzi e del suo Pd in questa campagna elettorale: il premier è riuscito a ricreare quello spirito di appartenenza, lo ha saputo alimentare con la


Le colpe dei dirigenti locali In moltissime municipalità chiamate al voto, guardiamo alla Campania, il Pd perde consensi rispetto al dato europeo e questo capita proprio per l’incapacità dei gruppi dirigenti territoriali di imporre una linea politica riconoscibile.

speranza, riscoprendo il primato del collettivo, dell’obbiettivo comune sui personalismi, sugli interessi delle singole consorterie che nel corso di questi anni si sono sovente divise e combattute sacrificando sull’altare dell’io il noi. Un partito che sta cambiando pelle, dicevamo, ma che non ha certo risolto tutti i suoi problemi come dimostra il voto amministrativo. In moltissime municipalità chiamate al voto, guardiamo alla Campania, il Pd perde consensi rispetto al dato europeo e questo capita proprio per l’incapacità dei gruppi dirigenti territoriali di imporre una linea politica riconoscibile, di affermare il primato del collettivo su quello degli interessi di parte. Basta dare un’occhiata a quel che è capitato nei principali centri chiamati al voto nelle diverse province della regione e ci si imbatte in contese difficilmente decifrabili, nell’ambito delle quali, sovente, di Pd se ne trovano diversi. È la prova del fatto che il processo innescatosi non è ancora arrivato a compimento, che alla velocità con la quale Renzi è riuscito a restituire un senso all’appartenenza, corrisponde,

sui territori, la difficoltà a superare antiche ruggini e distinguo. Questo dipende dal fatto che a differenza di altre forze politiche il Pd resta il partito maggiormente strutturato, il partito, per usare una terminologia da prima repubblica, più pesante. E questa pesantezza, nel corso di questi anni, si è tradotta in un elemento divisivo, in un punto di debolezza che ha prodotto, nella nostra regione come altrove, gruppi dirigenti sfaldati, costretti a stare insieme più dall’algebra che da una comunanza di visioni ed obbiettivi e, dunque, privi di quella capacità di regia e direzione senza la quale un gruppo dirigente non si può dire tale. Superare, risolvere queste contraddizioni non è cosa facile. Se Renzi è riuscito a restituire un senso nuovo al Partito democratico, se è riuscito ad unire il Pd ed il suo popolo sul sentiero del governo del cambiamento, non riuscirà con la stessa facilità a rimuovere le incrostazioni che sui livelli territoriali fanno del Pd, più che un partito un contenitore di energie democratiche. 

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QUI ED ORA

di Marcello Curzio

Quadro politico regionale delle Europee Il Centro Destra in frantumi. Sfratto a Caldoro! Il potere della Destra in Campania Nonostante la sconfitta, il Centro Destra cresce in Campania e dimostra di essere ancora oggi il principale punto di riferimento degli elettori moderati.

Foto di Livia Crisafi

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al di pancia in casa NCD, Nappi: “o si cambia rotta strutturando un partito vero affidando la responsabilità a persone radicate sul territorio. Oppure il NCD rischia di essere un progetto politico nato già morto”. “Il successo del Partito democratico in Campania è straordinario e carica di responsabilità il gruppo dirigente del partito sul territorio e nelle istituzioni. È altrettanto chiaro che questo risultato intorno alla principale forza di opposizione in Regione testimonia l’evidente fallimento delle politiche di Caldoro e della sua maggioranza, e riassegna a noi il compito di costruire l’alternativa”. Questo il commento di Antonio Marciano, vice capogruppo regionale del Partito democratico. “Dalle urne arriva, netto e inequivocabile, un primo avviso di sfratto a Caldoro e al centrodestra in Regione. Tocca prima di tutto al gruppo regionale del Partito Democratico raccogliere questa fiducia e costruire la nostra idea di Campania, che non può che ripartire da bisogni e diritti mortificati in questi anni, come sanità, trasporti, lavoro, da un

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maggiore e migliore utilizzo delle risorse comunitarie, una burocrazia meno asfissiante per imprese e cittadini, un’attenzione particolare al futuro dei nostri giovani e soprattutto a vecchie e nuove povertà”, conclude Marciano. Ma in via Santa Lucia, i più stretti collaboratori del Governatore respingono al mittente le accuse, evidenziando come i risultati registrati in Campania siano in controtendenza per gli azzurri rispetto alla netta debacle registrata altrove. “In questa regione infatti non solo Forza Italia batte la formazione di Beppe Grillo, ma riesce a strappare importanti voti sia a sinistra che nell’area della protesta, incassando un ottimo 23, 94%, il massimo ottenuto dal partito. A contribuire a questo successo tutto locale è di certo, l’operato del governatore campano infatti, negli ultimi anni di amministrazione regionale è riuscito a portare a casa risultati a dir poco sorprendenti nonostante la crisi economica e il pesante taglio ai fondi destinati agli enti locali. Solo per citare un caso, basta pensare al settore sanità. Dopo aver ereditato un buco di bilancio “monstre”, Caldoro è, infatti, riuscito a chiudere il bilancio azzerando


il deficit e ottenendo addirittura un surplus, il tutto senza dover rinunciare a qualità e servizi”. E si dichiara soddisfatto anche il coordinatore regionale campano degli azzurri, Domenico De Siano. “Primi in Italia, premiato il buon governo e la capacità dei nostri candidati di fare consenso. Siamo, dunque, più che soddisfatti. Gli elettori campani, malgrado l’oggettiva difficoltà del presidente Berlusconi a svolgere con la massima efficacia di sempre la campagna elettorale, ne rilanciano il progetto politico e confermano un giudizio più che positivo nel governo regionale di centrodestra guidato dal Presidente Stefano Caldoro – aggiunge De Siano – Ma quello che più colpisce, e sul quale va certamente aperta una riflessione tra tutte le forze politiche d’area è che in Campania il centro destra cresce e dimostra di essere ancora oggi il principale punto di riferimento degli elettori moderati”. Intanto, in casa NCD non mancano ad arrivare i mal di pancia post-elettorale. In Campania, nonostante le percentuali (5,39) del Nuovo Centrodestra siano leggermente migliori rispetto al dato nazionale, Francesco Vincenzo Nappi, consigliere regionale del NCD, boccia senza appelli l’esito delle elezioni europee. “Risultato deludente – sottolinea Nappi – solo Napoli e provincia reggono, ma a Salerno e ad Avellino siamo quasi inesistenti. Sicuramente la vicenda giudiziaria del presidente del consiglio regionale, Paolo Romano, arrestato alla vigilia del voto, ha inciso, ma credo che la vera causa del fallimento sia la mancanza di un partito vero sul territorio”. “Non si può arrivare all’appuntamento elettorale senza coordinatori territoriali – chiarisce il questore alle Finanze dell’assemblea regionale della Campania. La prospettiva è semplice: o si cambia rotta strutturando un partito vero affidando la responsabilità a persone radicate sul territorio, oppure il NCD rischia di essere un progetto politico nato già morto”. La sfida di sfondare nell’elettorato moderato è fallita. Bisogna cominciare a guardare a Fratelli di Italia per costruire una vera forza di destra altrimenti rischiamo di essere strangolati da Renzi – spiega Nappi. Le preoccupazioni di Nappi non risparmiano nemmeno la giunta Caldoro. “Nonostante i sondaggi dicano che Caldoro sia il governatore più amato dagli Italia i dati elettorali dicono altro ” – conclude l’esponente del NCD. A pensarla in un modo radicalmente

diverso sempre tra gli “alfaniani” è il consigliere comunale di Napoli, Marco Mansueto: “ad appena cinque mesi dalla sua costituzione – afferma Mansueto – il superamento della soglia di sbarramento del Nuovo Centro Destra e la conquista di parlamentari europei in questa tornata elettorale, che rafforza il primo gruppo al Parlamento Europeo, il PPE e costituisce un’affermazione importante e un punto di partenza per traguardi futuri”. “In particolare – continua il Consigliere Mansueto – l’affermazione dei Ministri ed in particolare il Ministro Beatrice Lorenzin in un collegio storicamente ostile, dimostra che l’efficacia dell’azione di governo è stata avvertita dall’elettorato che ha inteso, in tal modo, dare forza e fiducia ad una forza politica responsabile e di sicuro affidamento. In previsione degli ulteriori impegni – conclude il consigliere Marco Mansueto – occorre che il nostro segretario Angelino Alfano perfettamente coadiuvato da Nunzia De Girolamo e Gioacchino Alfano, facciano percepire ancor di più l’azione di governo al fine di prepararsi, fra pochi mesi, al rinnovo del Consiglio Regionale della Campania dove NCD sarà sicuramente protagonista”. Per Luigi Rispoli, presidente del consiglio provinciale di Napoli e candidato alle Europee con Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale c’è, invece, l’amarezza per una sconfitta in zona Cesarini, quella di non aver superato la soglia di sbarramento del 4 per cento. Abbiamo raddoppiato i consensi dalle politiche, solo uno 0,34% non ci ha permesso di confermare la nostra eccellente rappresentanza in Europa, a Roma, nel Lazio e non solo abbiamo superato il quorum, ma non basta... meritiamo di più, tutti noi dirigenti, militanti, giovani, donne, sostenitori, simpatizzanti ed amici che si sono uniti a noi in una grande comunità per questa intensa campagna dove ci abbiamo messo la faccia e abbiamo dato il massimo fino all’ultimo anche difendendo i nostri voti nei seggi... noi ci crediamo e non molliamo, siamo feriti, ma non domi, orgogliosi di avere una grande Presidente, Giorgia Meloni, che alla luce dello sbando generale del Centrodestra non c’è altra soluzione che candidarla fortemente alla guida di tutta la coalizione con le primarie per un nuovo risorgimento italiano”. 

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INTERVISTA A LUIGI DI MAIO

Il Grillo Rampante dei Cinque Stelle, da Pomigliano a Montecitorio Mister “cartellino rosso” braccio destro di Grillo a cura di Anna Summonte

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orrà dire che andremo a parlare con quei circa 2 milioni di cittadini che non ci hanno rivotato (rispetto al 2013) e gli spiegheremo meglio cosa abbiamo fatto, quale è la nostra idea di Paese, cosa vogliamo fare in Europa con i nostri neo-parlamentari, quali privilegi vogliamo togliere alla politica italiana e come vogliamo investire il ricavato per creare nuovi posti di lavoro. Ascolteremo soprattutto le ragioni per cui hanno cambiato idea o non sono più convinti (scopriremo se si sono astenuti o hanno votato altri) e ci miglioreremo. Possiamo sempre migliorare se restiamo coerenti. Poi raggiungeremo anche l’altro 40% di italiani che si è astenuto a questo giro, per capire cosa vuole per questo Paese, ci faccia capire. Nessuno si illuda, non arretriamo di un centimetro, continueremo a restituire i soldi del nostro stipendio e a rifiutare i rimborsi elettorali, a difendere i giovani dal precariato e gli imprenditori da Equitalia. È il motivo per cui i cittadini hanno voluto confermarci come prima forza politica di opposizione e seconda forza in Italia. C’è un Parlamento Europeo che ci aspetta con tutti i suoi segreti e le sue insidie. Chiedo a quei 6 milioni di italiani di starci vicino”. Commenta così, Luigi Di Maio, con un

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lungo post su Facebook, la debacle dei “pentastellati” alle Europee. «Si sta aprendo la fase 2», sussurrano i grillini, «alla faccia di fascismo, stalinismo ed epurazioni». La fase in cui, parte lo scounting interno del Movimento. A caccia di volti buoni da lanciare alle politiche. A partire dal candidato premier. Ed ecco che in pole position c’è finito proprio un appassionato di Formula Uno come Di Maio. Classe ‘86, undici anni suonati in meno di Matteo Renzi, è ormai il volto più noto del Parlamento a cinque stelle. Quello cui il Nobel, Dario Fo, non risparmia complimenti. Quello che ha dichiarato zero euro («ma ho fondato un sito di e-commerce che va benissimo, poi mi sono candidato e sono uscito per non mettere in difficoltà i soci»), eppure si taglia stipendio e benefit. Quello che da piccolo leggeva la Storia d’Italia di Montanelli e le biografie di Pertini e poi è stato folgorato sulla via del Web. Natali a Pomigliano d’Arco, anzi all’ospedale di Avellino, a casa Di Maio il politico era sempre stato papà, ex militante di Alleanza nazionale ai tempi in cui Gianfranco Fini riempiva le piazze e Pinuccio Tatarella predicava l’“armonia”: «Ha sempre detto di stare con la vera destra, io invece avevo le mie idee», dice il vicepresidente della Camera. Al punto che, quando Luigi s’è presentato alle comunali con


i Cinque Stelle, il genitore pare non l’abbia neppure votato. Ricambiato poi dal figlio nel 2006, unica tornata elettorale dell’era avanti Grillo, quando il rampollo ha messo la crocetta su “Noi Consumatori”. Se qualcuno si azzarda a dargli del fascista, poi, ti sciorina pure un aneddoto sulla sua prima missione di Stato in Slovenia, con i presidenti delle Camere dei Balcani: «Si presenta quello del Montenegro, che sta seduto lì da 4 o 5 legislature, e mi fa: siamo preoccupati dal M5S – come se fossimo noi a occupare il Palazzo da trent’anni». La sua storia non comincia on line, però, ma fra le crepe nel cemento armato di una scuola diroccata. È il liceo “Imbriani” di Pomigliano d’Arco, quella che il 14 gennaio prega per San Felice ma per decenni è stata soprannominata la Stalingrado del Sud. «Lì, la sinistra vinceva sempre», dice Di Maio. Tranne quella volta nel suo liceo, dove un gruppo di studenti si presenta alle elezioni d’istituto. Il programma? Un punto: costruire una nuova scuola. E, destino infame, di quel primo successo politico targato Di Maio sarà complice una delle tragedie italiche: il terremoto del Molise. Nell’ottobre 2002, il progetto del nuovo liceo si scontra, infatti, con la realtà del Bel-bruttoPaese, fatta di appalti truccati, collaudi fantasma, vittime innocenti. «Il crollo della scuola di San Giuliano di Puglia, la morte di quei bambini, ha cambiato tutto», racconta il vicepresidente della Camera. Un gruppo di studenti corre dal preside, entra nella stanza e propone uno strano patto: «Mai più un giorno di assenza, scioperi banditi, ma gli insegnanti dovranno manifestare con gli studenti», racconta Di Maio. E così andò, finché il progetto partì e il nuovo Imbriani sorse dal nulla in un paio d’anni. Alla posa della prima pietra, fu proprio lui l’ospite d’onore. Al punto che quella foto è diventata il suo portafortuna. Da peone grillino di periferia, a vice di Laura Boldrini. Ricorda bene, invece, il triplo salto fino alla vicepresidenza della Camera: «Arrivai tardi alla Sala della Regina, dove si selezionavano i candidati», continua. «La collega Colonnese mi disse: proponiti tu. Io la guardai e dissi di no. Ma lei non mollò: ogni volta che uno buono non si fa avanti, c’è uno meno buono che gli fa il posto». Così ripensò alla prima pietra del liceo, quella della foto. E pure ai consigli di papà. A quando chiese lo streaming del consiglio comunale a Pomigliano e

la sinistra perse le elezioni. Partecipare. Partecipare. Partecipare: «Mi alzai e andai a parlare agli altri. Dissi semplicemente: “Non chiamerò mai più i deputati “onorevoli”. E fui eletto subito». Con tanto di commessi ai lati ed elenco dei privilegi da casta sulla scrivania di rovere: indennità, auto blu, appartamento, camerieri. Tutto pronto: «È qui che mi sono reso conto che i funzionari della Camera erano bravi, perché dissi che volevo rinunciare e loro mi risposero: non è mai avvenuto, ma studieremo un sistema». Sistema trovato. Tanto che Di Maio non soggiorna a Montecitorio, ma ha traslocato da un bed&breakfast in via Rasella in un appartamentino in zona Flaminia con altri due onorevoli, pardòn cittadini, dei Cinque stelle. Alla Camera già lo chiamano mister cartellino rosso: «Chi sgarra, fuori! Lo dice il regolamento e io me lo sono studiato bene. Ho seguito i consigli di un funzionario che mi ha detto: “Presidente, qui tutto quello che succede, è già successo. Basta leggere». E così si è appassionato di espulsioni. A dargli il La è stata quella del leghista Gianluca Buonanno. Quello che s’è tinto la faccia di nero. E sempre quello che, nel pieno del dibattito sullo svuotacarceri, ha esposto un cartello: “Pd complice dei mafiosi!”. Al suo attivo tredici cacciate dall’aula: otto sono pentastellati. «Li richiamavo perché sforavano i tempi», dice. Ma nessuna censura giunse dall’alto. Nessuna telefonata di Grillo o Casaleggio che, giura, si fanno sentire davvero poco. «Casaleggio lo chiamo io nell’80% dei casi. E sempre per cose tecniche. Alla fine furono Cicchitto e Giachetti che mi fecero i complimenti. Mi riconoscono una certa imparzialità, un certo distacco». Un po’ come con le donne. «Sono single per ragioni politiche», spiega serio. Non alla maniera di Paola Binetti, però, piuttosto per problemi d’agenda: «Il più grande nemico dei miei rapporti sentimentali è stato il Movimento 5 Stelle», sorride. Strano nell’Italia di Silvio e della sua corte, nella Roma delle feste e del tirare tardi. Ma buona notizia per le fans, e ne conta parecchie in Transatlantico, che stravedono per il “Grillo rampante”, come lo chiamano già. «Mettere su famiglia? Già ce l’ho, sono i pentastellati», taglia corto. A pari merito con la sorella e col fratello diciottenne. Ai quali – giura – non chiederà mai il voto. Forse perché non ce n’è bisogno. 

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a cura di Pierluigi Melillo

Continuare il lavoro di Matteo Renzi anche a livello locale L’imprenditore-editore Silvio Sarno apre una fase di riflessione dopo il voto delle Europee ed invoca un bilanciamento tra il riformismo renziano a Roma e quello dei territori

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al trionfo alle Europee al mezzo flop alle amministrative. L’imprenditore Silvio Sarno, trascinato dalla passione per la politica fin dentro l’assemblea nazionale del Pd, guarda alle aride cifre elettorali con la praticità del capitano d’industria. “Ora il vero problema sarà gestire a livello territoriale questa sbornia elettorale”, dice con tono preoccupato negli studi di Telenostra, emittente avellinese del circuito Lunaset. Intanto, presidente Sarno, queste elezioni europee hanno consacrato la netta vittoria di Renzi. “Guardi, credo che la valutazione debba essere fatta tenendo conto del dato nazionale e anche della circoscrizione a cui si fa riferimento. Certo, il Partito democratico è andato molto bene ma è anche vero che il Sud e le isole hanno segnato il passo”. E allora? “C’è da partire da un dato: oggi ascriviamo giustamente a Renzi il merito di questo risultato largamente positivo. Però, una valutazione più attenta deve tenere conto di un altro fatto, ossia che a vincere sono stati gli italiani, quelli che alla fine senza alcuna indecisione, al momento del voto, hanno scelto tra Grillo e il Partito democratico”. Ma perché è preoccupato per la gestione della vittoria? “Perché si rischia di non ragionare sul valore del voto e di coprire nello stesso tempo errori di dirigenze locali non all’altezza della situa-

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zione. Oggi, invece, dobbiamo soprattutto ringraziare gli italiani che hanno creato le condizioni per la nascita di un blocco di centro sinistra in cui anche la sinistra cosiddetta estrema può avere uno spazio, avendo superato lo sbarramento del quorum”. Ma nel Pd che vince, allora, cosa c’è che non va? “Le ripeto: sono preoccupato più per la sbornia del risultato elettorale che per il risultato stesso. E questa preoccupazione aumenta nel vedere che il partito non è unito, basta andare a rivedere le varie valutazioni sul voto che hanno espresso gli esponenti del partito democratico. E si capisce che non c’è stato un percorso che ha poi portato tutti insieme al risultato finale”. E il Pd ora cosa dovrebbe fare? “Di sicuro va aperta una riflessione al nostro interno per capire se gli elettori hanno premiato il Pd perché hanno letto la difficoltà del paese nel contesto europeo oppure se vogliamo continuare a fare ipocritamente la parte di quelli che ce l’hanno fatta in un momento in cui è il paese che non riesce a superare la crisi”. Ma che cosa deve cambiare nella gestione del Partito democratico a livello locale? “Ho sperimentato sul campo quant’è difficile entrare nelle dinamiche del partito. Sono stato tra i candidati alle primarie in una lista (Cuperlo n.d.r) molto più a sinistra rispetto a quello che oggi rappresenta il Pd di Renzi. E le posso dire che ho avuto sgambetti incredibili da chi, invece, imma-


Continuare a rinnovare la classe dirigente Al di là del risultato esaltante, il lavoro vero da fare è quello di continuare nell’azione avviata da Renzi per rinnovare sul serio la classe dirigente del partito. Oggi la segreteria provinciale e regionale non possono esimersi dal fare valutazioni attente, scommettendo sul reale rinnovamento degli uomini e della politica.

ginavo avesse l’interesse a rinnovare la classe dirigente del partito”. Per questo, allora, la gestione della vittoria rischia di essere un problema? “In una serena analisi del voto bisognerebbe capire che hanno votato il Pd anche coloro che non sono sostenitori del centro sinistra. Tanti miei amici che alle politiche avevano votato per protesta per Grillo pensando di dare uno schiaffo al sistema, stavolta invece hanno detto: con il naso turato voteremo per il Pd perché non c’è un’alternativa. Altri, e sono tanti, non sono proprio andati a votare. In questo senso il voto per le Europee andava vissuto e gestito diversamente”. Quindi, ora il Pd che percorso dovrebbe avviare? “Al di là del risultato esaltante, il lavoro vero da fare è quello di continuare nell’azione avviata da Renzi per rinnovare sul serio la classe dirigente del partito. Oggi la segreteria provinciale e regionale non possono esimersi dal fare valutazioni attente, scommettendo sul reale rinnovamento degli uomini e della politica”. Un voto dai due volti anche nella sua Irpinia, dove il Pd è affondato ad Ariano Irpino e si è frantumato a Montoro. Come lo spiega? “Il Pd ad Ariano va ricostruito, è cosa nota,

ma lì come a Montoro e in altri importanti comuni abbiamo dovuto registrare l'assoluta mancanza di una regia in grado di unire le differenti compagini che dentro e fuori il partito hanno dimostrato, ben prima della chiamata alle urne, di saper essere protagonisti nei rispettivi territori. Il Pd avrebbe dovuto porre alle fondamenta delle scelte che si è maldestramente ritrovato a compiere un metodo fondato su esperienza e competenza, autorevolezza e credibilità. Pare superfluo rimarcare che la strada scelta è stata un'altra”. Ora inizia la corsa per le regionali. Cosa si aspetta? “Il mio impegno sarà quello di calmare i bollori di questa sbornia elettorale e lavorare sui contenuti: il vero tema è capire che prospettiva vogliono i partiti per la Campania al di là dei tatticismi”. Quindi, che fare? “Bisogna lavorare sulle proposte e non sui candidati, sperando che Renzi acceleri sulle riforme prima che gli alleati possano riuscire a recuperare. Per altro, sarebbe opportuno pescare nuovi candidati anche attraverso le primarie per proporre il cambiamento. Ma le confesso che, alla luce di quello che è avvenuto a livello locale nel Pd, non nutro molte speranze”. 

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Foto di Salvatore Laporta

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di Anna Malinconico

Europa – Italia: il cammino delle riforme Le riflessioni e i commenti del Presidente Francesco Paolo Casavola L’Europa deve guardi avanti L’Europa deve diventare finalmente un soggetto unitario e superare definitivamente e radicalmente la storia trascorsa, di una grande alleanza regolata dalla cornice di un atto di diritto internazionale, quali sono stati i suoi trattati che dalle comunità (carbone, acciaio, mercato unico), l’hanno condotta, dopo Mastrichct, alla Unione Europea.

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n quest’ultimo anno l’Italia ha cambiato più volte rotta ed ha pagato duramente, con una serie di correzioni dolorose e necessarie, il prezzo di un ventennio di andamenti anomali, ed ora sembra essere bene impostata per raggiungere gli obiettivi finanziari che le dovrebbero permettere di uscire, senza altre ferite, dalla crisi in atto. I risultati delle recentissime elezioni europee, consegnano un quadro modificato del Paese; la vittoria del Pd guidato da Renzi è di portata superiore ad ogni previsione e sarà sua la responsabilità sul futuro percorso da intraprendere. L’Italia di oggi si presenta in Europa come un paese che «ha fatto i compiti a casa». L’Istat ha calcolato che nel triennio 2011-13 la riduzione della spesa pubblica è risultata maggiore di quella inizialmente stimata: la spesa pubblica italiana è rimasta sostanzialmente stabile, mentre è aumentata del 7,3% in una Francia che ha difficoltà strutturali superiori a quelle italiane, del 3,6 % nel Regno Unito e del 2,4 % nella virtuosa Germania. Questo risultato è stato raggiunto grazie alla riduzione della spesa per il personale, ma soprattutto degli investimenti fissi, un taglio che ha avuto effetti negativi sia diretti sia indiretti sulla crescita italiana. Proprio per questo, Renzi farà bene ad insistere affinché i futuri investimenti pubblici, specie se intesi a migliorare la produttività, dovranno essere, almeno in parte, esclusi dai tetti alla spesa. Inoltre, secondo gli indicatori costruiti dalla Commissione Europea, la sostenibilità del debito pubblico italiano è tra le migliori. La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che il Presidente del Consiglio italiano dovrà andare in Europa a testa alta. Molti paesi europei, nonostante una salute apparente, si trovano in condizioni peggiori. È giunto il momento dun-

que a Bruxelles, di richiedere con autorevolezza, una rapida evoluzione in senso espansivo delle politiche europee. Si dovrà lavorare per favorire la fine della politica di austerità; per superare definitivamente i vincoli di bilancio e salutare il fiscal compact. Incontro il presidente emerito della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Casavola, dopo poco più di un anno dall’intervista pubblicata sul primo numero di Link, durante la quale parlammo di democrazia e crisi dei partiti politici, ed a seguito della quale lanciammo un sondaggio per raccogliere opinioni sulla opportunità di abolire il Senato, in un’ottica di riforma della Carta costituzionale. Da allora, lo scenario è cambiato ed il dibattito sulle riforme in Italia si è intensificato ed interrotto più volte. La prima domanda che pongo al presidente Casavola è inevitabilmente sull’Europa. Presidente, come vede l’Europa di oggi e quella in ieri? L’Europa deve diventare finalmente un soggetto unitario e superare definitivamente e radicalmente la storia trascorsa, di una grande alleanza regolata dalla cornice di un atto di diritto internazionale, quali sono stati i suoi trattati che dalle comunità (carbone, acciaio, mercato unico), l’hanno condotta, dopo Mastrichct, alla Unione Europea. Questo superamento significa che l’Europa deve darsi una Costituzione con gli organi, di una statualità comune, in modo che abbia una politica estera ed interna imputabile ad un soggetto unitario. Dopo la strada funzionalista, occorre tornare strategicamente, alla costruzione ed all’effettivo percorso di una strada costituzionale. Così si tornerebbe al presupposto politico di una piena legittimazione a governare sovranamente gli interessi dei popoli europei, superando tutte le attuali disu-

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guaglianze, nei loro ordinamenti interni e nelle loro economie. Il tema delle riforme è strettamente legato ad ogni forma di sviluppo possibile del nostro Paese in un’ottica europea, per questo conduco la discussione su questo piano le chiedo provocatoriamente: una Costituzione è materia disponibile per essere riformata? La storia insegna che tutte le costituzioni non si sottraggono al mutamento delle società e dei loro ordinamenti politici, ed anzi, ne sono il segnale più alto. Ciò detto bisogna riconoscere che le costituzioni sono figlie della lotta politica. La sconfitta militare e l’abbattimento di un regime politico, sono stati per l’Italia la matrice della costituzione repubblicana. Dove segnare il confine fra politica e Costituzione? Il confine sta nei valori che il testo costituzionale enuncia, prendendoli in eredità dai processi storici profondi, di natura etica e spirituale, sottesi agli eventi politici. La persona umana è il valore per cui viene tessuto il telaio delle regole costituzionali; di quelle regole che disegnano l’ordinamento della Repubblica. Quel valore è irrinunciabile nella sua perpetuità; tutto il resto può e deve essere confermato o riformato. E qui la costituzione torna ad essere politica. In una democrazia parlamentare la revisione della costituzione, va affidata alla missione dei partiti che devono interpretare i processi sociali e culturali cosa che esige un continuo adattamento di regole a valori permanenti. L’opinione pubblica democratica deve poter vigilare la correttezza di questa attività interpretativa degli attori politici; questo è lo spirito dell’art. 138 della costituzione che chiede l’intervento del popolo attraverso il ricorso alla consultazione referendaria. Presidente, cosa è cambiato in quest’ultimo anno in Italia sul tema delle riforme istituzionali? Ben poco… si sono affacciate un serie di proposte fluide, non chiare e soprattutto non risolutorie. Ritengo che l’unico elemento davvero positivo emerso sia la forte convinzione del Presidente del Consiglio, a procedere sulla strada delle riforme, ed il plebiscito di voti alle ultime consultazioni elettorali, gli consegnano pienamente la responsabilità a proseguire in tal senso. Ad oggi, il lavoro dei comitati dei saggi che si sono succeduti nel

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percorso che dovrebbe condurre alle prime urgenti riforme costituzionali, non appare aver prodotto nulla di significativo. Non si delinea un disegno organico e coerente, espressione di una volontà riformatrice, pienamente condivisa dalle forze politiche che manifestamente si proclamano “riformatrici”. Da cosa si dovrebbe partire? Intanto definendo in maniera chiara in che cosa consiste la trasformazione del sistema bicamerale con una Camera politica ed una Camera pura proiezione dei governi territoriali. Sarebbe più razionale e comprensibile, da parte dei cittadini, l’eliminazione secca di questa eredità dello statuto Albertino (parlo del Senato, naturalmente), sopravvissuta malgrado forti contrasti in Assemblea Costituente, nella carta del 1948, e nell’esperienza

della vita politica Repubblicana. Poi si dovrebbe lavorare sulle fonti, ma questo è un tema ancora nemmeno sfiorato. Arriviamo alla legge elettorale in preparazione che deve avere come chiaro esito un bipolarismo che conduca alla alternanza nel potere e non invece alla perpetuazione di un raggiunto equilibrio fra maggioranza ed opposizione, solo con la prospettiva dell’alternanza; la volontà dei cittadini potrà significare, partecipazione allo sviluppo democratico, e non solo strumento di legittimazione formale di uno schieramento maggioritario. L’ordinamento delle autonomie dovrebbe poi essere rivisitato tenendo conto della esigenza di una forte integrazione della nazione in un’Europa più solidale e compatta, riducendo le tentazioni localistiche e centrifughe che un brigliasciolte delle autonomie fatalmente determinerebbe. 


di Domenico Lucà

Cambiare la Costituzione ma con saggezza Le riforme sono una cosa seria!

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a riforma del Senato e quella del Titolo V sono una cosa seria. Non si cambiamo 45 articoli della Costituzione con un diktat o sulla base di un accordo extraparlamentare. Cambiare il Paese dopo anni di immobilismo va bene, ma quando è in gioco la Costituzione, la “velocità” non può diventare un valore irrinunciabile. Bisogna procedere con decisione, ma anche con responsabilità e saggezza. E poiché si parla di grande riforma, nuova legge elettorale, revisione del Titolo V e modifica del Senato non possono essere affrontate separatamente, ma con un approccio coerente e sostenibile. Proprio perché le riforme sono necessarie e urgenti, occorre impostare bene il confronto, in Parlamento, tra le forze politiche e nello stesso Pd. Le primarie, qui, non c’entrano niente. L’ipotesi, oggi fortemente sostenuta dal premier, di un Senato delle Autonomie è, a mio giudizio, preferibile. Ma il Senato delle Autonomie non può diventare il “secondo lavoro” di sindaci e governatori, oppure una sorta di Cnel delle Regioni. Esso ha senso se, anzitutto, governa il federalismo cooperativo italiano e se diventa il luogo privilegiato del confronto istituzionale tra Stato e Regioni. Il Senato delle Autonomie perde, invece, ogni ragione se i poteri delle Regioni vengono svuotati, oppure se ci si continua ad affidare alla Conferenza Stato-Regioni per compensazioni politiche poco trasparenti. In ogni caso, lo ripeto, questa riforma, quella del federalismo e la nuova legge elettorale sono strettamente collegate. La questione delle garanzie degli equilibri costituzionali, posta da Vannino Chiti, è molto seria e non può essere brutalmente rimossa. Se il Senato diventa davvero delle Autonomie, sul modello del Bundesrat tedesco, è logico reimpostare il tema del federalismo e prevedere un’elezione

di secondo grado. Ma un’elezione di secondo grado dei senatori renderebbe ancora più inaccettabile l’attuale impianto dell’Italicum, che a pari del Porcellum, sottrae ai cittadini il diritto di scegliere i propri deputati e affida il potere di nomina a strettissime oligarchie di partito. Non sarebbe più democratico, né compatibile con i principi della Costituzione, un sistema i cui senatori siano scelti dai consiglieri regionali e dai sindaci, mentre i deputati vengono tutti nominati dai capi-partito. Ancor più se il nuovo Senato avesse anche la funzione di revisione costituzionale. Se il governo non fosse disposto ad un confronto serio volto alla ricerca di una sintesi largamente condivisa, se non fosse disposto a riconoscere che i testi attuali creano vuoti pericolosi sul terreno delle garanzie costituzionali e dei contrappesi democratici, se non fosse disposto a cambiare in modo profondo l’impianto dell’Italicum, allora il testo della proposta Chiti diventerebbe l’ancoraggio indispensabile ad una cultura giuridica seriamente ispirata alla tradizione europea. 

