OFFICINA DELLE IDEE Primarie: bella giornata di democrazia Legge elettorale e abolizione del Senato
APPROFONDIMENTI Munnezza story: 30 anni di tradimenti Intervista all’imprenditore Sabino Basso
SPECIALE
ANNO I | NUMERO 4 | € 5,00
Violenza di genere e femminicidio Donne e imprese
Un uomo solo al comando È cominciata una nuova stagione
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EDITORIALE
di Samuele Ciambriello
È il tempo del coraggio e del cambiamento, dopo il ventennio che muore. Basta inciuci Continua il terremoto politico. Dopo la decadenza di Berlusconi da senatore è arrivata la sentenza antiporcellum della Corte Costituzionale. La politica è umiliata e tramortita e infine tre milioni di italiani, popolo delle primarie del PD, incoronano Renzi segretario. La nuova strada del PD, la nuova stagione, oltre alle più ottimistiche aspettattive di partecipazione al voto, confermano due cose: il PD è un partito che può fare da argine alla disaffezione della politica e al populismo dilagante, ammesso che faccia le sue battaglie per convinzione e non per convenienza; si conferma la posizione della sinistra che è seduta su un giacimento di energia democratica al servizio dei suoi ideali e nel solco del socialismo europeo. I tre caballeros Cuperlo, Civati e sopratutto Renzi, così diversi tra loro, hanno portato ai circoli e ai gazebo la sfida delle idee, dei sogni, della lotta e delle speranze di milioni di italiani. La vittoria a valanga di Renzi, il suo trionfo, sono arrivati per la promessa di cambiare il PD e il Paese. Renzi ha già cambiato il PD, cambierà anche l’Italia come ha ripetutamente detto? Apre sicuramente una nuova stagione dopo aver messo in un angolo l’antipolitica. Il peso del successo passa dall’imminente riforma della legge elettorale, alla riduzione dei costi della politica e ad un piano di intervento concreto per il lavoro e le politiche sociali. Governare senza scuse e senza più alibi è una condizione necessaria per cambiare l’Italia. Riformare la democrazia, cambiare la politica, significa evitare colpi di coda del ventennio che muore. La seconda repubblica non è mai nata. Nonostante delusioni e frustrazioni, accumulate in passato da dirigenti inetti e fuori dal mondo reale, il popolo del centro sinistra, il popolo della sinistra c’è con la sua efficacia, con la sua passione, con la sua
credibilità. Per noi di LINK, lo diciamo da tempi non sospetti, nella nuova legge elettorale occorrerà prevedere elezioni solo per la Camera dei deputati e non anche per il Senato. Non solo per questioni economiche, ma perché l’eguale competenza nel processo di legge ha rallentato, spesso ostruito leggi, riforme e provvedimenti. Occorre cambiare sì l’orchestra ma anche lo spartito. Si recupera la fiducia dei cittadini se congeliamo l’economia iniqua, il rigore e mettiamo al centro dei nostri interessi la promozione della persona e i suoi diritti come un comune orizzonte di speranza. Chiediamo risposte alla politica, ascolto, sobrietà. Quando Napolitano licenziò Berlusconi, per installare un governo dei tecnici, dei saggi e dei sobri, un’ondata di ingiustificato ottimismo attraversò il Paese. Sono passati due anni, i sobri hanno lasciato il posto ad altri sobri e miracolati, ma Governo e Parlamento non hanno fatto nulla di quel poco che si era chiesto loro di fare e oggi si presentano a mani vuote davanti alla sentenza della Corte Costituzionale e alla crisi sociale ed economica del Paese. Tante parole hanno ingannato, tanti rappresentanti calati dall’alto hanno deluso mentre l’Italia veniva messa in ginocchio dalla crisi più grave della sua storia. Il sistema politico, ed anche i militanti del rancore, hanno affondato il cambiamento e anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze è sembrato teso solo a preservare se stesso, allontanandosi sempre più dalla società. Occorre favorire una riconversione della positività del sociale, aprirsi a tanto di buono che c’è nella base dei partiti, nei movimenti, nelle associazioni, nel volontariato e nel civismo di prossimità. I sistemi politici e i partiti personali non cadono. Prima si paralizzano e poi si dissolvono per abulia e indolenza.
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lettere ed opinioni Giovani in dialogo con i preti di frontiera Caro Direttore, anche a Scampia la presentazione del volume di Ilaria Urbani, La buona novella. Storie di preti di frontiera, Guida, Napoli 2013, ha raccolto un numeroso e qualificato pubblico del “Caffè letterario” e delle associazioni del territorio nell’Auditorium della SMS “Carlo Levi”. L’iniziativa promossa dal laboratorio politico-culturale “Scampia felice” con una modalità innovativa si proponeva di far dialogare tredici giovani di Scampia con i tredici “preti di frontiera” le cui biografie erano raccolte nel volume per un incontro diretto con protagonisti di queste storie. La location di Scampia per questo dialogo ha senso perché ben cinque di questi preti di frontiera vivono nell’area Nord di Napoli tra Scampia e Miano. Fa riflettere che, in pochi mesi dalla pubblicazione, il volume abbia registrato numerose presentazioni a Napoli ed in Campania su figure note e meno note di “preti di frontiera” a Napoli e dintorni, forse perché sono le frontiere dell’inumanità del carcere, del sostegno a drogati in un cammino di uscita dal tunnel della droga, di quartieri di periferia anche in rioni storici di Napoli, della valorizzazione del territorio e promozione di opportunità lavorative, dell’associazionismo di lotta alla criminalità, in mezzo alle diverse etnie di immigrati a Castelvolturmo, e non ultimo a difesa dei diritti e delle condizioni di vita del popolo Rom nell’area napoletana. Questo richiamo si può spiegare non solo con un’affinità culturale e religiosa con l’operato di questi preti, ma più in generale con una categoria elaborata in sociologia della religione “Religione vicaria” per indicare una minoranza religiosa che opera a favore di un più ampio numero che approva ciò che la minoranza sta compiendo. Questa approvazione non sempre si riscontra da parte di rappresentanti e strati di fedeli delle comunità cristiane del territorio per precedenti modelli sacrali e clericali del sacerdote anche se aggiornati e cammini spirituali di gruppi e movimenti specialmente carismatici. Domenico Pizzuti
Dalla democrazia alla oligarchia Carissimo Direttore, Le scrivo per avviare una discussione che, se riterrà, potrà svilupparsi successivamente nelle forme opportune. E cioè se possa esistere una democrazia rappresentativa in assenza o difetto della rappresentatività dei propri istituti. In realtà l’assenza di rappresentanza politica, istituzionale e sociale è oltremodo evidente. I partiti, le istituzioni e le rappresentanze sociali, tranne rare eccezioni territoriali, sono disancorate dalla realtà. Non a caso assistiamo alla nascita di movimenti politici, sindacati autonomi o di base ecc. Tale assenza di rappresentanza non solo interrompe il rapporto tra il corpo sociale e gli istituti organizzati ma produce una frattura che determina l’abbassamento del livello della qualità e quantità della stessa. Essa, conseguentemente, riduce gli spazi di democrazia che proprio per la sua natura rappresentativa necessitano di forte rapporto tra istituti organizzati e società. Quanto esposto conduce alla considerazione che l’attuale periodo costituisce un vulnus alle regole democratiche deviando, con il determinarsi di anomale concentrazioni e/o distorsioni degli istituti di rappresentanza democratica, verso forme di oligarchia mal celate. Ciro Magliulo
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lettere ed opinioni Educare alla cittadinanza democratica Caro direttore, abbiamo raccolto in un volume tante testimonianze e saggi autorevoli che hanno ricostruito il percorso di studio rigoroso della pedagogia sociale, nonché, l’impegno civico che ha contraddistinto la vita di Bruno Schettini, maestro di umanesimo. Il volume risalta la sua passione etica e civile, propria di una persona che non separava mai la sua attività di studioso da quella di un militante impegnato in tante battaglie civiche, con una partecipazione attiva alle varie iniziative sociali promosse sul territorio, in primo luogo del mondo de lavoro e del terzo settore. Negli ultimi anni era particolarmente attivo ed interessato alle attività del sindacato e del volontariato. Per dare continuità a questa ricerca sarà compito dell’università – attraverso la sua Facoltà di Psicologia e del Centro di Apprendimento Permanente della SUN – continuare l’approfondimento scientifico della sua opera, per far emergere i tratti salienti di Bruno Schettini, di docente sempre aperto al dialogo con i suoi allievi, di studioso rigoroso e di ricercatore “glocale” – un neologismo che gli piaceva molto – nel campo delle scienze umane e filosofiche. Di lui ricordiamo la capacità di “fare ricerca” nella Facoltà di Psicologia della SUN, a partire dalla sua curiosità epistemologica che ci sorprendeva sempre. Riusciva a “fare ponte” tra discipline diverse, tra istituzioni, persone, storie di uomini passati e problematiche del presente. Ricercatore e uomo di relazione, profilo di profondo, acuto intellettuale e di persona capace di “motivare all’umanità”. Amava definirsi un “intellettuale che si sporca le mani”, intendendo dire con questa espressione che la sua antropologia di riferimento aveva basi solide nella realtà, non disgiunta, quest’ultima, dalle persone che la costituiscono. Per lui era necessario rilanciare un processo di trasformazione della società secondo una prospettiva neoumanistica. Questa era la “epistemologia di sfondo” di Bruno Schettini che preferiamo ricordare per questo aspetto particolare, ma unificante di tutte le sue attività di ricercatore e di uomo. Era un vero maestro di umanesimo, o meglio, di neoumanesimo, per noi, per tutti quelli che lo hanno conosciuto e incontrato. A sottolineare il valore e l’attualità di questo volume è intervenuta la fortunata coincidenza della sua pubblicazione in occasione dell’anno “europeo dei cittadini”, che ricorre proprio nel 2013. Pasquale Iorio
Biocidio ed ecomafie.. ma dove sono le istituzioni? Caro direttore, faccio mia l’introduzione della scheda predisposta per i laboratori didattici della provincia di Napoli rappresentando che la risoluzione dei crimini ambientali in Italia dovrebbe essere prioritaria. Ogni giorno vengono commessi 71 ecocrimini (uno ogni 3 ore) nel paese, metà dei quali avvengono in Calabria, Campania, Sicilia e Puglia, le 4 regioni in cui le mafie sono più attive. La crisi dei rifiuti campani finora è costata circa 1.8 miliardi di euro e non sembra ci siano speranze concrete per un miglioramento. La strategia dello smaltimento dei rifiuti adottata dai governi precedenti vuole intervenire
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lettere ed opinioni solo sui sintomi della crisi (l’accumulazione delle ecoballe) piuttosto che alla radice. Ciò è dovuto a: mancanza di partecipazione democratica, assenza di ricerca, necessità di un cambiamento di atteggiamento, necessità di migliorare gli sforzi sia giudiziari che di controllo e d’implementare efficaci sanzioni sia dissuasive che penali. Inoltre la gestione “straordinaria” della crisi ha fatto emergere domande straordinarie: come hanno potuto imprese ed amministrazioni pubbliche dichiarare quantità minori di rifiuti prodotti e trattati senza incorrere in nessuna conseguenza? Come è possibile che i danni sofferti dalla Campania siano passati inosservati? Come ha potuto non risultare sospetta la collusione dei poteri pubblici di controllo date le prove evidenti di corruzione, infiltrazioni mafiose, soldi facili ed interessi investiti? Ciro Passeggia
Testimonianza pro Africa Caro Direttore, mi presento: mi chiamo Giuliana, ho 27 anni e sono una volontaria di Africa Mission-Cooperazione e Sviluppo, un’ ONG che da quarant’anni opera in Uganda e ha ridato speranza di vita migliore ad un popolo non solo “il più povero tra i poveri”, ma privato oltremodo di dignità. Dopo alcuni mesi di formazione nella sede regionale di Bucciano (BN), nell’agosto del 2012, insieme ad altri amici, sono partita per l’Uganda vivendo per tre settimane tra Kampala e Moroto. “Vieni e Vedi”, il progetto al quale ho partecipato, mi ha concesso l’opportunità di vedere, di toccare e di sentire ciò che l’Africa vuole donarti incondizionatamente: Amore. L’ho incrociato negli sguardi di quella gente, ho saziato la mia anima grazie agli abbracci e ai sorrisi ricevuti e sono rientrata con la consapevolezza di aver vissuto l’essenziale. Due sono le chiavi di lettura del mio viaggio: Amore e Vita, tutto il resto non conta. Per chi fosse interessato può visitarci al sito: www.africamission.org Giuliana
La libertà di essere diversi Le persone sono cattive. O se non tutte la maggior parte. Non capiscono quanto facciano male, parlano, parlano, e qual è il risultato? Dolore e tristezza Tristezza e dolore Aggiungono dolore, solo dolore A una persona che magari se ne sta su una panchina, tutta sola e il suo unico crimine, agli occhi della gente, e proprio l’esser tutto solo. Quella persona,agli occhi della gente, viene chiamata “diversa” dagli altri Diverso ? Ma cosa dovrebbe significare ? È una cosa abbastanza buffa da dire ma… la diversità non esiste. Al giorno d’oggi le persone “diverse” sono quelle che non seguono la massa. Ma essere diversi, è anche una forma di libertà. Essere liberi di essere diversi. Si distinguono, hanno opinioni diverse dagli altri. Allora se questo è la diversità, allora meglio essere diversi E finché ci saranno persone “diverse” in questo mondo buio, ci sarà sempre un po’ di luce. Eleonora Mainardi
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SOMMARIO
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OFFICINA DELLE IDEE Riforma elettorale: cambiare si può, si deve! Francesco Paolo Casavola
Riforma elettorale un primo passo per risanare la democrazia Beatrice Crisci
Testimoniare i valori e le idealità del lavoro e della sinistra come scelta di vita Michele Petraloia
La politica? Passa attraverso la formazione Mico Capasso
Donne e impresa Daniela Mattolini Valgiusti
Le parole della politica dopo Berlusconi Carlo Porcaro
QUI ED ORA Le parole d’ordine per il PD dopo l’otto dicembre Massimo Adinolfi
Otto dicembre: una bella giornata di democrazia Ilaria Perrelli
Intervista a Rosetta D’Amelio Le donne del PD Paola Bruno
Visto da vicino: Matteo Renzi... Umberto de Gregorio
Visto da vicino: Gianni Cuperlo… Valeria Valente
Visto da vicino: Vincenzo De Luca… Massimiliano Amato
Battere “il Cavaliere” sarà difficile a cura di Marco Staglianò
APPROFONDIMENTI Munnezza story: 30 anni di tradimenti Patrizia Perrone
Emergenza ambiente in Campania a cura di Patrizia Perrone
Non nel mio giardino Vincenzo Pepe
#Stop biocidio Domenico Pizzuti
Intervista a don Maurizio Patriciello Storie dalla terra dei fuochi Patrizia Perrone
Sannio “In” felix Maria Rosa Caspariello
SPECIALE: FEMMINICIDIO La Scheda: violenza di genere e femminicidio Daniela Mattolini Valgiusti
ONE BILLION RISING, 14 febbraio 2014 Nicoletta Corradini
Le novità legislative Marianna Quaranta
Centro Italiano Femminile Raffaella Pisani
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Associazione Pink Lia Imazio
Il femminicidio: Il corpo che le donne non abitano Mariassunta Madonna
WELFARE Modernità e Welfare al tempo della crisi Enrica Amaturo
Intervista a suor Rita Giaretta Osare la speranza Beatrice Crisci
Intervista a Fausto Pepe “Regione Campania non ti conosco. Renzi operi il rinnovamento” Rosaria De Bellis
Le politiche sociali a Salerno P.C.