Dopo l’immobilismo la corsa, ma con responsabilità Cambiare il Paese dopo anni di immobilismo va bene, ma quando è in gioco la Costituzione, la “velocità” non può diventare un valore irrinunciabile. Bisogna procedere con decisione, ma anche con responsabilità e saggezza.

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INTERVISTA A DIEGO LAZZARICH

Il risultato delle elezioni europee e i nuovi scenari politici Le primarie, Berlusconi e la sintesi delle differenze, la provocazione di Grillo a cura di Maria Beatrice Crisci

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e ragioni del successo del Pd sono molteplici e tutte insieme hanno contribuito al raggiungimento di un risultato storico che vede non solo primeggiare di gran lunga il partito rispetto ai suoi avversari, ma anche guadagnare più di 3 milioni di voti rispetto alle Europee del 2009 e ben 2,5 milioni di voti rispetto alle recenti elezioni politiche del 2013. Insomma, risultati notevoli! La ragione principale, tuttavia, è sicuramente legata alla leadership di Matteo Renzi che sta riuscendo ad avviare un processo di rinnovamento interno di cui il Pd sentiva francamente bisogno già da tempo. Il partito aveva finito per identificarsi eccessivamente col vecchio gruppo dirigente, perdendo la capacità di aprirsi in maniera sincera e convinta alle nuove idee provenienti dalla società...E queste sono cose che gli elettori percepiscono in maniera negativa. Come si può pensare che le stesse persone che erano già presenti nella svolta del PCI abbiano nel loro vocabolario le parole e i concetti per interpretare e rappresentare un mondo drasticamente cambiato? Matteo Renzi è riuscito a scuotere il Pd accelerando un reale rinnovamento che passa sia dal ricambio dei quadri del partito, ma

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anche dall’interrogarsi su questioni più controverse ma urgenti, come sul significato stesso di “sinistra”. Il suo carisma personale, ovviamente, gli sta rendendo tutto più facile. Gli elettori lo trovano credibile e di fronte a questa novità molti votanti di sinistra e di centro hanno reagito con entusiasmo dando il proprio voto sì al Pd, ma anche quale mezzo per manifestare approvazione verso Renzi. Ne è la prova l’analisi dei flussi elettorali elaborata dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo, i quali hanno messo in evidenza come il Pd abbia attratto voti principalmente da Scelta Civica e in misura nettamente minore dall’ex PdL e M5S. Insomma, gli italiani domandano un cambiamento di cui il Paese ha drammaticamente e improcrastinabilmente bisogno e premiano chi credono possa favorire una fase nuova. Questi soggetti attualmente sono Renzi e Grillo: se si sommano i voti dei partiti a loro legati ci si rende conto quanto questa istanza sia forte. Ma perché gli elettori si sono così disaffezionati al centrodestra? Ci sono in gioco ragioni ‘strutturali’. Dobbiamo renderci conto che la storia del centrodestra italiano della ‘seconda Repubblica’ si sovrappone in grossa parte –

Ricercatore e professore aggregato di Storia delle Dottrine Politiche al Dipartimento di Scienze Politiche della Seconda Università degli Studi di Napoli


Il primato di Berlusconi Berlusconi è stato il primo politico in Italia a trasformare in modo sostanziale lo spazio politico operando una sovrapposizione tra la sfera pubblica e quella privata.

in modo fatale – con la storia politica e personale del suo leader. Berlusconi è stato il primo politico in Italia a trasformare in modo sostanziale lo spazio politico operando una sovrapposizione tra la sfera pubblica e quella privata. Voglio dire che la capacità di Berlusconi di riscuotere consenso elettorale si è fondata costitutivamente su una ‘narrazione’ in cui l’elemento perso-

nale (il successo imprenditoriale) è diventato fonte di legittimazione e credibilità dell’uomo politico, quindi della figura pubblica. Agli occhi di una parte importante del suo elettorato, il fattore strettamente personale ha sempre rappresentato un motivo di affidabilità politica. Nel momento in cui la figura privata di Berlusconi ha iniziato a decadere (per motivi anagrafici, morali e non

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ultimi processuali) anche la figura politica ha iniziato a indebolirsi e con essa Forza Italia. Infatti, sebbene nel corso di vent’anni questa forza politica abbia raccolto milioni di voti, abbia governato numerose realtà locali entrando in contatto con le energie della società, la sua natura è sempre stata quella di un’organizzazione fortemente gerarchica con al vertice un leader indiscusso che di fatto era anche, in senso stretto, un capo: colui che sì ascoltava chi lo circondava ma che in ultima istanza era in grado di dettare sempre la propria linea (celebre e recente fu l’improvvisa dichiarazione di fiducia di Berlusconi al Governo Letta dopo che numerosi

Le primarie sono state uno strumento importante nel centrosinistra, anche se in modo eccentrico rispetto agli altri contesti occidentali in cui sono state e sono usate. Infatti, non sono mai servite realmente per selezionare i leader, ma per legittimarli. esponenti avevano già preannunciato il voto contrario... il partito, ovviamente, si adeguò al cambio di rotta del capo). È per questo motivo che, come dicevo all’inizio, le cause del netto arretramento di Forza Italia penso siano più strutturali di singoli fattori minori che ci sono sempre stati. Diciamo che Berlusconi operava una sintesi delle differenze che animano il centrodestra e che con il suo declino tutte le contraddizioni sono esplose fragorosamente. Il centrodestra ha quindi un problema di identità. Magari potrebbe attuare procedure care alla sinistra e avvalersi di slogan del Pd per catturare di nuovo elettori? Bella domanda! Le primarie sono state uno strumento importante nel centrosinistra, anche se in modo eccentrico rispetto agli altri contesti occidentali in cui sono state e sono usate. Infatti,

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non sono mai servite realmente per selezionare i leader, ma per legittimarli. Storicamente hanno sempre vinto i candidati che il gruppo dirigente voleva che vincessero (anche nella sfida Bersani-Renzi). Stessa cosa nelle ultime primarie: si sapeva già che avrebbe vinto Renzi, ma in questo caso la forte affluenza è servita al nuovo segretario per legittimarlo ad avviare un processo di rinnovamento della classe dirigente del partito, che non avrebbe dovuto essere una delle funzioni delle primarie. Ciò detto, è certo che nonostante le primarie ‘preconfezionate’, per così dire, il Pd con questo strumento ha introdotto nel sistema politico italiano un reale mezzo di partecipazione, aprendo un importante varco che non ha mancato di democratizzare lo scenario politico del centrosinistra (soprattutto in contesti meno alla ribalta dove è stato possibile operare una più genuina selezione dei candidati). Le idee sono


Foto di Livia Crisafi

semi piccoli ma destinate e diventare forti alberi se il terreno è fertile, e le primarie hanno introdotto un importate precedente nella politica italiana. Che lo stesso strumento possa servire oggi al centrodestra per selezionare un nuovo leader è una questione più complessa. Nonostante gli sforzi dei vari attori che animano quella parte politica, Berlusconi non è uno dei leader del centrodestra ma è il centrodestra, per così dire, e questo rende più problematica ogni ‘rottamazione’. Poi c’è il discorso della difficoltà ad accettare le primarie. Bobbio diceva che uno dei temi fondamentali in un sistema democratico è la democrazia interna ai partiti. Bene, se è vero che questo è un punto problematico in molti partiti italiani, è altrettanto vero che l’articolazione di Forza Italia su questo punto è particolarmente deficitaria, lasciando intravedere una difficile convergenza con la logica democratica delle pri-

marie. In ogni caso, verosimilmente nel centrodestra si sono avviati dei processi più profondi che richiederanno tempi più lunghi per giungere a maturazione. Ma il tema più importante, dal mio punto di vista, non è tanto come il centrodestra selezionerà il proprio futuro leader, ma se a questo processo si accompagnerà la definizione di un’area politico-culturale chiara e riconoscibile. La logica di guerra civile degli ultimi due decenni ha contribuito in modo significativo a bloccare l’Italia mettendone in ginocchio non solo il tessuto economico, ma anche quello politico e civile, e mettendo in secondo piano quello che dovrebbe essere il tema principale su cui si confrontano/scontrano i partiti: le idee e la progettualità politica. A questo proposito mi torna in mente uno dei ‘padri’ della politica moderna. Il pensatore inglese del XVII secolo Thomas Hobbes, che nella sua più celebre opera diceva che gli uomini danno vita alla politica perché si rendono conto che senza l’ordine che da essa si emana si vivrebbe in un continuo stato di caos e di guerra, che lascia i Paesi in una condizione di insicurezza in cui non si investe più nel futuro. Ecco, a me sembra che in Italia la politica invece di contribuire a creare la pace abbia fatto di tutto per alimentare un clima di guerra dove, come diceva il nostro amico inglese, cresce il caos, e nel caos si perdono i riferimenti, quindi non c’è più né giusto, né sbagliato. La domanda che dovremmo porci è: perché si è cercato tanto ostinatamente questo clima di guerra? Con quale fine? La risposta ci porterebbe lontani, ma diciamo che quello che conta ora è che in Italia sembra si sia imboccata una rotta differente. Le spinte dal basso stanno obbligando il sistema politico a una innovazione forte. Credo che allo stato attuale non importi tanto il perché e il per come, basta che si prosegua ostinatamente la via del rinnovamento. In questo Grillo ha giocato un ruolo storico importante riuscendo a stimolare i partiti consolidati. Siamo ancora in una fase magmatica, ma i movimenti che si sono avviati sembrano farci intuire che la via intrapresa condurrà a un importante mutamento del sistema politico italiano. 

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di Laura Puppato

Sul tema delle riforme che cosa è successo nel Pd Le diverse visioni viste da dentro. Renzi ha portato aria nuova.

* Senatrice Pd

Foto di Carlo Hermann

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a sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, questo recita il primo articolo della Costituzione italiana. Il potere dunque risiede interamente nel popolo italiano a cui la Costituzione assegna forme e strumenti perché possa concretamente esercitarlo, lo strumento principe, ovviamente, sono le elezioni. Non si tratta di una dissertazione sulla Costituzione, ma una premessa necessaria ad una riflessione sulla necessità delle riforme proposte dal Partito democratico in questi mesi. Il popolo sovrano ha infatti selezionato e premiato l’unica forza che da mesi si pone con-

cretamente a favore della riforma del Senato, elettorale, del lavoro, etc... Le altre forze hanno avuto un approccio o ambiguo, come nel caso di Forza Italia, o di forte contrasto, come nel caso del Movimento 5 Stelle. Quale che fosse l’atteggiamento sono state punite dagli elettori. Alla luce del voto, quindi, la volontà della maggioranza è chiara, così come il mandato che ha ricevuto questo Governo. Matteo Renzi e la sua squadra, ma con loro tutti noi parlamentari del Pd, sopravvivono se tengono fede alle promesse fatte sulle riforme, in particolare, io credo, per quanto riguarda il Senato e la legge elettorale, molto attese e da troppo tempo. In alcuni casi queste riforme sono state attaccate perché “non economiche” e quindi non in grado di incidere

Parola chiave: credibilità! L’Italia ha bisogno soprattutto di credibilità, per creare fiducia nei mercati finanziari e per tranquillizzare le aziende.

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sulla crisi. Ciò è falso, perché le aspettative ricoprono un ruolo molto importante sia nella macro che nella microeconomia. L’Italia ha bisogno soprattutto di credibilità, per creare fiducia nei mercati finanziari e per tranquillizzare le aziende. Detto in altri termini, se un Paese dice di voler abolire le province e poi le abolisce effettivamente (pur in modo parziale, in attesa della riforma costituzionale), sarà un Paese credibile anche quando prometterà di riformare il lavoro o la giustizia. Generare più certezza, dopo decenni di promesse rimaste su carta, è forse la sfida per eccellenza di questo governo e, al momento, è una sfida che l’Italia sta vincendo. Nei giorni successivi al voto i giornali si sono concentrati sulle presunte discordie interne al Pd, sport nazionale per molti giornalisti. È vero che nel Partito democratico sono presenti posizioni diverse, che a volte sembrano inconciliabili, ma è altresì vero che siamo l’unico partito in Italia ad avere gli strumenti necessari per gestire le differenze e ricomprenderle in un unico grande disegno politico progressista. Sulle riforme quindi ci si adopererà come sempre. È naturale che ci siano differenze ed è pure garanzia per tutti, perché assicurano un dialogo interno pregno di arricchimento per tutti. Ciò che è unico è la direzione. Ecco il motivo della premessa, il Pd ha ricevuto il mandato di fare le riforme che servono all’Italia, l’ha ricevuto dal popolo sovrano e nessuno nel nostro partito si tirerà indietro, per questo sono fiduciosa sul fatto che troveremo la giusta sintesi. La base proposta dal Ministro Boschi è molto buona, può essere migliorata per quanto riguarda le autonomie locali, per avvicinarsi al modello dei Lander tedeschi, ma come testo iniziale è un ottimo punto di partenza. Altre modifiche, che non snaturino la riforma, sono possibili, a patto che trovino il favore di tutti i partecipanti al tavolo dei negoziati, per non rischiare di mandare a mare tutto. In definitiva, sono molto ottimista, per due motivi. Il primo è che va riconosciuto a Matteo Renzi di aver portato un’aria nuova dentro il partito che si è estesa a tutti grazie alla consacrazione elettorale. Non è mia intenzione saltare sul carro, anche se al massimo potrei essere accusata di esserci saltata nel momento più duro, quando anche molti renziani della prima ora ne prendevano le distanze, ma al premier vanno riconosciute delle qualità di

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gestione della situazione oggettive. Nonostante qualche suo eccesso, non lo si può certo paragonare a Berlusconi, né tanto meno ad Andreotti o Craxi. I suoi modelli sono Obama o Blair, leader carismatici capaci di fare scudo al partito e accentrare l’attenzione su di sé quel tanto da permettere un lavoro con maggiore tranquillità. Oggi noi tutti respiriamo l’aria di ottimismo, così ben descritta dall’hashtag “la volta buona”. Il secondo motivo dipende dal Movimento 5 Stelle. L’atteggiamento attuale è stato bocciato e ora devono sedersi al tavolo, riconoscerci come forza dal grande valore democratico e parlare delle riforme con noi. Se, come dicono, sono solo portavoce del popolo, il 40% di que-

Il Pd ha ricevuto il mandato di fare le riforme che servono all’Italia, l’ha ricevuto dal popolo sovrano e nessuno nel nostro partito si tirerà indietro sto popolo li ha chiesto di uscire dal freezer e mettersi a lavorare per il bene comune. Ben inteso, si sono dimostrati interlocutori poco credibili e instabili, la mano tesa del Pd è un enorme credito di fiducia che dovranno dimostrare di meritare. Nessuno chiede loro di rinunciare alla propria identità e ad un’opposizione fiera e costruttiva, ma le trattative non potranno andare avanti sulla base del “o fate come diciamo noi o siete mafiosi, corrotti, ladri, etc…”. Devono accettare che c’è già un lavoro svolto senza di loro, perché chiamatisi fuori e sulla base di questo si proseguirà. In ogni caso, il treno delle riforme è partito, questa è l’ultima stazione in cui tutte le forze possono salire a bordo, chi preferirà starsene comodo in sala d’attesa lo vedrà arrivare all’arrivo senza il proprio contributo, a maggior gloria di chi ha scelto la difficile via del tentare. 


a cura di Pellegrino Giornale

Foto di Mario Laporta

Nuove Province dal futuro ancora incerto Le critiche di Aniello Cimitile alla legge approvata dal Parlamento su spinta del Governo Renzi

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desso che il clamore mediatico si è spento molti stanno scoprendo che le Province non sono state abolite e neppure accorpate o ridotte. Sono state diffuse bugie e mistificazioni a buon mercato per non dire la verità ai cittadini e cioè che alcuni fondamentali servizi potrebbero definitivamente sparire dopo i duri colpi già inferti da una dissennata austerity fondata su una ottusa spending review”. A dichiararlo è Aniello Cimitile, commissario straordinario della Provincia di Benevento di cui è stato il presidente dal 2008 al 2013, che ragiona sulla legge Delrio, il cosiddetto “svuota Province”, approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati il 3 aprile scorso. Le Province non sono state abolite, ma almeno spariscono gli organi elettivi con i re-

Il nuovo ruolo delle Province Le Province continueranno ad occuparsi di tutela e valorizzazione dell’ambiente, di edilizia scolastica, di trasporti locali e di viabilità.

lativi stipendi… Anche su questo punto non è stata detta tutta la verità. Sin qui le Province sono state rette da politici eletti dai cittadini, ora saranno nelle mani di politici nominati da sindaci e consiglieri comunali. Le poltrone non scompaiono affatto e quanto alle indennità si potevano abolirle ugualmente anche se i consiglieri provinciali fossero stati eletti. L’unica cosa che sparisce davvero è la democrazia e non vorrei che queste decisioni andassero a gonfiare il vento dell’antipolitica o, peggio ancora, favorissero solo coloro che la politica se la possono permettere. Le funzioni delle Province da chi saranno svolte? Le Province continueranno ad occuparsi di tutela e valorizzazione dell’ambiente, di edilizia scolastica, di trasporti locali e di viabilità. Perciò continuo a dire che si

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tratta di una riforma inconcludente, confusa, che non abolisce le Province ma le mantiene in vita con accanimento terapeutico. Cambia la forma ma non la sostanza. Resto convinto che questi disegni di legge sono stati scritti da un gruppo di burocrati che, però, stanno dimostrando di non conoscere le realtà territoriali e di non avere un’idea chiara dell’assetto istituzionale. Accanto alla burocrazia ha agito una potente lobby della casta politica e dei sindaci delle grandi città a cui si è aggiunto un alto livello di demagogia da parte del Governo che ha fatto il resto. Cosa succede adesso nelle Province che dovranno intraprendere il nuovo corso?

Il gioco dello svuotamento delle Province ha significato soltanto una drammatica riduzione dei fondi a disposizione di servizi essenziali per la comunità. Nonostante le dure critiche che ho espresso sull’impianto complessivo del provvedimento approvato in Parlamento, sono fermamente convinto che la legge va rispettata, tanto è vero che in queste settimane sono impegnato per garantirne l’applicazione e la transizione verso i nuovi assetti. Ovviamente, non posso nascondere che i problemi saranno enormi perché la legge è zeppa di ambiguità, di contraddizioni ed apre anche a possibili pesanti conflitti d’interesse. Allo stato c’è grande confusione perché, in attesa che parta il nuovo sistema, abbiamo quattro regimi diversi: Province che continuano normalmente la consiliatura, Province che continuano a essere governate da un commissario straordinario, Province che saranno governate solo dall’ex presidente prorogato ma insieme alla sua giunta e poi abbiamo Province in transizione verso le Città metropolitane.

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Che cosa ci sarà al posto delle attuali Province? È ancora presto per dirlo perché la nuova legge è stata scritta male e quindi si apre ad una serie di buchi e contraddizioni. Il gioco dello svuotamento delle Province ha significato soltanto una drammatica riduzione dei fondi a disposizione di servizi essenziali per la comunità. Non vorrei che una sbagliata politica di austerity portasse ad una sbagliata gestione dell’Ente. Quali saranno le ricadute sul territorio di questo nuovo meccanismo? Le conseguenze saranno gravissime perché avremo un organismo provinciale depotenziato dalle logiche che i sindaci porteranno in seno all’assemblea, come è giusto che sia perché i sindaci rappresentano un legame forte con il proprio territorio. Bisognerà capire però come queste logiche possono coesistere con le esigenze più vaste di rappresentanza complessiva di una provincia. Quanto si risparmia grazie a questo provvedimento? Oltre che sull’abolizione delle Province, la disinformazione ha riguardato anche la questione dei risparmi che sicuramente non sono quelli annunciati dal Governo. I tagli verticali sono sbagliati in ogni Ente perché non eliminano le inefficienze ma, anzi, abbattono la qualità dei servizi ai cittadini, senza tagliare realmente dove c’è lo spreco vero. Al presidente Renzi dico che bisogna mettere mano concretamente ed in maniera ragionata sui reali santuari dello spreco. Quindi la battaglia non si ferma? La discussione è ancora aperta. Voglio ribadire di essere d’accordo con il presidente Caldoro che ha posto l’accento sul superamento delle attuali Regioni. La sua è una posizione molto interessante che dovrebbe portarci a riflettere sul futuro degli enti locali. Mi spaventa ascoltare chi pensa che le Città metropolitane saranno il motore dello sviluppo del Paese. Francamente, a pensare che istituzioni come il Comune di Napoli possano svolgere un ruolo di questo tipo per la Campania, mi vengono i brividi. La verità è che interi territori, soprattutto le aree interne, verrebbero travolti dai disagi della aree metropolitane. 



APPROFONDIMENTI

di Marianna Quaranta

Il sistema delle partecipate pubbliche: la scheda Tra pubblico e privato aspettative ed interessi a confronto

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l tema delle società pubbliche, che presenta caratteri di interesse e complessità tali da spaziare in settori multidisciplinari che vanno dal diritto all’economia per passare attraverso questioni di notevole rilevanza sociale, è sempre più di maggiore attualità

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in un contesto socie – economico che vede attraversare l’Italia da una crisi senza precedenti che non poteva risparmiare il settore pubblico e segnatamente l’esercizio di servizi pubblici attraverso strutture societarie caratterizzate da tratti proprio delle persone giuridiche di diritto privato.


Per ultima si segnala, per restare nel territorio Campano, la clamorosa dichiarazione di fallimento delle Società in house denominata Bagnolifutura S.p.A. di trasformazione urbana che reca con se, oltre che molteplici implicazioni, anche lo svanire di un sogno di riqualificazione di una strategia e fondamentale area della Città di Napoli. Con il fallimento della società Bagnolifutura si concretizza anche la fine di un sistema che negli ultimi anni ha caratterizzato l’intera organizzazione dei servizi pubblici locali ed il fallimento di un sistema troppo basato sulla clientela e poco attento alle dinamiche proprie delle società commerciali. Il coperchio è stato sollevato e con esso le

organi di amministrazione e controllo si plaude alla indicazione della giurisprudenza di affidare alla giurisdizione dei Giudici contabili la ricerca e la persecuzione di tali responsabilità che non pochi danni arrecano alle finanze pubbliche. Il sistema è ulteriormente complicato solo se si immagini che in passato la soluzione delle società in house ha consentito anche di svolgere un ruolo di ammortizzatore sociale e di valvola di salvaguardia del sistema occupazionale. Oggi soluzione non più praticabile visto il contesto economico critico nel quale si inseriscono tali soggetti giuridici pubblici. L’indagine che segue costituisce un’analisi degli aspetti legati per l’appunto –

Con il fallimento della società Bagnolifutura si concretizza anche la fine di un sistema che negli ultimi anni ha caratterizzato l’intera organizzazione dei servizi pubblici locali ed il fallimento di un sistema troppo basato sulla clientela e poco attento alle dinamiche proprie delle società commerciali. problematiche connesse. In primo luogo quello della fallibilità delle società in house costituite per finalità di gestione di pubblici servizi, che si individuano nei seguenti requisiti: a) la natura esclusivamente pubblica dei soci, b) l’esercizio dell’attività esclusivamente o quanto meno in prevalenza a favore dei soci stessi e c) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici, presupposti che, per poter parlare di società in house, è necessario sussistano tutti contemporaneamente e che trovino tutti il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello Statuto sociale. Queste condizioni però hanno determinato condizionamenti della politica che si ripercuotono inevitabilmente sulla possibilità di iniziative serie da parte delle Pubbliche amministrazioni dirette a controllare ed eventualmente a sanzionare gli organi societari. Di qui e per far fronte ad un sostanziale esonero della responsabilità degli

all’impatto che l’interazione tra l’entesocio e la società partecipata può avere sull’amministrazione; – alla rilevanza assunta dalle società partecipate nel sistema degli enti locali con particolare l’attenzione alla riconducibilità delle stesse nel concetto di “gruppo”, in cui il Comune o la Provincia assumono la posizione di “controllanti”, in termini analoghi a quelli previsti dall’art. 2359 del codice civile tra la società madre e le società figlie (La funzionalizzazione pubblica delle società partecipate, di A. Barbiero); – al fenomeno delle esternalizzazioni come rimedio alla stretta del patto di stabilità con effetti elusivi dei vincoli di finanza pubblica; – ai rapporti tra EE.LL. ed organismo partecipato (Enti locali ed organismi partecipati, G. Battaglia) fino ad arrivare alle esperienze maturate in tema di partecipate pubbliche nel settore dei trasporti (Il commento è di Bianco ex amministratore della Sepsa). 

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APPROFONDIMENTI

La funzionalizzazione pubblica delle società partecipate L’espansione del modello societario ai soggetti pubblici di Alberto Barbiero

* Consulente

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e società partecipate dagli enti locali sono modelli di gestione di servizi pubblici assunti nel tempo dalle stesse amministrazioni e ricondotti, in una prospettiva di efficientamento, a schemi organizzativi esternalizzati. La costituzione di una società o la partecipazione ad un soggetto già esistente, mediante acquisto di quote o azioni, sono possibili solo quando l’attività dell’organismo societario corrisponda alle finalità istituzionali dell’ente locale socio (art. 3, comma 27 della legge n. 244/2007). Questa condizione di presupposto assicura la funzionalizzazione pubblica della società partecipata, garantendo la sua missione in rapporto alla realizzazione di servizi a favore della comunità locale (servizi pubblici) o per esigenze operative della stessa amministrazione (servizi strumentali). La proiezione fondamentale dell’attività delle partecipate rispetto agli interessi tutelati dagli stessi enti soci ne ha determinato la costituzione in numero sempre più rilevante, sino a raggiungere il numero complessivo di 3.200 soggetti societari (C.

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D’Aries – E. Bracci, Relazione di sintesi Banca dati CONSOC – PERLA. PA., febbraio 2014, pag. 34; l’analisi individua 5. 562 organismi partecipati, di cui 1522 S. p. a. e 1729 S.r.l.). La scelta strategica di costituire le società per la gestione di servizi è stata, tuttavia, in molte realtà travisata, sulla base di sollecitazioni anche estemporanee determinate dalla legislazione vincolistica in materia di finanza pubblica, come evidenziabile dai molti casi di costituzione a fini di elusione del patto di stabilità interno (come ad esempio rilevato dalla Corte dei Conti, sez. reg. contr. Veneto, delib. n. 167/2013/PRSP del 1° luglio 2013). L’espansione del modello societario si è avuta anche secondo un’architettura di controllo verticale, con la creazione di holding, nonché secondo prospettive di produzione di attività non conformi alla funzionalizzazione pubblica, come nel caso di società direttamente partecipate dagli enti locali e ingegnate per gestire attività commerciali, violando non solo le previsioni dell’art. 3, comma 27 della legge n. 244/2007 (come evidenziato dalla

amministrativogestionale. Collabora con “Il Sole 24 Ore”


Corte dei Conti, sez. reg. cont. Lombardia delib. n. 861/2010/PAR del 15 settembre 2010), ma anche le disposizioni a garanzia dell’unbundling per le società favorite dall’affidamento diretto (art. 8, comma 2 della legge n. 287/1990). Gli enti locali soci hanno, peraltro, in alcuni casi, forzato i necessari presupposti istitutivi nel tentativo di configurare i soggetti societari

come risolutori di problematiche occupazionali di contesto, secondo una logica del tutto opposta a quella a fondamento del modello di gestione dei servizi: in simili situazioni sono emerse responsabilità rilevanti per il travisamento della funzione tipica delle società partecipate dagli enti locali (Corte dei Conti, sez. I giurisd. centr., sent. n. 402 del 21 settembre 2011).

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APPROFONDIMENTI

Il “gruppo-ente locale” e il controllo (obbligatorio) sulle società partecipate La rilevanza assunta dalle società partecipate nel sistema degli enti locali è riconoscibile nella riconduzione delle stesse al “gruppo”, in cui il Comune o la Provincia sono i soggetti controllanti, in termini analoghi a quelli previsti dall’art. 2359 del codice civile nelle relazioni tra la società madre e le società figlie. Tale situazione è produttiva di interazioni particolari, che determinano dinamiche singolari soprattutto nei rapporti economici tra l’ente locale controllante e le so-

La relazione tra l’ente locale e le società da esso partecipate è connotata da un doppio filo: quello pubblicistico e quello in chiave civilistica. L’impatto che questa seconda interazione può avere sull’amministrazione ha effetti complessi, sia positivi sia potenzialmente negativi. cietà afferenti al gruppo (si vedano le problematiche segnalate dalla Corte dei Conti, sez. reg. contr. Lombardia con delib. n. 17/2014/PRSE del 16 gennaio 2014). Ne scaturisce un quadro di relazioni nelle quali l’esercizio del controllo da parte dell’ente locale si configura come obbligo sostanziale non solo nel rapporto socio (affidante) e società (affidataria dei servizi), come componibile in base all’art. 147-quater del d. lgs. n. 267/2000 (Tuel), ma anche nella linea di confronto sugli equilibri economico-finanziari, secondo una logica “di bilancio di gruppo”, sancita dall’art. 147quinquies del medesimo decreto per tutte le tipologie di enti locali, inclusi i Comuni di minori dimensioni (come evidenziato dalla Corte dei Conti, sez. reg. contr. Veneto, delib. n. 17 e 18/2014/PRSP del 14 gennaio 2014).

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Le linee di verifica sono parte di un sistema più ampio, destinato ad evolvere dall’attuale consolidamento virtuale al bilancio consolidato, secondo il nuovo modello economico-contabile configurato dal d. lgs. n. 118/2011, destinato all’avvio dal 1° gennaio 2015. Anche in questa chiave, la relazione di controllo deve appurare la sana gestione dei servizi pubblici e strumentali, esplicitata come obiettivo trasversale per le società partecipate dall’art. 1, comma 553 della legge n. 147/2013. Non sfugge, quindi, l’importanza del controllo esercitato dalle amministrazioni locali sulle società a cui esse partecipano, che assolve ad una molteplicità di logiche funzionali, inclusa quella volta a garantire la sussistenza del c. d. “controllo analogo” sulle società affidatarie dirette secondo il modello dell’inhouseproviding. Peraltro, il mancato controllo può incidere in modo significativo sulle dinamiche economico-finanziarie complessive dell’ente locale socio, in forza di quanto previsto dall’art. 1, commi 551 e 552 della legge n. 147/2013 (sull’obbligo di accantonamento per il ripiano perdite) e addirittura può risultare comportamento con effetti straordinariamente negativi, in quanto determinante condizioni che possono impedire all’ente locale l’adesione a percorsi di risanamento previsti dalla normativa (come nel caso analizzato dalla Corte dei Conti, sez. reg. contr. Campania con delib. n. 12/2014 del 19 febbraio 2014). La relazione in chiave civilistica La relazione tra l’ente locale e le società da esso partecipate è connotata da un doppio filo: quello pubblicistico e quello in chiave civilistica. L’impatto che questa seconda interazione (tra l’ente-socio e la società, appunto) può avere sull’amministrazione ha effetti complessi, sia positivi (si pensi alla distribuzione di dividendi in caso di gestione in utile dell’organismo societario) sia potenzialmente negativi. Ampio è, infatti, il dibattito sulla sottoponibilità o meno delle società pubbliche alle procedure fallimentari, ma è pur certo che sia nell’ipotesi positiva che in quella negativa l’ente locale controllante assorbe profili di responsabilità e rischi debitori. Resta il rischio di ribaltamento in caso di fallimento. 


di Gianluca Battaglia

Enti locali ed organismi partecipati I controlli sui rapporti finanziari ed i controlli interni

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interesse per un’amministrazione pubblica più efficiente ed economica si è accentuato in Italia, come in tutti gli altri Stati economicamente più avanzati, a seguito della c. d. globalizzazione; fenomeno questo complesso, che si caratterizza, soprattutto, per lo sviluppo della concorrenza, effetto congiunto della liberalizzazione dei mercati e della rivoluzione informatica, e che ha dato luogo ad un’intensa competizione economica tra Stati. La pubblica amministrazione viene ora considerata non una variabile indipendente, un peso morto comunque da sopportare, ma fattore propulsivo dello sviluppo, in quanto chiamata a realizzare le condizioni, in termini di affidabilità ed efficienza del sistema amministrativo, necessarie al formarsi di un ambiente favorevole allo sviluppo economico. La ricerca di una maggiore efficienza è stata il filo conduttore di ogni innovazione legislativa e il confronto con l’andamento del settore privato, portatore di livelli di efficienza sicuramente superiori e mediamente in grado di reggere la competizione internazionale, ha indotto a recepire nella pubblica amministrazione gli stessi modelli gestionali. È emblematico al riguardo, anche per la generalità di applicazione, l’art. 11 della ricordata legge n. 241, che ha introdotto gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, soggetti alla disciplina del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. In buona sostanza, il fenomeno della c. d. esternalizzazione e connessa privatizzazione di funzioni e servizi pubblici ha trovato grande sviluppo nell’amministrazione statale manifestandosi in forme diverse, ma con netta prevalenza del modello societario. Uno sviluppo ancora maggiore ha assunto, nel periodo considerato, il ricorso ai modelli pri-

vatistici di gestione e allo strumento societario di organizzazione soggettiva nell’ambito dell’amministrazione locale. Al fenomeno ha contribuito notevolmente il favorevole orientamento del legislatore, che è intervenuto numerose volte a rimuovere limiti e a sollecitare questa strada; già, del resto, seguita anche prima da non pochi enti locali, tra i più progrediti, nonostante le incertezze del quadro normativo. Il punto di partenza può essere individuato nell’art. 22 della legge n. 142 del ‘90, che ha rimosso ogni incertezza sul punto riconoscendo, in via generale, agli enti locali la possibilità di gestire servizi pubblici «a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati». Alla base della norma stava la ormai diffusa convinzione della maggiore efficienza raggiungibile nella prestazione di un servizio con una più agile struttura privatistica e la connessa possibilità di avvalersi di capitali, tecnologie, organizzazione e competenze imprenditoriali del settore privato; d’altra parte il vincolo della presenza maggioritaria del capitale pubblico avrebbe dovuto garantire il perseguimento delle finalità pubbliche proprie dell’ente, pur nell’ambito di una gestione economica per definizione rivolta al profitto. La legislazione successiva in materia si caratterizza per la tendenza ad allargare sempre di più le possibilità di accesso al modello societario. Va segnalato, in primo luogo, l’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (modificato dall’art. 1, comma 5, del DL 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con legge n. 493/1993), che consente la costituzione di S. p. A. anche per la realizzazione di infrastrutture e altre opere di interesse pubblico e senza più il vincolo della proprietà maggioritaria, ma con l’obbligo

La base della crescita economica La pubblica amministrazione viene ora considerata un fattore propulsivo fondamentale in quanto chiamata a realizzare le condizioni necessarie allo sviluppo economico.

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APPROFONDIMENTI

di scegliere i soci privati con procedure ad evidenza pubblica. Particolarmente, importante e articolata è stata, poi, l’ulteriore disciplina di cui all’art. 17 della legge n. 127 del 15 maggio 1997, che ha consentito di avvalersi anche del modello della società a responsabilità limitata, oltre a quello della S.p.A.; ha agevolato la trasformazione delle aziende speciali in società per azioni ed ha, inoltre, previsto la costituzione di speciali società per azioni per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana in attuazione degli strumenti urbanistici (STU). Tutta la materia dei servizi pubblici locali è stata rivista e riordinata nel titolo V del TU sugli enti locali, D.Lgs n. 267 del 2000, che ha, in particolare, riaffermato la possibilità di dar vita a società per azioni anche con partecipazione minoritaria e ha ridefinito i principi per la trasformazione in S.p.A. delle aziende speciali, disciplinando anche il regime fiscale del trasferimento dei beni. Infine, un’ulteriore normativa, provocata da una procedura di infrazione sollevata dalla commissione dell’UE, in ordine alle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, è stata dettata dal DL n. 269 del 2003 (legge di conversione n. 326/2003). La stretta del patto di stabilità e le manovre elusive sugli organismi partecipati Non c’e` dubbio che l’affermarsi e l’espandersi della esternalizzazione delle attività delle amministrazioni locali siano da collegare a questo indirizzo legislativo e alla ricerca della maggiore efficienza privata, ma l’eccezionale sviluppo del fenomeno che si e` verificato in questi ultimi anni dipende anche, e forse soprattutto, da altre cause. Sono state, infatti, le limitazioni poste alla gestione finanziaria degli enti locali dalle ultime leggi finanziarie, con la formulazione delle regole del c. d. patto di stabilità interno a spingere diversi amministratori a seguire la strada del trasferimento all’esterno di molte attività, alleggerendo il bilancio dei relativi oneri e gli organici dei contingenti del personale collocato altrove. Le esigenze legate al sempre più difficile rispetto dei limiti comunitari al disavanzo e al debito pubblico rientranti nel Patto di stabilità e crescita hanno indotto il legislatore a richiedere agli enti locali (e alle regioni), con le annuali formulazioni del c. d. Patto di stabilità interno, un concorso sempre maggiore al miglioramento dei conti della Repubblica. Ma le prescrizioni restrittive sono state elabo-

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rate in maniera tale, segnatamente nelle prime formulazioni del patto, da consentire agli enti locali un rispetto solo formale, avvalendosi di pratiche elusive legate all’esternalizzazione dei servizi. Di seguito si evidenziano alcune delle più frequenti operazioni elusive del patto di stabilità: Obiettivo conseguito artificiosamente (art. 31 commi 30 e 31 legge 183/2011) Si configura una fattispecie elusiva del patto di stabilità il comportamento che, se pur legittimo, risulti intenzionalmente e strutturalmente finalizzato ad aggirare i vincoli di finanza pubblica. I contratti di servizio e gli altri atti posti in essere dagli enti locali che si configurano elusivi del patto di stabilità sono nulli. Nel caso di accertamento da parte delle Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti di manovre artificiose (non corretta imputazione delle entrate o delle uscite ai pertinenti capitoli di bilancio) o forme elusive per conseguire il rispetto del patto di stabilità irrogano una sanzione pecuniaria pari a: - un massimo di dieci volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione dell’elusione; - fino a tre mensilità del trattamento retributivo al netto degli oneri fiscali e previdenziali al responsabile del servizio economico-finanziario. Il comma 111 bis dell’art. 1 della legge 13/12/2010 n. 220 dispone la nullità dei contratti di servizio e degli altri atti posti in essere dalle regioni e dagli enti locali che si configurano elusivi delle regole del patto di stabilità interno. Versamenti a fondo perduto ed elusione al patto di stabilità Si ricorre al versamento a fondo perduto quando la società registra una perdita che imporrebbe di procedere ad una riduzione obbligatoria del capitale sociale oppure quando i soci intendono conferire somme alla società senza sottoporle alla disciplina propria del capitale sociale. In questo caso, il versamento che il socio effettua “a fondo perduto” non fa sorgere in capo alla società l’obbligo di rimborsare la somma erogata né l’impegno a deliberare l’aumento di capitale. Dunque, con detto versamento il socio non manifesta la volontà di vincolarlo secondo la disciplina del capitale sociale né di erogare la somma a titolo di finanziamento; in altri termini, “i contributi a fondo perduto” costituiscono una forma di finanziamento che non genera alcun obbligo di remu-


nerazione o di restituzione. Mentre nel rapporto che intercorre tra il socio di diritto privato e la società in cui partecipa, il contributo “a fondo perduto” può trovare la sua giustificazione giuridica nella necessità di non far emergere le perdite (ed, eventualmente, quando le perdite erodono il capitale di non dover procedere alla ricapitalizzazione della società con i relativi costi fiscali e professionali), in presenza di un socio pubblico questa forma di elargizione non è ammissibile quando è volta a celare perdite rilevanti ai sensi degli artt. 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter del codice civile in quanto detta operazione potrebbe essere volta ed eludere il vincolo di finanza pubblica introdotto dall’art. 6, comma 19, D. L. n. 78/10.Quando il versamento è finalizzato ad evitare la ricostituzione del capitale sorge il problema della imputazione nella spesa dell’ente locale. L’imputazione al titolo II sembra, infatti, irregolare. Secondo la Corte dei Conti Sezione regionale di controllo della Lombardia (vedi delibera n. 61/2013) quando l’ente locale sceglie di partecipare ad una società di tipo lucrativo, non è conforme alle regole di sana gestione finanziaria – in ragione della natura pubblicistica del socio – il versamento di contributi a fondo perduto per impedire l’emersione di perdite, a prescindere dal fatto che queste siano idonee ad erodere il capitale sociale. Mutuo assunto dalla società in house con oneri a carico dell’ente locale Una società in house contrae il mutuo per realizzare opere di interesse comunale e paga le rate di ammortamento del mutuo per conto del’ente locale che, in base a specifico impegno, è tenuto a rimborsargli (o a pagare direttamente). Con tale operazione si elude ai vincoli di finanza pubblica in materia di indebitamento degli enti locali (destinazione ad investimento e limiti all’indebitamento). Trasferimento della sofferenza di cassa dell’ente locale sulla società partecipata che sconta le fatture verso l’ente medesimo presso istituti di credito. Costituisce una forma di elusione ai vincoli di finanzia pubblica anche il ritardata pagamento di un ente locale, causa sofferenze di cassa o per rispettare i limiti del patto di stabilità delle fatture emesse nei suoi confronti dalla società, per cui la società anticipa le fatture presso istituti di credito. L’anticipazione delle fatture rappresenta un “costo” per la società partecipata (contabilizzato alla

voce “interessi ed altri oneri finanziari”) la quale deve corrispondere gli interessi agli istituti di credito per i ritardati pagamenti da parte del Comune. Cessione di beni per accertare entrate ai fini del patto di stabilità L’ente locale cede beni alla società interamente partecipata che si finanzia con il pagamento con assunzione di prestiti con iscrizione ipotecaria ed a volte con rilascio di lettera di patronage. L’entrata finanziaria derivante da cessione di beni alla propria società, solo apparentemente ha natura di corrispettivo per alienazione di beni immobili (e, quindi, potrebbe essere computata come entrata in conto capitale ai fini del patto di stabilità interno). Poiché l’entrata in parola in realtà nasce da un’operazione di indebitamento, questa non può entrare a far parte del saldo finanziario per il calcolo del rispetto dell’obiettivo posto dal patto di stabilità. Mancata esazione di crediti scaduti che l’ente locale vanta verso la propria partecipata. La mancata esazione di crediti scaduti che l’ente locale vanta verso la sua società partecipata a titolo, ad esempio, di restituzione del finanziamento ricevuto o di pagamento del canone concessorio pattuito con precedente convenzione, costituisce un flusso finanziario indiretto. Anticipazione del canone concessorio L’ente locale ha dato in concessione beni alla propria società pattuendo un canone concessorio da corrispondere in via anticipata per un importo corrispondente a più annualità. Con tale operazione l’ente locale accerta in entrata l’importo complessivo dell’operazione al titolo III e la considera valida ai fini del patto di stabilità. La società risconta la parte del canone non di competenza dell’esercizio. La società paga un importo corrispondente ad una annualità del canone e l’ente locale mantiene a residuo attivo la parte non riscossa. I Rapporti tra EE. LL. ed organismo partecipato Il rapporto che si instaura tra la società e l’ente locale non è quindi molto diverso da quello che intercorre tra l’ente e un suo ufficio, rispetto al quale la società si configura come una semplice variante organizzativa, e l’intreccio economico e finanziario che si realizza tra i due soggetti chiaramente può essere utilizzato dall’ente preminente per modificare la propria situazione finanziaria e soprattutto la sua rappresentazione contabile. Al riguardo basti pen-

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APPROFONDIMENTI

sare alla discrezionalità di cui godono gli amministratori degli enti locali nel fissare le tariffe e definire il contenuto economico del contratto di servizio, cui si aggiunge l’influenza esercitabile sugli organi societari attraverso il legame politico-istituzionale. Indubbiamente, il ricorso all’esternalizzazione di funzioni e servizi locali va valutato positivamente in astratto; non solo, sono anche molti gli esempi concreti in cui lo strumento privatistico di gestione, la conduzione manageriale, il confronto concorrenziale con altre realtà produttive hanno prodotto risultati di tutto rispetto. Ma è apparso ugualmente chiaro che in numerosi altri casi il ricorso all’esterno, generalmente con una partecipazione totalitaria, non è stato occasione di avanzamento verso livelli gestionali più avanzati e degni di uno Stato moderno e competitivo in ambito internazionale, ma strumento per nascondere una cattiva gestione finanziaria e occasione di maggiori opportunità per il clientelismo e l’affarismo. In questo modo, peraltro, a fronte di un momentaneo e apparente miglioramento, si deteriora ancor più la situazione finanziaria dell’ente locale, che dovrà prima o poi farsi carico delle perdite, aggravate dal mancato intervento, delle sue società. Al riguardo sono stati accertati casi (e altri sono annunciati) in cui l’ente locale ha dovuto deliberare lo stato di dissesto proprio in conseguenza della disastrosa gestione finanziaria di proprie controllate. Il TUEL alla luce delle recenti modifiche: riflessi sugli EE. LL. e sulle società partecipate L’art. 239 del d. lgs. 267/2000 assegna, in particolare, all’organo di revisione dell’Ente Locale la funzione di collaborazione con l’organo consiliare secondo le disposizioni delle statuto e del regolamento, la formulazione di parere obbligatori su sette tipologie di atti e la vigilanza/controllo sulla regolarità, finanziaria ed economia della gestione. La vigilanza sulla regolarità contabile e finanziaria deve essere svolta sull’intera gestione diretta ed indiretta dell’ente locale (vedi Corte dei Conti, Sezione autonomie, delibera n. 2/1992). Sono richieste all’organo di revisione gli esiti dei controlli sugli organismi partecipati effettuati oltre ad elementi per la verifica degli equilibri finanziari dell’ente e del rispetto degli obiettivi di finanza pubblica. Le finalità del sistema di controllo sono orientate a prevenire il feno-

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meno delle società in perdita. Gli obblighi di controllo in capo all’ente locale socio ed all’organo di revisione assumono particolare importanza in presenza di gestioni connotate da risultati negativi, che, impongono all’ente locale, soprattutto se continuati di valutare la convenienza economica e di sostenibilità politico-sociale che giustificarono a suo tempo, la scelta di svolgere il servizio e di farlo attraverso moduli privatistici. L’art. 147 quater del Tuel in vigore dal 8 dicembre 2012, richiede all’ente locale di definire, secondo la propria autonomia organizzativa, un sistema di controlli sulle società non quotate, partecipate dallo stesso ente locale. Tali controlli sono esercitati dalle strutture proprie dell’ente locale, che ne sono responsabili. Sulla base delle informazioni raccolte l’ente locale deve effettuare il monitoraggio periodico sull’andamento delle società non quotate partecipate, analizza gli scostamenti rispetto agli obiettivi assegnati e individua le opportune azioni correttive, anche in riferimento a possibili squilibri economico-finanziari rilevanti per il bilancio dell’ente. I risultati complessivi della gestione dell’ente locale e delle aziende non quotate partecipate devono essere rilevati mediante bilancio consolidato, secondo la competenza economica. È molto importante definire i rapporti tra EE. LL. e società partecipate al fine di garantire in sede locale una sana gestione finanziaria, mediante il rispetto degli equilibri di bilancio e dei vincoli previsti in materia di indebitamento. Gli obblighi di controllo (estesi e potenziati dal D. L. n. 174 del 10/10/2012, convertito con modificazioni dalla legge 7/12/2012 n. 213) devono essere, sin d’ora osservati da tutti gli Enti locali, non già in base a un espresso dettato normativo, bensì in ragione delle incombenze che gravano sull’Ente, per il solo fatto di essere socio pubblico del relativo organismo partecipato. Ogni ente locale socio deve fattivamente adoperarsi, secondo la propria autonomia organizzativa, per effettuare un costante ed effettivo monitoraggio sull’andamento della società, con una verifica costante della permanenza dei presupposti valutativi che hanno determinato la scelta partecipativa iniziale; e tempestivi interventi correttivi in relazione a eventuali mutamenti che intercorrano, nel corso della vita della società, negli elementi originariamente valutati. 


Il tema dei trasporti nelle partecipate pubbliche: l’esperienza di Sepsa Il fallimento dei trasporti in Campania a discapito dei pendolari di Raffaello Bianco

* già Amministratore

I

l diritto alla mobilità rientra tra i principi costituzionalmente garantiti, in quanto teso a promuovere un normale svolgimento delle attività civiche – individuali e collettive – che sono il presupposto di ogni programmazione di crescita e di sviluppo. Si parla beninteso della mobilità assicurata dall’ente pubblico, deputato ad organizzare un’offerta sostenibile: coerente cioè con le esigenze ambientali e caratterizzata dai criteri di efficacia ed efficienza. È, peraltro, noto che quanto più il trasporto pubblico sia capace di offrire idonei spostamenti nell’ambito di un territorio, tanto più – con la riduzione consequenziale del trasporto privato – si riducono i rischi di incidentalità e gli effetti negativi sulla salute dei cittadini, altrimenti aggrediti da una delle più nocive fonti di inquinamento; a tacere dei positivi effetti economici legati ad un’ottimale organizzazione dei tempi (commerciali, scolastici, tempo libero). Tutto ciò da Roma in su viene percepito con

sufficiente diligenza; in Campania il trasporto pubblico locale, invece, è regredito a livelli di degrado e di incuria non misurabili, in solo quattro anni di micidiale politica (o di assenza di politica) dei trasporti. Tutto inizia all’indomani dell’insediamento della giunta Caldoro, che destituì ope legis gli Amministratori in carica e affidò il delicato settore a soggetti rivelatisi nel corso degli anni assolutamente inadeguati. A ragione, quindi, si parla di disastro del TPL campano, con riguardo all’intero settore: quello dei servizi e quello degli investimenti. Il fallimento dell’offerta di mobilità purtroppo è percepito quotidianamente dall’utenza: stazioni ferroviarie abbandonate e sudice, treni fatiscenti, corse ridotte al lumicino, incertezza assoluta sugli orari delle poche corse residue. Bastano, per avere un’idea, pochi dati ufficiali: sulla Circumvesuviana i treni funzionanti nel 2010 erano 90, oggi ne circolano zoppicando e a singhiozzo meno di 40, i passeggeri passano da 40 milioni del 2010 a meno di 20, l’evasione

Sepsa S.p.A.

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APPROFONDIMENTI

dal 13% schizza al 27%. Non va meglio per la ex Sepsa (linea Cumana e Circumflegrea): i treni da 30 passano a 7; i viaggiatori da 20 milioni a 13; l’evasione dal 15% al 22%. Ed il declino prosegue inarrestabile. Ormai nella indifferenza delle istituzioni preposte, nei confronti delle quali alla rabbia è subentrata la rassegnazione dei cittadini. Sul ver-

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sante degli investimenti il governo Caldoro imploderà con ogni probabilità. Anche qui tutto inizia nell’anno 2010, quando la Giunta Regionale adottò due micidiali delibere: la n. 533 e la n. 534 del 02/07/2010, con le quali si diede inizio allo sfascio di tutto ciò che era stato realizzato nel settore degli investimenti nel corso del quasi decennio 2001/2010: un


record europeo di investimenti, una capacità di spesa che valse alla Regione Campania il riconoscimento della premialità prevista dalla normativa comunitaria. Altri tempi: ben 54 km di linea e 39 stazioni, tra nuove e riqualificate, in appena nove anni! Conseguenza della suicida decisione: cantieri abbandonati, imprese in ginocchio, occupazione diretta e nell’indotto allo stremo, finanziamenti perenti, contenzioso alle stelle. Ed altro. Gli effetti demolitori perdurano e si aggravano, giorno dopo giorno, essendo del tutto inefficace il tentativo riparatorio (dopo ben quattro lunghi anni di inerzia) timidamente introdotto con l’inutile delibera riprogrammatoria n.

Il 30 giugno scadrà il termine concesso dal Governo per definire tutti i rapporti passivi, per i quali EAV aveva ottenuto una moratoria durata oltre due anni. Incompetenza e inadeguatezza hanno lasciato correre inutilmente i tempi, bruciando risorse. 39/2014: con essa si chiude un errato procedimento, alla luce dei fatti ridicolo (l’unico caso di autotutela distruttrice!), peraltro vanificato dallo stesso accordo sottoscritto recentemente tra Ministero delle Infrastrutture e Regione Campania (vedi art. 7, con il quale la Regione si impegna a una nuova riprogrammazione intesa soprattutto a definanziare opere per recuperare risorse). Bel risultato, complimenti! Sono ben noti, in conclusione, gli effetti devastanti cagionati dalla citata aberrante politica; è ultroneo ricorrere ad esempi di esplosione di debiti da contenzioso (Ascosa 4, Costruire, Astaldi, Giustino etc. etc.: praticamente tutte le imprese esecutrici dei lavori ne sono coinvolte), cosicché gli attuali gestori aziendali e regionali non potranno sfuggire alle loro responsabilità, ricorrendo all’ormai abusato tentativo di ribaltarle “sul passato”. La conclamata, documentata e pur-

troppo irrefrenabile cattiva gestione dimostrata e attuata in entrambi i settori ha determinato condizioni negative difficilmente riparabili. Un’azienda fallita (Eav Bus era sostanzialmente in bonis), gloriose ferrovie degenerate in pochi anni e catapultate in una mostruosa inefficienza; Ischia, Costiera, Campi Flegrei praticamente appiedati. “Binari, mare e strade: un disastro sulle rotte del Golfo”, titolava “Il Mattino” del 07/05/2014! L’inadeguatezza gestionale e le scelte errate sono state protagoniste: una fusione di aziende condotta senza metodo e senza un serio piano industriale, nella quale si sono dissolti tutti i pregi e i valori delle singole strutture, mentre si sono moltiplicate le criticità di ognuna. Un pateracchio senza futuro. Un’organizzazione o, meglio, una disorganizzazione del personale paurosa, caratterizzata da provvedimenti schizofrenici: Si alla riconversione di amministrativi, No alla riconversione, Si alla risoluzione del rapporto di ottimi dirigenti, poi inammissibili tentativi di recupero, No ai comandi e ai distacchi, Si ai comandi e ai distacchi, Si a pagamenti improvvisi di stipendi a dirigenti pensionati, Si a protrazione di rateizzazione di quote non dovute a dipendenti pensionati e liquidati, Si a illegittime assunzioni, con destinazioni di agenti in distacchi sensibili, Si alla irragionevole e scriteriata sostituzione del direttore generale, Si a superliquidazioni a dirigenti pensionabili, Si alla permanenza dell’amministratore di EAV, illegittimamente nominato in dispregio di un preciso divieto di una legge regionale: soggetto indefinibile, indifferente ad ogni evento calamitoso, causato da lui medesimo ovvero da chi lo circonda. Tutto ciò tra garruli trastulli e figuracce a go go! Il 30 di giugno scadrà il termine concesso dal Governo per definire tutti i rapporti passivi, per i quali EAV aveva ottenuto una moratoria durata oltre due anni. Incompetenza e inadeguatezza hanno lasciato correre inutilmente i tempi, bruciando risorse. Se non ci sarà una ulteriore proroga (improbabile, perché ai limiti della legittimità costituzionale), il 1 luglio 2014, EAV sarà travolta dai debiti che in questi quattro anni di scellerata gestione sono stati prodotti. 

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APPROFONDIMENTI

INTERVISTA A GIUSEPPE MAISTO

La partita dei finanziamenti europei va ancora giocata Sempre dietro l’angolo l’inerzia e l’inefficienza della burocrazia a cura di Samuele Ciambriello

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n documento d’intenti tra Regione Campania e 19 Comuni campani per l’utilizzo di ulteriori 100 milioni di euro per la realizzazione del Programma Piu Europa. A sottoscriverlo, il presidente dell’ente regionale Stefano Caldoro e i sindaci delle città medie della Campania. Ed in particolare i primi cittadini di Acerra, Afragola, Avellino, Aversa, Battipaglia, Benevento, Casalnuovo di Napoli, Caserta, Casoria, Castellammare di Stabia, Cava dÈ Tirreni, Ercolano, Giugliano in Campania, Marano di Napoli, Portici, Pozzuoli, Salerno, Scafati e Torre del Greco.

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Obiettivo? In termini tecnici, spiega il presidente del gruppo ‘Caldoro PresidentÈ del Consiglio regionale della Campania, Giuseppe Maisto, il programma Piu Europa, che vale circa 600 milioni di euro, oggi portati a 700, attiene alla rivitalizzazione socioeconomica sostenibile del territorio e all’innalzamento della qualità di vita urbana, sociale, ambientale ed energetica. Un’opportunità sulla quale puntare con forza se si pensa agli indicatori socio-economico-ambientali con i quali si misura la qualità della vita, cioè il livello di benessere urbano dei cittadini nelle metropoli italiane. Dunque, rilancio urbano ma, nel caso di

La burocrazia europea nemico da sconfiggere L’Europa di Bruxelles non capisce le cose semplici. Abbiamo dovuto digerire, poiché avevamo la pistola dello spread puntata alla tempia, regole inconcepibili e inaccettabili in tempi di crisi.


specie, in una logica integrata e di rete anche per ridare competitività complessiva al sistema urbano regionale. In concreto, poiché parliamo di una dotazione che si avvicina al miliardo di euro, di quali interventi parliamo? Naturalmente di interventi strettamente legati alla vivibilità urbana ma anche tesi al raggiungimento di ‘obiettivi di civiltà’ come il 35% della raccolta differenziata, la lotta contro l’abusivismo, l’informatizzazione dei servizi pubblici, l’incremento dei servizi sociali, l’utilizzo di sistemi di trasporto ecologico o l’efficientamento energetico, per i quali sono previste, in termini di finanziamento, specifiche premialità. Perché questo overbooking di risorse per circa 100 milioni di euro? La domanda è particolarmente pertinente. Non c’è, infatti, solo la volontà di implementare il plafond finanziario destinato alla riqualificazione di queste realtà urbane. Con questa iniziativa liberiamo subito ai comuni circa 100 milioni di euro che possono essere perciò destinati ad altro, magari al sociale. In sostanza è un’iniziativa che dà ossigeno ai Comuni e che vale dunque 200 milioni. Ma c’è anche e soprattutto l’intenzione di imprimere un’accelerazione nell’impegno operativo dei Comuni perché quanto programmato venga realizzato presto e bene. In che modo? Visto che le risorse finanziarie sono per le amministrazioni locali importantissime, l’erogazione di questo overbooking viene legata non solo al parametro demografico, quindi in base al numero degli abitanti del singolo Comune, ma anche in ragione dell’efficienza nella governante del programma. Quanto meglio fai, tanto più hai e, questo, dovrebbe spingere i Comuni a completare i progetti in anticipo rispetto al crono programma. La volontà politica è chiara, ma i pronostici… Capisco il timore ma, al di là del fatto che la Regione è un ente di programmazione e non l’ente attuatore che invece può essere un comune, un’autorità portuale e così via, l’analisi del timeline della spesa dei Fondi Europei che a maggio 2010 era ferma ad un inconsistente 3, 5% in termini di impegno di spesa oggi, grazie ad una serie di strumenti messi

in campo dal presidente Caldoro che segue personalmente, step by step, l’andamento della programmazione, il livello dell’impegno di spesa ha superato la soglia del 40%. Così come è cresciuto significativamente anche il livello delle certificazioni e dei pagamenti, anche se non allo stesso ritmo. Ma questo attiene alle dinamiche di un mostro burocratico difficile da sconfiggere. Il nemico da sconfiggere, oltre all’inefficienza e l’inerzia sulla quale i risultati cominciano a vedersi, è dunque il peso esorbitante della burocrazia europea? Assolutamente si. Ha detto bene il presidente Caldoro: l’Europa di Bruxelles non capisce le cose semplici. Abbiamo dovuto digerire, poiché avevamo la pistola dello spread puntata alla tempia, regole inconcepibili e inaccettabili in tempi di crisi. A partire da quelle del Patto di Stabilità per le quali finisce che se anche hai liquidità in cassa non puoi spenderla altrimenti sono sanzioni. Ma le dirò di più. Prego… Non c’è solo la questione del cambiamento di un’Europa particolarmente ingessata. C’è su tutte, e mi auguro che il recente dato elettorale apra una riflessione anche su questo, il tema della volontà di certa politica europea di realizzarlo, di realizzare davvero un’Europa dei cittadini, della meritocrazia. Che per ora, aggiungo, resta lettera morta, come dimostra il verbale dell’audizione che i nostri tecnici hanno tenuto a Bruxelles con quelli della Commissione sulla questione del taglio ai fondi dell’Agenda 2000 –2006 di cui le relative responsabilità di gestione non sono certamente addebitabili all’attuale governo regionale. Cosa c’è nel verbale? Lì, dove i tecnici della Commissione Europea immaginavano di chiudere la partita calando, senza alcuna argomentazione giuridica plausibile, un taglio inaccettabile di ‘forfettari’ 500 milioni di euro, c’è l’esatta misura di una logica che certamente non è accettabile per una Regione come la Campania che ha intanto meno risorse sul procapite e che oggi, col governo Caldoro, ha dimostrato un’efficienza prima sconosciuta. E che le deve essere riconosciuta in concreto e non a parole. 