RICERCA E INNOVAZIONE L’economia reale, l’economia finanziaria e l’economia monetaria di produzione Massimo Lo Cicero
Il pallino della Qualità Floriana Marino
Cira Beatrice Crisci
L’acquisizione e la rinascita dell’antico Zoo di Napoli Marianna Quaranta
Doppia faccia dell’economia campana Tradita ma resistente Marco Staglianò
Mauro Maccauro: il territorio salernitano deve credere negli imprenditori Giuseppe Vuolo
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CULTURA E FORMAZIONE La virtù delle università. Produrre saperi non cifre Ciro Attaianese
“Architettura al muro” All’ex carcere borbonico di Avellino a cura della Redazione
Intervista a Luca Cipriano Teatro Carlo Gesualdo, l’Irpinia in scena Marco Staglianò
Intervista a Rocco Papaleo Anna Malinconico
Il presente e il futuro nelle opere di Angelo Volpe Franca Pietropaolo
Forum delle Culture Ilaria Urbani
Omaggio ad Aldo Masullo Paola Bruno
A tutto campo! Quarto volume delle collana We care
Le Dolomiti di Napoli dicono poco della storia recente La Recensione di Giovanni Laino
“Sono nato nel mese dei morti” Recensione a cura di Sergio Saggese
Strage di Natale. Il ricordo di una sopravvissuta Anna Malinconico
“Non siamo noi che andremo all’inferno” Recensione Samuele Ciambriello
Poesie, emozioni in versi
Link. Trimestrale di Cultura e Formazione politica Anno I, numero 4, 2013 Registrazione del Tribunale di Napoli n. 52 del 09 ottobre 2012 ISSN - 2282-0973 Direttore Responsabile Samuele Ciambriello Coordinamento Editoriale Marianna Quaranta Comitato Editoriale Massimo Adinolfi Sergio Barile Filippo Bencardino Luca Bifulco Antonio Borriello Paola Bruno Gian Paolo Cesaretti Umberto De Gregorio Dario Stefano Dell’Aquila Francesco Fimmanò Salvatore Gargiulo Nicola Graziano Giovanni Laino Massimo Lo Cicero Anna Malinconico Marco Musella Marino Niola Stefania Oriente Gianfranco Pecchinenda Patrizia Perrone Francesco Pirone Paolo Ricci Francesco Romanetti Marco Staglianò Segreteria di Redazione Tel. +39 081.19517494 Fax. +39 081.19517489 e- mail: redazione_link@libero.it Editore LINKOMUNICAZIONE srl Centro Direzionale Isola G/8 80143 Napoli P.IVA /Cod. Fisc. 07499611213 Amministrazione e Abbonamenti Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Tel. 081 19517508 Fax 081 19517489 Dal lunedì al venerdì 9,30 - 14,00 e- mail: abbonamenti.link@gmail.com Abbonamento annuale 10,00 euro conto corrente postale intestato a: LINKOMUNICAZIONE srl: C/C 001013784739 oppure, bonifico bancario sul conto intestato a LINKOMUNICAZIONE srl IBAN: IT24W0760115100001013784739 Foto di Agenzia Controluce Via Salvator Rosa, 103 - Napoli Foto di copertina di Roberto Salomone
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di Francesco Paolo Casavola
Riforma elettorale: cambiare si può, si deve! Partiamo dall’abolizione del Senato. Occorre determinazione e coraggio
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ià nel giugno scorso, in questa rivista Link, ebbi occasione di esprimere la mia opinione sulla necessità di una eliminazione del Senato nel quadro delle riforme della seconda parte della Costituzione. In questi ultimi giorni dell’anno stanno riecheggiando voci di parti politiche in questa direzione. È opportuno che la questione sia portata alla più vasta opinione pubblica sotto i suoi diversi profili. In primo luogo il sistema bicamerale nelle democrazie rappresentative ha particolari motivazioni. Nella Germania federale, accanto al Bundestag, corrispondente alla nostra Camera dei deputati sta il Bundesrat, composto dai rappresentanti dei Laender, vale a dire di quei pochi residui dei tanti tradizionali Stati tedeschi. Alla fine della guerra francoprussiana nel 1871, i duecento Stati tedeschi e oltre il migliaio di signorie territoriali sovrane, composero un Reich federale di ventisei Stati, con a capo un imperatore, un re Hoenzollern di Prussia. Questo era il Secondo Reich, cui nel 1933 seguì il Terzo Reich hitleriano. Nel 1949 la Germania federale si dette appunto una Costituzione con due camere. Alla fine del XVIII secolo gli Stati Uniti d’America accanto alla Camera dei rappresentanti, eletta da tutti i cittadini, ebbero un Senato in cui siedevano due rappresentanti per ognuno degli Stati federali. La Francia ha un Senato con propri grandi
elettori, rispetto alla Camera eletta da tutti i cittadini. L’Italia si trovò, dopo la caduta del fascismo e la fine della monarchia, con l’Assemblea costituente che doveva scegliere tra un Parlamento moncamerale, composto dalla Camera dei deputati, o un Parlamento bicamerale composto dalla Camera affiancata dal Senato. Ma di quale Senato si trattava? Non si può affatto dire che si trattasse di una sopravvivenza storica del Senato del Regno. Lo Statuto di Carlo Alberto del 1848 prevedeva un Senato composto da senatori nominati dal Re a vita, scelti tra ventuno categorie, elencate nell’art. 33, rispecchianti tutte le gerarchie della Chiesa, dello Stato, da quelle militari a quelle della pubblica amministrazione, delle magistrature, delle università della cultura, di coloro che avevano con servizi e meriti eminenti illustrata la Patria e dei cittadini che pagassero tremila lire d’imposta in ragione del loro mandato quinquennale, con rappresentanza della Nazione in generale e senza mandato imperativo da parte degli elettori. Così la monarchia assoluta diventava costituzionale, realizzandosi infatti una del Re, l’altra del Popolo. Ma se i nominati a vita nel Senato e gli eletti per cinque anni nella Camera davano ragione a un Parlamento bicamerale espressivo di una struttura costituzionale bifida che superando la Monarchia assoluta la salvaguardava da una rivoluzione repubblicana, dopo il referen-
Riformare la democrazia Non ci nascondiamo che si opporranno difficoltà tecniche all’abolizione del Senato. Ad esempio, nella preparazione di una nuova legge elettorale occorrerà prevedere elezioni solo per la Camera e non anche per il Senato. Ma quale consenso verrà di partiti che hanno più ampio spazio per l’arruolamento della loro classe dirigente?
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dum istituzionale del 2 giugno 1946 che fondava la Rrepubblica, non aveva più alcuna giustificazione né storica né politica. Bisogna situarsi nel contesto politico del 1946-1947 per comprendere il perché di un bicameralismo all’italiana. I rappresentanti delle sinistre in Assemblea costituente erano orientati per una sola Camera. Le parti più preoccupate che una vittoria elettorale di in grande schieramento potesse determinare un governo di assemblea, inclinavano per un parlamento bicamerale. Si stentava perfino a trovarne il giusto nome che non rievocasse il Senato regio. E quando nacque sulle labbra il Senato della Repubblica, problema fu
di camere di commercio, di sindacati, di aziende private o cooperative, o imprenditori individuali, proprietari conduttori, dirigenti tecnici o amministrativi di importanti imprese. Avremmo avuto una Camera politica ed una delle formazioni sociali diversamente rappresentative e non come nel testo definitivo, l’una specchio dell’altra, salvo il numero dei componenti. L’eguale competenza nel processo legislativo ha rallentato, quando non ostruito il percorso di un disegno di legge dall’uno all’altro ramo del Parlamento. Le maggiori difficoltà per governare nel nostro Paese provengono da un Parlamento in cui l’una Camera è il dop-
Il maggiore contributo di pensiero alla ispirazione personalista della Carta che si stava elaborando, veniva proprio dalla cultura cattolica la quale, mirando oltre alle categorie della società liberal-borghese e a quella del collettivismo comunista, tendeva a realizzare una più umana comunità civile e sociale quello della sua rappresentatività. Costantino Mortati, illustre costituzionalista cattolico, pensò ad una Camera che rappresentasse le formazioni sociali. Il maggiore contributo di pensiero alla ispirazione personalista della Carta che si stava elaborando, veniva proprio dalla cultura cattolica la quale, mirando oltre alle categorie della società liberal-borghese e a quella del collettivismo comunista, tendeva a realizzare una più umana comunità civile, nella protezione e promozione delle formazioni sociali intermedie tra la famiglia e lo Stato. Perciò il Progetto di Costituzione all’art. 56 conteneva sette categorie di candidabili al Senato. Dunque eletti dai cittadini, non nominati come erano quelli della monarchia, ma eletti con il metodo di eredità giacobina della coincidenza tra elettorato attivo e passivo: ogni cittadino è elettore e eligendo. I senatori repubblicani dovevano essere o essere stati decorati nella guerra di liberazione, Presidenti della repubblica, membri del Governo o parlamentari, consiglieri regionali o comunali, professori di università o accademici, magistrati o funzionari dello Stato, membri di consigli di ordini professionali,
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pione dell’altra. Anziché riflettere su questa struttura, i partiti hanno pensato alla governabilità, attribuendo al capo del governo un potere che provenga da una investitura popolare anziché parlamentare. Così si dimentica che l’art. 139 vieta la revisione costituzionale della forma repubblicana e che la forma repubblicana non significa la restaurazione della monarchia, ma il regime di un governo parlamentare, non presidenziale. Non ci nascondiamo che si opporranno difficoltà tecniche alla eliminazione del Senato. Ad esempio, nella preparazione di una nuova legge elettorale occorrerà prevedere elezioni solo per la Camera e non anche per il Senato. Ma quale consenso verrà di partiti che hanno più ampio spazio per l’arruolamento della loro classe dirigente? Occorrerà una grande determinazione per il gruppo degli innovatori. Del resto, tutto l’orizzonte della revisione della seconda parte della Costituzione è denso di difficoltà che dovranno essere superate e potranno essere superate solo da una classe politica nuova per cultura ed esperienza di una generazione giovane.
di Beatrice Crisci
Riforma elettorale un primo passo per risanare la democrazia A colloquio con il politologo Diego Lazzarich Seconda Università degli Studi di Napoli
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è un tema che da tempo rimane sempre e comunque sul tappeto: è la riforma elettorale. A questo si associa legittimamente o meno la possibile riforma della politica, nella costante ricerca di un mezzo che sia utile per riformare la classe dirigente. Ad illustrarci con molta accuratezza le radici della crisi del sistema politica è il professor Diego Lazzarich, docente di Dottrine Politiche della Seconda Università degli Studi di Napoli. L’attuale crisi della democrazia è un problema nazionale o è una prerogativa occidentale? “C’è crisi della democrazia in Italia ma non solo, tant’è vero che negli ultimi anni se ne discute sempre più diffusamente. Il nostro dipartimento, oltre a produrre convegni, ha realizzato anche una pubblicazione, curata da me e da Alessandro Arienzo, dal titolo Vuoti e scarti di democrazia, edita a Napoli da Esi nel 2012. I risultati depongono sia per una crisi della sovranità popolare degli Stati, visto che la politica è sempre più oggetto di una governance, di una gestione operata da agenzie non rispondenti ai processi democratici, agenzie pubbliche o enti privati (ad esempio Fmi e agenzie di rating), sia per una crisi del “benessere” democratico”.
Crisi solo attuale o rappresentanza come pratica problematica? “La rappresentanza è una prerogativa aristocratica. Se guardiamo alla storia del pensiero politico vediamo che, dalla nascita nell’antica Atene fino al XVIII secolo, la democrazia è stata sempre identificata non con le elezioni, bensì con un altro strumento di distribuzione delle cariche pubbliche: il sorteggio. Berbard Manin in Principi del governo rappresentativo del 1997 sostiene che il sorteggio avveniva ad Atene, ma anche nelle esperienze della Repubblica di Firenze e Venezia. Rousseau, il padre teorico della democrazia moderna in Contratto sociale del 1762 scrive: «La sovranità non può essere rappresentata. Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere». Rousseau ci dice che l’idea dei rappresentanti non appartiene all’orizzonte democratico”.
La modifica della legge elettorale può essere un primo passo per tentare di risanare la democrazia italiana, attaccata su più fronti. La legge elettorale in cui si può scegliere il candidato disarticola in parte la meccanica del leaderismo e responsabilizza i politici: rispondono all’elettorato e meno al leader.
Se non è tipica delle democrazie, di quale altra forma di governo è caratteristica la rappresentanza? “Montesquieu, in Lo Spirito delle leggi del
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OFFICINA DELLE IDEE
Che fine hanno fatto i Partiti?
di massa è quello di realizzare un apparato di connessione con la società civile”.
I partiti sono sempre meno strumenti di connessione con i cittadini e sempre più centri di potere e di interesse, apparati di potere chiusi.
E nei partiti personali? “Dopo il 1989 i partiti sono sempre più personali: il leader sostituisce l’ideologia, è il leader che dona identità al partito e non viceversa. Lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio tra leader e opinione pubblica in un mondo mediatico, gli elettori danno fiducia al leader, il partito diviene più un comitato al servizio del leader e si allontana dalla società, la selezione dei candidati risponde a logiche di fedeltà. La legge elettorale vigente (Calderoli del 21/12/2005) esaspera questa logica con le liste bloccate”.
1748, scrive: “Il suffragio a sorte è tipico della democrazia. Il suffragio a scelta lo è dell’aristocrazia”. A metà 700, Montesquieu e Rousseau attribuivano alla democrazia la prerogativa del sorteggio mentre alle elezioni quello delle aristocrazie”. Perché? “Col sorteggio le cariche vengono distribuite continuamente a persone diverse, anche se tra un numero ristretto; il sistema della rappresentanza ha una natura intimamente aristocratica, tende a distribuire incarichi a una ristretta cerchia di persone selezionate. Da chi sono scelte oggi queste persone? Dai partiti! Col suffragio universale c’è la democrazia dei partiti”. Una domanda sorge spontanea: qual è il criterio di selezione della classe politica operato dai partiti? “Veniamo al dunque. Analizziamo qual è la scelta dei candidati nei partiti ideologici e in quelli personali. Nei partiti ideologici i candidati sono selezionati principalmente in base ai valori del partito. Gli elettori hanno fiducia nel partito, nella sua idea. Il ruolo del partito
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E qui arriviamo allo scollamento tra partiti e volontà popolare “I partiti sono sempre meno strumenti di connessione con i cittadini e sempre più centri di potere e di interesse, apparati di potere chiusi. La classe politica è sempre più un’élite, una casta (Stella-Rizzo, 2007). La bulimia dei partiti sta fagocitando ogni campo del Paese con nomine ad amici. Le manifestazioni di democrazia diretta vengono disattese, come l’articolo 71 per le leggi di iniziativa popolare e l’articolo 75 per il referendum sull’acqua (giugno 2011) inattuato”. Non disturbare il manovratore, quindi. Ma dove ci ha portato il manovratore? È degno di fiducia!? “La modifica della legge elettorale può essere un primo passo per tentare di risanare la democrazia italiana, attaccata su più fronti. La legge elettorale in cui si può scegliere il candidato disarticola in parte la meccanica del leaderismo e responsabilizza i politici: rispondono all’elettorato e meno al leader. Ma per una riforma elettorale dovremmo tenere in mente i due principi fondamentali che ci suggerisce la storia. Il primo è che la democrazia si è quasi sempre identificata con il sorteggio, va recuperata la logica del sorteggi e bisogna fare in modo che le cariche pubbliche non si fermino sempre nelle stesse mani. Il secondo principio è recuperare l’essenza della rappresentanza, la fiducia. Bernard Manin ci ricorda che il rappresentante non è il portavoce dei suoi elettori, ma il loro “fiduciario”.
di Michele Petraloia
Testimoniare i valori e le idealità del lavoro e della sinistra come scelta di vita
* Vicepresidente Giunta Regionale del Molise (foto di Katia Di Ruocco)
La ricerca di una identità perduta
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na sinistra stanca e rassegnata insegue modelli culturali di destra esaltando il neo-berlusconismo che affida all’uomo solo al comando il fallimento ideale di una democrazia partecipata, consapevole e responsabile. La fatica dell’ascolto è derubricata a perdita di tempo in favore di una pratica politica che idolatra lo spot pubblicitario, la battuta ad effetto e l’abilità comunicativa. Non si pensa minimamente a tenere l’orecchio a terra contaminandosi con le contraddizioni di una società complessa che moltiplica per mille le disuguaglianze storiche catalogate per classi attraverso la frammentazione dei deboli e la concentrazione di potere in nuclei sempre più ristrette di oligarchie egemoni. Le sezioni sono state spazzate via dal vento della destra monetarista, illusionista e xenofoba, che festeggia l’errore strategico di una sinistra che ha scelto di misurarsi su un terreno di gioco ostile con armi che non conosce e privandosi dell’entusiasmo e della passione delle persone semplici, del ceto medio e della parte più sensibile e solidale della società italiana. In uno scontro titanico in cui scompare il popolo a vantag-
gio dei mass-media vince chi ha più soldi e non chi ha le idee e le proposte migliori. Il forte non agevola la diffusione di un pensiero politico in cui vengono minacciati i propri interessi. È la legge della giungla che non lascia scampo ai rivoluzionari del sofà che non distinguono le proprie pantofole dal disagio sociale e dalla povertà crescente in cui quote sempre più alte di famiglie si dibattono. Non serve una laurea in scienze politiche per capire che chi detiene la ricchezza non intende mollarla e si adopera con ogni mezzo per accrescerla con avidità e senza scrupoli in una società in cui lo status symbol ha sostituito i valori del lavoro, dell’onestà, del merito e del rigore morale. Le madri che incitano le proprie figlie a scrollarsi di dosso ogni pudore pur di farle apparire su una rivista patinata di infimo ordine o peggio in una passerella televisiva per ruoli da oca giuliva, segnano il ribaltamento di una scala valoriale in cui il macchiavellismo del fine che giustifica i mezzi assurge a stella polare di un simile firmamento sociale. I cittadini possono reagire al degrado imperante riprendendo a tessere la tela dell’unione delle forze e del confronto politico in una struttura organizzata in modo capil-
Nuova identità La sinistra ha il dovere di rialzare la testa destandosi da un letargo ventennale in cui ha scimmiottato la destra alla ricerca di uomini-immagine a cui delegare la soluzione di equazioni irrisolvibili.