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

Verso una nuova Europa? Priorità al lavoro e all’innovazione

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di Massimo Lo Cicero

La BCE costruisce una politica che possa mettere in moto l’economia reale e ridurre la disoccupazione

Foto di Livia Crisafi

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ario Draghi ha confermato gli annunci che aveva rilasciato nel mese di maggio: ha proposto, con un solido consenso del consiglio che dirige la BCE, una politica monetaria espansiva che possa creare le condizioni per una ripresa della crescita nell’economia reale. Non ci sono le regole della Federal Reserve ma, nello spirito, i criteri di Draghi ci somigliano molto. Secondo la banca centrale americana bisogna difendere la stabilità della moneta e degli intermediari finanziari, guardarsi dall’inflazione e dall’azzardo morale dei banchieri “avventurosi”, ma bisogna anche difendere la crescita reale e l’occupazione: che ne alimenta l’espansione. Insomma, negli Stati Uniti, il banchiere centrale deve essere, per certi versi, “strabico”: guardare e sorvegliare insieme sia la moneta, ed i mercati finanziari, che l’economia reale. Perché la moneta è un punto di collegamento tra l’altalena dei tassi di interesse e la dimensione dei prezzi offerti dalle imprese al mercato e dei redditi delle famiglie. La BCE non ha questa ambizione, ma questo ultimo discorso di Mario Draghi (5 giugno 2014), al termine della riunione mensile periodica, ripropone tutti gli strumenti che, nella sfera del perimetro statutario della banca che presiede, potrebbero creare un’atmosfera capace di tenere sotto controllo sia la stabilità monetaria, cioè l’ossessione germanica dell’inflazione eccessiva, che l’equilibrio tra Banche e Governi. Un equilibrio che dovrebbe garantire le condizioni per la ripresa della crescita ed il ridimensionamento della disoccupazione in Europa. La lista degli strumenti di Draghi si può definire in quattro punti. 1. Ridurre, quasi a zero, 0,15%, il tasso base della banca centrale. Ridurre sotto zero, cioè a -010% il tasso di interesse per banche che depositassero eccedenze monetarie sulla Banca Centrale Europea. Se si depositano ec-

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

cedenze si paga per quel deposito un modesto interesse alla BCE. Perché quella moneta avrebbe potuto, e dovuto, essere impiegata come prestito a famiglie ed imprese che, sostenute dal credito, avrebbero potuto sviluppare i propri progetti: di consumo o di investimento. 2. Offrire forme innovative di finanziamento al sistema delle banche. Sia mediante targeted longer-term refinancing operations (TLTROs): una evoluzione di altri strumenti precedenti che impone due vincoli da parte della BCE: non comprare titoli del debito pubblico inferiori ai tre anni di scadenza come era accaduto in altre occasioni ma comprare solo target puntuali di crediti per una durata, questa volta, fino a quattro anni. Crediti del settore privato non finanziario in Europa ma con

Secondo la banca centrale americana bisogna difendere la stabilità della moneta e degli intermediari finanziari, guardarsi dall’inflazione e dall’azzardo morale dei banchieri l’esclusione dei prestiti per acquistare case da parte delle famiglie. Sia mediante altre forme di operazioni di pronti contro termine con le controparti bancarie. 3. Preparare forme di Asset Baked Securitisation, cioè cartolarizzazioni di attività sottostanti che siano trasparenti ed affidabili, per potere arricchire anche in questa direzione lo scambio tra moneta e titoli da parte della banca centrale europea verso l’industria finanziaria europea: una ipotesi che accompagna l’affiancamento dell’industria finanziaria, le non banche, alla presenza ipertrofica delle banche nei mercati europei. 4. “Fourth, in line with our forward guidance and our determination to maintain a high degree of monetary accommodation, as well as to contain volatility in money markets, we decided to continue conducting the MROs as fixed rate tender procedures with full allot-

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ment for as long as necessary, and at least until the end of the reserve maintenance period ending in December 2016”. Che è, ancora una volta, l’impegno di metterci la faccia, sulla base della previsione, forward guidance, che si ritiene di dover mantenere per consentire una lunga stagione espansiva della politica monetaria: tanto lunga da offrire le condizioni per una ripresa della crescita reale. A queste quattro condizioni si affianca una robusta e puntuale analisi economica. È evidente come la inflazione in Europa sia ormai sotto il livello dell’1%. Questo significa che sarebbe necessario ribaltare la dinamica dei prezzi per evitare lo spettro di una vera e propria deflazione: una caduta dei prezzi che comprometterebbe la stabilità delle imprese e l’intero sistema. La previsione della BCE indica un triennio per ritrovare la soglia, cruciale per una parte della cultura economica tedesca, del 2% come limite massimo dell’inflazione. “Our assessment has been supported by the June 2014 Eurosystem staff macroeconomic projections for the euro area. They foresee annual HICP inflation at 0.7% in 2014, 1.1% in 2015 and 1.4% in 2016. In the last quarter of 2016, annual HICP inflation is projected to be 1.5%”. Conclude Draghi. In pratica si apre un triennio nel quale possono convivere una politica monetaria molto espansiva ed una dinamica dell’economia reale che dia un risultato effettivo e tangibile in termini di crescita economica. Nei prossimi tre anni si gioca una partita delicata ed importante per l’economia europea e per l’accelerazione del processo di integrazione politica dell’Europa. Non sarebbe possibile, senza una ripresa della crescita e dell’occupazione, dare corpo ad un salto di qualità che porti l’Unione Europea più vicina alle ambizioni politiche che da troppo tempo sono state trascurate od indebolite dal circolo vizioso di una moneta troppo forte, l’euro, per una economia troppo debole e nella quale le divergenze tra le economie nazionali aumentano clamorosamente. In questo contesto si apre una ulteriore prospettiva secondo il presidente della BCE. Le raccomandazioni di Mario Draghi, alla fine del suo intervento, si rivolgono infatti ai Governi ed alle Banche: due attori che dovrebbero innescare la ripresa reale del processo economico, grazie alle politiche monetarie


La ricetta di Draghi Si apre un triennio nel quale possono convivere una politica monetaria molto espansiva ed una dinamica dell’economia reale che dia un risultato effettivo e tangibile in termini di crescita economica.

espansive che la Bce offre alle Banche e grazie agli sforzi che i Governi devono intraprendere, rispetto a numerosi obiettivi non ancora conseguiti: riprendere il controllo dei mercati, del lavoro e dei beni e dei servizi; ritrovare un equilibrio più stabile nella finanza pubblica di ogni nazione; produrre un ordinamento più chiaro nei profili organizzativi che orientano le riforme di cui si parla molto ma sulle quali si conclude poco. Banche e Governi erano entrati in una sorta di rotta di collisione nel 2012, quando sembrava che la crisi si acuisse e potesse ulteriormente degenerare in Europa. Ora, il 5 giugno, Draghi conclude con un suggerimento ai possibili comportamenti dei due attori principali, Banche e Governi: “In order to strengthen the economic recovery, banks and policy-makers in the euro area must step up their efforts. Against the background of weak credit growth, the ongoing comprehensive assessment of banks’ balance sheets is of key importance. Banks should take full advantage of this exercise to improve their capital and solvency position, thereby contributing to overcome any existing credit supply restriction that could hamper the recovery. At the same time, policy-makers in the euro area should push ahead in the areas of fiscal policies and structural reforms”.A marzo del 2014, ed in una sede particolare, la Università di Sciences Po a Parigi, concludendo una interessante analisi, per certi versi collegata agli annunci formali di oggi, Draghi aveva concluso in una chiave più ampia il suo giudizio su Banche e Governi: “Per concludere. Il punto che ho cercato di sottolineare oggi è semplice: per navigare attraverso una crisi del debito come quella sperimentata dall’area euro, la giusta sequenza e soprattutto la coerenza delle scelte politiche è fondamentale. Dobbiamo essere coerenti attraverso lo spazio, e dobbiamo essere coerenti nel tempo. Ci sono infatti due lezioni imprescindibili da trarre dal resoconto degli eventi che vi ho presentato oggi. In primo luogo, una ripresa completa verrà raggiunta quando – e solo quando – completeremo in pieno la sequenza di passaggi che ho evidenziato. Ad ogni passo di questa sequenza, non dovremmo chiederci: “Abbiamo fatto abbastanza?”. Sarà chiaro quando avremo fatto abbastanza: quando i debiti saranno ridotti, quando l’output potenziale sarà cresciuto e quando la disoccupazione sarà scesa – continuando intanto

a preservare l’integrità della valuta, cioè la stabilità dei prezzi. Ciò significa, in ultima analisi, valutare senza autoindulgenze se le nostre economie sono al passo con l’economia della conoscenza specializzata e globalizzata. Questo è qualcosa che i governi nazionali, le imprese e le parti sociali devono fare insieme. Quanto si sta facendo qui in Francia è importante in questo senso, dato che una forte area euro ha bisogno di una forte economia francese. La seconda lezione è che la ripresa deriva da un’azione congiunta. Abbiamo visto gli effetti della frammentazione lungo linee nazionali dei mercati finanziari. Abbiamo sperimentato le conseguenze di livelli di fiducia divergenti tra i vari paesi. Abbiamo sofferto per la conseguente perdita di crescita e per l’aumento della disoccupazione. Nessuno che abbia vissuto questa crisi, o la volatilità economica degli anni ‘70 e dell’inizio degli ‘80, può credibilmente concludere che un ritorno a una mera giustapposizione delle politiche nazionali migliorerà la situazione di uno qualsiasi dei nostri paesi. Invece, è stato rendendo le nostre politiche coerenti tra paesi che abbiamo ottenuto risultati positivi, ed è tenendo conto di questa lezione che continueremo a farlo. In alcune aree, come l’unione bancaria, ciò significa formulare le politiche centralmente. In altri settori, come la politica fiscale e le riforme strutturali, significa accettare un controllo efficace da parte degli altri paesi su un piano di parità. In entrambi i casi, non è una perdita di sovranità. In realtà, io lo considero un recupero di sovranità, perché è il modo per fornire ancora una volta, e in modo sostenibile, la stabilità e le opportunità che i cittadini richiedono ai decisori politici. Winston Churchill ha detto che “per realizzare grandi cose, sono necessari due fattori: un piano, e non abbastanza tempo”. Spero di aver chiarito oggi che noi abbiamo un piano. E dal momento che certamente non abbiamo tempo da perdere, ho fiducia che, se rimaniamo risoluti, possiamo fare grandi cose per l’area euro e i suoi cittadini”.Le parole pronunciate a Parigi sono nette; ma la lezione impartita alle banche ed ai Governi è chiara anche in questa versione più ufficiale. Forse qualcosa si muove nel pachiderma europeo che da troppo tempo ristagna e lascia senza lavoro larga parte delle sue risorse umane. 

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

Il cd. decreto Poletti e la “liberalizzazione” del contratto a termine L’ennesima modifica alla ricerca di “in” stabilità di Paola Saracini

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ra le misure messe in campo dal cd. decreto Poletti (d. n. 34/2014, conv. con l. n. 78/2014), ne spicca una in particolare: la riforma del contratto a termine. Con essa, più che a un’ennesima modifica, sia pure di rilievo, della disciplina del lavoro a termine, a cui il legislatore ci aveva abituato negli ultimi anni – sulla base dell’equazione maggiore flessibilità = maggiore occupazione –, si assiste a una vera e propria liberalizzazione di questa figura contrattuale. E non è eccessivo ritenere che, più in generale, viene rimeditato, di riflesso, il ruolo del contratto di lavoro a tempo indeterminato nel nostro ordinamento giuridico. In verità, se può discutersi circa gli impatti occupazionali del contratto a termine, è effettivamente un dato indubbio, per certi versi anche scontato, che tale contratto, da sempre, risponda alle istanze datoriali di flessibilità e, pertanto, possa anche spingere a nuove assunzioni (caratterizzate, però, da una forte precarietà). Ciò, anzitutto, in ragione della sua

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* Docente di Diritto sostanziale corrispondenza funzionale con la disciplina del licenziamenti; infatti, “termine” e “licenziamento”, con ogni evidenza, appaiono, in concreto, strumenti di adeguamento delle dimensioni dell’organico alle mutevoli esigenze organizzativo-produttive. Sicché, via via che la disciplina del licenziamento è divenuta più “garantista”, il “termine” ha assunto per il raggiungimento di tale finalità un ruolo di maggiore importanza. Negli anni, nella disciplina del lavoro a termine si è assistito ad un deciso ampliamento dei margini di flessibilità per le imprese, sebbene con tecniche e regole differenziate, in grado di bilanciare l’interesse delle imprese a calibrare la durata delle relazioni di lavoro a seconda delle esigenze organizzative con quello dei lavoratori alla stabilità del rapporto di lavoro. In questo mutevole scenario, si era però mantenuto un punto fermo (almeno sino al 2012): la necessità di una causale che legittimasse l’apposizione del termine al contratto: una ragione temporanea in grado di giustificare la mancata assunzione a tempo indeter-

del lavoro – Università del Sannio


Nuovi “tempi” per i contratti a termine Il d.lgs. n. 368/2001 – come modificato dalla più recente riforma – stabilisce che le imprese potranno liberamente assumere a termine purché la durata massima del contratto non superi i 36 mesi.

minato. Solo con la cd. riforma Fornero, nel 2012, si era introdotta anche la possibilità di assumere senza motivazione (cd. contratto acausale), ma ciò era stato fatto con molte cautele (doveva trattarsi di un primo contratto di lavoro, con una durata massima di 12 mesi e non soggetto ad alcuna proroga). Oggi invece la disciplina è radicalmente mu-

tata: la causale non c’è più. Il d. lgs. n. 368/2001 - come modificato dalla più recente riforma - stabilisce che le imprese potranno liberamente assumere a termine purché la durata massima del contratto non superi i 36 mesi; il contratto potrà inoltre essere prorogato, e non per una sola volta - come stabiliva la precedente disciplina – bensì per 5. Unico

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

limite è il rispetto della clausola di contingentamento, fissata nel 20% dell’organico aziendale. Insomma nell’ambito di tale limite percentuale (eventualmente derogabile dalla contrattazione collettiva e dal quale restano comunque fuori una serie di ipotesi e di lavoratori, si pensi ad esempio agli ultra 55enni o alle assunzioni presso gli enti di ricerca), il datore di lavoro potrà scegliere indifferentemente se stipulare contratti a termine o a tempo indeterminato. Non possono nascondersi le perplessità suscitate da questa riforma, per almeno tre ordini di ragioni. La prima è legata ai forti dubbi di legittimità costituzionale dell’attuale disciplina dei contratti a termine e deriva proprio

La nuova normativa consente al datore di lavoro di assumere un lavoratore con contratti di durata molto breve e prorogabili ad intervalli più o meno regolari. dalla stretta correlazione funzionale di questo istituto e quello dei licenziamenti, prima richiamato. Nel nostro ordinamento giuridico, grazie alla preziosa opera della Consulta, è possibile rinvenire l’esistenza di una garanzia costituzionale contro i licenziamenti individuali arbitrari, che limita il potere del libero recesso del datore di lavoro - a tutela della stabilità del rapporto di lavoro - principio oggi esplicitamente espresso anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 30); tutto ciò, a mio avviso, comporta necessariamente l’individuazione di un corrispondente principio anche per quanto concerne l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Se così non fosse, la portata del principio che vieta i licenziamenti arbitrari, di rilievo costituzionale e comunitario, risulterebbe svuotata. Più esplicitamente, si può dire che la stipulazione dei contratti a termine non dovrebbe mai essere del tutto libera e pienamente equiparata alla

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stipulazione del contratto a tempo indeterminato. Infatti, qualora così fosse, sarebbe sufficiente per il datore di lavoro “scegliere” di stipulare tanti contratti a tempo determinato per aggirare, con l’automatica cessazione del rapporto allo spirare del termine, il rispetto del principio che impone una limitazione al licenziamento. E il limite alla stipulazione di contratti a termine non potrà che essere della stessa natura di quello previsto per i licenziamenti, ossia una motivazione. La seconda ragione, di carattere per cosi dire “fattuale”, discende dal forte squilibrio contrattuale realizzato dalla riforma. Come si è visto, la nuova normativa consente al datore di lavoro di assumere un lavoratore con contratti di durata molto breve e prorogabili ad intervalli più o meno regolari. Bene, viene da pensare che, anche qualora il lavoratore ritenesse di subire trattamenti discriminatori rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato, molto difficilmente agirebbe contro il datore di lavoro: il timore di non vedersi prorogare il contratto prevarrebbe. Con buona pace del principio di non discriminazione: principio cardine tanto del nostro ordinamento quanto di quello europeo. D’altronde, anche da tale punto di vista assume rilievo la correlazione funzionale tra licenziamento e termine: la mancanza di ogni tutela contro il primo come la liberalizzazione del secondo, ponendo in pratica il lavoratore alla mercé del datore, privano di effettività tutte le altre tutele pure riconosciute dall’ordinamento a favore dello stesso lavoratore. Infine, non può essere trascurato il fatto che il testo consegnatoci dal legislatore sia foriero di non pochi dubbi interpretativi, frutto del compromesso politico sotteso alla sua nascita. Si pensi, ad esempio, alla questione della sanzione amministrativa oggi esplicitamente prevista qualora il datore di lavoro non rispetti il limite percentuale stabilito dalla legge per le assunzioni a termine. Tra gli addetti ai lavori, già si discute se questa sanzione sia unica o se ad essa debba esserne aggiunta una ulteriore, secondo i classici rimedi civilistici, ossia la conversione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a termine stipulati in eccedenza. Insomma, tanto lavoro per gli avvocati e poche certezze per le imprese che, invece, proprio di queste avrebbero proprio bisogno. 


di Francesco Pirone

* Ricercatore

Jobs Act: pensavo fosse un buon lavoro, invece è ancora flessibilità

in Sociologia Dipartimento di Scienze Sociali Università degli Studi di Napoli Federico II

La storia infinita del contratto a termine e dell’apprendistato

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l rilancio della domanda di lavoro è senza dubbio tra le priorità economiche e sociali del nostro paese. La crisi economica ha portato via, tra il 2008 e il 2013, un milione di posti di lavoro. Sono poi peggiorate le condizioni di lavoro, con una sempre più ampia quota di persone, soprattutto di giovani alle prime esperienze professionali, impiegati con contratti atipici. Si fa sempre più diffusa l’esperienza drammatica dell’assenza di lavoro, ma anche quella della cattiva occupazione che espone ai rischi della precarietà e dell’insicurezza sociale. Si può, per questo, concordare con le motivazioni del governo Renzi sull’urgenza di intervenire con misure per incentivare l’occupazione e combattere la precarietà. L’ini-

ziativa legislativa di primavera, però, promossa a partire dal Decreto Poletti, non solo ha riguardato una parte molto limitata del più generale Jobs Act presentato a inizio anno dal segretario del Pd, ma ha proposto delle misure che, a una prima analisi, non sembrano in grado di raggiungere gli obiettivi dichiarati di “aumentare le assunzioni a tempo indeterminato e, allo stesso tempo, scoraggiare il ricorso a forme di lavoro precario”. Si è deciso di intervenire principalmente sull’istituto del contratto a termine e su quello dell’apprendistato, mentre la gran parte delle proposte del Jobs Act di riforma del mercato del lavoro sono state rimandate al disegno di legge “Delega al Governo in materia di riforma degli

Contratti a termine meno rigidi La nuova regolazione del contratto a termine elimina diverse importanti rigidità che erano state mantenute anche dalla precedente legge Fornero (n. 92/2012), rendendo l’istituto molto più flessibile e di più ampio impiego.

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità ed alla conciliazione” che da metà aprile è in corso di esame in Commissione Lavoro e previdenza sociale. La nuova regolazione del contratto a termine elimina diverse importanti rigidità

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che erano state mantenute anche dalla precedente legge Fornero (n. 92/2012), rendendo l’istituto molto più flessibile e di più ampio impiego: in primo luogo, la durata massima dei contratti a termine viene triplicata, da 12 a 36 mesi, eliminando l’obbligo per il datore di lavoro di indicare la causale che con la legge Fornero era necessario a partire dal secondo contratto tra


le parti. Il numero massimo delle proroghe viene aumentato: si passa dalla possibilità di una proroga con l’indicazione delle “ragioni oggettive”, all’attuale possibilità di cinque proroghe, senza causale, né ragioni oggettive. L’impiego dei contratti a termine, infine, viene limitato al 20% – se il contratto collettivo non prevede altrimenti – per tutte le imprese con oltre cinque dipendenti ad esclusione degli enti di ricerca pubblici e privati; il mancato rispetto del limite, però, non è più sanzionato con l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato, come prevedeva la precedente normativa, ma con una multa amLa deregolamentazione del ministrativa. L’altro ambito rilevante d’inmercato del lavoro, la tervento del decreto disponibilità di un ampio Poletti ha riguardato ventaglio di contratti flessibili l’apprendistato, un istituto ritenuto cruciale e anche l’allentamento dei per sostenere l’inserivincoli al licenziamento con la mento professionale dei giovani all’ingresso modifica dell’articolo 18 dello nel mercato del lavoro che dovrebbe costruire Statuto dei Lavoratori, non dei percorsi di transihanno determinato condizioni zione graduale tra la formazione e il lavoro, favorevoli alla crescita basati sull’apprendidell’occupazione. mento di competenze specifiche in relazione a determinati contesti produttivi. Il decreto Poletti aveva eliminato l’obbligo di assunzione di una quota di apprendisti, quello di redigere formalmente un piano formativo individuale e quello dell’obbligo della formazione pubblica. L’intervento del Senato ha modificato questa impostazione, anche se la deregolamentazione ottenuta in conclusione risulta più spinta rispetto a quanto previsto dalla legge Fornero. Infatti, la precedente normativa prevedeva come condizione di utilizzo dell’apprendistato il vincolo che le nuove assunzioni fossero condizionate alla conferma in servizio di almeno il 30% degli apprendisti dipendenti al termine della formazione; questo vincolo è stato allentato e l’attuale normativa prevede che la conferma in servizio si applica solo per le aziende che abbiano almeno 50 dipendenti, e per queste

ultime l’obbligo si è ridotto al 20%. Viene eliminato il contratto in forma scritta con una “forma scritta semplificata” per il quanto riguarda il piano formativo individuale, mentre l’obbligo di formazione teorica, precedentemente previsto, viene sostituito con un obbligo di formazione pubblica se l’ente regionale di pertinenza è in grado di offrire una propria offerta formativa (entro 45 giorni, completa di sedi e calendario di lezioni). Si tratta di due insiemi di interventi che si basano sull’ipotesi della “flessibilità espansiva”, vale a dire dell’idea che la deregolamentazione e la riduzione dei vincoli nell’impiego delle forme flessibili di occupazione siano in grado di creare le condizioni per aumentare la domanda di lavoro. Le imprese private, da questa prospettiva, non assumerebbero a causa di vincoli nel lavoro e dei limiti al licenziamento, ma proprio nel caso italiano si è visto che la deregolamentazione del mercato del lavoro, la disponibilità di un ampio ventaglio di contratti flessibili e anche l’allentamento dei vincoli al licenziamento con la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, non hanno determinato condizioni favorevoli alla crescita dell’occupazione. Al contrario, la flessibilità occupazionale ha avuto effetti negativi sulla produttività e l’innovazione delle imprese, poiché producono incentivi a competere sul costo e la flessibilità del lavoro, con progressiva perdita di competitività delle imprese. Proprio queste considerazioni dovrebbero portare a riconsiderare l’opportunità di concentrarsi sulla domanda di lavoro, con nuovi investimenti pubblici e una nuova stagione di politiche industriali. Anche nell’attuale fase di crisi occupazionale, dovrebbe essere chiaro che l’obiettivo non può essere quello dell’occupazione qualunque essa sia, senza considerare il rapporto con i progetti biografici, le tutele sociali e i diritti. Ulteriori elementi di flessibilità non bilanciati da nuovi diritti sociali e di cittadinanza, non possono che accentuare i rischi di precarietà e insicurezza sociale con limitazioni anche sulle potenzialità di ripresa economica. 

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

di Anna Rea

L’impatto della proposta renziana sull’occupazione Non è un problema di sigle ma di impegno * Segretario generale Uil Campania

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l Jobs act è un fenomeno mainstream, sarebbe il caso di dire. È una bozza, è una presunta legge delega, un dibattito con diverse posizioni delineate e contrapposte, da una parte coloro che da questa suggestione aspettano la mirabolante soluzione al dramma occupazionale che coinvolge milioni di italiani, dall’ altra coloro che si apprestano, in un premunirsi carico di disillusione, a recitare l ‘assunto che i posti di lavoro non si creano per decreto. La verità è che, ad oggi, non esiste un disegno di legge, tanto meno una proposta organica di revisione generale di norme che regolano il mercato del lavoro e che possa essere identificata con il nome di Jobs act. A meno che il Jobs act non sia riassunto nel decreto n.34 convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 78, ma, a quel punto, avremo creato qualche contratto a termine in più, avremo resa più precaria la vita di un po’ di persone, aggiunto altri riferimenti giuridici al contratto di apprendistato, tanto per renderlo più “snello”, ma saremo, e in effetti lo siamo, ben lontani dall’intento palingenetico insito nel nome del Jobs Act. Fra l’altro, l’eliminazione del requisito causale per la stipula di contratti a termine, che è uno degli elementi caratterizzanti della legge, era stata già prevista anche se in maniera più condizionata dalla cosiddetta riforma Fornero nel 2012 e le motivazioni forniteci erano molto vicine a quelle dell’attuale governo. Eliminare la causale, che rappresenta un elemento di contenzioso, incentiverebbe le assunzioni da parte degli imprenditori. Il risultato, però, non solo ci dimostra che sono aumentati i disoccupati, come ci confermano i dati Istat, ma addirittura diminuiscono i contratti a termine: 66 mila in meno rispetto al 2013, ovvero siamo sul -3,1%, meno 21 mila collaborazioni, in calo del 5,5 %, nonostante

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che ogni 100 assunzioni 68 siano precarie. Mi sembra chiaro, consentitemi di dire, che il problema è di natura più macroeconomica, a meno che il nostro modello sociale di riferimento non preveda esistenze di 36 mesi massimo, cinque proroghe acausali incluse! Ironia, a parte, bisognerebbe forse capovolgere le priorità, accantonare “i titoli” e concentrarsi sulle componenti strutturali che caratterizzano il lavoro in Italia. È apparsa un po’ di tempo fa un’edizione del piano lavoro Renzi che prevedeva sette settori caratterizzanti per l’economia italiana: cultura – turismo – agricoltura – made in Italy, green economy, nuovo welfare, edilizia, manifattura, sarebbe davvero innovativo, tanto da meritare il “titolo” di Jobs act, se il governo presentasse ogni mese delle proposte su ognuno di questi asset strategici in una prospettiva globale, con programmi mirati, in una dimensione Europea, ma tutto questo non è avvenuto. Oltretutto la Germania, riferimento in Europa per quel che concerne la “capacità” economica, dal 2002 ha sperimentato una sola Riforma del Mercato del lavoro, quella varata sotto la guida di Peter Hartz che, al di là del contenuto in alcuni aspetti molto criticabile, ha ribadito l’utilità di un metodo sperimentale che si adattasse al modello economico, tanto che parliamo di legge Hartz I, II, III, IV. In Italia, invece, dal 1997 abbiamo conosciuto il pacchetto Treu, la riforma Biagi, la Riforma Fornero ed adesso il Jobs Act di Renzi, per inciso la disoccupazione in Germania è al 5,2%, in Italia al 13%. Quella giovanile in Germania al 7,9, in Italia al 43,3%, nonostante “battiamo” i tedeschi per 4 riforme del lavoro contro una. Mi viene da pensare che i problemi sono altri e anche le soluzioni! 

Il jobs act non esiste ancora Ad oggi, non esiste un disegno di legge, tanto meno una proposta organica di revisione generale di norme che regolano il mercato del lavoro e che possa essere identificata con il nome di Jobs act.


di Franco Tavella

Le norme in sé non creano lavoro Il confronto diretto è un valore. No all’autosufficienza * Segretario generale Cgil Campania

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ll’indomani del voto italiano alle elezioni europee, le urne ci consegnano qualche certezza e molte responsabilità. Innanzitutto gli italiani hanno confermato una vocazione europeista e il desiderio di un radicale cambiamento delle politiche di austerità fin qui adottate dall’Unione Europea. Un dato questo di straordinaria importanza soprattutto oggi, alla vigilia del semestre di Presidenza italiano della Ue. Ci si attende un’azione forte e incisiva del Governo che convinca la Comunità della necessità di adottare una politica finalmente espansiva, attenta ai bisogni dei ceti popolari, dei lavoratori e dei pensionati. L’altissima percentuale ottenuta il 25 maggio scorso dal Partito Democratico non deve tuttavia assolutamente distrarre da quelli che sono i bisogni di un Paese che dalla crisi non è mai uscito, ma che anzi resta intrappolato in una spirale recessiva. Gli ultimi dati Istat confermano un mancato innalzamento del Pil, il Prodotto Interno Lordo e, per quanto riguarda più specificatamente il Mezzogiorno, segnano un drammatico -42% sul tasso di occupazione. Le disuguaglianze territoriali tradizionalmente presenti nel nostro Paese si sono dunque accentuate con la crisi e la Campania, al 2013, risulta essere l’area dove si registra il dato più negativo: -39, 8% di occupati. La nostra Regione, già strutturalmente fragile prima della crisi, ha dunque aggravato la propria debolezza e così oggi ci troviamo a constatare che qui da noi una donna su due non lavora, o, ancor peggio, che oltre 224 mila giovani – i dati sono della Cgil Campania – non studiano, non sono occupati e nemmeno cercano un lavoro. Sono i

cosiddetti neet. Numeri pesanti che diventano una zavorra se pensiamo che negli ultimi anni in migliaia hanno lasciato la nostra regione. Una emigrazione altamente scolarizzata composta per lo più da giovani laureati che hanno detto addio a questo territorio: un’intera possibile nuova classe dirigente cui abbiamo rinunciato. Ecco perché il Governo ha il dovere di mettere lavoro e redditi al primo posto, di semplificare e sburocratizzare un’economia prigioniera di riti insopportabili, di investire risorse del pubblico per fare ripartire i motori della crescita rilanciando i diritti, i consumi interni, le chance anche per chi in questi anni è stato lasciato indietro. Al Sud ed in Campania la via è obbligata: se non investirà lo Stato lo farà la criminalità organizzata, l’unica in questo momento capace di disporre di grandi liquidità da immettere sul mercato. La Cgil, dal canto suo, ha da tempo individuato la radice possibile di uno sviluppo diverso dove, se la sfida è creare lavoro, non bastano i correttivi sulla disciplina giuridica di questo o quell’aspetto, ma serve, appunto, riscoprire il senso dell’investimento pubblico. Innovazione, diritti individuali del lavoratore, qualità sociale della cittadinanza, equità, sono ricadute di scelte che alla politica spettano e che un sindacato che rappresenta milioni di iscritti deve sapere e poter discutere. Discutere e contrattare. Già con Monti o Letta abbiamo visto saltare il rapporto tra Governo e parti sociali: il Governo andava avanti per la sua strada salvo poi scoprire, come nel caso della riforma delle pensioni, che forse sarebbe stato meglio parlarsi prima. Si fa un grande delitto quando ci si immagina che si possa saltare

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SPECIALE: Jobs act di Renzi

Jobs act non significa ancora occupazione Quanto al Jobs Act la discussione è ancora in corso, seguiremo l’evoluzione partendo dal presupposto che le norme in sé non creano occupazione. La sfida deve ritornare ad essere quella della crescita e dello sviluppo del Paese.

il confronto sulle vertenze, sulle aziende. Lo trovo un modo un po’ sbrigativo di affrontare un grande problema e cioè quello del futuro dell’assetto industriale del Paese. Continuo a pensare che la partecipazione è fatta anche del confronto diretto che non è sublimabile da alcuna rete informatica. Contrastiamo e contrasteremo l’idea di un’autosufficienza che taglia l’interlocuzione con le forme di rappresentanza negando il ruolo di partecipazione non solo al

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sindacato, ma al complesso dei corpi intermedi. Si tratta di una logica che sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione. Quanto al Jobs Act la discussione è ancora in corso, seguiremo l’evoluzione partendo dal presupposto che le norme in sé non creano occupazione. La sfida deve ritornare ad essere quella della crescita e dello sviluppo del Paese. 


CULTURA E FORMAZIONE

SUN, viaggio all’interno della Seconda Università di Napoli 20 anni e non li dimostra: entro luglio l’elezione del nuovo Rettore di Maria Beatrice Crisci

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rentamila iscritti, più di 1000 docenti, circa 1800 unità di personale tecnico-amministrativo. Questi i numeri della Seconda Università degli Studi di Napoli, nota ormai come SUN istituita nel 1991 per scorporo dall’Università degli Studi Federico II, con l’obiettivo di decongestionare il grande Ateneo napoletano ma, nello

stesso tempo con l’intenzione di riallacciare, rivitalizzandola, la storia bimillenaria di cultura che ha legato la costa a quell’ampio territorio che da Napoli giunge a Capua, passando per Aversa, Caserta, Santa Maria Capua Vetere. La SUN compie il suo lungo iter legislativo di costituzione attraverso il DPCM 12 maggio 1989, ma la sua autonoma attività è uffi-

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CULTURA E FORMAZIONE

cialmente iniziata il 1 Novembre 1992 con quasi diciannovemila studenti iscritti e 8 Facoltà dislocate su cinque poli territoriali. Ma andiamo per ordine! Aversa con le Facoltà di Architettura e Ingegneria; Caserta con le Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali e Scienze Ambientali; Santa Maria Capua Vetere con le Facoltà di Giurisprudenza e Lettere e Filosofia; Capua con la Facoltà di Economia; Napoli con la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Nel 2001 viene istituita la Facoltà di Psicologia che ha sede a Caserta. Nel 2006, nasce la Facoltà di Studi Politici e per l’Alta Formazione Europea e Mediterranea (dalla Scuola di Alta Formazione) “Jean Monnet” che ha sede a Caserta. Nel 2009 la Facoltà di Scienze Ambientali diventa Facoltà di

Dal 1992 al 2012 si sono laureati alla SUN oltre 44.000 studenti. In particolare nell’ultimo biennio i laureati sono stati 4587 nell’a. a. 2011/12 e 3185 nel 2012/13, suddivisi nei Dipartimenti della SUN. Scienze del Farmaco per l’Ambiente e la Salute. La SUN, inoltre, tenuto conto della sua particolare dislocazione sul territorio ha due sedi di Rettorato: una a Napoli, vicino alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, ed un’altra, quella istituzionale ed amministrativa, a Caserta, di recente inaugurata e completamente ristrutturata, nella Reggia della città. Oggi, dopo l’entrata in vigore della legge 240 del 2010, l’Ateneo è strutturato in 19 dipartimenti e due Scuole: quella di Medicina e la scuola Politecnica e delle Scienze di Base. Negli ultimi otto anni è stata portata avanti un’imponente politica edilizia mirata al recupero di strutture storiche. Politica avviata con successo dal Rettore Antonio Grella, che ebbe l’intuizione di realizzare interventi mirati sull’edilizia per

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Il saluto del rettore Francesco Rossi Rossi, Magnifico Rettore della SUN, ormai al termine del suo secondo mandato e la sua emozione di essere stato al vertice di un Ateneo che è oggi un fiore all’occhiello del territorio casertano e non solo.


la riqualificazione territoriale, ristrutturando complessi storici monumentali in disuso, messi a disposizione dagli Enti locali e dallo Stato. Quindi, proseguita con l’attuale Rettore Francesco Rossi. Va detto che è stato questo un lavoro lungo e difficile, raccolto in un volume “Le dimore della conoscenza”, che rappresenta una parte della storia ventennale della SUN e che mette in luce la ricchezza storica, architettonica, artistica e archeologica dei complessi monumentali che ospitano gran parte dei Dipartimenti su Napoli, Caserta con San Leucio, Aversa, Capua, Santa Maria Capua Vetere. Ed ecco, dunque, per citare solo qualche esempio, il criptoportico romano su cui si stratificò agli inizi dell’Ottocento il carcere borbonico, storica sede assegnata al Dipartimento di Lettere e Beni Culturali, le an-

tiche fabbriche di Sant’Andrea delle Dame, di Santa Patrizia, di San Gaudioso e del Palazzo Spinelli di Fuscaldo a Napoli, che accolgono una parte dei Dipartimenti di Medicina, i complessi di San Lorenzo ad Septimum e dell’Annunziata di Aversa, sedi storiche della religiosità e della pietà laica dove oggi si formano architetti e ingegneri. E ancora a Capua un altro convento, quello di Santa Maria delle Dame Monache, che ospita il Dipartimento di Economia, risorto dai lacerti della Caserma Fieramosca, le valenze architettoniche di un complesso meno noto, ma di gran pregio e tradizione, il Palazzo Melzi di Santa Maria Capua Vetere che, dopo aver ospitato per oltre un secolo il Tribunale, è oggi sede del Dipartimento di Giurisprudenza. E ancora. Il Dipartimento di Architettura ha sede nel complesso monumentale di San Lorenzo ad Septimum, ad Aversa, sull’antica via Consolare Campana ad septimum, cioè al settimo miglio dalla città di Capua. Il complesso monumentale comprende l’omonima Chiesa ed è costruito intorno al chiostro, oggi completamente restaurato. Docenti e studenti hanno dato vita ad un bellissimo orto, e per loro è stata realizzata in questi anni una bouvette. Sono stati inoltre effettuati in questa sede lavori di ristrutturazione che hanno riguardato sia gli spazi della ex Presidenza che gli studi dei docenti e alcune aule per gli studenti. Deve essere ancora completato il restauro della biblioteca. Quindi, la Facoltà di Economia istituita e ubicata a Capua nel 1991. Il complesso, che ospita l’attuale Dipartimento di Economia, è l’ex Convento delle Dame Monache, successivamente denominato Caserma Ettore Fieramosca, situato a Capua. Dal 2006 ad oggi sono state realizzate in particolare: una delle più belle biblioteche dell’Università, la bouvette, un laboratorio linguistico, un laboratorio informatico, alcuni studi dei docenti, l’aula magna, e la direzione. Il Dipartimento di Giurisprudenza ha sede nel centro storico di Santa Maria Capua Vetere, a Palazzo Melzi, fatto costruire dall’arcivescovo Camillo Melzi nel Seicento per servire come sede della mensa arcivescovile. Dal 1808 è stato sede

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CULTURA E FORMAZIONE

del tribunale sino all’istituzione della Facoltà e oggi del Dipartimento, dove è stata completata la ristrutturazione della biblioteca ed è stato sistemato il cosiddetto Fondo Lauria. Un separato moderno edificio è adibito ad aulario, inaugurato nel 2009, situato in via Perla, dove nel 2012 è stato realizzato un campetto sportivo a disposizione degli studenti e gestito dal CUS. Scuola Politecnica e delle Scienze di

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Base. Ha sede nello storico complesso dell’Annunziata di Aversa, fondato probabilmente agli inizi del trecento, con i due Dipartimenti di Ingegneria Industriale e dell’Informazione e di Ingegneria Civile, Design, Edilizia e Ambiente (mentre il Dipartimento di Matematica e Fisica ha sede nel Polo Scientifico di via Vivaldi). L’Annunziata rientrava tra quelle istituzioni religiose con fini assistenziali promosse


Francesco Rossi, Magnifico Rettore della SUN

dagli Angioini anche per il controllo del territorio. Dal 2006 ad oggi questa Scuola e questa sede hanno davvero cambiato il loro volto. Il complesso è stato quasi interamente ristrutturato ed in particolare sono stati realizzati: un bellissimo chiostro oggi luogo di ritrovo per tanti giovani studenti, una biblioteca, nuovi spazi per i docenti, la ex Presidenza di Ingegneria con tutti gli spazi annessi, una bouvette, il nuovo dipartimento di Ingegneria Industriale e dell’Informazione con aule e spazi per i docenti, l’aulario di viale Michelangelo, l’aula magna inaugurata nel 2010. In questa sede sono in corso ancora lavori di restauro, che saranno completati con la realizzazione anche di nuovi e moderni laboratori di ricerca e l’ultimazione dei lavori delle strutture del dipartimento di Ingegneria Civile, Design, Edilizia e Ambiente. Si passa poi al dipartimento di Lettere e Beni Culturali

che è ubicato nel medioevale Monastero di San Francesco a Santa Maria Capua Vetere costruito su un antico criptoportico Romano. Nel 2001, per scorporo dalla Facoltà di Lettere, è stata istituita la Facoltà di Psicologia, inizialmente collocata nel complesso del Polo Scientifico di via Vivaldi a Caserta e dal 2012 ubicata nella nuova sede di Viale Ellittico, nell’ex Palazzo delle Poste. Fiore all’occhiello della SUN è sicuramente il Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet”. Il Dipartimento ha iniziato l’attività didattica come Facoltà nell’anno accademico 20062007 con il corso di laurea in Scienze Politiche. Ha sede anch’esso nell’ex Palazzo delle Poste di Viale Ellittico a Caserta, dove sono state realizzate molte aule ed anche un laboratorio linguistico-informatico e un campetto di calcio, in comune con il Dipartimento di Psicologia. Il Di-

LA MISSION DELL’ATENEO

“È stato per me un grande onore aver guidato questo Ateneo. Sono stati otto anni di grande impegno, ma anche di soddisfazione e soprattutto di collaborazione e coesione”. Così il professor Francesco Rossi, Magnifico Rettore della SUN, ormai al termine del suo secondo mandato, parla nascondendo con difficoltà l’emozione di essere stato al vertice di un Ateneo che è oggi un fiore all’occhiello del territorio casertano e non solo. 22 anni per questa Università, ma anche l’ultimo del suo mandato, Rettore? È così, la chiusura di un ciclo durato otto anni che, con tutte le difficoltà, ha visto crescere ancora questo Ateneo sotto tutti i punti di vista, anche se ancora molto resta da fare. Come si possono sintetizzare questi anni che lo hanno visto alla guida di una struttura che conta circa 30 mila iscritti? Tanti i risultati raggiunti, tanti i progetti avviati, ma anche tante le questioni ancora irrisolte, facendo i conti con il nostro difficile contesto regionale e nazionale, le tante criticità, anche economiche e normative, che hanno di fatto impedito in questi ultimi anni un rilancio vero del sistema universitario nel nostro Paese. Quello che oggi posso dire con certezza è che, nonostante le tante difficoltà, in questa Università, moltissimi ancora lavorano, giorno dopo giorno, con entusiasmo, senza mai perdere la fiducia nel futuro e nella possibilità di crescere e di migliorare ancora. Perché vogliamo e dobbiamo credere nel ruolo e nella funzione dell’Università, nella formazione, nella ricerca e

nei giovani, unica vera opportunità di sviluppo del nostro Paese. È stato per me un grande onore aver guidato questo Ateneo. Sono stati otto anni di grande impegno, ma anche di soddisfazione e soprattutto di collaborazione e coesione. Quale è stata e quale è l’attenzione che viene data agli studenti? Gli studenti sono il “centro” della principale missione di ogni Ateneo. Con il Consiglio degli Studenti abbiamo avuto un rapporto splendido in questi anni, di grande collaborazione, e voglio ufficialmente ringraziarli per quanto hanno fatto. Studenti e formazione sono una delle principali missioni dell’Ateneo. Missione che, a guardare i numeri, possiamo ritenere di avere portato a compimento, sia per numero di iscritti, che per numero di laureati, percentuali di occupazione e offerta didattica. Il numero degli studenti, infatti, è passato dai 27.659 dell’a. a. 2006/07, a 28. 028 del 2012/13, con una certa flessione, come in tutto il Paese, negli ultimi anni (Figura 50); il 97 per cento dei nostri studenti è di provenienza campana. In particolare il 59 per cento proviene dal territorio casertano, il 30 per cento dal capoluogo ed il restante 8 per cento dalle altre province della Campania. Soddisfacenti anche i risultati? Voglio ricordare che dal 1992 al 2012 si sono laureati alla SUN oltre 44.000 studenti. In particolare nell’ultimo biennio i laureati sono stati 4587 nell’a. a. 2011/12 e 3185 nel 2012/13, suddivisi nei Dipartimenti della SUN.

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CULTURA E FORMAZIONE

Con quali prospettive? La nostra Università, come ho detto più volte, rappresenta anche un forte “ascensore sociale”, un’opportunità di riscatto culturale, un attrattore di innovazione e nuova imprenditoria ad alto contenuto tecnologico, un’opportunità di formazione e di una futura occupazione per migliaia di giovani. Lo dimostrano i dati Alma Laurea degli ultimi anni: nel 2008 il 42, 6 per cento dei nostri laureati proviene da famiglie i cui genitori posseggono un titolo di studio di scuola media superiore e addirittura il 32, 9 per cento da famiglie in cui posseggono un titolo di studio inferiore o alcun titolo, per un totale del 75, 5 per cento. Il dato aumenta nel 2011: ben il 79 per cento dei nostri studenti di primo livello risultano essere i primi in famiglia ad essersi iscritti all’Università e laureati, mentre il dato scende al 77 per cento per i laureati di secondo livello. E sull’offerta formativa? Oggi la nostra offerta è equilibrata e consolidata, coerente con la realtà della SUN. D’altra parte i risultati dell’ANVUR per la valutazione della premialità nella didattica ci pongono al 20° posto nel sistema universitario italiano Oggi l’università si deve porre sempre più come luogo di formazione, nel quale lo studente viene guidato da docenti e personale qualificato in un percorso di crescita culturale e sociale, proiettato verso le future professioni, valorizzando a tale fine tutti i servizi che l’Ateneo è in grado di offrire. In questi anni, infatti, abbiamo dedicato molto impegno e risorse per potenziare i servizi a disposizione dei nostri studenti, favorire il loro percorso formativo e la loro “vita” all’interno delle strutture dell’Ateneo. L’università anche ai tempi di internet? Certo! L’anno scorso siamo riusciti a costruire un portale completamente rinnovato, più facilmente accessibile e molto più

partimento di Scienze e Tecnologie Ambientali, Biologiche e Farmaceutiche ha sede a Caserta presso il Polo Scientifico di via Vivaldi, dove ha sede anche il Dipartimento di Matematica e Fisica. Negli ultimi anni è stato completato l’aulario di viale Lincoln, con la sua frequentata bouvette, e sono state realizzate anche alcune nuove strutture per gli uffici amministrativi. Una parte cospicua dei Dipartimenti Universitari della Scuola di Medicina è collocata nel cuore di Napoli. Vero è che le strutture di Medicina hanno bisogno di una nuova sede, che si sta costruendo a Caserta. Parliamo del Policlinico i cui lavori sono iniziati nel 2005. Oltre 45mila metri quadri di superfici coperte e oltre 205mila metri quadri di spazi liberi, circa 500 posti letto. Oggi, con la nuova ditta appaltatrice, i lavori sono arrivati al 90% del completa-

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accattivante da un punto di vista grafico, che riesce a dare in tempo reale tutte le notizie utili a studenti, docenti e personale tecnico. È ormai attiva da qualche anno per tutti gli studenti la casella di posta elettronica sul dominio studenti@unina2. it, utilizzata per lo scambio della corrispondenza non solo tra gli studenti e i docenti, ma anche come mezzo di comunicazione per le segreterie studenti. Tutti gli studenti dell’Ateneo hanno la possibilità di accesso alla propria carriera da un qualunque PC collegato alla rete internet, di stampare autocertificazioni contenenti gli esami superati con le relative votazioni riportate, di prenotare on-line gli esami da sostenere e di immatricolarsi on-line per i corsi di studio. Quali gli obiettivi futuri? Sicuramente quelli di internazionalizzare di più l’Ateneo, razionalizzarne la didattica e renderla sempre più professionalizzante, spingere sul placement, puntare sulla ricerca di base, ma anche su quella in collaborazione con le imprese, le loro esigenze, nell’ottica del trasferimento tecnologico dei risultati della ricerca, reperire sempre nuove fonti di finanziamento partecipando di più a progetti europei e quant’altro, non perdere mai di vista il panorama internazionale favorendo scambi e cooperazione, porsi come insostituibile risorsa per il territorio e per la società; questi gli strumenti, questi gli obiettivi che dobbiamo tenere presenti. Quale il vero punto di forza della SUN? Senza dubbio i giovani. Come dico da anni, è su loro che riponiamo le speranze per il nostro futuro ed è intorno a loro e alle loro esigenze che si devono sempre più concentrare i nostri sforzi. Sono loro il motore dello sviluppo di questo Paese, la forza intellettuale e la fonte di inesauribile energia. La nostra Università esiste perché ci sono loro.

mento della parte strutturale. “È un’opera straordinaria, una Cittadella Universitaria – dice il Rettore - dove fare Ricerca, Formazione e Assistenza Sanitaria di buon livello, con possibilità di spazi ulteriori per creare un Centro di Ricerca biomedica e biotecnologica di alto valore, con disponibilità di spazi per la Medicina, ma anche per altri Saperi, le Biotecnologie, la Farmacia, i Biomateriali, le Nanotecnologie. Nonché spazi ulteriori per Residenze, Albergo, Centri di Studi e così via. Non è un sogno, ma una possibile realtà”. Va detto, infine, che in questi anni, è stata realizzata la sede del Rettorato a Caserta presso la Reggia, con gli uffici, la stanza del Rettore, e l’aula per le riunioni di Senato Accademico e di Consiglio di Amministrazione. 


di Gennaro Zollo

* CdA Unisannio

Diritto allo Studio Sfide ed obiettivi del sistema universitario italiano Maglia nera per numero di laureati in Italia L’Italia continua ad avere una delle percentuali di laureati più basse a livello europeo: seppur infatti la quota di laureati sia aumentata di ben 10 punti percentuali, resta ancora ben lontana da quella della media europea che si attesta intorno al 35%.

Foto di Carlo Hermann

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n un contesto in cui ormai i vincoli e i limiti imposti sembrano aumentare quotidianamente, mentre, al contrario, i diritti tendono sempre più a ridursi se non scomparire, il mondo dell’università si ritrova a confrontarsi con numeri e statistiche dalle quali si trova ben lontana. Basti pensare al tasso di abbandono scolastico: in Italia circa il 18% dei ragazzi compresi nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni abbandona il mondo scolastico, con punte del 25% nel Mezzogiorno. Il dato è allarmante: l’Italia è certamente tra i paesi peggiori dell’Unione Europea, dove la media quest’anno è scesa poco al di sotto del 13%, ed è ben lontana dall’obiettivo comunitario previsto dal piano “Europa 2020”, che ci indica di portare l’indicatore al di sotto del 10%. Inoltre, secondo un rapporto Anvur, tra il 1993 e il 2012, la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita dal 5. 5% al

12. 7% e tra i giovani tra i 25 e i 34 anni si è passati dal 7. 1% al 22. 3%. Nonostante questo miglioramento l’Italia continua ad avere una delle percentuali di laureati più basse a livello europeo: seppur infatti la quota di laureati sia aumentata di ben 10 punti percentuali, resta ancora ben lontana da quella della media europea che si attesta intorno al 35%. Inoltre, dal 2004 ad oggi, l’università italiana ha visto ridursi di circa 69mila unità il numero degli immatricolati, registrando un tasso di successo negli studi che è ancora basso: su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%. Ho richiamato all’attenzione tutte queste statistiche poiché penso che rappresentino un’importante fonte di conoscenza dalla quale non si può prescindere, e sulla quale bisogna seriamente riflettere per comprendere al meglio le sfide a cui siamo chiamati. Sono convinto del fatto

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CULTURA E FORMAZIONE

che gli investimenti nell’istruzione siano qualcosa che nel lungo periodo portano sicuramente grandi vantaggi, ecco perché bisogna assolutamente tenerne conto quando si decidono gli stanziamenti dei fondi pubblici, soprattutto nei periodi di crisi! Ma il nostro Paese anche in questo caso non occupa buone posizioni: secondo il rapporto OCSE, l’Italia tra il 2005 e il 2010 non ha destinato mai più del 9% della spesa all’istruzione, rispetto ad una percentuale europea che è del 13%. Richiamando i dati di cui sopra, risulta del tutto evidente che la crescente riduzione degli investimenti in questi anni ha fatto sì che anche l’interesse degli studenti per il mondo universitario diminuisse. Tutto ciò in uno scenario in cui le famiglie italiane fanno fatica Le azioni messe in campo ad arrivare alla fine del dalle A. DI. SU., che risultano mese, e come molto quindi subordinate alle decisioni spesso accade, fanno fatica o non vi riescono assunte dal governo regionale, del tutto, a garantire una formazione ai propri riguardano la gestione delle figli. A tal proposito borse di studio, il servizio vorrei ricordare l’articolo 34 della Costituristorazione, la definizione zione Italiana che di strutture residenziali sancisce il diritto allo studio (DSU), da realizdestinate ad ospitare zare mediante interventi gli studenti universitari. rivolti ai capaci e meritevoli, privi di mezzi, al fine di consentire loro di “raggiungere i gradi più alti degli studi”. Il decreto legislativo n. 68 del 2012 prevede tre canali principali di finanziamento: il Fondo Integrativo statale per la concessione delle borse di studio da assegnare alle regioni proporzionalmente al fabbisogno finanziario, il gettito derivante dalle tassa regionale per il DSU a carico degli studenti (sono esclusi i beneficiari delle borse di studio) ed infine le risorse proprie delle regioni, ulteriori rispetto al gettito precedente, in misura pari ad almeno il 40% dell’assegnazione relativa al Fondo Integrativo ministeriale. È chiaro che nel contesto socio-economico che viviamo, la borsa di studio rappresenta una, se non la principale, forma di sostegno erogata agli studenti che sono meritevoli ma privi di mezzo. Il punto è che le risorse che vengono davvero impiegate non sono sufficienti ad assicurare a tutti gli idonei una borsa di studio. In Campania, così come

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accade nelle altre regioni italiane, il DSU è “garantito” dalle A. DI. SU (Aziende per il Diritto allo Studio Universitario), le quali non gestiscono in autonomia le risorse economiche, in quanto le vengono conferite dalla Regione Campania. Difatti gli studenti universitari, al momento dell’iscrizione, versano la così detta tassa regionale per il DSU, che negli ultimi due anni ha visto un aumento di circa il 125%, passando da 62 a 140 euro, direttamente nelle casse della Regione, che provvede poi a trasferirli alle sette Aziende presenti oggi sul territorio regionale. Le azioni messe in campo dalle A. DI. SU., che risultano quindi subordinate alle decisioni assunte dal governo regionale, riguardano la gestione delle borse di studio, il servizio ristorazione, la definizione di strutture residenziali destinate ad ospitare gli studenti universitari. Si può affermare quindi che la “mission” principale delle aziende è quella di costruire un sistema di strumenti e servizi che mirino a favorire la più ampia partecipazione alla formazione universitaria. I dati che però ci giungono dalle ultime analisi, non sono certo confortanti: a causa della riduzione delle risorse, tra l’a. a. 2009/2010 e il 2011/2012 si è passati da un tasso di copertura dell’86% a un tasso del 69%. Le regioni del Mezzogiorno, dove maggiore è l’incidenza degli aventi diritto, presentano tassi di copertura inferiori alla media. Una su tutte la Campania, che è passata dal 59% del 2008 a circa il 27%. Un dato davvero sconfortante, che diventa incredibile quando si viene a conoscenza del fatto che i fondi destinati agli studenti in realtà, per la gran parte, vengono utilizzati per coprire buchi di bilancio. Certamente, per un Paese che si definisce democratico, questo diventa del tutto inconcepibile, soprattutto poi se gli interventi pubblici a favore della formazione sono difesi da principi costituzionali e trovano uno dei leitmotiv nella definizione degli obiettivi fissati dalla strategia europea di “Europa 2020”. Formarsi, studiare, è una scelta che sicuramente deve venir fuori da ognuno di noi, ma è una scelta che sicuramente porta benefici alla nostra società. Ecco perché è necessario comprendere che occuparsi di queste cose significa occuparsi dei bisogni reali di tanti giovani, significa costruire il nostro Paese sull’uguaglianza, sul diritto, sulla solidarietà. Don Lorenzo Milani diceva: “La scuola mi è sacra come l’ottavo sacramento”. 


a cura della Redazione

Omaggio al bello e alla cultura Omaggio ad Aversa La mostra di Salvatore D’Onofrio

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i è tenuta ad Aversa nella Villa Pozzi di via Diaz, la mostra “Omaggio ad Aversa” di Salvatore D’Onofrio. L’iniziativa è stata fortemente voluta dal vicesindaco e assessore alla cultura Nicla Virgilio, che ha sottolineato “l’importanza di fare cultura sul territorio affinché i giovani comprendano che l’arte e la sapienza sono un diritto e un dovere di tutti. Soltanto attraverso iniziative di tale interesse e importanza si può dare il proprio contributo fattivo e risolutivo per la società, in modo tale che il luogo in cui viviamo divenga degno di essere definito società civile”. La mostra raccoglie il meglio della produzione del maestro, dai ritratti profondi alle nature morte; dai paesaggi ai nudi in bicicletta che aprono nuove pagine della storia dell’arte. D’Onofrio dimostra nella sua produzione una grande versatilità nella ricerca, quasi ossessiva, dell’essenza del mondo circostante e delle profondità dei comportamenti dell’uomo. Nato nell’hinterland napoletano a Melito di Napoli, dopo aver ultimato gli studi universitari presso la facoltà di “Storia e Filosofia” dell’Università degli studi di Napoli “Federico II” inizia la sua attività di insegnamento negli Istituti Superiori. La naturale predisposizione per il disegno e per la pittura lo ha sempre tenuto legato all’Arte e lo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei maestri e delle loro tecniche specifiche. Nei primi anni Settanta ha iniziato ad operare nel campo delle arti visive affermandosi ben presto per la potenza e l’interiorità delle sue opere dalle notevoli dimensioni culturali. Il maestro tenta di affidare all’immortalità della storia l’oggetto del suo interesse, nella pressante ricerca di sicuri punti di riferimento e valori assoluti. La sua opera si fa apprezzare anche quando volge lo sguardo alle radici del proprio territorio che diventano fonte di energia creativa e spunto

per la realizzazione di espressività originali. L’artista campano non elemosina la compenetrazione del suo mondo, lo fa intravedere in una mostra “Per Cardito” omaggio al paese bellissimo e dimenticato ed all’uomo don Gaetano filosofo fine ed uomo di grande spessore, punto di riferimento per la comunità lo-

cale e per tutti. Percorre il suo lavoro un’unità scenografica particolarmente coinvolgente, specie nei ritratti. I suoi personaggi vivono con forza e rappresentano ora l’anima ora il ruolo dell’uomo con segni cromatismi unici che rendono l’opera viva ed unica. Il maestro ha meritato ampi spazi espositivi e numerose recensioni per la sua opera che concilia la ricerca estetica con quella filosofica, letteraria ed esistenziale. Nel 2007, una grandiosa mostra a Castel Dell’Ovo nella splendida cornice del golfo di Napoli ha consacrato e consolidato il suo lavoro nell’occasione le opere esposte erano oltre cento raccolte in un prezioso testo figurativo di oltre trecento pagine con il meglio della sua produzione artistica. 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Rosaria De Bellis

Il Premio Strega arriva a Benevento con note a sorpresa e storie speciali I dodici finalisti dell’edizione 2014 hanno incontrato il pubblico

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cominciato da Benevento il conto alla rovescia per l’assegnazione del LXVIII Premio Strega. La tappa beneventana del prestigioso premio letterario, che dal 2008 segna il primo round nella corsa verso il Ninfeo di Villa Giulia a Roma, costituisce anche il primo impatto della dozzina di autori selezionati con il pubblico. I dodici scrittori e le loro opere sono state presentate, il 15 maggio scorso al teatro San Marco, dalla giornalista Sky Paola Saluzzi, chiamata a svolgere il ruolo di padrona di casa. Alla serata hanno preso parte il sindaco Fausto Pepe, l’assessore alla cultura Raffaele Del Vecchio, il direttore della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi, l’amministratore delegato di Strega Alberti Giuseppe D’Avino e l’assessore regionale alla cultura Caterina Miraglia. Questi gli autori selezionati dal Comitato direttivo del Premio Strega, presieduto da Tullio De Mauro: Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giuseppe Catozzella, Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori) di Antonella Cilento, Bella mia (Elliot) di Donatella Di Pietrantonio, Unastoria (Coconino Press-Fandango) di Gipi, Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini, Nella casa di vetro (Gaffi) di Giuseppe Munforte, La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie) di Francesco Pecoraro, La terra del sacerdote (Neri Pozza) di Paolo Piccirillo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo, Storia umana e inumana (Bompiani) di Giorgio Pressburger, Ovunque, proteggici (Nottetempo) di Elisa Ruotolo, Il padre infedele (Bompiani) di Antonio Scurati.

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L’edizione 2014 dello Strega viene considerata di rottura per la presenza nella dozzina della graphic novel di Gipi che ha portato una ventata di novità e di modernità al premio letterario. Il toto Strega ha già stabilito le quotazioni: oltre l’innovatore Gipi, al quale va il favore di coloro che sostengono la parità letteraria nelle diverse espressioni, vengono dati come favoriti Francesco Piccolo ed Antonio Scurati, mentre buone possibilità per piazzarsi nella dozzina sono per Elisa Ruotolo e Giuseppe Catozzella, con il ruolo di outsider assegnato ad Antonella Cilento. La prima votazione si terrà in casa Bellonci, sede della Fondazione, dove sarà effettuato mercoledì 11 giugno, lo spoglio dei voti degli Amici della Domenica, ai quali si aggiungono sessanta lettori forti selezionati ogni anno da librerie indipendenti italiane e quindici voti collettivi espressi da scuole, università e istituti italiani di cultura all’estero. La seconda e definitiva votazione avverrà nel Ninfeo di Villa Giulia giovedì 3 luglio con la proclamazione dei vincitori. Oltre alla novità dirompente di Gipi, lo Strega di quest’anno propone storie fantastiche o reali, ispirate ad episodi di cronaca: si parla del terremoto dell’Aquila con Bella mia o della ragazza che stretta nel burka si cimenta in gare di corsa mentre il suo sogno finirà tra le onde del mare di Lampedusa con Non dirmi che hai paura; mentre la questione razziale dell’ex Jugoslavia irrompe con Come fossi solo. Chi, invece, ama i legami con la terra natia può leggere La terra del sacerdote, chi la politica italiana e la formazione di sinistra Il desiderio di essere come tutti, il tema

La novità dello storico Premio Strega L’edizione 2014 dello Strega viene considerata di rottura per la presenza nella dozzina della graphic novel di Gipi che ha portato una ventata di novità e di modernità al premio letterario. Il toto Strega ha già stabilito le quotazioni.


dell’educazione sentimentale arriva invece con Il Padre infedele. In attesa di conoscere la cinquina dei finalisti, la presentazione beneventana è stata anche quest’anno molto apprezzata dal pubblico. Uno Strega snello, quello svoltosi nel capoluogo sannita. Uno Strega che parla decisamente campano, visto che ben cinque autori su dodici selezionati sono nati in Campania: due a Napoli, Scurati e la Cilento, e tre nel casertano, Piccirillo, Piccolo e la Ruotolo. Uno Strega che si rivolge in particolare ai giovani, gli allievi degli istituti superiori italiani e tre stranieri (Bucarest, Berlino e Parigi), chiamati a scegliere e a votare il libro preferito dell’edizione 2014. Il colpo a sorpresa della serata beneventana è stata la musica ritrovata interpretata da Gennaro Del Piano, accompagnato al pianoforte da Antonello Rapuano. Nel teatro San Marco sono risuonati i versi di un brano di 114 anni fa dedicato al Liquore Strega e sottotitolato “Canzone Bene-

vento”, scritta da Gian Battista ed Ernesto De Curtis, per intenderci quelli di Torna a Surriento, e salvata dall’oblio da Pietro Catauro e Ciro Daniele. Originali e particolarmente teatrali anche le scenografie di Italo Mustone e Fabio Melillo che hanno portato sul palco i simboli della città di Benevento: l’antico Arco di Traiano che quest’anno compie 1900 anni ed il cavallo di Mimmo Palladino che si trova nell’Hortus Conclusus. Tra le riproduzioni dei monumenti cittadini hanno trovato posto, in bella mostra, i dodici volumi. Da registrare anche una buona presenza in sala degli studenti coordinati dalla professoressa Maria Cristina Donnarumma che è salita sul palco ed ha ricordato il rapporto tra scuola, in primo luogo il Liceo Giannone, ed il Premio Strega. Un percorso che l’ha portata ad alti traguardi tra cui proprio l’essere inserita nel gruppo degli Amici della Domenica e quindi tra i 600 votanti per scegliere il libro di narrativa italiana per il 2014. 

Uno Strega (quasi) tutto Campano Uno Strega che parla decisamente campano, visto che ben cinque autori su dodici selezionati sono nati in Campania: due a Napoli, Scurati e la Cilento, e tre nel casertano, Piccirillo, Piccolo e la Ruotolo.

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CULTURA E FORMAZIONE

di Mico Capasso

Un piano per ricucire la città di Salerno La proposta del Forum della Cultura

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uando il tessuto sociale si lacera, com’è evidente in questi tempi, la tentazione di reciderne i fili che lo sorreggono ancora è forte. Se da parte delle istituzioni si propende per un decisionismo spinto, da parte della società civile ci si ripiega in un isolazionismo improduttivo e risentito. L’arbitrarietà delle scelte da un lato e l’intransigenza di chi guarda con sospetto a ogni forma di mediazione e compromesso dall’altro – allo spazio della politica come a un luogo in cui l’ideale può solo svilire – scavano un crepaccio che alimenta la spirale di una sfiducia crescente. A Salerno c’è chi, in controtendenza e con pazienza, cerca di ricucire, di rattoppare, di aggiungere nuovi fili per ridisegnare trama e ordito. Il 15 maggio, presso la sala convegni della Biblioteca Provinciale, la giornalista Luciana Libero, e l’operatrice culturale Anna Nisivoccia hanno presentato il Piano regolatore della cultura, pubblicato integralmente sulle pagine del quotidiano salernitano ‘La città’ e sulla pagina facebook del gruppo Forum della Cultura Salerno. Il Piano è il risultato di una serie di incontri con cadenza mensile tra operatori e associazioni culturali, artisti e docenti universitari interessati a ricucire il rapporto tra la città e i luoghi del sapere. Tutto nasce il 19 dicembre scorso, in un incontro pubblico al Punto Einaudi, quando si costituisce il Forum della Cultura Salerno, una piattaforma tra cittadinanza attiva e istituzioni. E le adesioni non mancano. Nelle riunioni successive si va via via formandosi un gruppo composto da Mas-

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simo Adinolfi, Vittorio Dini, Franco Forte, Piero Lucia, Nicola Palma, Marcello Ravveduto, Francesco Tozza, Pino Vuolo al quale si sono aggiunti: Raffaella di Leo, Nicola Vernieri, Gaspare di Lieto, Enzo Rosco, Ciro Caliendo, Salvatore Marrazzo, Milva Carrozza e altri. Negli incontri e sulla rete si lavora a una costruzione partecipata del Piano definendo sempre più le linee direttive e i campi di azione. Uno scambio collaborativo, come direbbe Sennet, invece di una mera lotta di interessi, l’insistenza sul valore dell’essere insieme piuttosto che dell’essere contro. Mappatura, riqualificazione e messa in rete dei luoghi della cultura, valorizzazione delle risorse umane presenti, definizioni dei modelli gestionali, elaborazione di criteri di valutazione e monitoraggio della spesa pubblica, coinvolgimento del capitale privato nella forma di cofinanziamenti, proposta per l’istituzione di una consulta degli operatori culturali, rafforzamento del legame tra Salerno e Comuni della provincia: questi alcuni dei principali punti programmatici. Nel dettaglio invece si fa riferimento al potenziamento di luoghi precisi come la Fondazione Scuola Medica Salernitana, il Convento di San Lorenzo, Palazzo Fruscione, il Castello Arechi, il Giardino della Minerva, il Museo Papi e Museo Virtuale Scuola Medica Salernitana. Si propone un museo diffuso e un percorso integrato attraverso il patrimonio culturale salernitano, un laboratorio urbano e del paesaggio e la costituzione di un polo teatrale che provi a ragionare in modo sistemico e meno


frammentato e verticistico. Un piano regolatore della cultura, che non vuole però irreggimentare alcunché, né tanto meno le voci dissonanti, che anzi vuole provare a stanare e a tradurre in forme di proposta positiva. Così come non vuole certo ridurre spazi e dettare regole alla creatività artistica. Piuttosto sua intenzione è di puntare all’organizzazione e alla tessitura di una rete per meglio permettere agli attori emergenti di lavorare su un territorio già predisposto all’ascolto e alla valorizzazione e alla diffusione del loro lavoro. Organizzazione e creatività non devono essere dunque viste, secondo un adagio romantico che ben si presta alle più ciniche strumentalizzazioni, come opposte e inconciliabili. In fondo, non è a partire da un linguaggio comune, da quel sistema in movimento rappresentato dalla nostra lingua appresa e

parlata, che il poeta trova quelle parole ogni volta uniche che illuminano la nostra esistenza? È per questo che nella Salerno immaginata dal Forum della Cultura, a differenza che nella platonica città ideale, gli artisti invece che essere messi al bando sono invitati a partecipare attivamente alla costruzione della comunità che viene. La disaffezione per la dimensione pubblica può attenuarsi solo a patto che, senza paura di perdere controllo e autorevolezza, le istituzioni creino le condizioni per l’apertura di nuovi spazi di partecipazione. E questo Piano Regolatore per la Cultura è senz’altro un documento prezioso che l’amministrazione dovrebbe valorizzare e far suo, se vuole riprendere a ricucire quel tessuto sfilacciato senza il quale la città perde la sua dimensione più autentica. 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Pellegrino Giornale

Foto di Mario Laporta

Gaetano Pascale, un agronomo Sannita per Slow Food Italia Subentra a Roberto Burdese, resterà in carica i prossimi 4 anni

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n campano alla guida di Slow Food Italia. Dopo Carlo Petrini e Roberto Burdese, l’agronomo Gaetano Pascale di Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, è stato eletto presidente nazionale della più importante associazione non profit che promuove nel mondo il cibo buono, pulito e giusto. L’elezione di Pascale è avvenuta al termine del recente congresso di Riva del Garda con il voto espresso da 771 delegati, la quasi totalità degli aventi diritto. Il sannita si è aggiudicato la partita con l’altra candidata, Cinzia Scaffidi, responsabile del Centro Studi, raccogliendo il 61% dei consensi.