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lare e diffusa. Basta rileggere Antonio Gramsci per scoprire l’attualità di un pensiero politico che sprona i deboli a studiare, conoscere, discutere e trovare una sintesi su cui lottare per progettare una società equa, senza discriminazioni e in cui la Carta Costituzionale non sia un orpello di cui liberarsi o più banalmente da ignorare. La sinistra ha il dovere di rialzare la testa destandosi da un letargo ventennale in cui ha scimmiottato la destra alla ricerca di uominiimmagine a cui delegare la soluzione di equazioni irrisolvibili. Per strappare parte di diritti negati e riappropriarsi di quella dignità calpestata non c’è altra strada che quella della lotta politica e sociale, aggregando le persone e battendosi su proposte chiare incardinate sull’uguaglianza, sulla libertà solidale e sulla democrazia partecipata. Personalmente posso testimoniare da operaio metalmeccanico licenziato per rappresaglia sindacale, un vissuto di volontariato e quindi di direzione politica della CGIL fino all’impegno nelle istituzioni culminato nella Vice-Presidenza della Giunta delle mia regione, che al di fuori degli spazi del sindacato, del partito e dell’associazionismo, è praticamente impossibile che una figura anonima e senza santi in Paradiso possa farsi strada. Parlo di un cammino lungo 30 anni, irto di difficoltà incredibili ma ricco di umanità maturata a contatto con la sofferenza che però evolve in esperienza che si restituisce nei luoghi istituzionali in cui si decide e si incide. Anni di vertenze davanti ai cancelli di fabbriche chiuse insieme a operai licenziati leali e coraggiosi, anni di ascolto sul territorio, di dialogo sociale e di titoli che solo l’Università della strada e della vita ti possono dare, che costruiscono una competenza solidale capace di valorizzare il pluralismo orientandolo verso una sintesi su cui tutti si riconoscono. La sinistra si alzi dal sofà, torni nei quartieri poveri tra gli sfrattati a lottare per il diritto alla casa, si mescoli con gli immigrati a cui è negata la cittadinanza, riprenda il vessillo del lavoro, assuma il valore dell’economia sociale di mercato, sostenga le piccole imprese e non lasci sole le cooperative in uno scontro culturale in cui per resistere hanno dovuto introitare il modello del si salvi chi può con le peggiori pratiche dei propri av-
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versari storici. Non si abbia paura ad andare orgogliosi di figure come Di Vittorio, Lama, Trentin, Berlinguer, Pertini, Dossetti, Moro e tanti altri dirigenti che hanno segnato il proprio tempo non piegandosi alle mode come i fuscelli al vento. L’Italia ha bisogno di cose semplici, vere, serie e concrete che non ci regalerà nessuno perché la democrazia non è conquistata mai una volta per tutte, e la giustizia sociale bisognerà riprendersela con la forza delle idee e la determinazione dei pacifisti che non arretrano. Se non la si smette di cercare il principe azzurro sul cavallo bianco ci si rimbocca le maniche rinunciando alle comodità, sacrificando tempo e famiglia, investendo energie e passione, innalzando la bandiera della dignità e lottando giorno per giorno con la calma di Gandhi, la perseveranza di Mandela, l’utopia di Che Guevara, il sogno di Altiero Spinelli e l’umiltà di Madre Tersa, non si andrà lontano.
La forza delle idee I cittadini possono reagire al degrado imperante riprendendo a tessere la tela dell’unione delle forze e del confronto politico in una struttura organizzata in modo capillare e diffusa.
di Mico Capasso
* Presidente della fondazione Meridies
La politica? Passa attraverso la formazione Obiettivo: soffiare sul vento dell’antipolitica
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siste ancora una cultura politica? Da questa domanda, o se si vuole da questa provocazione, hanno preso le mosse una serie di iniziative promosse Link di cui una in Costiera d’Amalfi in partnership con la Fondazione Meridies. Domanda, però, il cui intento non era né quello, ormai diffuso e sedimentato nel senso comune, di raccontare analiticamente l’arco di una parabola negativa; né quello di unirsi al coro di chi, nell’intonare il ritornello della fine della cultura politica, non si avvede di contribuire alla diffusione della patologia più che alla ricerca di una cura. Lo scopo era piuttosto quello di raccogliere e dar voce a chi, consapevole che la sfiducia del cittadino per la dimensione politica si recupera solo interpretando istanze disconosciute e bisogni inappagati, prova a immaginare luoghi nuovi in cui tessere e intrecciare forme di partecipazione autentiche.
Nel passaggio storico che stiamo vivendo, alla crisi intrinseca della cultura politica, che non si vorrà certo negare, si sono aggiunti gli strali inferti da un inedito e composito insieme di interessi corporativi, tecnocratici, finanziari ed editoriali. Obiettivo comune, soffiare sul vento dell’antipolitica, affinché, facendo breccia sulla disillusione del cittadino, ognuno ne ricavasse il proprio particolare, colpendo ora lo stato sociale, ora i diritti sul lavoro (con conseguenti spaccature nelle rappresentanze sindacali), ora la piccola e media impresa, e ciò con promesse mai mantenute di ricambio generazionale, come dimostra il blocco del turnover in molte professioni. Come ha dimostrato Michele Prospero in un suo libro recente, un ruolo essenziale nel linguaggio della pubblicistica e del discorso politico è occupato dalla “‘società civile”, che invece di essere intesa come una polarità dialettica rispetto alle forme rappresen-
La formazione continua Al rinvigorimento della cultura politica è necessaria una costante e mirata iniezione di senso che restituisca effettualità a un nuovo lessico condiviso.
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tative viene considerata come il luogo di proposte e soluzioni indiscutibilmente vere. Intellettuali, conduttori televisivi, giornalisti e leader politici ambiscono di volta in volta a farsene interpreti privilegiati se non paladini. Si potrebbe dire che una neo lingua, diversa da quella descritta da Orwell nel suo celebre ‘1984’, si stia aprendo ormai da anni uno spazio proprio nella cultura politica contemporanea. Alla neo lingua del partito autoritario suggerita nel romanzo, si è sostituita una neo lingua dell’antipolitica. E se non se ne esibiscono gli stilemi e gli slogan si è presto considerati sospetti e complici di voler difendere uno status quo ormai irrime-
si combatte cercandone le cause profonde e non alleviandone i sintomi, come potrebbe fare, ammesso che ciò sia possibile contro un siffatto avversario, una campagna mediatica che combatta sullo stesso piano gli stili dell’antipolitica. Al rinvigorimento della cultura politica, insomma, è necessaria una costante e mirata iniezione di senso che restituisca effettualità a un nuovo lessico condiviso. E una cultura di questo tipo la si costruisce solo attraverso una formazione continua, individuando, o inventando, i luoghi in cui questa può risultare maggiormente efficace. A partire dalle scuole, certo. E orientando la programmazione verso un rilancio non re-
Non si capisce come questa cultura dell’antipolitica possa tradursi in politica senza, a sua volta, essere tacciata di far parte del sistema che vuole combattere diabilmente compromesso. Ora, se l’autoritarismo di questa neo lingua rischia di cancellare la grande cultura politica che l’Italia nonostante tutto ha avuto, il semplice richiamo a questa tradizione appare spesso non all’altezza di interpretare i cambiamenti in corso e le istanze provenienti dai nuovi soggetti sociali emergenti (ne sono un esempio intere categorie di precari e disoccupati cadute in un colpevole vuoto rappresentativo nonché le imbarazzanti posizioni e omissioni su scuola, università e ricerca). D’altra parte invece non si capisce come questa cultura dell’antipolitica possa tradursi in politica senza, a sua volta, essere tacciata di far parte del sistema che vuole combattere (e non c’è bisogno di richiamare con Hegel i paradossi dell’anima bella). Su quale terreno e dove combattere, allora, i refrain dell’antipolitica? E come farlo in nome di un rinnovamento che sappia mediare con le migliori tradizioni della politica senza che queste assolvano ipso facto chi se ne dichiara acriticamente erede? Qui possiamo solo indicare la strada più lunga ché il virus inoculato dalla neo lingua
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torico e astratto dell’educazione civica, non solo come disciplina a se stante, ma come presenza immanente alle discipline umanistiche. Inoltre, sarà fondamentale una nuova gestione di spazi pubblici come biblioteche, mediateche, musei, teatri e auditorium di cui l’Italia è ricca a livello patrimoniale ma altrettanto povera nell’immaginarne nuovi modi di abitarli così da contribuire davvero a ricreare i fili di un tessuto culturale condiviso. Tutto ciò non solo è possibile, ma deve esserlo se l’uomo è costitutivamente un animale politico. E ciò affinché la carta costituzionale non diventi, come abbiamo visto dopo le ultime elezioni, qualcosa da studiare soltanto una volta eletti (magari dopo aver contestato il sistema della democrazia rappresentativa); affinché il cittadino riconosca nel rispetto dell’altro e della natura non l’imposizione di una legge estranea, ma l’appartenenza a una comunità di cui è parte; affinché nessuno si senta solo se per sopravvivere sbarca sulle nostre coste e ci tende la mano. Quella mano che solo un cittadino educato e formato politicamente può stringere con naturalezza e vigore.
Il sistema degli interessi Nel passaggio storico che stiamo vivendo, alla crisi intrinseca della cultura politica si sono aggiunti gli strali inferti da un inedito e composito insieme di interessi corporativi, tecnocratici, finanziari ed editoriali.
di Daniela Mattolini Valgiusti
Donne e impresa Una leadership più forte e creativa a dispetto della crisi
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n Italia, l’imprenditoria femminile è un argomento di recente interesse per il crescente peso economico che stanno acquistando le imprese “rosa” sia a livello nazionale che locale. Parlare di imprenditoria femminile richiede un duplice approccio che consideri sia le tematiche legate allo sviluppo locale in relazione alla crescita d’impresa, sia quelle legate alla presenza femminile nel mercato del lavoro e agli altri ruoli della donna nella società. Riguardo all’impresa al femminile, è importante comprendere quali sono i suoi attuali limiti, le sue risorse e le sue potenzialità e se è in grado di rispondere alle richieste di competitività del mercato attuale. Ponendo l’attenzione sugli interventi legislativi e politici a livello sia comunitario che nazionale e al loro impatto locale, emerge una realtà che sottolinea i vincoli per le donne che decidono di diventare imprenditrici e che le qualifica come utenza “debole” da sostenere.
Uno dei principali aspetti che ostacola la creazione di un’impresa e, più in generale, il lavoro femminile è quello della cosiddetta “doppia” – se non “multipla” – presenza (lavoratrice, madre, moglie, donna di casa). Sempre più spesso le donne si trovano a dover scegliere tra la carriera e la famiglia. La situazione è ancora più complicata quando il ruolo in azienda diventa rilevante in termini di responsabilità e potere decisionale e/o si prospetta la maternità. In questo senso l’era digitale può favorire l’integrazione femminile nel mercato del lavoro. In concreto, emerge che le imprese al femminile assicurano risultati migliori in termini di aumento di fatturato e di produzione e che quindi rappresentano una forza lavoro determinante in Italia, soprattutto tenendo conto che le imprese rosa stanno soffrendo meno la crisi economica rispetto a quelle a conduzione maschile. Le aziende guidate da donne, infatti, continuano a svilupparsi in misura maggiore rispetto alla media nazionale, sebbene con
Imprenditoria in rosa Le aziende guidate da donne continuano a svilupparsi in misura maggiore rispetto alla media nazionale, sebbene con evidenti differenze a livello regionale.
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evidenti differenze a livello regionale. I recenti dati sui fallimenti confermano anche che di fronte alla crisi, che ha generato una netta impennata delle insolvenze, le aziende con donne al comando abbiano resistito meglio di quelle in cui il controllo era completamente maschile. Nonostante ciò, l’imprenditoria femminile è penalizzata dalle banche: quando si parla di micro e piccole imprese una forte penalizzazione riguarda la possibilità di avere accesso al credito. Le imprese guidate da donne sono costrette a pagare un tasso di interesse pari allo 0,3% in più delle aziende con a capo un uomo. Questo diverso trattamento non trova la propria giustificazione nel fatto che le imprese femminili siano più rischiose delle corrispondenti aziende al maschile, tenuto conto che le imprese guidate da donne tendono anzi a fallire di meno. Le
Parlare di imprenditoria femminile richiede un duplice approccio che consideri sia le tematiche legate allo sviluppo locale in relazione alla crescita d’impresa, sia quelle legate alla presenza femminile nel mercato del lavoro e agli altri ruoli della donna nella società. donne, talvolta, sono costrette a fornire più garanzie rispetto agli uomini e sono spesso più in difficoltà anche a reperire i fondi per avviare un’attività in proprio. Emerge, inoltre, che – rispetto agli uomini – le donne: studiano di più, sono più preparate, fanno più formazione, hanno una maggiore tendenza a partecipare a seminari e corsi di aggiornamento per la crescita del proprio profilo professionale e per quello dell’azienda; prediligono maggiormente progettare e investire a basso rischio; sono capaci di creare un clima organizzativo più funzionale; sono più creative, più portate alla relazione, alla condivisione e al trasferimento della conoscenza, a cogliere i bisogni, mentre l’uomo è più interessato al
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Foto di Carlo Hermann
mantenimento dello status quo. Tra le qualità riconosciute al mondo rosa compaiono: la capacità di leggere tra le righe e di cogliere la comunicazione non verbale, cioè cogliere le emozioni che si nascondono dietro un’espressione facciale o che sono mascherate nel linguaggio del corpo; la capacità di essere multitasking o “multi-pensiero” (una donna sa pensare a più cose contemporaneamente e sostenere più discorsi con diversi clienti e interlocutori); la capacità di pensare in astratto e al contempo di essere creativa, mentre gli uomini tendono a prendere decisioni lavorative affidandosi al puro ragionamento e a un forte senso pratico; la capacità di ascolto, che è strettamente legata alla ca-
Cultura d’impresa La realtà imprenditoriale femminile è ancora caratterizzata da una scarsa cultura d’impresa, dalla difficoltà di accesso al credito, dalla carenza, spesso, di adeguata assistenza in fase di avvio di attività o di nuove iniziative, dalla mancanza di azioni di sostegno.
pacità di analisi approfondita del problema. Ultimamente si assiste ad importanti cambiamenti nel mondo imprenditoriale, dove il ruolo della donna è ora rivalutato, con una sempre maggiore apertura al concetto di leadership al femminile. Quelli che per secoli sono stati visti tradizionalmente come limiti vengono così trasformati in valori. Prendono sempre più spazio i concetti di lavoro in team, ascolto, empatia, flessibilità e creatività, tipicamente associati a una sensibilità al femminile. Si registra, inoltre, una sempre maggiore presenza femminile nelle attività autonome e imprenditoriali. Tuttavia, è evidente come la realtà imprenditoriale femminile sia ancora caratterizzata da una scarsa cultura d’impresa, dalla difficoltà di accesso al credito, dalla carenza, spesso, di adeguata assistenza in fase di avvio di attività o di nuove iniziative, dalla mancanza di azioni di sostegno. Diventa, pertanto, fondamentale poter avere dei punti di riferimento, con i quali confrontarsi, chiedere supporto, ausilio per vincere i tanti ostacoli che ancora oggi insidiano il percorso professionale delle donne. La mancanza di donne in ruoli di leadership a fronte di una presenza femminile cospicua ai livelli più bassi è una distorsione che nelle aziende può essere sanata. La perdita di talenti femminili è un problema per le aziende e per la crescita del sistema produttivo ed economico di un territorio, oltre ad essere una questione di genere – si sta facendo sempre più chiara la convinzione che la diversità sia una questione di rispetto e vantaggio competitivo per le imprese. Nell’affrontare l’argomento dell’imprenditoria e della leadership femminile, occorre usare un approccio che consideri le imprese gestite da donne come risorse da valorizzare per la crescita del sistema produttivo ed economico di un territorio, non dimenticando i temi di segregazione nel mondo del lavoro, di doppia presenza, di conciliazione dei ruoli, di welfare, che hanno un enorme peso nella vita delle donne, ne condizionano il loro percorso professionale e, nel caso specifico, la loro impresa.