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Un risultato storico per Pascale, referente dell’associazione per le regioni Campania e Basilicata, conseguito nel corso di un’assemblea che per la prima volta, dopo 28 anni, ha visto contrapposte due liste per la guida dell’associazione fondata nel 1986 nelle Langhe piemontesi. Un segnale importante anche per la grande battaglia in corso per affrontare i problemi di immagine e di risanamento di Terra dei Fuochi. “Seminiamo il futuro coltivando il presente” è lo slogan scelto dalla lista vincente di Pascale, 46 anni, attivo in Slow Food dal 1997 come presidente campano e docente ai Master of Food per i corsi di vino e olio. Pascale ha i genitori contadini. Ha studiato

771 delegati hanno dato fiducia a Pascale L’elezione di Pascale è avvenuta al termine del recente congresso di Riva del Garda con il voto espresso da 771 delegati.


per diventare agronomo ed aiuta il fratello Marcellino nell’azienda di famiglia a Guardia Sanframondi. Resterà quattro anni alla guida dell’associazione internazionale che ha sede a Bra, in provincia di Cuneo, ed è la prima volta, anche in questo caso, che un non piemontese riveste i panni di presidente. Al suo fianco lavoreranno: Daniele Buttignol, riconfermato segretario nazionale; Lorenzo Berlendis, lombardo e consigliere nazionale; Sonia Chellini, ex presidente di Slow Food Umbria; Francesca Rocchi, ex presidente di Slow Food Lazio. Inizia con una panoramica sul mondo del cibo e sulle sue connessioni il programma

La filosofia di Slow Food attraversa i campi dell’ecologia, della gastronomia, dell’etica e del piacere. L’associazione si oppone al processo di standardizzazione dei gusti e delle culture e dello strapotere dell’industria agroalimentare. della squadra di Gaetano Pascale: “Il Congresso esce unito da questa votazione, e lo dimostra al di là dei risultati numerici. Ora dobbiamo fare in modo che il patrimonio più importante dell’associazione, cioè le persone, siano messe nelle migliori condizioni possibili per dedicare le proprie energie e la propria volontà a tutte le buone cause che Slow Food sostiene ogni giorno. Cinzia Scaffidi porta il contributo della lista che ha rappresentato nel nostro comitato esecutivo, e questo ci rende più forti e più coesi. Vorrei ringraziare tutti i candidati e chi ha partecipato, in sede e sui territori, alla riuscita di questo fantastico congresso, che segna una fase di svolta. E cominciamo domattina dimenticandoci per chi abbiamo votato: non esistono più due squadre, ma un’unica, grande associazione”. Dal punto di vista organizzativo spicca la creazione delle commissioni, gruppi di

esperti che forniranno supporto tecnico agli organi politici, contribuendo quindi a snellire le procedure. Mentre sul piano operativo e politico si pone un’attenzione particolare al censimento della rete sul territorio, al rafforzamento dei rapporti con le istituzioni e ai progetti cardine di Slow Food: dall’educazione ai Mercati della Terra, dai Presìdi alle iniziative da portare avanti nelle grandi metropoli, coinvolgendo tutte le fasce della popolazione. Come sarà Slow Food tra quattro anni? La squadra di Pascale si prefigge di raggiungere l’autosufficienza economica dell’associazione e l’ampliamento del numero di soci, perché avere più soci significa avere più idee. E non può mancare il contributo alle nuove sfide internazionali, in primis l’ambizioso obiettivo dei 10. 000 orti da realizzare in Africa, 10. 000 prodotti a bordo dell’Arca del Gusto e altrettanti nodi nella rete di Terra Madre. Slow Food è un’associazione non profit che già conta 100. 000 membri in 150 paesi del mondo. Fondata da Carlo Petrini nel 1986, si pone l’obbiettivo di promuovere nel mondo il cibo buono, pulito e giusto. Per Slow Food bisogna tornare a dare il giusto valore al cibo, rispettando chi lo produce, chi lo mangia, l’ambiente e il palato. Quindi, l’organizzazione si impegna per difendere il cibo vero, promuovere il diritto al piacere, diffondere la cultura gastronomica ed educare al futuro. La filosofia di Slow Food attraversa i campi dell’ecologia, della gastronomia, dell’etica e del piacere. L’associazione si oppone al processo di standardizzazione dei gusti e delle culture e dello strapotere dell’industria agroalimentare. Attraverso la sua rete di persone attive sul territorio locale, nazionale e internazionale, Slow Food coordina e realizza progetti di ricerca, promuove iniziative, preserva e valorizza l’identità storico-culturale, sviluppa relazioni, attività e iniziative con e fra le comunità del cibo, favorisce la riduzione della filiera distributiva, promuove, organizza, gestisce e partecipa ad attività educative, propone e organizza programmi di cultura alimentare e sensoriale diretti ai soci, stimola iniziative tese al miglioramento dell’alimentazione quotidiana, pubblica guide, saggi e una rivista associativa. 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Peppe Tarallo

Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni Cosa è e cosa potrebbe essere

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uesto è uno dei due parchi nazionali della Campania e costituisce sicuramente la punta di diamante del sistema regionale delle aree protette non solo per la sua estensione ma anche per la sua biodiversità e la grande varietà di paesaggio che va dalla costa alla collina alla montagna. Come parco terrestre, è il secondo d’Italia dopo il Pollino ma con la recente creazione delle 2 aree marine protette – di Castellabate e Punta Infreschi-Masseta – ad esso connesse è ormai la prima area protetta del Paese; ha, inoltre, il numero di gran lunga maggiore di comuni e paesi che ne fanno un unicum nel panorama internazionale. La qualità e il pregio di questo territorio sono testimoniati dai prestigiosi e vari riconoscimenti che si è guadagnato: Patrimonio dell’Umanità; Riserva di Biosfera (in quanto custodisce oltre metà della biodiversità italiana) e ultimamente riconosciuto, sempre dall’UNESCO per la Dieta Mediterranea come bene immateriale dell’Umanità, intesa non solo come alimentazione ma stile e qualità di vita; di recente è entrato a far parte della rete internazionale dei GEO-Parks la cui varietà e monumentalità va dal Flysh del Cilento al grandioso sistema ipogeico (Pertosa e Castecivita) che attraversa trasversalmente l’intero territorio dall’interno alla costa, etc. A questi riconoscimenti si aggiungono quelli annuali delle Bandiere Blu della Comunità Europea e le Vele di Legambiente che premiano il nostro mare e la sua qualità come tra i più puliti d’Italia. Insomma questo territorio ha tutti i numeri che possono rappresentare la chance per dar vita a un modello di sviluppo – come si usa ancora dire – sostenibile e duraturo, non omologato, auto-

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centrato e autopropulsivo che ne sappia esaltare unicità ed originalità anche verso modelli che oggi vengono definiti di decrescita e resilienza in un’epoca che deve trovare nuove strade che la permanente crisi economica e i cambiamenti climatici impongono sempre più imperiosamente come scelte di vita e di civiltà che non ammettono attese e rinvii. Molte sono le realizzazioni, le attività e le iniziative dell’ente parco in questi anni di esistenza a livello sia locale che regionale, nazionale ed europeo e internazionale e molte sono le attività indotte e nate grazie ad esso più di quanto non si dica o ci sia percezione e consapevolezza. Il parco è servito a ridare identità e centralità a un territorio e una popolazione marginali e periferici nella geografia fisica e politica della regione, un’identità e una unità che si erano disperse da tempo in frammentazioni locali e municipalistiche. Il maggiore rischio dell’unità territoriale raggiunta e dell’identità ritrovata è rappresentato dai punti di debolezza che in genere sono dati dal fatto che comunque è un ente con una sua burocrazia che si è aggiunta a quelle già esistenti come ultimo e decisivo anello in qualità di ente sovraordinato e che lo espongono agli occhi dei cittadini e degli altri enti soprattutto come portatore di un ulteriore vincolo che grava nella vita amministrativa ed economica delle comunità locali. Altro punto di debolezza è dato dalla caratterizzazione sempre più politica e lottizzata della sua gestione che lo fanno sempre più assomigliare a un qualsiasi altro ente o a un carrozzone politico-clientelare e non a un ente di nuova generazione che ha da gestire un’area protetta e i suoi delicati equilibri con la popolazione e le attività antropiche.


Foto di Mario Laporta

Le aree protette, dall’esperienza finora fatta, hanno bisogno di una necessaria autonomia e stabilità di gestione che non sia compromessa e di fatto vanificata dal carattere politico delle nomine che col cambiare dei quadri politici nazionali, regionali e territoriali finiscono col rompere il carattere di autonomia e continuità programmatica, culturale e politico-gestionale di cui questi enti hanno bisogno pur senza negare le istanze politiche e locali ma senza pregiudicarne la dimensione nazionale e transgenerazionale. Alcuni parchi hanno saputo aggiungere ai fondi ordinari quelli europei che hanno consentito il raggiungimento di obiettivi straordinari difficili però da trasformare in realtà durature. La Regione Campania pur avendo una delle più alte percentuali di aree protette non è capace ancora di destinare dei fondi propri non sa fare di esse la punta di diamante di una

nuova politica rivolta alla valorizzazione anche economico-occupazionale e turistica. Nella stessa utilizzazione dei cospicui fondi europei ha segnato ritardi inammissibili quando non una incapacità di spesa. Per superare questo impasse, il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni per la complessità del suo territorio e per il delicato equilibrio tra natura, paesaggio e attività antropiche che finora ha saputo sostanzialmente preservare deve avere la capacità di andare anche oltre i suoi stessi obiettivi di stretta competenza sapendo indicare all’intero territorio e alle sue rappresentanze istituzionali e politiche mete e obiettivi che siano coerenti con essa sapendone preservare e valorizzare nel contempo le immense e incomparabili risorse disponibili che possono trasformare un territorio da mediamente povero in un territorio ricco e felice. 

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CULTURA E FORMAZIONE

INTERVISTA AL SINDACO MARINO SARNO

L’altra Campania quella degli spazi e dei paesaggi Volturara una verde ed inaspettata Irpinia di Marco Staglianò

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ossi Doria le definì le terre dell’osso, Virgilio le attraversò e ne trasse ispirazione per le Bucoliche. Stiamo parlando delle aree interne della Campania, in particolare dell’Irpinia, della verde ed inesplorata Irpinia. Terra di mezzo, un’isola senza mare, fucina di intelligenze ma, soprattutto, crogiuolo di bellezze naturali ed artistiche, scrigno di tradizioni e di sapori. Una provincia estesissima, 118 Comuni che vanno dalla Valle dell’Ufita, dunque dai confini con la Puglia, sino al Mandamento, poche decine di chilometri da Napoli, estendendosi sino a Calitri, ai confini con la Basilicata. L’Irpinia di oggi è soprattutto una provincia chiamata a ripensarsi in funzione delle sfide

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imposte dagli stravolgimenti che questa crisi ha determinato. Ed il futuro di questi territori è legato alla capacità dei medesimi di collocarsi sul mercato, è legato alla valorizzazione di quelle bellezze naturali ed artistiche, di quelle tradizioni. Uno dei luoghi più magici di quest’isola senza mare è certamente la Piana del Dragone, ovvero di Volturara. Di lì, passa l’acqua che disseta ben cinque milioni di abitanti in tre regioni, una piana che restituisce produzioni di altissimo livello circondata dalle montagne incontaminate dell’Alta Irpinia, da colline sui cui pizzi svettano borghi e castelli ricchi di storia e di segreti tutti da esplorare. «Abbiamo il dovere di valorizzare questi tesori – dice il sindaco di Volturara Marino Sarno – lo dobbiamo ai nostri figli. La sfida

Valorizzare il territorio «Abbiamo il dovere di valorizzare questi tesori, lo dobbiamo ai nostri figli. La sfida si gioca sulla capacità di fare sistema tra le diverse realtà, se Volturara è la capitale della piana del Dragone, se ha spazi, paesaggi e produzioni uniche, a pochi chilometri di distanza ci sono i Paesi dei Docg».


si gioca sulla capacità di fare sistema tra le diverse realtà, se Volturara è la capitale della piana del Dragone, se ha spazi, paesaggi e produzioni uniche, a pochi chilometri di distanza ci sono i Paesi dei Docg. Il minimo comune denominatore si chiama arte, si chiama cultura, si chiama natura. L’orizzonte è quello dell’Unione dei Comuni, ovvero della messa in rete di quelle eccellenze attraverso il dialogo inter – istituzionale ed il coinvolgimento dei nostri produttori. Dobbiamo fare dell’Irpinia un brand, nella consapevolezza che questa terra non ha nulla da invidiare alla Toscana, alle Marche o all’Umbria. Rispetto a quelle realtà abbiamo, sempliaccumulato un Lo scorso anno siamo riusciti cemente, ritardo di decenni in tera portare nel nostro comune mini di consapevolezza, ma il nostro prodotto ha ben 20mila turisti e potenzialità straordinaquest’anno quel numero rie». La sinergia istituzionale aumenterà sensibilmente. è, dunque, la via maeIl problema vero è che quasi stra per legare questi territori ai grandi cirsempre si tratta di turisti cuiti turistici tradiziooccasionali, ovvero nali: «L’Irpinia gode – continua Sarno – di una di persone che vengono posizione geografica per un giorno e vanno via. assolutamente strategica e vantaggiosa e Volturara è il cuore dell’Irpinia. Siamo ad un passo dalla fascia costiera campana, siamo a due passi da Roma e guardiano alla Puglia. Lo scorso anno siamo riusciti a portare nel nostro comune ben 20mila turisti e quest’anno quel numero aumenterà sensibilmente. Il problema vero è che quasi sempre si tratta di turisti occasionali, ovvero di persone che vengono per un giorno e vanno via. Dobbiamo essere in grado di offrire al turista motivazioni e stimoli per rimanere più giorni ed è per questo che è fondamentale mettere in rete le diverse realtà, unire le specificità e le eccellenze dei territori. Ma è essenziale, contestualmente, lavorare sul versante infrastrutturale. Noi stiamo provvedendo ad attrezzare la piana di maneggi, di spazi attrezzati e di case in legno che saranno messe a disposizione dei nostri agricoltori che lì potranno vendere i propri prodotti. Ma non basta, è necessario

lavorare per la creazione di nuove strutture ricettive, in grado di assicurare servizi di eccellenza, da inserire nei pacchetti turistici che si rivolgono al mercato nazionale e internazionale. Ma per fare tutto questo è necessario un cambio radicale di approccio al governo del territorio». Un cambio che s’impone come necessità, alla luce di una banale considerazione: le Province non esistono più, non esistono più, cioè, gli enti che storicamente hanno esercitato la funzione di coordinamento e di indirizzo dei sistemi territoriali. Questo significa, come è facile capire, che sul terreno della pianificazione strategica e della programmazione europea saranno i sindaci, d’ora in avanti, a doversi assumere l’onere di collaborare per dare ai territori una governance riconoscibile. Facile a dirsi, tutt’altro che a farsi. Tanto più in territori caratterizzati, come nel caso dell’Irpinia, da tanti piccoli centri governati da amministrazioni di diverso colore politico. «Questo è un problema – ammette Sarno – ma sta a noi fare uno sforzo di responsabilità, superare gli angusti spazi della parzialità per restituire alle Istituzioni il loro ruolo. Le Istituzioni non hanno colori, sono di tutti. E la politica deve farsi strumento per i territori, non ostacolo. Dobbiamo essere in grado di superare le divisioni, di lasciare da parte le appartenenze nel momento in cui siamo chiamati a rappresentare tutti, tanto più in un contesto rinnovato nell’ambito del quale è venuta meno quella cabina di regia storicamente rappresentata dalla Provincia, in un contesto nel quale l’alternativa alla collaborazione è l’isolamento. In tal senso Volturara sta provando a fare da traino su questo sentiero e sono molto fiducioso: i territori stanno capendo che uniti siamo una forza, divisi siamo tante debolezze. È ora che l’Irpinia torni a parlare con una voce sola, è tempo di ripartire dall’appartenenza e dalla coesione, l’obiettivo che abbiamo è il medesimo: quello di valorizzare questa splendida provincia, quella di far conoscere al mondo l’altra Campania, quella degli spazi e dei paesaggi, del buon vivere e delle tradizioni, dell’arte e delle attese. Il mondo ci aspetta» 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Maria Beatrice Crisci

L’Aeronautica fuori dalla Reggia: scoppia la querelle tra Governo e Comune “Un piano assurdo”, attacca il sindaco Del Gaudio. Mentre cittadini e associazioni si preparano alla mobilitazione.

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a Reggia di Caserta sempre protagonista di primo piano e negli ultimi tempi ancora di più. A porre il sito Unesco al centro della cronaca nazionale, e non solo, l’annuncio del ministro ai Beni Culturali Franceschini di trasferire l’Aeronautica Militare in un’altra sede. Notizia questa che non poteva non suscitare reazioni su più fronti, dal momento che l’Arma Azzurra da più di 70 anni conserva un legame con la città. Un annuncio choc a cui è seguita la visita immediata in città del ministro della difesa Roberta Pinotti che ha incontrato i vertici dell’Aeronautica e chiarito una volta per tutte la vicenda. “L’Aeronautica Militare lascerà la Reggia, ma rimarrà a Caserta. C’è un obiettivo che il Governo e in particolare il ministro Franceschini hanno dato, ovvero quello di restituire al monumento la propria funzione museale”. Questo quanto dichiarato dalla rappresentante di Governo che proprio nel giorno della sua visita annunciava anche la nomina di un commissario straordinario per la Reggia di Caserta da parte Consiglio dei Ministri. Immediata anche la reazione del sindaco di Caserta Pio Del Gaudio che non ha nascosto per nulla la sua amarezza: “La vicenda – ha dichiarato – è complessa e meriterebbe approfondimenti che richiederebbero pagine e pagine di riflessioni. Dal 2011 ho condotto, spesso da solo, una battaglia di casertanità e di-

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fesa del Monumento. Con la mia maggioranza abbiamo, a volte, fatto scelte difficili o provocatorie, ma nell’esclusivo interesse della città. Abbiamo chiesto nel tempo un’attenzione nazionale sul tema”. Il primo cittadino poi ha aggiunto: “con il presidente Caldoro, approfittando della possibilità di utilizzare le risorse comunitarie, ci adoperammo affinché alla Reggia fossero destinati i famosi 21 milioni di euro, spesso citati impropriamente, le uniche risorse effettivamente esistenti. Tale somma, grazie alla Regione, oggi è disponibile per la manutenzione e la ristrutturazione delle facciate. Le gare, non si capisce bene perché, non si sono ancora completate, tra annunci e rinvii. Con il ministro Bray, nonostante la nemesi storica che ogni tre anni impone a qualcuno di destra e di sinistra di provare a cacciare l’Aeronautica dalla Reggia, definimmo, speravo, di garantire alla Reggia il sostegno essenziale e irrinunciabile dell’Aeronautica. Le 573 famiglie e la presenza di circa 180. 000 avieri in 10 anni garantiscono alla città e alla Reggia di Caserta un appoggio economico e di cuori pulsanti irrinunciabile”. Poi l’intervento inaspettato del ministro Franceschini! Del Gaudio è categorico: “L’Aeronautica deve rimanere a Caserta e preferibilmente nella Reggia. Non si può parlare di rilancio di un contenitore fantastico se, invece di costruire idee e percorsi, con spot elettorali


Il rilancio della Reggia parte dalla presenza dell’Arma Azzurra “L’Aeronautica deve rimanere a Caserta e preferibilmente nella Reggia. Non si può parlare di rilancio di un contenitore fantastico se, invece di costruire idee e percorsi, con spot elettorali e contraddittori mal riusciti, si parla di Aeronautica invece di parlare degli obblighi o dei compiti, spesso mal svolti, del Ministero dei Beni Culturali”.

e contraddittori mal riusciti, si parla di Aeronautica invece di parlare degli obblighi o dei compiti, spesso mal svolti, del Ministero dei Beni Culturali”. Vale la pena ricordare che la presenza dell’Aeronautica Militare nella Reggia è datata 14 ottobre 1948. Una presenza tornata nell’occhio del ciclone dopo l’incendio dei sottotetti del monumento occupati dalla Scuola, avvenuto nel 1998. Inevitabile allora la discussione sulla permanenza dell’Arma Azzurra nella Reggia. Oggi se ne riparla senza pensare al valore aggiunto rappresentato dalla presenza della Istituzione militare e sottovalutando il pregiudizio che potrebbe derivarne alla città e anche all’Arma nel momento in cui si dovesse aprire un tavolo sulla delocalizzazione. Si tratta di fondi deliberati in più dal governo regionale a favore dell’organizzazione del Forum delle Culture. In tal modo all’iniziale finanziamento di 1. 900mila euro se ne aggiunge uno integrativo di 380mila euro. Ben 280 mila euro saranno interamente utilizzati dal progetto di illumina-

zione della facciata esterna della Reggia e di piazza Carlo III. Per Del Gaudio “è questa un’ulteriore testimonianza dell’ottima sinergia tra Regione Campania e Comune di Caserta. Un’iniziativa mai svolta prima, che attua i nostri propositi attraverso i quali abbiamo sempre espresso la convinzione e la determinazione di realizzare iniziative concrete, che potessero lasciare un segno positivo in città in occasione di una vetrina internazionale come il Forum”. Nel frattempo a difesa del Sito Unesco scendono in campo anche associazioni e cittadini con l’iniziativa “Caserta chiama Pompei”, una catena umana messa in atto dall’associazione Orange Revolution che presenterà un appello-proposta al presidente del Consiglio, al presidente della Repubblica e al Ministro dei Beni Culturali per chiedere di istituire formalmente una commissione costituita da tecnici, associazioni ed esponenti della società civile affinché vigili sia sui finanziamenti sia sulle condizioni effettive del monumento. 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Raffaele Perrotta

La strada dei veleni tra il Vesuvio ed il mare Cronistoria di interventi mai attuati

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ue destini che si stavano unendo: la più grande discarica d’Europa ed il più grande depuratore industriale d’Italia. Il racconto del Professor Angelo Genovese sugli episodi che caratterizzarono un periodo nero dell’emergenza rifiuti in Campania, al limite della guerra civile. «Perché questo atto di forza qui piuttosto che in una campagna sperduta?» Si interroga il Prof con una domanda retorica. «Perché qui era vicino la Wisco, non ci sono altre spiegazioni. Non me le riesco a dare». È la conclusione del lungo pensiero del Professor Angelo Genovese che, dopo 5 anni dagli scontri di Terzigno, torna sulla questione delle discariche e del depuratore industriale di Santa Maria La Bruna. Lo fa con la lucidità data dal tempo che è passato, consapevole delle battaglie combattute e dei risultati ottenuti. Occorre fare un lungo passo indietro per capire la storia, i personaggi e le trame. Angelo Genovese è ordinario di zoologia alla Federico II di Napoli, impegnato da sempre in battaglie di tutela dell’ambiente e della salute. Impossibile non conoscerlo nel vesuviano. Nome noto a tanti comitati civici anche della provincia di Napoli, e di molti altri comuni della regione e del Mezzogiorno d’Italia. Il suo curriculum di lotte inizia molti anni fa. Se l’Italia fosse un paese attento ed abituato ad ascoltare, non solo quando la tv da voce allo Schiavone di turno che indica rifiuti, saprebbe, dal lontano 1988, di quel via vai di camion con targhe campane che prelevavano i rifiuti industriali nel nord per sversarli nella regione. Non è un anno a caso, in quell’anno alcuni militanti del PCI e di Legambiente, tra

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cui proprio il Prof Genovese, lo denunciarono diverse volte. Purtroppo inascoltati. L’hanno detto e denunciato 8 anni prima di Schiavone (che in effetti poco ha aggiunto alle dettagliate denunce degli ambientalisti) e 26 prima che se ne accorgesse lo Stato, che qui spesso non c’è, nemmeno quando sono presenti le istituzioni a rappresentarlo. Alcuni articoli degli anni 1988/89 che riportano le denunce del PCI e di Legambiente. La nostra storia è un’altra, per lunghi versi già raccontata. Ci riporta a tempi più recenti, quando un intreccio di situazioni, uomini, malaffare, stava realizzando il più grande scempio al mondo per proporzioni. La più grande discarica d’Europa nel più piccolo parco naturale terrestre d’Italia e a pochi chilometri il più grande impianto italiano di trattamento di reflui industriali nella terza provincia d’Italia per abitanti, la prima per densità e nell’unica zona senza grandi industrie. «Ritengo che ci sia una filogenesi, una stretta relazione tra un episodio e l’altro». In effetti, a sentir parlare il Prof, i discorsi non fanno una grinza. Lungo la storia avremo come riferimenti, non solo gli anni, ma soprattutto le cariche monocratiche dello Stato che si sono alternate, a dimostrazione che non è solo un problema di schieramento politico. Parco nazionale del Vesuvio. La tutela dell’ambiente è materia recente, nonostante il concetto di “tutela del paesaggio” sia nato con la legge 1497 del 1939 sulle Bellezze Naturali. Si deve aspettare, infatti, il 1985 per due leggi che vanno nello specifico della materia:la legge regionale sulle cave, la 54 del 13 dicembre 1985, e la legge Galasso, la 431 dell’8 agosto 1985. In particolare, la seconda «vincolava


Le “etichette” del Parco del Vesuvio “Il Parco Nazionale del Vesuvio nasce ufficialmente il 5 giugno 1995”, si legge sul sito ufficiale. Rientra nelle direttive comunitarie “Habitat” e “Uccelli” ed è inoltre riserva MAB dell’Unesco.

ope legis l’edificio vulcanico – mi dice il Prof - e sottoponeva la regione all’obbligo della realizzazione dei piani paesaggistici, in base ai quali si sarebbero dovuti realizzare le opere strutturali importanti per il territorio. Ovviamente la Regione si riguardò bene dal fare questi piani paesaggistici perché si trattava di scontentare l’elettorato nelle aree che erano vincolate maggiormente con un divieto di costruzione. Inoltre stringere i territori in una rete fitta di restrizioni avrebbe reso difficile un controllo serrato all’abusivismo di necessità». “Il Parco Nazionale del Vesuvio nasce ufficialmente il 5 giugno 1995”, si legge sul sito ufficiale. Rientra nelle direttive comunitarie “Habitat” e “Uccelli” ed è inoltre riserva MAB dell’Unesco. «Ci ritroviamo nella zona più piccola e più vincolata al mondo. Il solo fatto che un’area così limitata sia riserva mondiale della biodiversità significa che non puoi muovere nemmeno un filo d’erba, per il suo sistema

peculiare». Depuratore di Santa Maria La Bruna. Dicembre 2005. Presidente della Repubblica Ciampi, Presidente del Consiglio Berlusconi, Presidente della Regione Campania Bassolino, Commissario straordinario all’emergenza rifiuti Catenacci, presidente WiscoFriz. Il decreto 513 del 16 dicembre 2005 sanciva la conversione dell’ex officina FS di Santa Maria La Bruna in un mega depuratore per reflui industriali, che doveva essere realizzato dalla WISCO, una società compartecipata Trenitalia ed Enel. «L’importante era realizzare l’impianto», sentenzia il Prof. «Stava nascendo sul mare, vicino all’importante asse ferroviario, a pochi chilometri dall’uscita dell’A3 di Torre nord e con una strada in costruzione per la discarica di cava Vitiello. Lo stesso impianto fu respinto prima da Porto Marghera e poi da Bologna, ma non da qui dove il traffico su ferro e gomma avrebbe consentito il trasporto di li-

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CULTURA E FORMAZIONE

quami industriali da tutta l’Italia. Stranamente così vicino al mare da far temere che un malfunzionamento avrebbe potuto compromettere ulteriormente lo stato di salubrità delle nostre coste». In effetti quell’impianto sarebbe stato allocato in un posto strategico. Era in costruzione, fino a poco tempo fa, una strada che univa, dalla costa, le officine FS alla vicina via Prota, strada di confine tra Torre del Greco e Torre Annunziata, che immette sia sull’autostrada A3 sia sulla strada interna che da Trecase arriva a cava Vitiello passando da dietro la famosa rotonda degli scontri di anni fa. Emergenza rifiuti 1994-2009. Presidenti della Repubblica Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Presidenti del Consiglio Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, Prodi e Berlusconi. Presidenti della Regione

«Ci ritroviamo nella zona più piccola e più vincolata al mondo. Il solo fatto che un’area così limitata sia riserva mondiale della biodiversità significa che non puoi muovere nemmeno un filo d’erba, per il suo sistema peculiare» Campania Grasso, Rastrelli, Losco, Bassolino, Caldoro. Commissari straordinari all’emergenza rifiuti Improta, Rastrelli, Losco, Bassolino, Catenacci, Bertolaso, Pansa, Cimmino, Sottile, De Gennaro e Bertolaso. «Nel corso degli anni ‘90 e 2000 la regione è stata vessata da crisi cicliche dei rifiuti, alcune delle quali create ad arte. Ne sono testimonianza anche le parole di Walter Ganapini, assessore ai rifiuti dal 2008 al 2010 quando era governatore Bassolino. Ganapini si stupì di come si fosse generata la crisi mentre era già pronta una discarica ed alcuni impianti di compostaggio. Le sue parole celebri si trovano in un video su you tube». Anno 2007. Governo Prodi. A marzo, con il decreto 61 convertito nella legge 87/2007, il governo Prodi stabilisce l’apertura della discarica nel Parco del Vesuvio, nel comune di Terzigno. «Il decreto preve-

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deva, in maniera generica, una discarica per la frazione organica stabilizzata, la FOS, che dovrebbe essere la parte organica del rifiuto, depurata, essiccata, stabilizzata e portata in discarica. A detta dell’ex presidente della Commissione ambiente del Senato, il Senatore Tommaso Sodano, la “frazione organica stabilizzata era un ottimo ammendante”». Il Prof continua: «la FOS in Campania non si produceva, c’erano solo gli Stir che producevano del trito vagliato sporco e puzzo-

Foto di Salvatore Laporta

lente. Secondo l’Università di Torino, a cui la regione Piemonte affidò uno studio, 50 centimetri di FOS, della migliore qualità, posta a spaglio senza comprimerla, comportavano un forte inquinamento del suolo da metalli pesanti ed altri inquinanti. Per la discarica di Terzigno si decise di conferire frazione organica stabilizzata per un’altezza che variava tra i 50 e i 70 metri, compressi. Inoltre fu aperta l’inchiesta Rompiballe anche per le dichiarazioni di Marta De Gennaro che già brigava per “truccare” la discarica, nel senso di conferire li rifiuti di tipologie diverse, molto più pericolosi». Questo non è tutto. Intanto i governi si alternavano e al secondo governo Prodi subentrò il Berlusconi IV. Anno 2008. Governo Berlusconi. Nella legge 123 del 2008 era riportato all’articolo 2 comma 1: “Ai fini della soluzione dell’emer-


Angelo Genovese

genza rifiuti nella regione Campania, il Sottosegretario di Stato, anche in deroga a specifiche disposizioni legislative e regolamentari in materia ambientale, paesaggistico territoriale, di pianificazione del territorio e della difesa del suolo, nonché igienico-sanitaria provvede all’attivazione dei siti da destinare a discarica, così come individuati nell’articolo 9”. Anno 2009. Ordinanza 48 del 3 Marzo 2009. Presidente della Repubblica Napolitano. Presidente del Consiglio Berlusconi. Presidente della Regione Campania Bassolino. Commissario straordinario all’emergenza rifiuti Bertolaso. Sindaco di Terzigno Auricchio. Quest’atto fu inviato al sindaco in maniera riservato. «Gli fu chiesto di non diffonderlo, di tenerla nascosta perché coperta dal segreto militare. Solo grazie all’avvocato Sorrentino di Boscotrecase e al consigliere DS Sangiovanni di Terzigno, si riuscì ad avere una copia prima dell’estate 2009». Dall’ordinanza, dettata dalle aziende private ECODECO e ASIA, a pagina 6 lettera h, si legge: “Si è considerato di utilizzare le scorie provenienti dall’attività del termovalorizzatore di Acerra quale materiale di copertura giornaliera”. Mentre al terzo punto della lettera i: “progettare, realizzare e gestire un impianto di depurazione e trattamento del percolato, con tecnologia analoga a quella prospettata nel progetto definitivo, ma di maggiore capacità rendendolo idoneo a servire non solo l’impianto in oggetto, ma anche altri impianti operativi sul territorio e/o previsti nelle prossimità”. «Si sanciva la morte lenta di migliaia di persone. Le ceneri dell’inceneritore di Acerra, coprendo i rifiuti, erano esposti ai venti, in modo da contaminare l’area con le particelle tossiche. Infatti, l’ultimo decreto del governo Prodi autorizzava la combustione, nell’inceneritore, di ogni tipo di rifiuto». In quella calda estate del 2009 accadde un siparietto grottesco e drammatico. In un incontro pubblico al quale partecipò il Prefetto Antonio Reppucci, all’epoca vice di Bertolaso, alcuni cittadini chiesero quali rifiuti fossero smaltiti in cava Vitiello. Il Prefetto rispose: «solo rifiuti solidi urbani, non c’è bisogno che lo metto per iscritto, lo dico io che sono il Prefetto». Il Prof, che era tra i relatori, seduto al tavolo vicino Reppucci, prese la parola e mostrò l’ordinanza 48, sostenendo di averla letta

tutta, compresa la parte delle ceneri dell’inceneritore. Il Prefetto replicò: «visto che lo sapete, vi dico che ci sono anche le ceneri di Acerra». «La stessa ordinanza», mi evidenzia il Prof, «prevedeva l’impianto di vasche per percolato di una grandezza molto superiore a quella necessaria per la discarica. Servivano per lo stoccaggio ed il trattamento dei liquami del depuratore industriale targato WISCO? Terzigno era destinata a diventare la città dei veleni». Aprile 2010, relazione Merkies. Nella relazione firmata dalla eurodeputata dei Paesi bassi, a pagina 9 e 10, si legge: “L’ubicazione della discarica di Terzigno all’interno del perimetro del Parco nazionale del Vesuvio è di per sé un’aberrazione. Nella relazione della Protezione civile si afferma che lo studio d’impatto ambientale realizzato è stato approvato dal ministero dell’Ambiente. Alla luce di quanto osservato nel corso della visita, è legittimo dubitare dell’obiettività e della validità di tale studio. Dal controllo visivo effettuato dai membri della delegazione tra i rifiuti visibili, il capo della delegazione ha scorto immediatamente un pneumatico e un bidone contrassegnato per rifiuti tossici”. Ottobre 2010. Gli scontri di Terzigno. «L’insurrezione iniziò nel settembre, quando Bertolaso annunciò, dalla vacanza ischitana, l’apertura di cava Vitiello. Se non fosse stata per la puzza, probabilmente non ci sarebbero stati gli scontri in quelle proporzioni». Gli scontri tra settembre ed ottobre sono storia nota. Il 29 ottobre 2009, il Presidente Berlusconi promulgò il decreto che impediva l’apertura di cava Vitiello. «Napolitano, in un primo momento, si rifiutò di firmarlo. Questo la dice lunga sui grandi interessi che investono le alte cariche dello stato. Perché questo atto di forza qui piuttosto che in una campagna sperduta? Se fosse stata vero che l’ostinazione dello Stato a voler aprire la mega discarica di cava Vitiello era per un asservimento agli interessi della Wisco e dei potentati che vi erano dietro di essa, allora significa che l’insurrezione popolare ha prodotto un risultato di proporzioni storiche. In ogni caso non ci sono altre spiegazioni. Non me le riesco a dare». 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Pellegrino Giornale

Il carisma e la missione di Rino Fisichella Incontro a Montesarchio con l’arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione L’incarico Fisichella è il braccio destro di Papa Francesco per l’organizzazione dell’Anno della Fede

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ine teologo, influente rappresentante della Curia vaticana, noto volto televisivo, discreto interlocutore dei politici italiani. È mons. Rino Fisichella, arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Montesarchio, in provincia di Benevento, dove il sindaco Franco Damiano ed il Consiglio comunale gli hanno conferito la cittadinanza onoraria. Fisichella va annoverato certamente tra i più stretti collaboratori di papa Francesco, essendo stato confermato alla guida di un organismo creato nel 2010 da Benedetto

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XVI quale braccio operativo del pontefice per l’organizzazione dell’Anno della Fede. Più volte è stato annoverato tra i papabili alla berretta cardinalizia. Investitura che non è arrivata negli ultimi Concistori anche se Fisichella resta figura centrale della Chiesa italiana, molto richiesto nei programmi televisivi per il suo linguaggio semplice e diretto. Famosa la sua partecipazione ad “Anno Zero” di Michele Santoro, nel 2007 su RaiDue, nella trasmissione in cui venne presentato il documentario della BBC sui preti pedofili. Nonostante il tema scottante, l’ex rettore dell’Università Lateranense non si sottrasse al confronto e alle accuse che venivano rivolte alla gerarchia.


Ma Fisichella è anche conosciuto per il dialogo portato avanti con personalità della cultura laica italiana come la giornalista Oriana Fallaci che ha seguito nelle ultime dolorose fasi della sua vita e l’ex presidente del Senato Marcello Pera. Nell’incontro di Montesarchio, mons. Fisichella ha parlato di molti temi partendo anzitutto dalla sfida della nuova evangelizzazione che è tornata d’attualità nell’Anno della Fede. 12 mesi intesi di iniziative e di incontri, ha sottolineato il presidente del Pontificio Consiglio, culminati con la firma di Lumen Fidei, un’enciclica

La Chiesa è uscita dall’angolo in cui era finita a causa degli scandali e delle divisioni che erano emersi durante il pontificato di papa Benedetto. Con Francesco si è aperta una nuova stagione che il papa sta affrontando all’insegna dell’umiltà, della semplicità e della testimonianza, fatta appunto di gesti concreti. scritta a quattro mani, ossia avviata da Ratzinger e conclusa da Bergoglio. Due i filoni della nuova evangelizzazione: rendere coscienti i cristiani della missione che li attende portandoli fuori dalle chiese e intensificare l’impegno a raggiungere coloro che ancora non conoscono il Vangelo. La Chiesa è uscita dall’angolo in cui era finita a causa degli scandali e delle divisioni che erano emersi durante il pontificato di papa Benedetto. Con Francesco si è aperta una nuova stagione che il papa sta affrontando all’insegna dell’umiltà, della semplicità e della testimonianza, fatta appunto di gesti concreti. Un tratto che Fisichella aveva notato sin dall’elezione del nuovo pontefice: “Partecipando ad alcune trasmissioni televisive dissi che il papa avrebbe parlato soprattutto con l’azione e non attraverso i suoi scritti”. L’ennesima prova è stata il recente viaggio di papa Francesco in Terra Santa. Molto forte e significa-

tivo, ad esempio, l’invito a sorpresa rivolto ai rappresentanti della Palestina e di Israele affinché si rechino in Vaticano a pregare per la pace e a lavorare nell’interesse della Terra Santa che ha già conosciuto troppo odio. Una missione religiosa, ma allo stesso tempo politica, che il papa sta portando avanti in un’ottica di dialogo e di rispetto per ciascun uomo. Parlando poi degli amministratori e dei politici italiani, Mons. Fisichella ha raccontato la sua lunga e pioneristica esperienza di “cappellano” della Camera dei Deputati ed ha chiesto loro di portare avanti il proprio servizio all’insegna della trasparenza e della legalità, mai venendo meno al rapporto con il territorio ed i cittadini per comprendere le reali esigenze e dialogare continuamente sulle possibili soluzioni. Infine, l’Arcivescovo ha fatto riferimento alle prossime scadenze della Chiesa a partire dal Sinodo straordinario sul tema della Famiglia che si terrà ad ottobre in Vaticano. Fisichella fa parte del gruppo di lavoro che ha predisposto il documento che avvierà la discussione del vescovi ed ha concordato con il papa sul pericolo che il Sinodo venga ridotto dai media alla questione della comunione ai divorziati/risposati. Per il rappresentante pontificio, infatti, il tema della famiglia è molto più ampio a partire dagli aspetti positivi in quanto la famiglia resta il nucleo centrale della società, la cellula dello sviluppo sociale ed economico, che va sostenuta attraverso politiche mirate da parte degli Stati ed una formazione adeguata delle giovani generazioni. Un’ora di conversazione con Fisichella non è riuscita ovviamente a contenere tutti gli spunti di riflessione suscitati dalle sue risposte. Fisichella, d’altronde è personalità autorevole: è stato a lungo docente di teologia fondamentale alla Gregoriana e poi rettore dell’Università Lateranense. Alla vigilia del Giubileo è stato consacrato vescovo e nominato ausiliare della Diocesi di Roma. È stato presidente della Pontificia Accademia della Vita e ponente di diverse cause di santi. Volto noto della televisione, ha partecipato a numerose trasmissioni Rai e Mediaset ed ha scritto numerosi volumi di teologia. 

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CULTURA E FORMAZIONE

di Antonio Borriello

* Docente presso

Educare in tempo...

l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa.

Per facilitare la percezione sull’illiceità dei comportamenti

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n questo ultimo scorcio di tempo sono accaduti in Italia eventi delittuosi che, a vario titolo, hanno visto implicati giovani, se non addirittura ragazzi poco più che bambini, quali autori di reato, abbiamo assistito a comportamenti antisociali di singoli, ma anche di piccole bande di adolescenti, che hanno suscitato un diffuso allarme sociale e l’attenzione di coloro che studiano i fenomeni della devianza giovanile e della psicologia dello sviluppo. Le analisi sociologiche si sono accavallate, le diagnosi psicologiche sono state elargite attraverso numerosi e logorroici talk show televisivi. Giornalisti e politici, espressione di un sentire comune diffuso, cavalcando l’onda dell’emotività sociale, hanno processato e condannato la scuola e la famiglia senza appello e senza dare spazio a un pensiero costruttivo che offrisse una più attenta riflessione sul che cosa fare. Anzi, il recente disegno di legge governativo, contenente disposizioni urgenti in materia di sicurezza sociale, riconfigurando la posizione dell’adulto autore di reato in collaborazione con minori, sembra inasprire anche la posizione giuridica del minore, con una risposta di tipo riduzionistico, a quella che, invece, si palesa come una crisi più generale della società occidentale dalle ricadute negative sulle più giovani generazioni. Le sfide Nei momenti più critici delle transizioni epocali, ovvero direi sempre, occorre porsi il problema delle sfide educative poste dalle nuove situazioni alle quali la società degli adulti non può solo offrire una risposta del qui e dell’oggi nella più completa assenza di una tensione progettuale, ispiratrice di idealità e di possibilità concrete di spazi di crescita umana non esclusivamente legate al Pil. Chi corre affannosamente inseguendo l’araba fenice del successo mediatico, o del guadagno facile, o del prestigio coltivando la sola immagine di sé,

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deprivata di un terreno di cultura esperienziale e sapienziale, certamente non si rende conto, o non vuole rendersi conto, che sta giocando d’azzardo ampiamente sostenuto da coloro che di quel gioco sono i maggiori beneficiari, a danno proprio delle più giovani generazioni. Tornare, invece, a proporre l’azione dell’educare – anche se per i più appare un’azione obsoleta – come tensione progettuale, significa restituire la possibilità di scegliere, direzionare, di costruire un più ampio orizzonte di vita che esprima nell’oggi un impegno creativo per il futuro, senza tralasciare di dare risposte alle attese presenti, che pure non possono mancare. D’altra parte, ogni buon genitore, educatore, insegnante sa che senza la percezione del futuro non è possibile alcun progetto; che si svilisce l’atteggiamento di attesa e la capacità di confrontarsi; che senza tensione a costruire il proprio sogno individuale in una cornice di condivisione, la vita si disanima e si entra in una quotidianità priva di senso, in un minimalismo i cui esiti sono da tempo sotto i nostri occhi. Una responsabilità a più livelli La necessità di tornare ad un corretto impegno educativo, nonostante la tentazione di abdicare, non è l’ennesima utopia pedagogica al cui giogo sottrarsi o il tentativo malcelato di una restaurazione resa sotto le forme del nuovo che avanza, bensì la risposta – attesa dalle giovani generazioni, ma inevasa dal mondo degli adulti – alla domanda di senso da coltivare attraverso il confronto e in cui cimentarsi, di impegni a cui attendere che siano accrescitivi delle istanze di umanità e non sottrattivi di esse. Significa anche assumere la responsabilità personale e sociale del compito educativo che attiene al mondo degli adulti e, nello stesso tempo, prendere posizione e contrastare l’effimero che viene continuamente proposto come valore. Quella dell’educatore autorevole, però, è una specie rara, anche se

La consapevolezza del futuro. Ogni buon genitore, educatore, insegnante sa che senza la percezione del futuro non è possibile alcun progetto; che si svilisce l’atteggiamento di attesa e la capacità di confrontarsi; che senza tensione a costruire il proprio sogno individuale in una cornice di condivisione, la vita si disanima e si entra in una quotidianità priva di senso.


Il compito dell’educatore L’educazione esige tempi e spazi adeguati, ritmi e simboli iniziatori propri, parole (poche) e azioni coerenti (molte) che, come in una danza, invitano a disegnare, ora lentamente ora incalzando, nuovi scenari e pratiche di vita dalla cui intima esperienza viene fuori gradualmente una nuova rappresentazione di sé.

moltissimi sono i laureati in scienze dell’educazione, e quella dell’educazione è una pratica ormai desueta. A torto o a ragione, molti temono la deriva ideologica retrostante ai discorsi educativi, altri paventano lo scarso rigore scientifico delle teorizzazioni e delle pratiche, dimenticando che la crescita personale non è mai uno sviluppo lineare prevedibile e che ciascuno recita sempre a soggetto, per Il percorso da seguire deve attivare una comunicazione concreta e negoziale con i giovani nella quale ogni parola deve avere un significato condivisibile ché il copione della vita non è mai dato prima; altri, infine, si accontentano di un educatore scarsamente specializzato perché vedono nell’educazione una mera pratica socio-assistenziale. In tutti i casi, si sentono cicalecci che sanno facilmente affondare il coltello nella piaga incolpando famiglia e scuola della loro incapacità, dopo averle svuotate della loro funzione educativa. L’educazione esige tempi e spazi adeguati, ritmi e simboli iniziatori propri, parole (poche) e azioni coerenti (molte) che, come in una danza, invitano a disegnare, ora lentamente ora incalzando, nuovi scenari e pratiche di vita

dalla cui intima esperienza viene fuori gradualmente una nuova rappresentazione di sé accettabile, rassicurante nonostante i tanti limiti che ognuno porta dentro e che riscontra anche fuori di sé. È per questo che ogni educatore autorevole sa che in una società satura di ingannevoli obiettivi, immagini e parole vuote che si rincorrono all’infinito, il percorso educativo deve attivare una comunicazione concreta e negoziale con i giovani all’interno della quale ogni parola deve avere un significato ri-costruito condivisibile; che i giovani necessitano di aprirsi alla vita senza corse affannose e preoccupazioni che non attengono al loro mondo, ma a quello di certi adulti che, purtroppo, guardano alla vita solo come a un capitale da sfruttare e alle giovani generazioni come al serbatoio a cui precocemente attingere, forzando i processi di maturazione. Così, però, i ritmi dell’apprendimento non sono più il tempo classico di misurazione della percorrenza maturativa, mentre la velocità è diventata la categoria per eccellenza; chi staziona e risiede per un qualche tempo nei cicli della crescita viene privato del suo diritto a capire, a fare la sua storia, a correggersi, mentre chi corre vorticosamente

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CULTURA E FORMAZIONE

vive gli iperspazi dell’indeterminatezza tanto che risulta difficile coglierne la posizione e tutto ciò produce come un «rumore» dentro che è psichicamente molto più pericoloso dei comportamenti visibilmente conflittivi, perché implosivo, destrutturante. Una sana relazione educativa è fatta di sguardi, parole, gesti, umori, silenzi, ma anche prove, correzioni, continue riformulazioni, e si traduce in una concreta condivisione di destino anche se ciascuno ne ricava secondo il suo proprio modo d’essere e ruolo. Ogni educatore attraverso questa relazione esprime insieme l’atto del «prendersi cura del

Lo spazio educativo è il luogo comunicativo positivo che dischiude al futuro a partire proprio dalla consapevolezza condivisa di un debito generazionale degli adulti verso i giovani. Tutto questo è impedito perché indici eloquenti della difficoltà che incontra l’educazione nel mondo odierno sono gli stili di vita prevalenti. suo educando», ma anche il progetto emancipativi che desidera per l’altro e dell’altro, allorquando la crescita e l’autonomia di questi renderanno superflua la sua azione pedagogica e l’educando di un tempo avrà finalmente «cura di sé». In una società, però, che non ha cura di sé, il processo pedagogico le è estraneo, perché esso ha tempi e riti che mal si conciliano con le sue esigenze sicché ogni minore vive tappe forzate e non è considerato per quello che è cioè un soggetto in educazione. La famiglia, la scuola, le associazioni vivono questa contraddizione, perché si alimentano di un «legame disperante» con la più ampia società che propone continuamente una relazione patologica: da un lato, a parole, essa chiede sempre più educazione, dall’altro, con le scelte economiche e politiche nega proprio il tempo e lo spazio di cui l’educazione neces-

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sita. Per questo motivo, “EDUCARE” è anche il «luogo» dove aiutare proprio i più indifesi e sovra esposti a prendere coscienza che i confini fra ciò che è sano e ciò che non lo è sono stati forse definitivamente abbattuti e che la vita esprime tutte le sue contraddizioni attraverso le forme dell’ipocrisia degli adulti. Maturare in una simile società comporta che le esperienze della vita sono consumate ma non agite, accumulate ma non elaborate consapevolmente entro matrici socio-cognitive individuali e collettive in grado di produrre significati esistenziali, affettivi, relazionali, spirituali positivi. I margini della condivisione Proprio per questo alle giovani generazioni è sempre più necessario offrire il tempo e lo spazio dove condividere con i soggetti educanti un linguaggio non più paradigmatico bensì narrativo perché, con sempre maggiore evidenza, essi hanno bisogno di raccontare, in modo protetto, la propria fragilità, i timori, le incertezze e disillusioni ma anche le proprie aspirazioni; uno spazio/tempo tonico, cioè, per una percorrenza individuale e collettiva che consenta la costruzione, sempre facentesi, della propria identità in un contesto sociale non sempre facilitante. Per invertire la rotta, ed evitare i soliti interventi da pannicelli caldi, occorre che una sana politica si assuma il compito di restituire ai soggetti educanti (famiglia, scuola, associazioni) il tempo della progettualità e lo spazio adeguato dell’intervento, e che sappia riconoscere la preziosa funzione sociale da essi svolta. Tutto il resto è chiacchiere e il cicaleccio da salotto serve a tutti per coprire le proprie responsabilità. Lo spazio educativo è il luogo comunicativo positivo che dischiude al futuro a partire proprio dalla consapevolezza condivisa di un debito generazionale degli adulti verso i giovani. Tutto questo è impedito perché indici eloquenti della difficoltà che incontra l’educazione nel mondo odierno sono gli stili di vita prevalenti. Mentre la società legale e quella delinquenziale si nutrono degli stessi «valori» (ricchezza, immagine e potere) e intrecciano costantemente le loro strategie sempre più inseparabili. Le giovani generazioni vivono queste criticità e percepiscono che il mondo degli adulti non è un loro alleato, ma un cinico competitore. 


di Salvatore Gargiulo

* Docente presso

Piano di Zona di Battipaglia

l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa

I servizi sociali: una pietra al collo dei contribuenti Il territorio chiama, il Governo risponda. Non è maturato il sostegno dello Stato ai territori con maggiori difficoltà finanziarie, né si è stabilito il criterio in base al quale calcolare le risorse occorrenti per assicurare, in sede locale, un aiuto adeguato ai non autosufficienti.

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a recentissima approvazione del nuovo regolamento di attuazione della legge regionale n. 11/07 per la dignità e la cittadinanza sociale, pubblicato sul Burc del 28 aprile scorso, e del relativo catalogo di offerta dei servizi sociali erogabili in Campania riporta al centro del dibattito una questione che tutti gli operatori impegnati nei Piani sociali di zona avvertono sulla propria pelle. Questi ultimi, in particolare, sono costretti a navigare, ormai, a vista in mezzo a mille incertezze, dati anche i ritardi che, purtroppo, si registrano nella erogazione dei servizi e nei tempi di pagamento degli stessi. Con i conseguenti e inevitabili disagi per le famiglie che non riescono a sopravvivere se non grazie alla indispensabilità di quegli aiuti. Intendiamo riferirci all’ arcipelago, sempre più vasto e ancora inesplorato, della non autosufficienza come spia emblematica di una colpevole e generale disattenzione verso un mondo, quello dei bisogni sociali, che meriterebbe ben altro atteggiamento di so-

lidarietà. Culturale, prima che istituzionale o politica. Diciamocelo, le inadempienze sono tante. E la miopia regna sovrana in un settore, quale quello dei servizi sociali, che, erroneamente viene considerato un peso non sostenibile, una pietra al collo dei contribuenti, mentre, invece, a ben vedere, è esso stesso volano, spinta, leva per lo sviluppo e la crescita della qualità della vita in un intero territorio. Fino a diventare “politiche sociali” e, in quanto tali, far scattare doveri ineludibili di risposte a bisogni che hanno tutto il crisma di diritti effettivi ed esigibili. Tra queste inadempienze ve n’è una specifica, che coinvolge direttamente il Parlamento e il Governo nazionale, chiamati dalla Costituzione a garantire, a maggior ragione nel campo della non autosufficienza, una soglia minima di prestazioni che, se definita, metterebbe a tacere, in un batter di ciglia, tutte le perplessità che persistono nei vari ambiti territoriali. La soglia è quella dei livelli essenziali di assistenza sociale (Liveas o Leps), de-

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CULTURA E FORMAZIONE

putati ad assicurare una quota di prestazioni sociali eguali e inderogabili per tutti i cittadini italiani, sia al Nord che nel Mezzogiorno. Già nella revisione del titolo V della Costituzione del 2001 e, poi, con la legge delega n. 42 del 2009 di attuazione dell’art. 119 della stessa, fino alla ultima legge di riforma costituzionale, la n. 1 del 2012, si erano riaccesi i riflettori su questa fondamentale questione, la cui soluzione resta preliminare a qualsiasi ipotesi di riequilibrio territoriale dei servizi sociali oltre che di un’integrazione funzionale delle fonti di finanziamento per le prestazioni associate alla non autosufficienza. Una questione che si incrocia con lo stato dell’arte sul federalismo fiscale e sul relativo fondo perequativo senza vincoli di destinazione, di fatto superato dalla evoluzione delle dinamiche politiche degli ultimi tempi. Questo ha portato, in sostanza, a disegnare una strana costruzione politico- finanziaria in base alla quale, nella tripartizione costituzionale Stato – Regioni – Comuni, si sono disciplinati i trasferimenti erariali all’interno di ogni singolo livello di governo mentre tutta la materia in tema di perequazione tra i tre livelli è stata completamente elusa. Di conseguenza è naufragata, di fronte alla norma ferrea del fiscal compact, nel frattempo intervenuta, che non consente compensazioni trasversali tra il governo nazionale e quelli locali, ogni speranza per questi ultimi di essere aiutati dallo Stato. D’altra parte essi sono impediti di reperire nei propri bilanci le risorse aggiuntive per fronteggiare eventuali riduzioni in entrata. E, come un ulteriore colpo di scure, il recentissimo decreto legge n. 4 del 28 gennaio scorso, convertito in legge il 28 marzo, ha tolto altri fondi al Ministero delle Politiche sociali, 21 milioni e mezzo, per la precisione, già quest’anno, stravolgendo la stessa legge di stabilità che aveva previsto tagli solo per 1,2 milioni di euro. L’effetto è l’aggravamento di una situazione, in termini di risorse, già compromessa dagli abbattimenti al fondo nazionale per le politiche sociali (Fnps) susseguitisi nel corso degli ultimi anni (da 2520 milioni nel 2008 ai circa 350 del 2014) e al Fondo per la non autosufficienza (FNA), completamente azzerato dal prossimo anno. Eppure non sfugge a nessuno la crescita, progressiva ed esponenziale, del fenomeno della

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non autosufficienza dopo i 65 anni, che si impenna tra i 75 e gli 85 anni. Due milioni e mezzo di persone con gravi disabilità, ci dicono il CENSIS e l’ISTAT, con un trend che già l’anno prossimo sforerà i tre milioni. Di fronte ad un quadro di questo genere gli Enti territoriali, nel rispetto dell’art. 119 della Costituzione, dovranno da soli, e comunque, garantire l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le spese finali, riducendo, in primis, i servizi sociali. È vero, in effetti, che, come recita l’art. 5 della legge costituzionale n.1/12, “lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali, anche in deroga all’art. 119, concorre ad assicurare i finanziamenti dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”, anche attraverso un Fondo straordinario (art. 11 della l. 243/12). Ma la condizione per godere di quella deroga è che siano definiti, a monte, i fabbisogni di spesa. E, purtroppo, noi sappiamo che, a differenza di altri settori (tra questi anche la sanità), nel campo dei servizi sociali tale adempimento non è ancora compiuto e, con esso, neanche quello dei livelli essenziali di prestazioni. Di conseguenza non è maturato il sostegno dello Stato ai territori con maggiori difficoltà finanziarie, né si è stabilito il criterio in base al quale calcolare le risorse occorrenti per assicurare, in sede locale, un aiuto adeguato ai non autosufficienti. Gli stessi tagli ai fondi nazionali di settore, ai quali stiamo assistendo ormai dal 2009, e la contestuale “ distrazione” dall’obbligo di definire i Liveas portano alla conclusione di un deliberato disimpegno dello Stato e della presa d’atto che il reperimento delle risorse per garantire risposte idonee sia ormai una questione che si circoscrive agli altri due livelli istituzionali, regioni e comuni. In un contesto del genere ritorna urgente attivarsi e reclamare l’attuazione di quella regia nazionale per la definizione dei Liveas, attesi ormai da tredici anni, se vogliamo ancora sperare di salvaguardare le risorse per la non autosufficienza. È questa la madre di tutte le battaglie sociali. Di fronte all’essenzialità non c’è tetto di spesa che tenga. Né c’è facoltà, o arbitrio, di negare diritti a chi, più di ogni altro, ha disperato bisogno di vederseli riconosciuti. 


WELFARE

Un viaggio a Scampia tra le associazioni che operano per la Pace e per i giovani Il racconto di chi, da anni, è impegnato sul territorio di Scampia. Conoscere e raccontare la vita di queste associazioni e dello sport che vince è un modo per parlare della grande parte di persone che vivono e lottano per un quartiere diverso. di Raffaele Perrotta

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utto inizia tra il giovedì ed il venerdì. Sembra una gara di solidarietà, solo che non ha vincitori che si fregiano di una medaglia o una coppa. Come ogni settimana il panettiere c’è, la frutta anche e le signore che cu-

cinano faranno trovare tutto pronto. Venerdì sera si inizia, sabato alle 5 si passa a prendere il pane così per le 7 si sta alle rotonde. Scampia, Arzano e Casavatore. Aspettano quasi in 200 e loro di Scampia pronti con altrettanti sacchetti simili a quelli di una gita

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WELFARE

fuori porta. Dentro c’è un panino, la frutta, il dolce, la bibita e, d’inverno, anche un bicchiere di latte caldo. Quei 200 sono i giovani di colore, gli “extracomunitari” tanto odiati, quelli del “rispediamoli a casa”, quelli che vengono dal CIE o CPT, quelli che se non ci fossero, non si saprebbe a chi affidare tanti lavori ad una paga da schiavi. È una delle tante storie belle che riguardano Scampia, raccontata da Gabriella Pugliese che da anni opera sul territorio. «La Comunità di Sant’Egidio, associazione di cui sono referente, è presente da più di 35 anni, prima che nascesse il quartiere, quando la zona era utilizzata ancora da pastori». Di storie da raccontare ne ha tante,

Per un processo di osmosi tra uomo e ambiente, anche tra le persone sembra esserci questo dualismo. Da un lato la malavita che si divide le piazze di spaccio e dall’altro le tantissime organizzazioni che, lavorando su tutto il quartiere, coinvolgono persone e soprattutto i giovani. comprese l’evoluzione e l’involuzione di questa parte dell’VIII Municipalità di Napoli. «Lavoriamo vicino alla piazza dei grandi eventi, nel cuore di Scampia. Siamo in quella torre bianca dove ci sono locali che durante tutta la settimana accolgono tantissima gente». Tra le persone che varcano la porta di quella torre ci sono i bambini, tanti, di Scampia e dei campi rom che vanno alla Scuola della Pace. «È una scuola di amicizia e di pace, che contrasta con la scuola della violenza nella quale, purtroppo, crescono tanti bambini», dice Gabriella. «Non si studia solamente ma si impara a stare insieme, a convivere, a rispettare e conoscersi, affrontando anche tanti temi di attualità. I bambini di Scampia e quelli dei campi rom passano i loro pomeriggio insieme, diventano amici e aiutano così anche gli adulti a superare quel pregiudizio a priori che hanno

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verso i rom. Poi passano le vacanze insieme, quelle che organizziamo nel periodo estivo. Per circa 10 giorni li portiamo in vacanza, ovviamente gratis». Poi c’è il laboratorio di pittura dove i ragazzi disabili dipingono, imparano tecniche nuove e trovano il modo per esternare pensieri e sentimenti. «Ogni anno partecipano alla mostra “Abbasso il grigio” a Roma, con alcuni quadri che sono delle opere d’arte. Molte opere sono vendute ed il ricavato va in progetti per la comunità africana». Il contesto del quartiere è particolare: da campagna di decenni fa, si è trasformato negli anni in una zona densamente abitata. La 167, il post terremoto, le vele da un lato. I parchi residenziali dall’altro. Anche nell’urbanizzazione si riflettono le due anime di Scampia che, forse per uno strano destino, è tenuta in uno stato di quasi abbandono. La metropolitana della Linea 1, con il suo percorso che attraversa più della metà di Napoli, sembra palesare la volontà di qualcuno a relegare in un quartiere ghetto tutti i mali della grande capitale del Mezzogiorno d’Italia. Dalle stazioni dell’arte, celebrate sui grandi giornali e periodici internazionali, con la fermata di Toledo incoronata come la “più bella stazione al mondo”, si arriva a quelle di Scampia o Piscinola che riflettono nella loro costruzione e nel loro coloro l’anima nera della città. Il colore scuro, pilastri grigi e lavori interminabili caratterizzano la zona intorno. Per un processo di osmosi tra uomo e ambiente, anche tra le persone sembra esserci questo dualismo. Da un lato la malavita che si divide le piazze di spaccio e dall’altro le tantissime organizzazioni che, lavorando su tutto il quartiere, coinvolgono persone e soprattutto i giovani. Nel giro a Scampia, tra le tante persone che animano quelle associazioni, c’è Gennaro Sanges dell’Associazione Scuola di Pace, nome simile a quella della comunità di Sant’Egidio, ma con una storia diversa. «Nacque all’inizio degli anni ‘90», racconta Sanges, «con un approccio accademico sulla questione della Guerra del Golfo. Negli anni ha toccato varie tematiche con lo sfondo unico della pace. Dopo 10 anni dalla sua costituzione si diede vita alla rassegna musicale che dura tutt’oggi: “Una canzone per la Pace”». Da poco si è conclusa la 14° edizione nell’auditorium di Scampia. Gruppi musicali e singoli musicisti si sono alternati sul palco con canzoni aventi nei testi riferimenti alla pace e


Maddaloni fiore all’occhiello del territorio Il maestro Gianni Maddaloni da quasi un decennio è impegnato a Scampia con la sua che è una palestra di sport e di vita, il “Club Maddaloni”. Tanti giovani che frequentano la sua palestra stanno salendo alla ribalta nazionale per le numerose vittorie, anche in sport che, in Italia, sono nati da poco.

alla nonviolenza,alla libertà, la solidarietà, la giustizia, i diritti umani, il rispetto della terra e di tutte le forme viventi, il gioco, l’amicizia, l’amore e la felicità. Ogni anni c’è un tema della rassegna, quest’anno era “Il pane e le rose. Lavoro e qualità della vita”. Oggi torna più che mai ricorrente la questione sull’immagina di Scampia. Sanges, lei un anno fa fu protagonista di una “bagarre” per la questione dello striscione contro Saviano. In realtà, quella dello striscione fu una parentesi di un caso che iniziò molto prima. In che senso? Berlusconi, in una nota dichiarazione, affermò che l’opera di Saviano danneggiava l’immagine dell’Italia all’estero. In base a queste accuse sembrerebbe che il problema in Italia non sia costituito dalla presenza di potentissime organizzazioni criminali, dalle loro enormi ricchezze illegali, dai loro traffici di morte e di violenza, ma da chi ne parla e le denuncia, con scritti e immagini. Poi che successe? Arrivai all’auditorium mentre stava parlando Pisani, presidente della Municipalità. Mi accorsi dello striscione che era posto davanti al tavolo della presidenza e feci notare che era a dir poco vergognoso. Di li iniziò una questione che si protrasse per un po’. Come andò a finire? Dopo il mio intervento, anche gli altri chiesero la rimozione dello striscione. Alla fine il

presidente dovette cedere togliendolo. Qual è il problema di Scampia secondo lei? In un recente studio dell’Università della Federico II, alcuni dati segnano che nelle attività illecite sarebbero coinvolte circa il 20% della popolazione. Lo sa quant’è il 20% a Scampia? Sono più di 10000 persone. Non è normale che si arrivi a questi numeri nel silenzio di tutti, in primis le istituzioni che, durante le emergenze o le guerre di camorra, mettono a disposizione l’esercito ma non si preoccupano di politiche serie per le periferie. “Politiche serie”, ha detto bene Sanges. Forse, le istituzioni dovrebbero guardare e prendere esempio proprio da chi opera in quelle zone con scarsi mezzi ed ottiene grandi risultati. Il maestro Gianni Maddaloni è tra questi. Da quasi un decennio è impegnato a Scampia con la sua che è una palestra di sport e di vita, il “Club Maddaloni”. Tanti giovani che frequentano la sua palestra stanno salendo alla ribalta nazionale per le numerose vittorie, anche in sport che, in Italia, sono nati da poco. «Stiamo realizzando ciò che nessuno ha mai fatto in Italia e lo stiamo facendo noi di Scampia», afferma con orgoglio Fulvio Panarella, un giovane maestro collaboratore di Maddaloni. L’MMA, una disciplina nata da poco, annovera tra i campioni e medagliati della penisola proprio due giovani di Scampia: Gaetano Pagliariccio e Francesco Iaconangelo. «Hanno vinto tre titoli», continua Panarella, «e hanno conseguito un terzo posto. Stranamente di questa, che è una vera e propria impresa, nessuno ne parla, fosse successo altro chissà...». Panarella lo dice con l’amarezza di chi, lavorando e sudando per il riscatto del quartiere vede mortificati gli sforzi perché fa più notizia un morto ammazzato che due giovani ragazzi campioni nello sport. Il maestro Maddaloni insiste con la sua opera. Abbiamo parlato in più occasioni, non è di quelli che lascia perdere se un tentativo non va bene. Credo che non lasci perdere mai e la dimostrazione è che “la cittadella dello sport” lui la fa vivere da anni nella sua palestra. Purtroppo istituzioni miopi non capiscono cosa significherebbe la riconversione di una parte della caserma Boscariello in un polo di sport ed eccellenza medica messa a disposizione della città di Napoli, di quei quartieri soprattutto, dove a far notizia sono sempre i morti ammazzati. 