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di Carlo Porcaro
* Caporedattore Retenews24.it
Le parole della politica dopo Berlusconi Gli italiani aggrappati a simboli, slogan e al carisma in tv
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e parole sono importanti. Urlava Nanni Moretti nel mitico film ‘Palombella rossa’. E se le parole sono importanti, figuriamoci nella politica moderna, intrisa di simboli comunicatici e leaderismo esasperato. Forza Italia, Fratelli d’Italia, Nuovo centrodestra, sono, infatti, i “nomi” con cui avere a che fare nel campo dei liberal-conservatori italiani dopo la drastica scissione tra berlusconiani doc (fedeli alla linea del Capo, come avrebbero cantanto i CCCP di Giovanni Lindo Ferretti) e gli alfaniani che restano invece fedeli alle poltrone del Governo Letta (targato of course Napolitano). Forza Italia è un anti slogan, risultato vincente negli anni, benché, sapesse tanto di Nazionale di calcio. Fratelli d’Italia rimanda ai valori storici della destra, in primis la Patria (possiamo davvero dire di averne una oggi nel mondo iperglobalizzato?) mentre Nuovo Centrodestra è il nome che più fa riflettere perché apre due strade che avranno inevitabili ricadute anche sul nostro territorio, quella Campania dove ci sono tanti berluscones, molti ex missini, e tanti democristiani contenti di tornare tali sotto altre spoglie. Gli azzurri sono sempre stati numerosi in Campania, Napoli è sempre stata terra di conquista di Berlusconi sino all’ultima campagna elettorale. Devo riconoscere che il dirigente renziano del Pd, Alfredo Mazzei, mi confidò che in Campania avrebbe vinto
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il centrodestra ed io rimasi alquanto sorpreso di questa previsione. Invece, così fu. Segno tangibile che qui da noi Silvio, col suo messaggio diretto e populistico, va dritto al cuore e strappa consensi. Pochi, pochissimi, ammettono di averlo votato, e poi si ritrovano oceaniche percentuali. Sarà ancora così per la rinata Forza Italia, priva di una consistente quota trasmigrata da Alfano che sembra aver trovato il famoso quid? Un ruolo, non c’è che dire, lo eserciterà il governatore campano Stefano Caldoro in prima persona. Innanzitutto, perché comanda, e dalla stanza dei bottoni è più facile farsi sentire. Tanti ti seguono perché sei lì, non perché sei Stefano. Inoltre, il numero uno di Palazzo Santa Lucia vanta l’abilità di sapere mediare tra le varie parti in gioco: deve tutto a Silvio e lo sa, ha buoni rapporti con i ministri Alfano e Lupi sotto la cui veste ha “infilato” Severino Nappi, nella nuova destra sociale ha “piazzato” Marcello Taglialatela. Non è scoperto da nessuna parte, insomma, in modo da poter essere ancora lui per i prossimi due anni almeno il dominus del campo opposto a Renzi. Perché di questo si tratta. Non è la destra, e neanche la non sinistra, ma il non Renzi. Che sia proprio lui, più che Fitto o il redivivo Passera, l’homo novus del dopo Berlusconi? Potrebbe mai rifiutarsi? Appare improbabile. Di certo, il primo importante banco di prova saranno le elezioni europee dove si cimenteranno per la prima volta
Alla ricerca di una identità L’Italia non è di sinistra. Ma non è neanche di destra. Almeno secondo l’interpretazione classica di queste due categorie ormai superate dai fatti, dalla storia, dalle persone che attirano tutto su di sé indipendentemente dai valori che incarnano.
La legge del più forte Smottamenti delle coalizioni e riposizionamenti. Si finisce con il seguire chi comanda, nella stanza dei bottoni.
Foto di Livia Crisafi
nuovi simboli come appunto Ncd e Fratelli d’Italia che dovranno infatti studiare nelle prossime settimane possibili alleanze al fine di superare la percentuale richiesta per mettere piedi a Strasburgo e Bruxelles. Una domanda, infine, sorge spontanea in questa fase di totale smottamento delle coalizioni e riposizionamenti conseguenti: c’è spazio per una vera destra in stile europeo, come avrebbe voluto Gianfranco Fini ma si è smarcato dallo sdoganatore troppo tardi e procedendo a tentoni? L’Italia non è di sinistra. Ma non è neanche di destra. Almeno secondo l’interpretazione classica di queste
due categorie ormai superate dai fatti, dalla storia, dalle persone che attirano tutto su di sé indipendentemente dai valori che incarnano. Renzi è di sinistra? Al massimo della nuova sinistra, quella 3.0. Berlusconi era di destra? Mah, in parte soltanto. Allora una vera destra, compreso in Campania, potrà nascere nel caso in cui Berlusconi scomparisse del tutto dalla scena politica. Circostanza che escluderei almeno fino al prossimo maggio. Saremo sempre più aggrappati ai simboli, agli slogan, al carisma di chi si propone in tv. Piaccia o no.
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Foto di Salvatore Laporta
QUI ED ORA
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di Massimo Adinolfi
* Professore associato,
Le parole d’ordine per il PD dopo l’otto dicembre
Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute presso l’Università di Cassino.
Riforma elettorale - tagli alla spesa - lavoro - diritti
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na rivoluzione della semplicità (Renzi, alla Leopolda) o una rivoluzione della dignità (Cuperlo, nel documento programmatico)? Civati e Pittella non hanno declinato il loro programma in termini rivoluzionari, come i due principali sfidanti alle primarie del Pd, ma magari si staranno attrezzando alla bisogna. Intanto, l’asticella resta fissata dai due così in alto da esigere nientedimeno che una rivoluzione. Per il Pd e per il Paese. Magari bella e gentile, come direbbe Cuperlo, o smart e cool, come sicuramente preferisce dire Renzi. Ma una rivoluzione. Di linguaggi, forse, di stili ed esperienze: probabile. Ma di contenuti: anche? Quanto distano i loro programmi dal sol dell’avvenire che la parola «rivoluzione» una volta, in un tempo ormai incredibilmente lontano, prometteva? Niente cacciaviti, dice Renzi: ci vuole il caterpillar. E Cuperlo, dal canto suo: «non siamo nati per correggere la punteggiatura alla destra». Bene, guardiamo ai sostantivi, allora. Una volta, in vista del congresso, i partiti montavano macchine ideologiche imponenti. Oggi, per tirar su i gazebo ci vogliono quindici euro per la tessera oppure due soltanto per votare alle primarie: nient’altro. Pochi ovviamente confessano nostalgia per le polverose tesi congressuali di una volta, tutti poi temono la malattia del programmismo che, al tramonto delle ideologie, partorì con l’Unione di Prodi un programma di quasi trecento pagine (chi ne conserva memoria?). Ma una via diversa tanto dalle liturgie d’antan, quanto da un elenco pletorico di cose da fare, quanto infine da una semplice operazione di marketing politico ed elettorale è in grado il Pd di percorrerla? Prima di arrivare al traguardo dell’8 dicembre, in questo fantastico
gioco dell’oca che sono le primarie, si può chiedere di fermarsi almeno un giro su 10 caselle, su dieci domande da cui ricavare il profilo di un partito di sinistra finalmente, chiaramente riconoscibile? Proviamoci, allora. Europa Non c’è atto significativo del governo italiano che non passi attraverso il vaglio europeo. Domanda: l’Europa è qualcosa di più di un simile vaglio? È dovere di una sinistra europea metterci qualcosa in più, o si può stare tutti allineati e coperti sotto l’ombra imponente dell’Eurotower, dove ha sede la Banca europea? Qual è il luogo, l’istituzione, il consesso in cui l’Europa riesce ad essere di più di una suprema istanza di controllo? In quale direzione debbono essere riformate, se debbono esserlo, le istituzioni europee? E soprattutto: non c’è, se non contraddizione, perlomeno attrito fra la critica all’attuale assetto dell’Unione europea e la rivendicazione, come miglior risultato dell’esperienza di governo di centrosinistra, nel corso degli anni Novanta, dell’ingresso nell’Euro, condotto sotto il tallone dei parametri di Maastricht? Non occorre che il partito democratico dica con chiarezza se e quanto gli piace la sinistra europea che andò al governo negli anni Novanta, quella di Blair e Schröeder?). Riforme istituzionali, elettorali Al centrosinistra dobbiamo una frettolosa riforma del titolo V della Costituzione, di cui non si trova oggi un solo difensore convinto. Non sarà stato un porcellum, ma poco ci è mancato. Così oggi non si sa bene cosa sia rimasto nel centrosinistra dell’ubriacatura federalista che generò la riforma. Complice il declino della Lega, la parola è ormai quasi del tutto assente dal dibattito pubblico, senza che però ci sia stato un vero ripensamento sull’argomento. L’abolizione delle province, quando
Per il PD e per il Paese Si può chiedere di fermarsi almeno un giro su 10 caselle, su dieci domande da cui ricavare il profilo di un partito di sinistra finalmente, chiaramente riconoscibile? Proviamoci, allora.
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si troverà qualcuno che la faccia davvero, andrà pure bene, ma le Regioni: le teniamo così come sono? Più in generale, la domanda è: da quale cultura politica muovono i propositi di riforma? Perché, della legge elettorale attuale non se ne può più, ma la scelta di un sistema di voto o di un certo equipaggiamento istituzionale non deve forse rispondere, per un partito di sinistra, a qualcosa di più di un semplice efficientamento del sistema? Neo-parlamentalismo o semi-presidenzialismo, un turno o due turni, proporzionale o maggioritario: sono tutte scelte neutre rispetto all’asse destra/sinistra o invece lo fanno ruotare da qualche verso? Ed anche in questo caso non occorre che sia prima reso un giudizio sugli anni Novanta? Non sono stati innanzitutto gli interventi sulla legge elettorale di quegli anni a consegnarci questa scalcagnata seconda Repubblica? Giustizia Complice Berlusconi e le sue disavventure giudiziarie, da troppi anni sul terreno della giustizia essere di sinistra significa soltanto acchiappare il topo. Che si tratti di topi grossi o piccoli, sempre di acchiapparli si tratta, mentre un tempo si trattava casomai di farla scampare al povero cristo. Nessuno ovviamente chiede di indietreggiare sul terreno della legalità, tanto più in un paese come l’Italia che di certezza del diritto ne conosce assai poca, e in un’area del Paese – il Mezzogiorno – che soffre cronicamente di scarso rispetto della legalità e dell’etica pubblica – ma la domanda su come si qualifica una forza politica di sinistra su questo terreno va posta. In Europa si denuncia il pericolo di un crescente populismo penale: in Italia? Qualcuno ne ha notizia, fuori dai convegni studi? E più in particolare: va tutto bene dalle parti della custodia cautelare, o se ne fa un uso sproporzionato? E la separazione delle carriere: è ancora un tabù o si può provare a discuterne? Siamo certi che l’assetto del sistema giudiziario, in Italia, non sia, in tutte le sue componenti, viziato da un eccesso di spirito di corpo? Cittadinanza, immigrazione, diritti civili Premessa: la sinistra sta dalla parte del lavoro; in Italia, cresce la quota di lavoratori stranieri. Conclusione: la sinistra perde voti, visto che diminuisce il numero di lavoratori... Il sillogismo non è impeccabile, perché la prima premessa è sempre meno vera, ma proprio perciò
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non può essere evasa la domanda: ci sono margini di recupero su quel versante? Oppure si possono abbandonare settori crescenti della popolazione lavorativa a condizioni di marginalità? Il Pd ha rinunciato a chiamarsi socialista, socialdemocratico, o del lavoro (e però si appresta a entrare nella famiglia del socialismo europeo). Al netto delle controverse vicende storiche dei partiti della sinistra italiana, si può leggere questa scelta in due modi. Uno ambizioso: il problema del lavoro si è approfondito a tal punto da porre una questione di democrazia; l’altro meno ambizioso: meglio rimuovere il problema, perché elettoralmente frutta molto poco. Mezzogiorno Con la seconda Repubblica la «questione meridionale» è caduta nell’oblio: è in grado il Pd di riprenderla convintamente in mano? Un tempo sinistra voleva dire mezzogiorno. È in grado il Pd di pronunciare un giudizio di verità sullo stato della sinistra meridionale, anche alla luce di un risultato elettorale – quello di febbraio – deludente in generale ma disastroso al Sud? E, se è in grado, da dove vuole cominciare? Bisogna ricostruire un capitale di fiducia e creare le migliori condizioni per investire, altrimenti ogni euro sarà sprecato, oppure bisogna tornare a investire per produrre risultati anche sul fronte della crescita civile? Non tutte le ricette si equivalgono, mentre forse, se è lecito dirlo, il Sud d’Italia equivale sempre più drammaticamente alla Grecia. E allora: cosa propone? Va bene per il Mezzogiorno la ricetta della troika europea, il risanamento a colpi di tagli e uno strisciante commissariamento? Oppure la cura di cavallo rischia di ammazzare il paziente? E qual è la cultura economica del Pd: una variante temperata di liberismo o una variante rinnovata di keynesismo? O né l’una né l’altra? Politica industriale Già, qual è? Se il neoliberismo è il male, il neostatalismo è la via? Se il primo invece non è così male, il secondo è tutto da buttar via? E alla fine dei conti: si può ancora fare una politica industriale? Tanto per dirne una, che conviene tenere sotto stretta osservazione: il Ministro del Tesoro Saccomanni ha chiesto una riflessione sul destino di due aziende come la Rai e l’Eni. Cosa ha da dire la sinistra a questo riguardo? Si può dare una scossa all’economia, di cui pure si sostiene la necessità,
Foto di Roberto Salomone
Economia e lavoro Il mercato del lavoro è stato oggetto di aspre contese senza però che si siano risolti i problemi che lo affliggono.
mettendo la Rai e l’Eni sul mercato? E la selva di incentivi, che ancora piovono sulle imprese, non finisce ogni volta col cadere, come dice la Bibbia, sia sui giusti che sugli ingiusti? Lavoro Il mercato del lavoro è stato oggetto di aspre contese senza però che si siano risolti i problemi che lo affliggono. Abbiamo tassi di disoccupazione molto elevati: ora, cosa è più di sinistra: preoccuparsi di come migliorare l’ingresso nel mondo del lavoro o di come frenare l’uscita, anzi l’emorragia? In condizioni di grave sofferenza sociale, cassa integrazione e mobilità in deroga sono destinati a crescere. Ma rappresentano una fisiologia o una patologia? La sinistra è quella che difende questi strumenti o quella che se ne inventa degli altri? Reddito di base, reddito di cittadinanza, reddito minimo: quale di queste proposte il Pd fa sua?… il primo che trova una sintesi fa davvero la rivoluzione. Spesa pubblica La struttura della spesa pubblica: come si fa la rivoluzione della semplicità o quella della dignità, in questo ambito? È di sinistra dire che si spende troppo, per cui non ci sono risorse per destinarle, o dire che si spende non solo
male ma poco, perché occorrono interventi anticiclici? La spesa pubblica ha solo un significato negativo o anche uno positivo di sostegno alla domanda, di protezione di alcuni beni dagli effetti indiscriminati della loro commercializzazione? D’altra parte, è di sinistra o di destra mantenere tal quale l’attuale composizione della spesa pubblica? La spending review di Monti e, ora, di Letta è una politica giusta, una politica sbagliata, o è il modo sbagliato di fare una cosa giusta? Ambiente Con il commissariamento dell’Ilva di Taranto, lo Stato ha preso in mano le redini di un’impresa privata per tutelare la salute pubblica. È di sinistra la denuncia allarmata di un’emergenza ambientale più che non il tentativo di avviarla a soluzione. C’è ormai nell’opinione pubblica una diffusa sensibilità ambientale, ma non è sufficientemente robusta. Su questo senso comune non si innesta, a sinistra, anche una sorta di fondamentalismo ambientalista? Ci sono o no forme di luddismo e un’avversione di principio al diabolico produttivismo oppure basta davvero non costruire, non sprecare e in definitiva non consumare per tutelare l’ambiente? Università In un Paese che fa fatica a realizzare riforme, il settore universitario e della ricerca è forse quello più ampiamente investito da interventi legislativi rivoluzionari. Chi provasse a riconoscere il colore politico dei ministri succedutisi fino ad oggi in base agli atti assunti, avrebbe serie difficoltà a distinguere quello di destra da quello di sinistra. Si dirà: è stata dunque la volta buona in cui sono finalmente cadute le pregiudiziali ideologiche. Può darsi, ma il risultato è stato assai inferiore alle attese. Gli iscritti sono calati: il contrario del risultato che si voleva ottenere. La ricerca è rimasta là dov’era. Cosa significa allora puntare sulla formazione, sulla scuola, sull’università? Significa esaltare la logica meritocratica e tagliare tutti i rami secchi? Oppure la sinistra deve sentirsi assillata ancora dalla domanda egualitaria: e cosa ce ne facciamo di chi demerita? Ma, per restare al merito, come si misura il merito nel caso di un’istituzione pubblica? E se non lo si sa fare, non è meglio che lo faccia il mercato? Bisogna puntare sull’eccellenza o sulla diffusione del sapere? Dobbiamo avere anche noi una Har.