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WELFARE

di Claudia Procentese

Il campanello di Ida L’attesa è la parte più dolorosa della paura. Un racconto

I

l papà si china e le dice all’orecchio la parola del distacco. Un ciao che arriva freddo alla piccola Ida. Ogni volta è così. Ha capito, ancora piccina, che la vita è tutta una questione di geografia, di spazi, del luogo dove ora è rinchiuso il suo papà, di quello, immaginario, dove lei si rifugerà per non lasciarlo. Un posto riparato dove poter seminare bellezza, nonostante tutto. Lo ha scritto in quel tema di classe. “Io parlo del carcere: x me in una piccola stanza non possono stare in 10 detenuti”. Con quella “x” al posto di “per”, retaggio di messaggi digitali giocati tutti sul filo dei secondi, anche per una bambina di quinta elementare. Perché Ida sa bene cos’è il tempo, conosce il valore degli attimi. Oggi c’è la premiazione di una gara letteraria nella sua scuola a Scampia e il suo elaborato ha ricevuto una menzione speciale fuori concorso. Mi si avvicina. Al mio fianco c’è il suo maestro dell’asilo. «Vi ricordate di me?», gli chiede a voce bassa. Subito è abbraccio tra i due. È piena di bambini l’aula magna dell’istituto. Mi distraggo, faccio un giro tra i disegni appesi alle pareti e le seggioline allineate per l’occasione. Una bimba mi scambia per maestra e, strattonandomi la giacca, mi sommerge di richieste: «Ho fame», «Ho sete», «Devo fare pipì». Intanto la premiazione va avanti: la pergamena, la lettura del tema, l’applauso. Il tema di Ida non verrà letto. Troppo delicato l’argomento. Me la ritrovo dietro all’improvviso. Le carezzo il capo. Parlarle mi sembra invadente, ma poi penso che è stata lei la prima a voler comunicare il suo disagio in uno scritto che avrebbe dovuto seguire un’altra traccia. «Il carcere è una cosa brutta, vero?», le domando. «A me fa paura», mi dice incespicando in una erre spigolosa. «Cosa ti impaurisce?», insisto. «Aspettare,» risponde. «Che cosa?», scavo ancora. «La libertà». La paura accade. E non puoi farci niente. Ma l’attesa è la parte più dolorosa della paura, perché non accade mai. È lì che l’umano perde ogni geografia, annullato

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il paradigma degli spazi. Ti rassegni all’approssimazione di desideri, conficcando timori in speranze monche. Adesso sono io a interrogarmi su cosa sia per lei la libertà. Forse anche Ida è imprigionata? Mi sta lì, di fronte. Nasconde il timido respiro nelle strette spallucce. Ha la malinconia esiliata in uno sguardo. Le maglie della parola sono troppo larghe per trattenere la grandine delle sensazioni di dentro. Solo il silenzio le setaccia. Quando è andata a trovare il padre – ha raccontato nel suo tema – ha aspettato “sei ore, a volte anche sette. Il colloquio dovrebbe durare al massimo sessanta minuti, ma fanno fare trenta minuti di colloquio. All’inizio le famiglie si salutano e si abbracciano con i detenuti, ma la guardia suona subito il campanello x far capire che non si possono abbracciare i familiari”. Uno spazio dell’anima regolato dal suono di un campanello. E tra il prima e il dopo c’è sempre un mentre. Perciò Ida sa bene cos’è il tempo, conosce il valore degli attimi. Rabbia ed impotenza. Non c’è né capo né coda. Dicono che coniugare opposti richieda uno straordinario senso dell’equilibrio. Ma io lo sento tutto il palpito afono di Ida. È arrivato il suo turno. La chiamano per ritirare il premio. Il suo sorriso è fermaglio di primavera. In un mese di maggio che si crede febbraio. Ora mi è chiaro. Ida resta libera. Perché non può permettersi di abituarsi alla vita. 


“La gente chiede la certezza della pena. A quale scopo?” Testimonianza di un cappellano del carcere Il luogo della condanna I tribunali, deputati a dirimere i fatti d’illegalità, capaci d’uguaglianza che zittisce le voci di vendetta per ascoltare le voci che ricercano verità, hanno un miscuglio di voci sociali che sembrano già preparare la base di un disco su cui incidere la scelta della condanna.

di Don Virgilio Balducchi

* Ispettore generale

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na mattina, sono entrato, alle ore otto, nella sezione femminile del carcere di Bergamo. Vi ho trovato un silenzio irreale, mi pareva di essere in un monastero di clausura. Di solito, il carcere è pieno di voci concitate, che chiedono e rispondono a vari bisogni, vi è una tonalità alta come se fosse impossibile parlarsi con toni pacati. Pare quasi che si sappia già che chi ci ascolta, operatori e persone detenute, sia un po’ sordo e alzare il tono della propria voce serva a farsi comprendere meglio. La diversità di quella mattina, era il 14 gennaio 2003, giorno d’attesa per i provvedimenti sull’indulto, mi ha fatto pensare ai momenti di silenzio che si susseguono, sul pianeta carcere, dopo le voci concitate suscitate dai riflettori accesi dalla comunicazione sociale. Luci sparate nei momenti di litigiosità politica sulla giustizia o quando accadono fatti violenti che scuotono l’opinione pubblica. La storia delle persone, la fatica della loro vita, le contraddi-

zioni nell’appartenere alla convivialità sociale sono silenti, non sono ascoltate, non trovano voce. Il delitto parla, il sangue suscita emozione, il male ha bisogno di pubblici esorcismi in processi svolti nei bar, nelle piazze, nei dibattiti televisivi prima che nelle aule di giustizia. I tribunali, deputati a dirimere i fatti d’illegalità, capaci d’uguaglianza che zittisce le voci di vendetta per ascoltare le voci che ricercano verità, hanno un miscuglio di voci sociali che sembrano già preparare la base di un disco su cui incidere la scelta della condanna. La gente chiede la certezza della pena, a quale scopo? Forse chi si rifà alle giuste grida sulla certezza della pena delle vittime dei reati, non ascolta il desiderio profondo di giustizia che sottende il clamore di una richiesta urlata perché non colta nei suoi desideri più disperati e dimenticati. Ci sono grida che accomunano, le persone che incontriamo quotidianamente in carcere gridano, pur esse, per avere una giustizia

dei cappellani delle carceri

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WELFARE

più certa, più veloce, meno caotica, meno burocratica. Tutti sono zittiti da una condanna, che da una parte lascia la vittima nel suo dolore e il colpevole dimenticato nel limbo del carcere. Entrambi non esistono più l’uno per l’altro, la società delega al silenzio del carcere e alla solitudine della sofferenza della vittima l’opera di cura e consolazione delle ferite. Molte volte, per farsi ascoltare, non rimane che l’urlo, la morte, i tentati suicidi, le richieste di pena di morte; oppure il silenzio della rassegnazione, l’azione chimica dei farmaci per ottenebrare il desiderio di vita, reso im-

I desideri di giustizia, che si frantumano contro i blindi in ferro delle celle delle carceri, sono gli stessi che blindiamo, dentro le nostre vite, dietro le sbarre dei nostri privilegi, del pensarci più degni di altri, più giusti. praticabile da ricordi di ferite inguarite. Gli altri fuori, pensano a quelli dentro, sapendoli all’interno di una struttura chiusa, istituita per difendere la società da eventuali altre commissioni d’illegalità. I primi hanno una voce possente, udibile senza contestazione o possibilità di difesa. Per i secondi non è possibile spiegare il perché della propria azione: come mai hai ucciso proprio la persona che amavi, perché continui a spacciare, che cosa ti spinge a continuare a commettere reati, come mai resti in carcere anche se sei innocente. Non riesci neppure a far sentire la tua voglia di riparare al male fatto, il tuo desiderio di ritornare in società per riassumere le tue responsabilità famigliari e sociali. Quando, a fatica, filtra dalle mura qualcuno di questi desideri nasce immediatamente una babele di commenti, alla fine, rimane, negli orecchi della gente, solo il solito tenetelo dentro. Chi ascolta le paure, il senso di vuoto e d’inutilità. Qualcuno coglie, all’interno le voci, prova a

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far risuonare all’esterno i vissuti, ma come per magia scompaiono in fretta, come una specie di temporale improvviso e repentino che non lascia traccia. Le impronte e i segnali rimangono là dove ci s’incontra, ci si parla, si lavora assieme, si riesce ad abbattere il muro che ci divide. Dove il male successo, non cancella l’uomo come simile, come persona con cui poter continuare a vivere, lì le voci si possono riascoltare. In questo riascolto reciproco si collocano e si generano le accoglienze che liberano. È possibile allora ascoltare i senza voce del carcere zittendo i nostri desideri di vendetta, permettendo a noi stessi di scoprire la nostra non innocenza, i legami di connivenza con le cause che portano altri a scegliere strade d’illegalità codificata come penale. Non dimentichiamoci che l’essere giusto molte volte equivale al non essere scoperto o al non fare cose illegali. I desideri di giustizia, che si frantumano contro i blindi in ferro delle celle delle carceri, sono gli stessi che blindiamo, dentro le nostre vite, dietro le sbarre dei nostri privi-


L’origine della libertà La libertà che osiamo proclamare nei nostri luoghi di accoglienza è la libertà dei figli di Dio, che si accorgono di essere salvati dalla misericordia del Padre e si impegnano a comportarsi come figli di quel Padre.

legi, del pensarci più degni di altri, più giusti. Il Carcere, luogo di segregazione e di limitazione della libertà non potrà mai da solo svolgere un compito di compimento della giustizia. Oggi ancora siamo di fronte a continue altalene che da una parte ricercano cammini responsabilizzazione e riparazione del male fatto dall’altra non riescono a scegliere una giustizia che rinunci al desiderio di far soffrire pensando così di redimere il colpevole e soddisfare le vittime. Mentre pure pensiamo a nuove norme le cerchiamo con il cuore di pietra, la convinzione che bisogna punire facendo soffrire e, come si suol dire, non premiando Caino, ci incatena. Sono catene che si traducono in molteplici intoppi e inciampi seminati lungo il percorso di recupero che teoricamente dovrebbe essere offerto ha chi, condannato definitivo, è nelle nostre carceri. Blocchi insormontabili per i più poveri e i più deboli. Le nostre accoglienze sono per loro, Gesù

Cristo ha scelto i poveri per annunciare la bontà del Padre, Papa Francesco ce lo ricorda in continuazione. La libertà che osiamo proclamare nei nostri luoghi di accoglienza è la libertà dei figli di Dio, che si accorgono di essere salvati dalla misericordia del Padre e si impegnano a comportarsi come figli di quel Padre. In questo senso, per i credenti, l’accogliere per liberare non è solo un gesto di solidarietà ma è un segno di un evangelizzazione, fa parte della missione della chiesa. Come punto più alto siamo invitati a far festa con chi desidera ritornare a casa. Con Gesù riconciliatore festeggiamo per ogni occasione in cui si percorrono strade di riconciliazione e dove non si lascia nessuno, rei e vittime, nell’impossibile affrancarsi dal male da soli. Scegliamo e costruiamo luoghi di liberazione riconciliante, con dei tenui passi, sapendo la nostra vita affidata a continui gesti di amore che ci accolgono anche nei nostri affanni ed errori. In un continuo vaneggiare di paure e conflitti scoccheranno scintille di fiducia reciproca e di accettazione dell’altro estraneo dapprima, a volte nemico, fino al giungere dell’incontro con il desiderio di vita simile al nostro. È bello pensare alle azioni compiute, in cosciente umiltà, come allo scoccare di vite rinate, di piccoli rivi che depurano i fiumi intorpiditi da temporali. Non più solo desideri ma fatti, che intrecciano le vite di uomini che dapprima si vivono da nemici e poi ascoltano il dolore e la ricerca di felicità dell’altro. Le persone che hanno vissuto la riconciliazione, hanno scoperto in se stessi dei desideri di profondità. Vivono la volontà di collocare nei propri e altrui posti di responsabilità l’essere fecondi servitori di un bene comune migliore. L’incontro del male causato o subito presenta mani da stringere per cercare il bene di entrambi e della convivenza sociale. Credenti in Cristo, in Allah, in Dio, in Altro più grande di sé, nell’Umanità accettano la felicità faticosa del costruire comunione dal male e dal conflitto. Uomini e donne, segnati dalla fatica del convivere e dall’incontrare l’altro, assieme ad altri uomini e donne ritentano l’avventura di essere riconciliati. Alle istituzioni e organismi sociali proponiamo così con i fatti la possibilità di una società civile che può responsabilmente rispondere al male accaduto con strumenti di bene. 

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WELFARE

di Claudio Roberti

* Sociologo.

Il contrassegno dei disabili secondo il modello UE Contenuti organizzativi e norme di legge

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opo svariate polemiche e pastoie burocratiche è arrivato anche in Italia il contrassegno disabili UE, il modello CODE, che è il contrassegno unificato europeo delle persone con disabilità, ai sensi della Raccomandazione CE 98/376/. Il recepimento da parte dell’Italia arriva in forza del DPR 151//2012 e tanto per non cambiare giunge solo diversi anni dopo rispetto agli altri Paesi. Come accennato, il contrassegno europeo si presenta diverso da quello nazionale già nel colore. Il precedente colore arancione, quello di seconda generazione dotato di microchip municipale, viene infatti sostituito dall’azzurro della bandiera europea con tanto di stelle e dicitura “Parcheggio per disabili” in ben 21 lingue diverse. Ad impedirne la contraffazione, legandolo esteticamente al suo titolare, con firma e foto, nonché l’ologramma dell’Ente che lo emette (in Italia, il Comune di appartenenza, altrove la Regione). Secondo quanto disposto dalla legge, il modello – logo di contrassegno adottato deve essere conforme alle normative sulla riservatezza degli atti amministrativi e gratuito in ogni fase dell’iter per il rilascio, condizione a volte non rispettata dalle nostre istituzioni, iniziando dalla Regione Campania. Fra le sue varie mancanze, dovrebbe recare anche scritte in lingua brail, per permettere anche ai ciechi ed agli ipovedenti di usufruirne. Come lascerebbe intendere il nome, quindi, il contrassegno europeo dovrebbe dare la possibilità di circolare nelle ZTL (zone a traffico limitato) e di parcheggiare nelle aree deputate alle persone con nulla o ridotta capacità motoria, in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Infatti, nella pratica mancano indirizzi, quindi strumenti di controllo integrati, cioè una banca

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dati verticale e orizzontale che permetta di verificare in tempo reale i dati del possessore e questo apre la strada ad una serie di disagi ed approssimazioni applicative, segnatamente in alcune solite nazioni. Si pensi, ad esempio, che il Comune di Roma non è capace neanche di controllare l’esistenza legittima di contrassegni rilasciati dal Comune di Milano e viceversa. Manco a parlarne di combinazioni più improbabili tipo Gorizia e Lecce, Lucca e Siracusa, men che meno dovendo contemplare Oporto e Danzig, roba da fantaeuropa... Qui siamo al cospetto di un modello organizzativo reso in modo che i VVUU di Napoli non conoscono neanche il data base dei contrassegni rilasciati dal competente assessorato al welfare del medesimo Comune di Napoli. Insomma, trattasi della “mano destra che non sa cosa fa la mano sinistra”... a fronte di un modello in scala europea, dove in Europa si potrà circolare parcheggiare ma solo “a fiducia”, anzi al buio e con ZTL nei fatti precluse agli alieni. Per analizzare le lacune del contrassegno, però, bisogna andare a monte, in relazione al suo inquadramento nell’ambito degli strumenti applicativi previsti dalla Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità. Il contesto come premessa fra diritti e ambiguità Leggendo il tutto in chiave di sociologia del diritto, la Convenzione ONU dei Diritti delle Persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la L 13/2009 e posta in “attuazione” con il I° Piano di Azione di Ratifica ai sensi del DPR 53/2013, dovrebbe avere il valore di una legge, con la relativa cogenza, in quanto facente parte dell’ordinamento internazionale. Circa il tema in parola, i riferimenti più diretti vanno dal Preambolo V, con gli articoli 3,5,9,19 e 20. L’aspetto ulteriormente rafforzativo è nel fatto che la C. ONU è fortemente

Vicepresidente ENIL Italia


La caratteristica principale Il contrassegno UE definitivo deve recare caratteristiche tali da non poter essere contraffatto e/o sostituito da riproduzioni falsanti o espedienti analoghi.

giustapposta a vari istituti cardine della Costituzione della Repubblica, quali nello specifico tematico gli articoli 2,3,4 e 13. A dare alla C. ONU la forza di legge di diritto Internazionale è anche la sentenza della Corte Costituzionale 236/2012 ed i dettami della Carta UE dei Diritti dei Cittadini, articoli 6,21,26,45. Poi la medesima Ratifica UE della C. ONU del 2012, il Piano di Azione UE 2013-2020 e le buone prassi che ne dovrebbero scaturire. Invece, essa viene ancora trattata come un tema da mera filosofia sociale e del diritto. La domanda è nel perché?... Da anni l’UE si dibatte in una stridente e contraddittoria dicotomia tra promozione dei diritti sociali ed imposizione di tagli e restrizioni al bilancio da Parte di Fondo Monetario Europeo (FMI) e Banca Centrale Europea (BCE) e medesima Commissione. Così i diritti sostanziali delle marginalità sociali, in tal caso la nostra, vengono relegati a mere dimensioni politico culturali da turismo sociale e progettuale di elitès... marginalizzando sempre di più le persone disabili comuni, ovvero le più esposte. Il Sud Europa, in tal senso spicca per la mancata tutela dei diritti. Quel contrassegno di serie B è una sorta di cartina di tornasole atta a dimostrare quali indirizzi hanno egemonizzato sin qui in Europa e quali e quante risposte sono venute da chi dovrebbe rappresentarci fra associazioni (O. n G.) e partiti politici, nessuno escluso. In tal senso quell’icona “liquida” simboleggia uno status e la sua forma senza contenuto è eloquente e in termini comunicativi... In termini generali, occorre un cambio di indirizzo (direzione) e di passo (velocità), pena la perdita dell’UE medesima. Tale approccio deve essere formato da tanti punti programmatici interconnessi fra centro-periferie, tasselli da sostituire e/o modificare. Visti i vuoti politici di rappresentanza, il CODE unitamente alla più sistemica Vita Indipendente sarebbero da petizioni e/o ricorsi alla giustizia europea e ben vengano, meglio questo che il reiterarsi di notori modelli atti a favorire solo gli euroscetticismi. Per la sostenibilità di controllo ed esigibilità del contrassegno UE Ecco alcuni passaggi significativi in materia di serie disposizioni normative per un vero contrassegno disabili UE che possa definirsi tale non solo nella forma, ma anche nella so-

stanza: (1) il contrassegno UE definitivo deve recare caratteristiche tali da non poter essere contraffatto e/o sostituito da riproduzioni falsanti o espedienti analoghi. Tali accorgimenti vanno mutuati da quelli in uso per banconote – prodotti bancari. Nei casi di disabilità scientificamente certificabili come irreversibili – stabilizzate / progressive, si emette un tipo di contrassegno non soggetto a scadenza temporale. Rispetto a queste fattispecie gli Stati membri devono semplificare le procedure ricorrendo a normative atte ad evitare e inutili e costosi appesantimenti burocratici. Di conseguenza per l’Italia si deve procedere per analogia con la Legge 326 / 03 Art. 42 C. 7. Ne consegue che per questo tipo viene soppresso il rinnovo a scadenza temporale. Per questo resta il solo istituto di reiterazione da duplicato per furto, smarrimento – deterioramento. Questa disposizione recepirebbe quanto disposto dagli ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS in relazione alle buone prassi tra risparmio e buon senso; (2) occorre una diversificazione identificativa – cromatica che permetta di distinguere il modello in uso alla persona disabile intenta prevalentemente nel ruolo di guidatore, da quello in uso alla persona disabile recante esclusivamente il ruolo di passeggero. Ovvero, all’ atto del rilascio, il titolare deve dichiarare se è guidatore di veicolo con adattamenti ai comandi. Tale accorgimento servirebbe a discernere la prima tipologia dalla seconda, perché è n volte più probabile (dato rilevato dalle autorità di PP SS italiane, nonché, statisticamente definibile) che nel secondo caso è più possibile si verifichino forme diffuse di abuso; (3) si stabilisce verso gli Stati membri che il CODE deve essere rilasciato dalle Regioni, nello specifico dagli Assessorati con deleghe ai Trasporti – Mobilità. Dev’essere istituita una banca dati regionale dei contrassegni delle persone con disabilità, che confluisca in una banca dati nazionale contrassegni delle persone con disabilità. Tutti i dati confluiranno nella banca dati informatizzata unitaria dei contrassegni disabili UE, ossia il tutto deve essere posto in sequenza integrata. Sarebbe auspicabile che qualche nuovo parlamentare europeo, magari della Campania, si faccia carico di tale proposta. 

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CULTURA E FORMAZIONE

RECENSIONE di Fabrizio Denunzio

In nome delle curve In libreria il quarto volume della collana We Care “A tutto campo”, di L. Bifulco e F. Pirone (ed. Guida)

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a pubblicazione del nuovo libro della collana “We Care” A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica di Luca Bifulco e Francesco Pirone con la prefazione di Salvatore Bagni sta suscitando interesse e dibattiti. Le tesi del libro s’inscrivono in una nobile tradizione sociologica definita da opere come Sport e aggressività di Norbert Elias e Eric Dunning, Descrizione di una battaglia di Alessandro Dal Lago, Programma per una sociologia dello sport di Pierre Bourdieu e da diversi interventi di Vittorio Dini uno dei quali, Maradona, héros napolitain, fu pubblicato proprio sulla rivista di Bourdieu, i prestigiosi Actes de la recherche en sciences sociales. Questa è la tradizione in cui nasce il libro dei due sociologi Bifulco e Pirone. Appartenere a una tradizione, però, non è cosa semplice: o la si rinnova o si è destinati a ripeterne le conquiste. Nel primo caso si è davvero eredi, nel secondo si finisce epigoni. Ora, se Bifulco e Pirone sono eredi di questa tradizione, lo sono perchè sanno che

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il nostro calcio non è quello dei nostri padri. Da sociologi attenti sentono che lo spazio sociale in cui il fenomeno sportivo viene collocato, ha subìto nell’ultimo ventennio delle radicali trasformazioni: ascesa del neoliberismo, globalizzazione dei mercati, finanziarizzazione del capitale e mediatizzazione del vissuto quotidiano. Il calcio, come tutti i fenomeni sociali, si struttura in un polo soggettivo, quello dell’agente sociale, e in uno oggettivo, quello dell’apparato istituzionale. In questo caso, il ruolo di agente sociale è ricoperto dal tifoso, mentre quello dell’istituzione dall’industria calcistica. Chi è il tifoso oggi? Bifulco insiste molto sulla dimensione emotiva che connota lo statuto di questo agente sociale, sulle pratiche «narrative» con cui questi costruisce la sua identità e le sue appartenenze di gruppo. L’originalità della sua riflessione va però oltre. Questa appare nel momento in cui l’autore delinea la strutturazione gerarchica dello spazio in cui il tifoso è situato: «lo stadio non è un luogo omogeneo, ma diviso in

Chi è il tifoso oggi? Bifulco insiste molto sulla dimensione emotiva che connota lo statuto di questo agente sociale, sulle pratiche «narrative» con cui questi costruisce la sua identità e le sue appartenenze di gruppo.


della sociologia accademica italiana. Ma non si farà il torto di lasciarli a questa ingenuità e alle loro intenzioni coscienti. L’obiettivo politico di una sociologia del calcio di questo tipo dovrebbe essere quello di avviare un processo di ridefinizione del rapporto tra intellettuali e masse». Non più intellettuali alla Elias Canetti che ascoltavano con trasporto e interesse le grida dei tifosi provenienti dallo stadio e, invece di andare sugli spalti a vedere di cosa si trattasse, rimanevano nella loro stanzetta a scrivere Massa e potere, ma finalmente intellettuali disobbedienti alle regole imposte da ogni tipo di conformismo, che spontaneamente si fondono con masse festose e gioiose per capirne dall’interno, dal basso, i comportamenti. E chissà, forse in un futuro non troppo lontano, potranno anche arrivare a orientarle in senso rivoluzionario. All’ingenuità degli accademici bisogna sostituire l’utopia dei dirigenti politici. 

Luca Bifulco ne o Francesco Pir

MPO A TUTTOUNACPRAOSPETTIVA A IL CALCIO D A SOCIOLOGIC

di Postfazione Vittorio Dini

E CARE ITORIALE W

Prefazione di gni Salvatore Ba

COLLANA ED

zone e settori diversi, ognuno con una sua connotazione sociale... Le tribune sono più costose e difficilmente accessibili a tutti rispetto alle curve... Ciò che cambia è la visuale, la possibilità di seguire la partita in maniera più tranquilla e, ovviamente, questioni legate alla distinzione... In aree più specifiche, come le zone destinate ad autorità, sono il prestigio e la reputazione, più che la capacità economica, a circoscrivere l’accesso. Ma anche le curve stesse, le zone più popolari, sono luoghi eterogenei». Per quanto emotivamente instabile e identitariamente arroccato, il tifoso è oggettivamente situato in uno spazio che lo delimita e gli assegna significati sociali differenti a seconda del posto occupato. Dopo l’agente, l’istituzione. Cos’è l’industria calcistica oggi? Per Pirone sono due i processi che permettono di definirla: «l’aziendalizzazione dei club e la commercializzazione del calcio-spettacolo. Il risultato è l’incorporazione della logica economica dello show business in quella sportiva tradizionale». Attento al ruolo giocato dalla televisione a partire dagli anni ‘90 e attualmente dalle tecnologie digitali di comunicazione, Pirone, con molta intelligenza, invita a non fare affidamento esclusivo sulla determinante economica per capire il funzionamento dell’industria del calcio, ma a considerare anche «tutte quelle forme di scambio sociale non di mercato... che producono le risorse immateriali di passione, interesse e attenzione». Un’industria che si alimenta della ricchezza immateriale diffusa nel corpo sociale. Attraverso partite e campionati, il tifoso e l’industria calcistica si riproducono all’infinito, il primo fornendo quel materiale emotivo che la seconda provvederà a catturare, esaltare e ad appagare con spettacoli tv e gadgettistica varia. Ora, una sociologia del calcio pensata con il paradigma elaborato da Bifulco e Pirone quale obiettivo politico si propone? Come sostengono nell’Epilogo, gli autori si auspicano di ottenere, per il loro oggetto di studio, il riconoscimento

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CULTURA E FORMAZIONE

RECENSIONE di Nicola Mastrocinque

Il catechismo del pallone Un libro per gli insegnanti, gli educatori e le società calcistiche

U

n interessante ed avvincente libro, edito da Mimep-Docete, dal titolo: “Il catechismo del pallone”, fresco di stampa, è rivolto agli insegnanti, agli educatori degli oratori e alle società calcistiche. L’autore, Corrado Gnerre, è docente di Antropologia Filosofica all’Università Europea di Roma e di Storia della Filosofia e delle Religioni all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Redemptor Hominis” di Benevento. L’intento di questo saggio è quello di inculcare le verità di fede attraverso un approccio metodologico completamente diverso durante le ore di religione cattolica, impartite nel Liceo Classico della città capoluogo. Scorrendo le pagine del testo, agevole nella lettura, subito balzano all’attenzione i pregnanti approfondimenti biblici, teologici, antropologici, apologetici e filosofici, che con analogie del mondo del calcio, ripropongono il senso autentico dello spaccato esistenziale, proteso alla continua

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ricerca dell’Infinito. Nell’apologetica cattolica due esponenti di primo piano, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno tratto gli spunti dal gioco più bello del mondo, per difendere i credenti dalle concezioni sincretistiche e disorientanti, pubblicando: “Manuale di sopravvivenza per interisti” e “Secondo tragico manuale di sopravvivenza per interisti”. Il lettore, inoltre, può riflettere sulle diverse asserzioni inerenti il calcio, uno sport dai tratti veramente cattolici, per ritrovare i capisaldi della sua dottrina con paragoni edificanti, per penetrare la Luce del Mistero. Tra gli esempi contenuti nella pubblicazione giova ricordare, che nel calcio non sempre è indispensabile disporre sul rettangolo di gioco undici fuoriclasse, perché risulta difficile essere un team vero. Il fallimento del Real Madrid di qualche anno fa, con Ronaldo, Kakà, Benzemà ed altri campioni ne è una chiara dimostrazione. Per cogliere il legame con la Parola di Dio, basta rileggere la Prima Lettera di San Paolo

Calcio e teologia: questione di analogie Scorrendo le pagine del testo, subito balzano all’attenzione i pregnanti approfondimenti biblici, teologici, antropologici, apologetici e filosofici, che con analogie del mondo del calcio, ripropongono il senso autentico dello spaccato esistenziale, proteso alla continua ricerca dell’Infinito.


ai Corinzi (12,4-30). Nel brano paolino si esaltano i carismi al servizio della Chiesa; le diversa membra non sono disgiunte dal Corpo, immagine della comunità viva ed orante. Allo stesso modo la tecnica raffinata, i passaggi illuminanti all’attaccante, tradiscono le attese della vigilia se i centrocampisti non comprimono le sortite degli avversari e tantomeno gli esterni annullano le punte schierate davanti allo loro porta. Altri aspetti enucleati nel testo riguardano le virtù teologali: Fede, Speranza e Carità. Basti pensare alla fede della madre di Giuseppe Meazza (1920-1979), Ersilia, cha ha invocato l’ausilio del Signore, facendo celebrare una messa prima dell’incontro del figlio. Meazza con i suoi “goal ad invito”, ha deliziato i tifosi interisti, sospinto non solo dalle sue eccelse qualità tecniche, ma da una Presenza rassicurante soprattutto nei momenti più difficili delle partite. Per la speranza, invece, l’esempio di Manè Garrincha (1933-1983), merita di essere rievocato alle future generazioni. Egli nonostante i suoi difetti fisici congeniti – un leggero strabismo, la spina dorsale deformata, uno sbilanciamento del bacino, dei sei centimetri di lunghezza tra le gambe, il ginocchio destro affetto da varismo, mentre il sinistro da valgismo – tuttavia, con i suoi dribbling, doppi passi ed in particolare le sue finte, è risultato imprendibile agli avversari. Alfredo Di Stefano (1926), impersona l’eccelsa virtù della carità. Il professore Gnerre non tralascia le quattro virtù cardinali: la prudenza (Maradona), la giustizia (Krol), la fortezza (Jordan), la temperanza (Dino Zoff). Un capitolo è dedicato ai setti doni dello Spirito Santo, associati ai grandissimi giocatori di tutti i tempi. Gli atti per conseguire la perfezione cristiana rimandano a Sandro Mazzola (la sapienza), Puskas (l’intelletto), Figo (il consiglio), Burgnich e Facchetti (la fortezza), Pelè (la scienza), Beckembaur (la pietà), Schuster (il timor di Dio). Le tre proprietà trascendentali dell’essere riguardano la verità (Platini), la bontà (Jhon Charles), la bellezza (Giancarlo Antognoni). Due capitoli sono dedicati al calcio e alla santità,

al ricordo di Fernando Calò e Marco Santamaria, quest’ultimo originario di Benevento. I due appassionati dello sport più praticato nel pianeta muoiono giovani, affrontano dure prove, vivendo la malattia serenamente, conquistando il paradiso. L’acqua santa del Trap è un sacramentale, un segno esterno che predispone a leggere la partita con la rassicurante forza della fede, che nasce all’interno della sua famiglia, corroborata dalla scelta della sorella Romilda. Nella prefazione al testo il celebre allenatore Giovanni Trapattoni evidenzia: “Sono contento di queste poche righe che condivido con voi. Sono contento per ciò che dice il testo, per l’idea assolutamente originale e che – ne sono convinto colpirà molti. Ma sono contento anche perché ho saputo che l’Editrice Mimep – Docete, che lavora nel campo della catechesi, è gestita da un ordine religioso femminile. Conclude il Trap: “Forza Corrado! Forza MIMEP!... Io dalla “panchina”, vi incoraggio di cuore”. 

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laboratorio laboratorio torio di pensieri pe analisi, li i proposte t

in direzione direzione ostinata e contraria

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Direttore Samuele Ciambriello - Editore Silvio Sarno


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