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Otto dicembre: una bella giornata di democrazia Trionfo di Renzi, sconfitta brutale per Cuperlo e imprevista ascesa per Civati
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enzi al 68%, Cuperlo al 18%, Civati al 14%. Il timore di una bassa affluenza alle urne è svanito. Gianni Riotta, dagli studi del Tg1, senza indugi commenta: “Una bella giornata di democrazia, oggi il Pd è entrato nella terza repubblica”. Gad Lerner, stile asciutto, dal suo blog è anche più esplicito: “Più ancora che la nettezza della vittoria di Renzi - scrive - mi impressiona la brutalità della sconfitta di Cuperlo (il candidato da me votato). Rispetto al 18% nazionale, la sua percentuale si abbassa nelle ex regioni rosse come Emilia Romagna e Toscana. Ma soprattutto viene superato da Civati e scivola al 15% in Lombardia e Piemonte. Non lo si poteva indicare più chiaro di così:
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di Ilaria Perrelli
neanche il popolo di sinistra (ex comunista e ex dc) tradizionalmente inteso - continua Lerner - è disposto a lasciarsi ancora rappresentare dalla vecchia guardia dei D’Alema, Marini, Bersani, Fioroni. Cuperlo ha ritenuto, a torto o a ragione, di dovergli restare leale a costo di sopportare la nomea di grigio funzionario d’apparato, difensore dello status quo. E l’ha pagata cara. Mi dispiace due volte: per lui che è una persona molto diversa e migliore del vecchio dalemiano in cui s’è lasciato rinchiudere; ma soprattutto per il danno che la sua sconfitta reca a tanti argomenti e luoghi di militanza di una sinistra ancora necessaria”. È tutto qui il senso del voto dell’8 dicembre: grande partecipazione per molti versi inattesa, una fiducia riposta nel Pd che con, 3 milioni
Campania Cuperlo al 28,7%, percentuale di dieci punti più alta rispetto a quella nazionale, Renzi arriva al 62,3% e Civati si ferma al 9,1%.
di votanti, vince la sua sfida contro l’antipolitica, e la forte discontinuità. Lo sa bene Renzi che, non a caso, dichiara subito: “non c’è più alibi per nessuno, non c’è più alibi per il cambiamento. Tocca alla nuova generazione guidare la macchina”. E poi aggiunge: «Ora non finisce la sinistra, finisce un gruppo dirigente della sinistra. Questa non è la fine della sinistra, è la fine del gruppo dirigente della sinistra. Stiamo cambiando giocatori che adesso hanno bisogno di essere sostituiti. Non stiamo andando dall’altra parte del campo. Non voglio essere ingeneroso nei confronti di quelli che ci hanno preceduti, ma ora tocca a noi». Per chi è stato ai seggi, soprattutto in quelle zone dove più forte è il voto d’opinione, come ad esempio nella prima circoscrizione di Napoli (Posillipo, Chiaia, San Ferdinando), già domenica pomeriggio si capiva l’aria che tirava: nella foga rottamatoria, Renzi volava, Civati raccoglieva un voto di sinistra e Cuperlo, suo malgrado, era stato relegato al candidato d’apparato o, nella migliore delle ipotesi, dei nostalgici. Matteo Renzi è oltre l’80% a Siena, sbanca in Emilia, conquista l’Umbria: la mozione Cuperlo si attesta attorno al 18% già a metà dei seggi scrutinati. Le uniche consolazioni sono al Sud dove va meglio, la Campania, insieme alla Basilicata e alla e Calabria si attesta il titolo di regione tra le più cuperliane d’Italia. In Campania i dati del sito del Pd dicono che, Cuperlo si attesta al 28%,7, percentuale di 10 punti più alta rispetto a quella nazionale, Renzi, arriva al 62,3% e Civati si ferma al 9,1%. Unico dato in controtendenza, l’affluenza. Perché in Campania si perdono quasi 112mila elettori, 32mila rispetto alle primarie di Bersani di un anno fa. Renzi vince in tutti i capoluoghi, tranne a Benevento dove ha la meglio Cuperlo: su 3533 voti 2088 votano l’ex segretario della Fgci, 1246 scelgono Renzi e 198 Civati. Le zone interne premiano il deputato triestino, ad Avellino Renzi vince ma Cuperlo supera il 30% in tutta l’Irpinia. A Caserta Renzi vince dovunque tranne a Marcianise e Piedimonte Matese dove viene sconfitto da Cuperlo. A Salerno stavolta non accade nulla di strano e Renzi si ferma al 71 per cento. A Napoli Cuperlo arriva al 30,1% ma riesce a vincere solo a Barra, mentre a Chiaia e Posillipo arriva terzo, dopo Civati che conferma un exploit a Pomigliano . E’ un ri-
I TRE CABALLEROS DEL PD
Diciamo la Verità: i tre competitori delle primarie del PD, in due mesi hanno liquidato la vecchia politica, la vecchia nomenclatura e il surreale linguaggio del politichese. Hanno offerto Renzi, Cuperlo e Civati un’immagine alternativa alla cosiddetta casta. Giovani, brillanti, radicati, con esperienze alle spalle hanno riportato ai circoli e ai gazebo milioni di persone e tantissimi giovani. Diversi tra loro, ma insieme compongono l’icona del PD. Una sfida tra idee, sogni, battute, ma a modo loro i tre caballeros hanno sorpreso un po’ tutti. A modo loro sono personaggi sorprendenti! Civati, l’eretico, studioso di Giordano Bruno, pronta la battuta, il sorriso sornione, Chevati l’antagonista dolce e selvaggio. Renzi, che si è liberato del grande equivoco del consulente Giogio Gori, ha recuperato tra i militanti e il popolo del centrosinistra. Lui indigesto a sinistra e simpatico a destra. Il melting pot culturale si addice a Matteo che vuole una sinistra larga e fluida da Blair a Checco Zalone. L’altro “bello e democratico” più di Gary Cooper, ha due handicap: è il più intellettuale fra i tre ed è appoggiato dalla vecchia nomenclatura. Quando parla della sinistra, dei suoi valori, della sua storia, usa citazioni, aneddoti che riscaldano il cuore e un po’ meno la pancia. Il duo, doppio panzer Letta-Napolitano se la vedrà con questi tre caballeros, che hanno sì stili e prospettive diverse, ma nessuno di loro sfigura accanto ai gruppi dirigenti dell’Europa di oggi. Nuova frontiera di una politica che ritrova efficacia, credibilità, fiducia e onestà. Il PD è un partito vero, fatto di tante cose: militanti, simpatizzanti, volontari, gente che ha abbandonato e potrebbe rientrare, anzi che è già rientrata grazie a questi tre laeder. In politica devi dare segnali forti. Il popolo delle primarie c’è, con le sue idee, i suoi progetti, le sue speranze e la sua pazienza. L’8 dicembre è nato il nuovo PD A Maronn v’accumpagn! S.C.
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sultato che in regione scardina i vecchi equilibri politici e la maggioranza che fin qui ha governato il partito e che di fatto apre nuovi scenari per il congresso regionale. Renzi tiene il suo discorso dal teatro Obihall, presso la riva dell’Arno di Firenze. Esordisce con un «L’avete presa bene direi, eh?». Lo accoglie una folla in festa con un lungo applauso. Conclude promettendo «che il meglio deve ancora venire. A noi - dice - il compito di giocare in grande e di dare fiducia all’Italia. Il meglio deve ancora venire, da domani ci divertiamo insieme». Il neosegretario chiarisce che tutto deve cambiare, che il partito dovrà liberarsi di liturgie e correnti, a partire dalla sua, che il sindacato “deve cambiare con noi» e poi avverte: «Noi non cambieremo gruppo di potere, tutti questi voti li abbiamo avuti per scardinare il sistema, non per sostituire il loro gruppo dirigente con il nostro». Ai teorici dell’inciucio dice “con le primarie vi è andata male”. E garantisce: «Il bipolarismo oggi è salvo. Due milioni e mezzo di italiani vi hanno detto no grazie». Infine ringrazia Pippo Civati, chi lo avrebbe mai detto tre anni fa che la Leopolda avrebbe avuto la maggioranza nel Pd?». E rivolge un grazie speciale a Gianni Cuperlo, a cui vorrei che dedicassimo non soltanto un applauso, se c’è una persona nel Pd con cui vorrei dialogare e discutere quella è Gianni Cuperlo». A Roma, al Tempio di Adriano, accolto da un caloroso applauso e da lunghi abbracci dei militanti, Cuperlo alle 21.45 già si avvia al piccolo podio dal quale tiene il suo discorso della sconfitta. «Oggi ha prevalso un’altra impostazione – dice - un cambiamento diverso da quello che avevamo pensato noi e non resta che prenderne atto». Lo dichiara in conferenza stampa al Tempio di Adriano a Roma quando l’esito delle primarie del Pd è inequivocabile e dopo aver fatto i complimenti a Renzi. «Per quanto mi riguarda, il mio sarà un comportamento leale e sincero verso Renzi, così come è stata leale e sincera la discussione di queste settimane», sottolinea. «Quell’impianto culturale e di valori che abbiamo portato avanti non si esaurisce con il voto di oggi ma sarà per il nuovo segretario un contributo costante». E’ questa la sfida da cui si riparte. Quel Pd che dalla sua nascita non ha fatto i conti con la costruzione di una profilo culturale e di un’identità forte è alla prova dei fatti.
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Lo sa Renzi, lo sanno Cuperlo e Civati. Renzi sa che per vincere la sfida da segretario non può più recitare la parte dell’outsider, non può schiacciarsi tra Grillo e Berlusconi, più che scardinare un partito che è già logoro, ha il dovere di includere e di costruire nuovi assetti sui territori, restituendo autorevolezza e dignità alla politica con atti concreti. Non a caso, come aveva promesso, a pochissime ore dalle primarie presenta in conferenza stampa la segreteria, la sua squadra di giovani e donne, dove entrano due campani, Francesco Nicodemo, renziano della prima ora, già responsabile comunicazione del Pd a Napoli, e Pina Picierno, che fu scelta da Veltroni nel 2008 capolista in Campania.Cuperlo e Civati invece sanno che la sfida della sinistra è nel Pd, che è quello il “gorgo” di ingraiana memoria. E da lì si riparte. Non a caso, forse, a mezzanotte, a spoglio ancora aperto, su Facebook nasce un gruppo: “La sinistra Pd riparte da noi aperto alla partecipazione di coloro che hanno deciso di non fermarsi alle primarie dell’8 dicembre, che non accetta di farsi esodare, che sceglie di restare nel PD insieme a chi nel PD non vuole entrare ma che condivide l’idea della ricostruzione di una vera comunità. E Cuperlo quasi contemporaneamente utilizza la metafora del viaggio: “Se la politica fosse un viaggio – scrive - bisognerebbe dire che anche per noi esistono due tipi di stazioni: quelle dove i binari finiscono, e quelle dove il treno si ferma, ma poi riprende a muoversi in avanti perché i binari continuano. Ecco noi abbiamo fatto un pezzo del viaggio. Però dobbiamo saperlo, dobbiamo dirlo: il treno dove siamo saliti è il nostro treno. E non scenderà nessuno. Adesso si va avanti, investiremo su quello che abbiamo fatto e in uno spirito unitario noi non rinunceremo alle nostre idee e al loro valore. Lo faremo con un partito più forte che non potrà comunque mai rinchiudersi dentro le istituzioni pensando di fare a meno del suo popolo. Tutto questo lo faremo con un nuovo segretario, che sarà il segretario di tutti, ma noi lo faremo. Perché davanti a noi c’è ancora una lunga strada da percorrere, soprattutto c’è un tempo nuovo da vivere e noi ci saremo”. E Civati aggiunge: “Avremmo potuto fare di più per la sinistra, che però c’è e fa del Pd ancora un partito di sinistra. Ora “continueremo così”.
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INTERVISTA A ROSETTA D’AMELIO
Le donne del PD Rappresentanza di genere e pari opportunità a cura di Paola Bruno
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ntervista a Rosetta D’Amelio, componente della direzione nazionale del partito democratico, consigliere regionale della Campania. Rosetta D’Amelio è una donna impegnata in politica, è stata sindaco di Lioni, assessore alle politiche sociali e alle pari opportunità della Regione Campania, una donna energica e combattiva da sempre al fianco dei più deboli e della sua terra Avellino. Vorremmo parlare con lei del ruolo delle donne in questo congresso del Partito “Lo Statuto del Partito Democratico è stato davvero innovativo sul tema della rappresentanza di genere. Questi temi della rappresentanza e delle pari opportunità anche nei luoghi di lavoro sembrano temi ormai scomparsi dall’agenda politica del Partito Democratico, la divisione correntizia ha raggiunto livelli intollerabili e sacrifica tute le esperienze di autonomia ed in particolare le donne autonome non incasellate. Mi sembra che chi non è intruppato in correnti nazionali non abbia neanche il diritto di stare in questo partito, che è nato con idee ed intenzioni ben diverse. Ricordo che da giovane insieme a tante altre donne decidemmo di non schierarci al congresso e decidemmo di scrivere un documento, che chiedeva la rappresentanza per le donne per renderle autonome, con nostra grande sorpresa il documento ebbe un grande
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successo e si apri un dibattito politico: “ecco è questo che ho visto debole in questo congresso la discussione sulle idee!”. Lei chi ha scelto di sostenere in questo congresso? “Per le mie caratteristiche politi e per la mia storia di appartenenza ho scelto di sostenere Cuperlo. Come sempre una scelta autonoma e non condizionata da convenienze o strategie, ho deciso di non candidarmi all’assemblea nazionale collegata all’elezione dei segretari. Anche perché non ho visto nessuna slezione di donne che rappresentano i territori.” Cosa ne pensa delle primarie? “Le primarie sono uno strumento previsto dallo Statuto Nazionale del mio Partito. Secondo me le primarie aperte sono importanti, ma un partito serio deve anche saper selezionare la sua classe dirigente in modo corretto. Anche il tesseramento è un argomento serio da monitorare nel nostro territorio: “non si puo tenere aperto il tesseramento fino al momento del voto”. Il tesseramento di un partito va chiuso nel momento in cui si indice il congresso”. E della legge elettorale nazionale che né pensa? “La legge elettorale ha degli aspetti chiara-
La mia azione di consigliera regionale è quella di incentivare le proposte di legge che promuovono servizi e risorse nel senso della formazioe costante e della promozione dell’imprenditorialità femminile.
mente antidemocratici, i cittadini sono espropriati dal loro voto e solo chi è più fedele al capo può essere eletto all’assemblea parlamentare, questo è un aspetto gravissimo che abbiamo cercato di arginare con le primarie per i parlamentari nel Partito Democratico. Al Senato per le elezioni politiche dovevamo selezionare per vincere, invece, abbiamo ridato fiato al Pdl, calando dall’alto decine di persone lontane dalle aspettative dei territori e delle donne e degli uomini della Campania. È sicuramente molto diversa dalla legge elettorale della regione Campania, che è stata una legge voluta dalle donne, con la doppia preferenza di genere, che ha permesso una più ampia rappresentanza delle donne. Infatti oggi siedono 14 consigliere nel consiglio regionale della Campania. Inoltre, la legge, è stata declinata anche per i consigli regionali. Adesso questi strumenti vanno seguiti, monitorati e verificati sull’applicazione”. Come ha contribuito da consigliere regionale alla presenza di più donne nelle istituzioni politiche? “Il mio impegno è stato costante in questo senso, da ragazza ho sempre creduto alla necessità di più donne in politica e nelle istituzioni, non solo perché sono più capaci di risparmiare ma anche perché meno corruttibili. Rispetto alla mia azione con la Delibera n. 1368 del 2006 della Giunta Regionale della Campania, denominato, Atto di indirizzo in materia di parità di genere nelle nomine di competenza della Giunta Regionale, è stato sancito il principio di attenersi nelle nomine di propria competenza negli Enti o nelle aziende di proprietà o partecipate con quota di maggioranza o di minoranza dalla Regione Campania, al principio di parità di genere nella composizione degli organi di amministrazione, gestione e controllo (con la previsione della decadenza degli organismi nominati se uno dei generi non è rappresentato almeno al 40%). Con la Legge Regionale n. 5 del 30 marzo 2012 “Norme in materia di agricoltura sociale e disciplina delle fattorie e degli orti sociali”, per favorire il recupero delle tradizioni e delle attività femminili. Con la Legge Regionale sulla “Conciliazione dei tempi di lavoro” ad iniziativa della consigliera Lucia Esposito sottoscritta da tutte le
consigliere regionali del Partito Democratico. Con Legge Regionale contro la violenza sulle donne, una legge bipartisan e che è stata approvata da un consiglio regionale mai così popolato di donne, ben 14 su 61 consiglieri. Da Presidente della Commissione speciale in tema di politiche giovanili, disagio sociale e occupazione sto preparando una legge quadro per i giovani, che sono quelli che stanno pagando più degli altri i costi della crisi, per i giovani che hanno figli e non trovano servizi adeguati per conciliare con il lavoro. La mia azione di consigliera regionale è quella di incentivare le proposte di legge che promuovono servizi e risorse nel senso della formazioe costante e della promozione dell’imprenditorialità femminile, argomenti del tutto accantonati dalla giunta di Caldoro, anche nella riprogrammazione dei Fondi europei 2014-2020 e nonostante le raccomandazioni dell’Unione Europea sull’occupazione delle ragazze e delle donne agli standard europei”.
La legge elettorale Ha degli aspetti chiaramente antidemocratici, i cittadini sono espropriati dal loro voto e solo chi è più fedele al capo può essere eletto all’assemblea parlamentare, questo è un aspetto gravissimo che abbiamo cercato di arginare con le primarie.
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di Umberto de Gregorio
VISTO DA VICINO:
Matteo Renzi... La promessa di un nuovo PD
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eciso, ambizioso, iperattivo, diretto, molto simpatico, ma capace di essere odioso. Neo-populista nel linguaggio senza tuttavia mai cedere al populismo nei contenuti. Matteo Renzi sembra essere l’unica risposta “politica” all’antipolitica ed all’antieuropeismo in salsa Grillo o Berlusconi. La critica più ricorrente che è stata rivolta, soprattutto da sinistra, a Matteo Renzi è che somiglia troppo a Berlusconi e che suscita simpatie nei berlusconiani. Sono naturalmente due concetti molto diversi. Somiglia a Berlusconi in cosa? Nello stile di vita, nella ricchezza, nel conflitto d’ interessi, nei danni che ha provocato in politica, nell’etica? Certamente no. Somiglia a Berlusconi per alcune sue idee? Forse si e Renzi lo dice apertamente: sono un liberale convinto, occorre eliminare lacci e lacciuoli, è necessario abbassare le imposte per creare sviluppo e ridurre il peso dello Stato. Sono idee di un liberale di sinistra, non di Berlusconi, che hanno fatto presa tra gli italiani vent’anni fa e che fanno presa ancora oggi. Sono idee sane, non malate. Il problema è che Berlusconi ha realizzato esattamente il contrario di quello che prometteva. Renzi suscita simpatie nei berlusconiani, o meglio nei delusi da Berlusconi? Ebbene è questo un reato per un leader di sinistra o piuttosto è un merito? I milioni di italiani che in buona fede hanno votato Berlusconi negli anni passati sono tutti nemici ir-
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recuperabili e da tenere lontani? Una qualità il Cavaliere l’aveva, innegabile: una grande comunicativa. Ebbene se Renzi sotto questo aspetto assomiglia al (primo, quello della fase ascendente) Berlusconi, cosa c’è di male? Oggi un politico – e non solo in Italia - si gioca molto con la sua capacità di comunicare, nel suo essere semplice nel linguaggio, spontaneo, sciolto, addirittura “allegro” (nel senso di essere capace di trasmettere “positività”). Se Renzi ha queste doti, ebbene questo è un punto a suo favore, non un suo peccato. Circa un anno fa, dopo le primarie che assegnarono la vittoria a Bersani, Angelo Panebianco, dalle pagine del Corriere della Sera, sosteneva che “Renzi è un giovane brillante con un futuro da inventarsi di sana pianta” e concludeva che “il PD ha scelto alle primarie la tradizione con Bersani, anziché il rinnovamento con Renzi”. Renzi, sentenziava Panebianco, “resta l’emblema di quello che il PD poteva essere, ma quel capitolo è chiuso, non è possibile portare indietro le lancette”. Chiuso? Il capitolo sembra ancora aperto. Non è possibile portare indietro le lancette, diceva Panebianco. Vero, ma, a quanto pare, non è neanche possibile fermare le lancette. Qualcuno ha definito Renzi come “il tipico esempio di uomo liberal socialista o einaudiano, lontano dalla cultura marxista e che non detesta i capitalisti”. Quello che di Renzi non piace a certa sinistra è esattamente questo: Renzi non odia i capitalisti, non crede più alla
Il rottamatore La novità di Renzi è che non promette nulla a nessuno, perché non ne ha bisogno. La sfida è mantenere questo valore aggiunto, che oggi gli consente di non pagare un prezzo improprio per il consenso.
lotta di classe. Un mostro!.. Ma siamo seri, o meglio, cerchiamo di essere moderni. Renzi crede negli imprenditori, nel “privato” che sviluppa ricchezza. E crede nel “pubblico” come soggetto regolatore e non come gestore. E si sente di sinistra, e non ammette che qualcuno possa mettere in discussione che sia di sinistra. Certo, esistono due modi di intendere la sinistra. Esiste la sinistra (ma anche la destra) statalista, ed esiste la sinistra liberale non statalista. Renzi è un “rottamatore” della vecchia politica perché vuole rivoluzionare la geografia politica italiana. Per questo motivo molti che sino a ieri hanno votato a destra o al centro, convinti che solo lì ci fosse la difesa della libertà d’impresa (e della libera professione) domani potrebbero votare a sinistra, per Renzi. Due visioni della sinistra si contrappongono: quella delle pari opportunità e quella dell’appiattimento, quella del “pubblico” ingombrante e dissipante le risorse e quella del “pubblico” soggetto regolatore. Renzi vuole fare del PD un partito riformista e liberale di sinistra, in grado di governare il paese e ridare slancio alle imprese italiane ed estere, che da anni oramai hanno smesso di investire nel nostro paese (e con Berlusconi al potere meno che mai hanno investito). Cerca la fiducia e la stima della comunità finanziaria internazionale, senza la quale (fiducia) siamo destinati inesorabilmente al fallimento. Renzi mira a costruire un partito autonomo ed autorevole in grado di dettare condizioni ai suoi alleati “eventuali” e non costretto a doverle subire dai suoi alleati “necessari”. Chi è di sinistra oggi: chi si preoccupa del futuro dei giovani o chi dà la priorità alle esigenze degli anziani? Un padre di famiglia che continua ad indebitarsi o un padre di famiglia che cerca di ridurre i debiti per non lasciare ai propri figli una rata impossibile da pagare? Essere di sinistra vuol dire oggi dare garanzie di sviluppo e di lavoro ai giovani per il domani, in uno scenario internazionale dove l’Europa perde posizioni a favore di altri continenti. Difficile definire i “renziani” in modo diverso da “renziani”. Eppure Matteo Renzi ha detto che chi si autodefinisce “renziano” deve essere ricoverato in ospedale. Niente correnti, questo il senso della battuta. L’arcipelago renziano si presenta in modo estremamente aperto al partito ed alla società civile: nessuna esclusione. Il movimento è aperto a
Foto di Roberto Salomone
tutti. Non esistono i buoni ed i cattivi. Quelli di prima e quelli di dopo. Ma nessuno sconto dovrà essere fatto nel portare avanti il processo di rinnovamento della classe politica. Nessuna normalizzazione. La sfida è rottamare il concetto di amministratore che nasce e vive sulla base del “consenso clientelare” e costruire una nuova classe di amministratori nel paese (in particolare nel Mezzogiorno), sulla base di un “consenso lineare”: sulla condivisione di un progetto generale ritenuto utile per la comunità e che solo indirettamente è in grado di arrecare beneficio al singolo. La novità di Renzi è che non promette nulla a nessuno, perché non ne ha bisogno. La sfida è mantenere questo valore aggiunto, che oggi gli consente di non pagare un prezzo improprio per il consenso.
Renzi non odia i capitalisti, non crede più alla lotta di classe. Renzi crede negli imprenditori, nel “privato” che sviluppa ricchezza. E crede nel “pubblico” come soggetto regolatore e non come gestore.
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di Valeria Valente
* Deputato
VISTO DA VICINO:
Gianni Cuperlo… Non si intraprendono le sfide solo perché sono facili da vincere
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uando Gianni Cuperlo si è candidato ufficialmente alla segreteria del Partito Democratico non ho avuto dubbi: avrei sostenuto fino in fondo e con convinzione la sua candidatura. Non contro qualcosa o qualcuno ma per l’idea di PD e di Paese che Gianni ha sempre avuto in mente e che in un certo qual modo, almeno per me, lui stesso rappresenta. Io credo che Gianni sia la persona giusta per rimettere in piedi il PD e riallacciare quella “connessione sentimentale” con il nostro popolo che in parte sembriamo aver perso. Basta guardare alle ragioni che, nonostante le difficoltà dell’impresa, in qualche modo già segnata in partenza, lo hanno spinto comunque a candidarsi: non la volontà di un’affermazione personale ma il senso di una riscossa collettiva. Motivi che non hanno nulla a che vedere con le pur legittime aspirazioni personali. Gianni non ha scelto di candidarsi per quello. E in tempi come questi, di “protagonismo matto e disperato”, non è poco. All’inizio, quando la sfida con il principale competitor Matteo
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Renzi sembrava già irreversibilmente segnata (anche se adesso, dopo i risultati dei congressi provinciali, abbiamo visto che non è affatto così ) in molti gli hanno chiesto se ne valesse davvero la pena. La sua risposta fu questa: “Le sfide non si intraprendono solo perché facili da vincere”. Ecco, per me che vedevo la mia idea di partito sempre più orfana di una rappresentanza che non fosse soltanto una coalizione elettorale ancorata a un leaderismo sfrenato, fu una liberazione: erano proprio le parole che volevo sentire. E con me tanti altri hanno scelto di sostenere questa battaglia. Parlo volutamente di battaglia perché candidarsi a guidare un partito come il nostro, dopo tutto quello che è successo alle elezioni politiche e nelle settimane concitate dell’elezione del presidente della Repubblica, non è scelta semplice: il nostro ormai è un partito alle prese con una vera e propria crisi di identità. Da questo punto di vista, Gianni è stato chiarissimo: per noi la priorità deve essere il lavoro, la giustizia sociale, la cura delle persone e del territorio, il sostegno a chi ha pagato e sta pagando ancora il prezzo della crisi. Precari, disoccu-
Gianni Cuperlo Non convince un partito come comitato elettorale permanente, né un partito leaderistico che strizza l’occhio a vecchi e nuovi populismi. Convince invece un partito che non rinnega le sue radici perché senza la sinistra il partito democratico semplicemente non è.
pati, le donne. È con loro che il Pd deve stare. Per farlo non basta un uomo solo al comando: ci vuole un progetto, un’idea, un programma attorno al quale riunire la comunità degli uomini e delle donne che animano il nostro partito. Noi siamo e vogliamo essere alternativi rispetto al modello che Berlusconi e il suo centrodestra hanno costruito in tutti questi anni. È esattamente questo quello che intende Gianni quando afferma che non dobbiamo essere il volto buono della destra. Per questo non ci convince un partito come comitato elettorale permanente, né un partito leaderistico che strizza l’occhio a vecchi e nuovi populismi. Ci convince invece un partito che non rinnega le sue radici perché, come dice Gianni, senza la sinistra il partito democratico semplicemente non è. Invocare il cambiamento non basta: non è una formula magica invocando la quale tutti i problemi scompaiono. Anche perché il cambiamento non è mai neutro. Bisogna anche dire in che direzione si vuole andare, in che direzione si vuole cambiare. E la strada indicata da Gianni è chiarissima: riannodare i fili della sinistra diffusa, del pensiero critico e delle donne, della radicalità cattolica per ricostruire il partito e con esso quel legame con la società che in alcuni punti pare essersi spezzato. Per farlo il PD deve tornare ad essere un partito radicato ma trasparente, partecipato, dinamico, aperto ai movimenti, alle associazioni, alle forze sane della società. Un’impresa ardua, sì, ma bella e democratica e che richiede, in primis, la necessità di distinguere tra segretario e candidato premier. Solo così potrà esserci una guida che si dedichi a tempo pieno alla ricostruzione di un partito che non si annulli nelle istituzioni ma torni ad essere il frutto della condivisione di un destino comune. Gianni è la persona giusta. Ho cominciato a seguirne l’elaborazione politica da diversi anni. Lo conosco da tempo e sono tante le occasioni in cui ho potuto apprezzarne la serietà, l’impegno, la profondità di pensiero e di elaborazione, il grande carico di passione. Ricordo con emozione quando l’inverno scorso, tanto per dirne una, lo incontrai a Trecase, mentre raccontava in un piccolo circolo del PD quanto la costruzione dell’Europa Unita fosse stata determinante per guadagnare e salvaguar-
dare la pace e la convivenza tra i popoli dopo i disastri delle guerre mondiali. Ecco, vederlo lì, in tempi distanti da scadenze elettorali, discutere appassionatamente di Europa in un piccolissimo comune della provincia di Napoli, con tanto slancio e profondità, mi ha rimandato a un’idea di PD non solo ancorato a grandi valori e tensioni ideali ma anche e soprattutto a un partito fatto ancora di uomini e donne perbene, che vivono ancora il proprio impegno politico come qualcosa da offrire a una causa comune, più grande: quella della costruzione di un mondo più giusto. Per questo quando è stato il momento di scegliere non ho avuto dubbi: so bene che quella dell’8 dicembre sarà una sfida difficile ma niente è impossibile. È tempo di crederci.
La lista delle priorità la priorità deve essere il lavoro, la giustizia sociale, la cura delle persone e del territorio, il sostegno a chi ha pagato e sta pagando ancora il prezzo della crisi.
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QUI ED ORA
di Massimiliano Amato
VISTO DA VICINO:
Vincenzo De Luca… La politica salernitana travolta dagli scandali recenti
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ndipendentemente dall’esito della querelle-incompatibilità, il finale di partita sembra ancora molto lontano. È indecifrabile. Se è vero, infatti, che il caso di Vincenzo De Luca s’iscrive in una tendenza generale (la liquidazione della politica nel mito del decisore unico) passibile di repentina archiviazione, è altrettanto vero che esso presenta non poche peculiarità che potrebbero allungargli la vita. Perché il personalismo che irrompe nella scena pubblica salernitana tra il ‘92 e il ‘94, sull’onda delle nuove regole per l’elezione dei sindaci, intercetta una pulsione sotterranea che il secondo capoluogo della Campania ha sempre avuto e continua ad avere. Un ancestrale richiamo, irresistibile, all’Uomo della Provvidenza. De Luca l’ha esasperato oltre ogni limite conosciuto (e rispettato) in passato. Dandogli dignità di sistema di pensiero: parliamo, tanto per essere chiari, di un dominio incontrastato su ogni settore della vita cittadina, presidiata militarmente, in una sorta di risiko che dura da vent’anni. Salerno s’è lasciata conquistare senza opporre resistenza. Non c’erano trincee né nemici da sbaragliare, ma solo uno spazio vuoto da riempire. Uno spazio privo di qualsiasi colore politico: nel Novecento Salerno è stata prima integralmente fascista e monarchica, quindi, per un lunghissimo periodo della storia repubblicana, integralmente democristiana, infine integralmente
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socialista. Bastava passare e cogliere l’occasione al volo. De Luca la conosceva bene, la città assorbente, un po’ pigra e malata cronica di conformismo come tutte le medie realtà meridionali, con la quale si era scontrato nei lunghi anni in cui era stato segretario della federazione del Pci e poi del Pds. Ne conosceva la “struttura”, intesa in senso marxiano: una borghesia totalmente improduttiva, legata alla rendita fondiaria, che aveva fatto studiare i propri figli riempiendo il locale Tribunale di avvocati senza clienti, le Asl e gli ospedali di medici senza pazienti, gli studi di commercialisti senza contribuenti e così via; un mare di ceto medio, parte impiegatizio proveniente da fuori, dispensato dal maturare una coscienza del proprio ruolo, parte commerciale; una plebe urbana autoctona impegnata quotidianamente nell’arte della sopravvivenza. A Salerno, per una trentina d’anni, ci sono stati pure gli operai; lavoravano in fabbriche atterrate come navicelle spaziali durante i democristianissimi anni d’oro dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, e scappate via quando sono cessate le provvidenze statali. Votavano Pci, gli operai, e, in parte, per i socialisti. Ma il Pci e i socialisti, con i secondi diventati nel frattempo forza egemone della sinistra, il Municipio lo hanno conquistato, insieme, quando già le fabbriche non c’erano più. E mentre i compagni più anziani si ritiravano a vita privata, per quelli più giovani
si aprivano le porte del sottopotere comunale: le società miste di gestione dei servizi, dai bilanci opachi, ma dalla straordinaria capacità di assorbimento delle tensioni sociali. E di tutti quei compagni che avevano sempre vissuto di politica. Su questa “struttura” in cui lo spazio pubblico della discussione, amplissimo e vivace dalla metà dei Sessanta fino alla metà degli Ottanta, si è ristretto fin quasi a scomparire del tutto, De Luca si è abbattuto come un potente moltiplicatore di vizi. Pubblici, ovviamente. Ha potuto, indisturbato, disegnare il perimetro di quello che qualche osservatore particolarmente attento definisce “municipalismo amorale” perché l’opinione pubblica si è letteralmente liquefatta, caso di studio perfino nell’Italia della grande sbornia berlusconiana. Conscio che, per conservare il potere, i voti della sinistra
da soli non sarebbero mai bastati, ha vellicato gli istinti della destra cittadina, raccolta intorno alla proprietà fondiaria e immobiliare, diventandone un interlocutore affidabile. Anzi, l’unico. Ma il suo sistema di potere poggia su un solidissimo accordo “interclassista”. Perché alla tutela degli interessi economici dominanti, riassunta dalla spregiudicata politica comunale sull’indiscriminato consumo di suolo per ogni genere d’iniziativa edificatoria, ha accoppiato fin dall’inizio una sorta di “sciovinismo municipale”. Il gigantismo delle opere pubbliche, di cui la Piazza della Libertà, con annessa la megaspeculazione privata (su suoli non del tutto sdemanializzati) chiamata Crescent, rappresenta solo l’aspetto più appariscente, cuce le due città – quella “alta” degli affari legati al cemento e quella “bassa”, popolare, dell’orgoglio di campanile – in un unico disegno. E pazienza se la perizia di un Ctu della Procura segnala il rischio che la piazza, “più grande del Plebiscito”, può franare a mare. Se buona parte delle opere pubbliche (dalla cittadella giudiziaria, alla stazione marittima, al palasport) disegnate da archistar lautamente retribuite sono cantieri ultradecennali di cui non s’intravede la chiusura, o non sono mai partiti nonostante i ciclici tagli di nastro. Se, in tempi di gravissime ristrettezze finanziarie per i Comuni, sono stati spesi 85 milioni di euro per una ferrovia urbana, pomposamente chiamata metropolitana, per coprire meno di 10 km lineari. Se i piani urbanistici adottati negli ultimi anni sono stati tarati su un aumento della popolazione fino a più di 200mila abitanti, e gli ultimi due censimenti certificano che il numero dei residenti è in caduta libera da 20 anni (sono meno di 130mila adesso). Se, da una stima di un istituto di credito cittadino, allo stato ci sarebbero 20mila e più vani invenduti in tutta la città. Basta un clic, la prosopopea di un critico compiacente, e il buio è rischiarato dalle luminarie natalizie spacciate per “Luci d’artista”. Nel grande luna park Salerno Mangiafuoco conta i pullman di visitatori con panino e frittata di maccheroni che si aggirano rapiti tra elfi e orchi, pinguini e sciantose discinte, e si frega le mani compiaciuto. Il giochetto (forse) è riuscito anche quest’anno.
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QUI ED ORA
a cura di Marco Staglianò
Battere “il Cavaliere” sarà difficile I sostenitori di Forza Italia in primis in Campania e il senatore Cosimo Sibilia non hanno dubbi
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a scomposizione del blocco berlusconiano non trova certo genesi, come pure qualcuno ha sostenuto, in una strategia concepita a tavolino. Il due ottobre è nella memoria di tutti come pure le tappe del lungo percorso che condusse a quella storica giornata. Lì si consumò il vero strappo, in quel momento, per la prima volta in vent’anni, Berlusconi venne veramente sconfitto, per la prima volta si ritrovò gregario. Capì che qualcosa di enorme era accaduto, che nulla sarebbe stato più come prima. Ma da quel due ottobre di acqua sotto i ponti ne è passata tanta ed è chiaro anche ad un bambino che il Cavaliere, assorbito il colpo, ha compreso che quella
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sconfitta poteva trasformarsi nel primo passo verso la riscossa. Il Cavaliere ha compreso che solo ricomponendo il blocco sociale che si è ritrovato nella sua leadership in questi lunghi anni, quel blocco sociale sgretolatosi alle politiche di febbraio, potrà immaginare di restare a galla, di non soccombere nell’isolamento. E per raggiungere quell’obiettivo sa che è necessario coniugare il populismo con la responsabilità, è necessario tenere insieme quel che insieme, apparentemente, non si tiene più. Ad Alfano, dunque, il compito di dare voce e rappresentanza al blocco moderato, a quell’elettorato smarrito che si colloca naturalmente al centro dello scacchiere, che non
“Silvio Berlusconi persuade perché, chiamatela pure pancia, interpreta e risponde alle ansie e alle speranze di buona parte d’Italia. Chi immagina che attraverso giochi di palazzo o attraverso una sentenza lo si può eliminare si sbaglia di grosso”.
andrà mai a sinistra ma che, ormai da tempo, ha abbandonato il vecchio leader. È lì, in quello spazio politico, che vanno ricercati i milioni di voti persi dal PDL, ovvero i milioni di elettori che si sono rifugiati nell’astensione, quelli che hanno trovato improvvidamente riparo in quell’indistinto rappresentato da Monti, quelli che, disgustati, hanno optato per il vaffanculo di Beppe Grillo. Si tratta di un elettorato consapevole, un elettorato indisponibile a ritornare all’ovile, ma ansioso di ritrovare una collocazione ambiziosa e coerente con i valori liberali e popolari. A Forza Italia, invece, l’onere di garantire rappresentanza all’esercito di Silvio, di accarezzare le pulsioni plebiscitarie di quell’elettorato che non abbandonerà mai il vecchio leader, di incarnarne le pulsioni giocando sulla retorica anti
rilevano strappi di un certo peso, strappi che sulla carta dovrebbero essere accompagnati da lacerazioni e faide, tutto si traduce in un sottinteso “arrivederci”. E quel che capita in Campania non è dissimile da quel che sta succedendo altrove in giro per lo Stivale. Sullo sfondo restano gli strali di Bondi e della Santanchè, ma quelli servono a tenere in piedi la commedia. Può suonare come un azzardo, ma ci pare di cogliere tutti i segnali per una progressiva ricomposizione del largo campo del centrodestra seppur sulla base di equilibri e geometrie diverse dal passato. Il Senatore Cosimo Sibilia, storico riferimento del centrodestra irpino e fedelissimo del Cavaliere, evidentemente ha ragione: «Silvio Berlusconi persuade perché, chiamatela pure pancia, interpreta e risponde alle ansie e alle
Il Cavaliere ha compreso che solo ricomponendo il blocco sociale che si è ritrovato nella sua leadership in questi lunghi anni, quel blocco sociale sgretolatosi alle politiche di febbraio, potrà immaginare di restare a galla, di non soccombere nell’isolamento. tasse e anti Europa, in barba ad ogni vincolo di responsabilità, ad ogni necessaria mediazione. Alla fine ce li ritroveremo tutti insieme, ancora una volta, e con loro ritroveremo anche quei pezzi di centro orfani del sogno terzo polista alla ricerca di una nuova primavera popolare. Questo è il percorso tracciato ed è del tutto evidente, alla luce delle grandi manovre che si registrato sui territori, dalla Lombardia sino alla Sicilia, che si tratta del percorso giusto. Basti pensare a quel che accade in Campania dove si registra un sensibile smottamento della geografia politica del centrodestra. E al di là di quel che succede a Santa Lucia, dove gli equilibri interni pure sono mutati sensibilmente, il dato che impressiona maggiormente riguarda i territori dove la rincorsa ai riposizionamenti va declinandosi quasi nel silenzio, dove si assiste, semplicemente, ad una ragionata parcellizzazione dei vecchi blocchi funzionale ad occupare il nuovo spazio determinatosi prima che ci metta piede qualcun altro. Anche laddove si
speranze di buona parte d’Italia. Chi immagina che attraverso giochi di palazzo o attraverso una sentenza lo si può eliminare si sbaglia di grosso. Berlusconi va battuto politicamente, ovvero nelle urne. Chi oggi lo abbandona in nome di un non ben specificato orizzonte luminoso, presto andrà a sbattere. Del Nuovo Centrodestra rimarrà poca cosa perché non c’è uno spazio sociale a cui quel soggetto politico parla, perché coloro che oggi vanno collocandosi lì sono in realtà cooptati che hanno trovato un posto al sole per la benevolenza del leader che oggi disconoscono. Ma i partiti nascono nelle urne, non nei palazzi. Chi, come il sottoscritto, fondò Forza Italia nel ‘93 sa cos’è il radicamento, sa che c’è un popolo che vuole rappresentanza in funzione dei valori e dei principi che il Cavaliere ha incarnato con coerenza in questi venti anni. Qualsiasi nome gli italiani troveranno sulla scheda, il vero candidato sarà ancora una volta lui». E batterlo sarà difficile. Per chiunque.
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APPROFONDIMENTI
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di Patrizia Perrone
Munnezza story: 30 anni di tradimenti Il difficile rapporto tra ambiente e territorio campano
Foto di Mauro Pagnano
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radimento. Un intero popolo tradito. Un’intera regione, la Campania, che potrebbe essere un motore economico per il Mezzogiorno e per l’Italia come centro di turismo mondiale e zona agricola produttrice di eccellenze, coperta di spazzatura e veleno. La gente è costretta ad abitare, mangiare, bere e lavorare in condizioni di insicurezza, senza neanche conoscere nel concreto a quali pericoli è sottoposta. Ogni giorno chi vive in Campania è assalito da dubbi a cui non vi è una risposta certa. Sono sicure queste verdure? C’è vapore tossico ma invisibile nella mia casa? Questa puzza che sento potrebbe farmi ammalare? Al problema di una politica incompetente ed inadeguata che non ha mai risolto l’emergenza dei rifiuti solidi urbani, si aggiungono le notizie dei rifiuti tossici che da anni sono stati sversati in mille modi dalla criminalità organizzata complice di industriali senza scrupoli e del mancato controllo delle istituzioni. Tutti sapevano, ma nessuno ha preso provvedimenti adeguati a fronteggiare quello che rischia di configurarsi come un vero e proprio biocidio. È da chiarire che ci sono due aspetti diversi, quello dei rifiuti urbani e quello dei rifiuti speciali: due facce dalla stessa medaglia. Ognuna influisce sull’altra. Però devono assolutamente essere trattati in maniera indipendente. Andando ad analizzare un rapporto commissionato dall’Unione Europea sull’Economia Ecologica, pubblicato nel maggio del 2010 possiamo renderci conto di quanto già allora fossero conosciuti tutti gli elementi di gravità che avrebbero dovuto porre questa questione tra quelle da risolvere in maniera prioritaria, e non solo per salvaguardare la salute dei cittadini campani, ma
per evitare che il problema coinvolgesse tutto il paese, sia sotto l’aspetto sanitario, sia sotto l’aspetto economico. In questo documento possiamo trovare tracciata la storia dell’emergenza rifiuti, così come l’abbiamo sentita raccontare migliaia di volte, a partire dalla cena di Villaricca del 1989 dove esponenti del clan dei casalesi e politici campani si accordarono per lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dal nord. Le indagini e i processi che ne conseguirono si sono conclusi con la maggior parte dei reati prescritti. Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti urbani, è il fallimento del primo piano regionale del 1993 che porterà alla istituzione di un Commissariato Straordinario che vedrà avvicendarsi negli anni diverse personalità senza però mai riuscire ad uscire dall’emergenza. Finalmente, dopo differenti sollecitazioni dai governi di quegli anni, nel 1998 il governatore Antonio Rastelli pubblica un piano decennale per lo smaltimento dei rifiuti che comprendeva la costruzione di due termovalorizzatori e di sette siti e sette impianti per la produzione di combustibile derivato dai rifiuti (C.D.R. ricavato dalle ecoballe). La gara fu vinta nel 2000, quando a Rastrelli era già subentrato Antonio Bassolino, da una Associazione Temporanea di Imprese denominata FIBE che garantì prezzi più convenienti e consegne più rapide ma con l’utilizzo di tecnologie meno avanzate delle più dispendiose ditte concorrenti. Aspetti molto controversi dell’accordo fatto con FIBE furono l’autorità esclusiva per selezionare i cantieri delle infrastrutture e la deroga sui requisiti legali per la valutazione dell’impatto ambientale concessa dal Commissario attraverso l’uso dei suoi poteri dovuti allo stato di emergenza. Nonostante queste agevolazioni La FIBE non ha rispettato
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i tempi di consegna, producendo inoltre ecoballe non a norma. L’inchiesta che ne scaturì, denominata “Rompiballe” e il conseguente processo che ha, visto rinviati a giudizio circa 30 persone si è concluso da poco con l’assoluzione di tutti gli indagati tra cui Bassolino. Non sono state ravvisate, infatti, responsabilità penali, e anche i beni sequestrati alla FIBE sono stati restituiti. Dal 2000 in poi le emergenze si susseguirono, ogni volta che uno dei sette siti veniva chiuso per vari motivi le città si ricoprivano di rifiuti, furono aperte nuove discariche, ogni buco disponibile fu riempito di immondizia, scatenando di volta in volta la protesta delle comunità locali che venivano coinvolte. Ma se questa gestione dei rifiuti urbani si è dimostrata erronea, il tradimento più profondo e che ha sicuramente creato più danni rimane il traffico illegale dei rifiuti industriale. Quel traffico di cui si parla nelle pagine del libro Gomorra pubblicato nel 2006 da Roberto Saviano, di cui hanno parlato sin dagli anni novanta i collaboratori di giustizia Dario De Simone, Domenico Bidognetti, Gaetano Vassallo, Oreste Spagnuolo, Tammaro Diana, Pasquale Di Fiore, Carmine Schiavone. Le notizie sul traffico di rifiuti tossici, che ha inquinato la nostra terra, ha indotto la Marina Militare degli USA a commissionare una ricerca che indagasse sui pericoli a cui erano sottoposti i militari che abitavano tra le province di Napoli e Caserta. La ricerca, articolata in due fasi, la prima conclusa nel 2008, la seconda nel 2011, ha messo in evidenza alcune problematiche ambientali. Già nel 2008, a seguito dei risultati della fase uno, 17 abitazioni occupate da famiglie americane furono giudicate troppo pericolose e le famiglie immediatamente spostate. Chi occupa ora quelle case? Sono state eliminate le cause che le rendevano pericolose? Inoltre, gli americani hanno identificato tre zone che hanno interdetto a livello abitativo ai propri dipendenti dopo aver valutato una serie di criteri sanitari. Queste tre zone riguardano diciannove comuni compresi tra la provincia di Napoli e di Caserta, ma non il capoluogo campano. In questi comuni sono state intraprese conseguenti azioni di salvaguardia sanitaria? Perché sono giudicate pericolose per gli americani mentre gli italiani possono continuare a viverci? Alla comunità americana viene da allora raccomandato di bere ed utilizzare acque confezionate. A livello regionale,
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gli studi americani erano concordati e condivisi con il Direttore della Protezione Civile, l’assessore alla Sanità, e l’assessore all’Ambiente della Regione Campania in carica all’epoca. Le ricerche americane, al centro di un articolo del settimanale l’Espresso dal titolo “Bevi Napoli e poi muori” titolo ritenuto denigratorio dal Sindaco De Magistris, in quanto lascia intendere che le acque di Napoli non siano a norma, sono state pubblicate in Internet sul sito della Marina Militare e quindi visibili a tutti sin dall’inizio. L’articolo 32 della nostra Costituzione, quello che sancisce il diritto alla salute, vale anche per gli italiani o solo per i militari americani? Degli ultimi mesi poi le notizie su numerosi sequestri da parte della Guardia Forestale di campi coltivati i cui prodotti sono irrimediabilmente contaminati. Da qui la preoccupazione dei consumatori di non poter distinguere sul banco dei venditori al dettaglio tra prodotti sicuri e prodotti nocivi alla salute. Questo comporta il rischio di veder compromessa l’economia agricola di una regione che produce prodotti DOP normalmente apprezzati in tutto il mondo. Alcuni esperti del settore raccomandano, una volta identificati i terreni contaminati, la conversione di tali aree a coltivazioni no food come quella della canapa. Questa pianta ha innumerevoli utilizzi e la sua coltivazione può dare vita a nuove opportunità di lavoro in settori strategici quali l’edilizia, l’alimentare, il tessile, il farmaceutico. Si dovrebbe pensare, inoltre, a controlli più severi sullo smaltimento dei rifiuti speciali, ad un inasprimento delle pene e all’abolizione della prescrizione per tali reati, in quanto il danno che questi reati comportano è un danno che non si esaurisce col tempo. Per i prodotti alimentari sarebbe opportuno pensare a una differente certificazioni sulla tracciabilità, che possa garantire i consumatori di ogni luogo. Sarebbe anche opportuno, e non solo a livello regionale, attuare politiche mirate alla riduzione della quantità di rifiuti in genere, e che sostengano un’economia basata su uno sviluppo ecosostenibile. Insomma, se una workshop realizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2007 si concludeva con la frase “è il tempo di agire”, oggi, mentre ci affacciamo al 2014 non abbiamo più scuse, “è il tempo di agire immediatamente”.
Emergenza ambiente in Campania La denuncia di Antonio Marfella a cura di Patrizia Perrone
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mergenza ambientale in Campania, la voce del dottor Antonio Marfella, tossicologo-oncologo dell’Istituto Nazionale per la Cura dei Tumori “Fondazione Sen. G. Pascale” è senza dubbio tra le più autorevoli. Emergenza Campania, come definirebbe la fase che stiamo vivendo oggi? La fase della consapevolezza. Ci siamo accorti di avere un avvelenamento cronico da trenta anni. Fino al 2006 io mi occupavo di analisi ed ero primario qui all’Istituto Pascale, ma né come cittadino né come medico immaginavo nulla. Pensavo di fare parte di una società in cui ognuno ha il suo ruolo: c’è chi fa il medico, chi fa il carabiniere e chi si occupa della gestione dei rifiuti. Credevo che tutto procedesse regolarmente, e non potevo immaginare quale scelta di disorganizzazione e cattiva gestione si stava creando. Non mi riferisco ai rifiuti urbani, ma a quelli industriali. Quando uscì Gomorra, nel 2006, cominciai ad aprire gli occhi. Da quel momento iniziai a girare per tutti i territori della Cam-
pania rendendomi conto dell’esistenza di una tragedia enorme.
Cosa si sta facendo?
Dagli studi scientifici pubblicati si evince una correlazione tra l’aumento dei tumori e l’inquinamento dovuto all’interramento di rifiuti tossici. Manca ancora però quella prova di relazione causa - effetto, eccetto per alcuni tumori come quello ai testicoli. Si, in realtà rimane pubblicato da Fazzo e dallo stesso Fusco solo uno studio che dimostra la correlazione diretta tra presenza dei rifiuti e presenza del carcinoma del testicolo. Ma stiamo raccogliendo altri dati.
La politica deve riconquistare la fiducia della gente con i fatti. Non possono pensare di avere la nostra fiducia continuando a non fare nulla come hanno fatto finora. Scoprire che ci ha avvisati più Schiavone che lo Stato, è un gran dolore.
Che cosa si sta facendo e che cosa, invece, si dovrebbe fare e non si sta facendo? La conta dei morti è una questione importante, ma andava fatta dopo essere intervenuti sui problemi ambientali. È sbagliato fare al contrario. Ad esempio, pensiamo alla presenza di arsenico nella acque di 90 comuni dell’alto Lazio. E` arsenico vulcanico, ma sempre arsenico è. Noi (parliamo del Lazio) abbiamo dato per anni in deroga l’eccesso di arsenico nelle acque potabili. Poi, quando nel 2012 l’in-
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dagine epidemiologica ha dimostrato un problema di salute legato all’arsenico, si sono accorti che le acque erano avvelenate. Così dimostriamo di essere una nazione incapace di gestire correttamene il territorio, quindi, anche la propria salute perché le due cose sono una dipendente dall’altra. Dal Po in Lombardia, all’Ilva di Taranto ogni regione sta mostrando criticità che non sono state prevenute. Quindi adesso dobbiamo, per curare, spendere di più e dimostrare il danno e non è facile. Con 100mila sostanze chimiche immesse nell’ambiente non è facile dire quale è quella che mi ha fatto venire il cancro. Quindi nel concreto? Quali cose vanno fatte e in quale ordine di priorità? Bloccare il bombardamento dei rifiuti speciali che ancora non tracciamo adeguatamente. Poi dobbiamo identificare, localizzare e delimitare il danno già realizzato al territorio, cioè fare la mappatura delle aree inquinate. Parliamo di 10milioni di tonnellate di rifiuti tossici: delimitare e bloccare le coltivazioni per uso umano e` la prima garanzia che va data a chi mangia. La nostra e` la terra migliore del mondo e produce i prodotti migliori del mondo. Rischiamo di pagare dazio per aver mostrato a tutto il mondo che non lo controlliamo con efficacia. Dopo possiamo passare a verificare il danno in loco e attuare la prevenzione secondaria per tutelare chi vive in quei territori. Le norme ci sono, bisogna solo farle rispettare. Per quanto riguarda i rifiuti solidi urbani, non pensa che questa possa essere trattata come un’emergenza come quelle del passato ed essere occasione per costruire un altro inceneritore? L’emergenza è voluta per creare la cattiva gestione del rifiuto urbano e per questo non ne voglio parlare. Quando andiamo ad affrontare il problema del rifiuto solido urbano nella divisione ideologica inceneritore si inceneritore no, non facciamo altro che fare un favore a chi invece smaltisce nel silenzio i rifiuti industriali. Gli urbani sono solo un sesto dei rifiuti speciali. Si deve intervenire in brevità non già con gli impianti per gli urbani o i supposti e finti tali come gli inceneritori, ma con gli impianti per gli speciali e per quelli tossici perché sono quelli i più dannosi. Pensiamo ai rifiuti speciali.
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Ponendo in essere quali provvedimenti? Noi mettiamo i chip su qualsiasi cosa, perché non possiamo chippare i fusti? Ogni TIR ha un antifurto satellitare ma non tracciamo ne` i Tir ne` i rifiuti speciali. Un fusto di rifiuti tossici che viene prodotto in Germania deve essere comunque riconoscibile ed attribuibile dovunque si trovi nel mondo. Stiamo parlando di rifiuti altamente tossico-nocivi. Il problema è innanzitutto europeo, poi italiano ed infine campano. Il 16 novembre la manifestazione “fiume in piena” ha visto la partecipazione di quasi 100mila persone. Però la gente mostra una motivata sfiducia nella politica. La politica deve riconquistare la fiducia della gente con i fatti. Non possono pensare di avere la nostra fiducia continuando a non fare nulla come hanno fatto finora. Scoprire che ci ha avvisati più Schiavone che lo Stato, il quale ha secretato le sue rivelazioni per tanti anni è un gran dolore. Che cosa risponde alle persone che dicono che il pentito Carmine Schiavone non e` attendibile? Schiavone ha semplicemente riportato un problema che è già ampiamente documentato. Esistono 82 inchieste, 915 ordinanze di custodia cautelare, 10 milioni di tonnellate di rifiuti tossici smaltiti illegalmente. Il problema non è Schiavone, lui si è pentito nel’98 e non ha potuto più nuocere da allora, però altri hanno continuato. Lei ritiene dunque che dovrebbero pentirsi anche i politici? Non solo i politici. Nella lettera che Confindustria ha pubblicato sul Corriere della Sera si parla solo dei rifiuti urbani. Non c’è una parola sui 138 milioni di tonnellate di rifiuti tossici di cui fanno parte anche i 10 milioni sversati clandestinamente in Campania. Confindustria continua a ignorare il problema come se non fosse di sua competenza. I camorristi i rifiuti tossici li prendono dagli industriali. Non parliamo di fatti occasionali criminali, nei report di Legambiente si parla di 443 aziende industriali coinvolte. È un problema di sistema e va affrontato come problema di sistema.
Foto di Salvatore Laporta
di Vincenzo Pepe
* Presidente nazionale di FareAmbiente
Non nel mio giardino Come affrontare e risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti
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o smaltimento dei rifiuti è uno dei problemi più impegnativi che le società industrializzate devono affrontare. Da decenni i Paesi occidentali hanno sviluppato sofisticati sistemi di raccolta differenziata che permette il recupero e il riciclo di numerose materie prime e di ricavare energia elettrica dal rimanente irrecuperabile. Una delle città più avanzate al mondo in questo genere di attività è la statunitense San Francisco dove la raccolta differenziata iniziata più di mezzo secolo fa è arrivata a permettere il riciclaggio dell’80% dei rifiuti. Il rimanente 20, viene utilizzato come combustibile per produrre energia elettrica. Purtroppo tutto ciò non è avvenuto in Italia o meglio non in
tutte le parti d’Italia. Nelle regioni più colpite dal fenomeno della criminalità organizzata, lo smaltimento dei rifiuti è divenuto il business più ambito dal malaffare e molti territori, soprattutto al meridione, sono stati invasi da rifiuti tossici di ogni genere. A questo va aggiunto una quanto mai discutibile forma di ambientalismo, a mio avviso ottusa che spesso, inconsapevolmente, ha finito col fare il gioco di chi con il business dei rifiuti si è invece arricchito. Per anni, tutto il salotto buono dell’ambientalismo storico italiano si è ostinatamente schierato contro i termovalorizzatori che altri non sono che centrali termoelettriche che anziché funzionare a gasolio o a carbone, funzionano a “monnezza”. Un si-
Energie rinnovabili Da decenni i Paesi occidentali hanno sviluppato sofisticati sistemi di raccolta differenziata che permette il recupero e il riciclo di numerose materie prime e di ricavare energia elettrica dal rimanente irrecuperabile.
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stema intelligente per liberarsi del superfluo, ricavando al contempo energia elettrica. Quello dei termovalorizzatori è l’unico sistema serio e realizzabile alternativo alla discarica. Le scelte, è inutile fantasticare, sono solo due: o quello o la discarica, che è sicuramente la cosa più devastante per un qualsiasi territorio. Ovviamente, ogni qualvolta si è tentato di istituire una nuova discarica su un territorio gli abitanti del medesimo si sono ribellati mobilitandosi in massa a volta anche con proteste clamorose. Il caso più eclatante ha riguardato Napoli e altre province della Campania. Una scellerata politica sui rifiuti, portata avanti tra le pressioni di gruppi malavitosi e tra le urla dei soliti ambientalisti aderenti ad associazioni storiche spesso schierate politicamente tutte da una parte, hanno provocato un’emergenza che ha messo la città sotto i riflettori di tutta la stampa mondiale con un danno d’immagine incalcolabile. Oggi l’emergenza sembra essere contenuta perché i rifiuti del napoletano vengono imbarcati e trasferiti in Olanda ove vengono trattati, separati e bruciati nei termovalorizzatori. Questo ovviamente nel tacito consenso dell’ambientalismo storico che, anche se critica alla fine non scende in piazza come invece farebbe se si dovesse costruire un termovalorizzatore o allestire una discarica. La cosa sta bene a tutti, si spendono cifre esorbitanti per mandare i nostri rifiuti nel nord Europa ove vi sono Paesi come appunto l’Olanda, che si fanno pagare profumatamente salvo poi ricavarne energia elettrica e quindi ricchezza. L’impatto ambientale è terribile poiché bisogna calcolare che per spostare tale mole di rifiuti occorrono tonnellate di gasolio che le navi consumano per compiere il tragitto. Non è proprio uno smaltimento rifiuti a chilometro zero… E mentre quelli che si autodefiniscono ambientalisti vagheggiano sul rifiuto
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Non nel mio giardino Ambiente ed energia oltre la paura (Baldini&Castoldi), racconto appassionato per una rinnovata concezione dell’ambientalismo. Questo il titolo dell’ultimo libro di Vincenzo Pepe presidente nazionale di FareAmbiente. Nel libro si analizza un nuovo modello positivo e propositivo di ambientalismo che guarda alla scienza, alla ricerca, alle tecnologie come origine e fondamento della qualità della vita. Un’idea nuova di ambientalismo per il nostro Paese che ha visto per molto tempo all’imporsi di una concezione ideologica della salvaguardia dell’ambiente, incapace di trovare soluzione ai problemi. L’atteggiamento che ci induce a pensare che lo sviluppo sia di per sé il male e provocherà la fine del nostro pianeta è antimoderno, illogico e inutile, dato che non è così che si risolveranno i problemi legati all’inquinamento del pianeta. R. N.
zero, il territorio della Campania viene avvelenato quotidianamente con roghi tossici e smaltimenti illegali di ogni genere. Tutto ciò non è degno di una nazione civile, che non sa assumersi le proprie responsabilità nemmeno per lo smaltimento dei rifiuti ordinari. Non c’è niente di ecologico che far percorrere 4mila chilometri a una nave per smaltire i rifiuti della Campania. Eppure non è così in tutta Italia. A Brescia per esempio, vi è un termovalorizzatore collegato al riscaldamento delle abitazioni. Migliaia di bresciani non consumano gas o bruciano gasolio per riscaldare le loro case. Una struttura all’avanguardia e intelligente che distrugge i rifiuti e al contempo genera calore. Eppure le stesse associazioni che hanno lodato e spinto tale struttura in altre parti di Italia le hanno osteggiate. Una riflessione a tutto tondo è d’obbligo a mio parere, perché se l’ambientalismo italiano non crescerà, non diventerà adulto, ma continuerà a dimenarsi istericamente come un adolescente, resterà sempre una forza di mera protesta che finirà col perdere definitivamente credibilità a tutto vantaggio di speculatori e inquinatori. Del resto non è un caso se anche in politica gli ambientalisti italiani sono quasi completamente spariti, a differenza invece di quanto accade negli altri Paesi europei.
Foto di Carlo Hermann
di Domenico Pizzuti
#Stop biocidio
* Gesuita
Il risveglio della società civile nella terra dei casalesi
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o percorso sabato 16 novembre, per solidarietà e condivisione delle ragioni della manifestazione, il lungo corteo che sotto gli ombrelli si è snodato da piazza Mancini a Piazza Plebiscito secondo l’appello “Fiume in piena. Stop al biocido” per riaffermare le ragioni della vita e della difesa della salute dei cittadini, della preservazione della stessa Madre terra avvelenata dai rifiuti tossici di un traffico che ha attentato colpevolmente agli equilibri ecologi e vitali di una terra e della sua popolazione. In riferimento a questa corrente umana che sfilava raccogliendo movimenti, associazioni, rappresentanze sociali e territoriali con striscioni e singoli con manifesti al collo o scritte sulle magliette, preferiamo parlare di POPOLO IN PIENA per la partecipazione che si evidenziava scaglione dopo scaglione di donne, madri di famiglia con i cartelli levati in alto di figli immaturamente morti per tumori, giovani, studenti, ambientalisti e mili-
tanti di vecchia data, provenienti dal triangolo della Terra dei fuochi avvelenati ed avvelenanti, ma anche dalla nostra città, e di don Patriciello e Alex Zanotelli. Dove sbocca questo fiume in piena, pacifico ma determinato, consapevole dei rischi subiti e non affrontati, che esprime rabbia, ma anche cori giovanili coinvolgenti (ho avuto un attimo di commozione quando qualcuno intona “Bandiera rossa” e “O Bella ciao”). La speranza di liberazione è espressa da uno striscione in testa al corteo portato da bambini della Scuola Oberdan raccolti dall’Associazione “Un uovo mondo” – “Nella terra dei fuochi rivogliamo o’ paese do sole”. Dopo questa esperienza coinvolgente, riteniamo di dover proporre alcune osservazioni che possono sembrare punture di spillo per una mobilitazione esaltante. In primo luogo, non si può non sottolineare urbi et orbi questo risveglio della società civile nelle terre dei casalesi che ha preso coscienza dopo decenni di silenzio degli attentati all’ambiente ed alla sa-
Un problema di coscienza Non possono rimanere sullo sfondo del disastro ambientale le responsabilità primarie della criminalità organizzata, delle imprese industriali del Nord e del Centro, e di amministratori e politici, conniventi se non collusi, che devono essere il bersaglio principale di una mobilitazione e di una lotta civile.
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lute e vita degli abitanti per l’opera di Comitati di liberi cittadini con una mobilitazione nei diversi comuni sfociati con successo nella “piena” napoletana. Si è costituita progressivamente una rete dove sono confluiti i diversi Comitati (se non andiamo errati più di 40), e poi nel movimento promosso da alcuni giovani “Fiume in piena. Stop al biocido”. Qualcosa di buono può provenire da questi paesi tra le province di Napoli e Caserta quando escono fuori da un’ apatia e sfiducia improduttive. Questa mobilitazione è riuscita a coinvolgere le stesse chiese locali nelle diocesi di Aversa e Caserta, di cui è stato alfiere don Patriciello, in nome delle ragioni di difesa della vita e della “custodia del creato”. Abbiamo però rilevato dai manifesti, dagli slogan, dai discorsi, anche se comprensibile, una accentuata venatura antistituzionale per l’abbandono percepito da questo popolo da parte delle istituzioni pubbliche, che può dar luogo ad un facile giustizialismo quando in una serie di cartelli con foto si dichiarano “colpevoli” i vari Commissari ai rifiuti succedutisi da Catenacci, a Bertolaso, Bassolino, Pansa e così via. Non spetta a noi emettere dichiarazioni o meno di colpevolezza del disastro ambientale, ma non si può ignorare un dossier diffuso da Legambiente che ha documentato l’azione della Magistratura contro le ecomafie dal 1991 al 2013, censendo 82 inchieste per traffico rifiuti che hanno trasportato veleni da ogni parte d’Italia seppelliti nelle discariche legali ed illegali nella Terra dei fuochi, gestiti dalla criminalità organizzata casertana e napoletana. Inchieste concluse con 915 ordinanze di custodia cautelare, 1.806 denunce, coinvolgendo ben 443 aziende: la stragrande maggioranza di queste ultime con sede sociale al centro e al nord Italia. In ventidue anni sono stati smaltiti nella Terra dei Fuochi, tra la provincia di Napoli e di Caserta, circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti di ogni specie, trasportati da 410.905 camion carichi di rifiuti che terminavano il loro tragitto nelle campagne del napoletano e nelle discariche abusive del casertano. “Soltanto l’inerzia diffusa delle istituzioni, la «disattenzione» di chi doveva controllare, e una fitta rete di collusioni e omertà possono aver consentito «l’invisibilità» di una colonna di decine di migliaia di
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tir”. Tutto questo è avvenuto per decenni nel silenzio delle società locali, anche se ricattate dai gruppi della criminalità organizzata che imponevano il coprifuoco quando arrivavano questi camion con i veleni da smaltire. A nostro avviso non possono rimanere sullo sfondo del disastro ambientale le responsabilità primarie della criminalità organizzata, delle imprese industriali del Nord e del Centro, e di amministratori e politici, conniventi se non collusi, che devono essere il bersaglio principale di una mobilitazione e di una lotta civile. In secondo luogo, la domanda che mi affiorava lungo questo composito corteo, da cui sono state mandati in coda sindaci e gonfaloni comunali, “Chi farà la sintesi” di tutte le richieste delle varie situazioni e rappresentanze territoriali, quando serpeggia la sfiducia nelle istituzioni pubbliche, ed i partiti sono inesistenti? Nella manifestazione conclusiva a Piazza Plebiscito costruttivamente è stata presentata una Piattaforma di proposte in dieci punti come voce dei cittadini rivolta a tre ministeri. Forse è il caso di non parlarsi a distanza, a partire dalle amministrazioni locali, o di aspettare cinicamente che una mobilitazione si esaurisca. Responsabilità degli stessi organizzatori – senza escludere le parti politiche – è dare uno sbocco “politico” maturo a questo “fiume in piena” che contamini la stessa vita pubblica delle comunità locali anche su altri argomenti. Per una comprensione analitica dei rischi della manipolazione (criminale) dell’ambiente, non può mancare un accenno alla teoria della “società del rischio” di U. Beck (La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci 2000; La società globale del rischio, Asterios 2001). Il riferimento è alle conseguenze collaterali imprevedibili ed incontrollabili dello sviluppo tecnologico ed industriale, ed al conflitto di “definizione dei rischi” tra sapere esperto e saperi non esperti. I rischi diventano reali, quando la società li riconosce come tali. La realtà dei rischi può dunque essere modificata in conformità degli scontri e delle lotte all’esito dei quali si decide circa il sapere e il non-sapere. Essi sono sempre l’esito di una “messa in scena” che avviene nel quadro di determinati rapporti di definizione dei rischi.
Un popolo in piena Si ingrossava scaglione dopo scaglione di madri di famiglia con foto dolorose di figli scomparsi, di giovani, studenti, ambientalisti e militanti di vecchia data.
INTERVISTA A DON MAURIZIO PATRICIELLO
Storie dalla terra dei fuochi L’eroe per caso di Caivano a cura di Patrizia Perrone
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ome è cominciato il suo impegno per la terra dei fuochi? Io sono parroco a Caivano da 20 anni. Fino alla costruzione della superstrada Nola -Villa Literno qui c’erano le campagne coltivate dai nostri antenati. Negli anni noi siamo stati ingannati, ogni volta che si parlava di rifiuti si parlava solo delle immondizie casalinghe e sembrava che l’emergenza fosse dovuta al fatto che non facciamo la raccolta differenziata. I napoletani passavano per sporchi e incivili e oltre al danno c’è stata la beffa. Poi abbiamo compreso che i conti non tornavano. Se ognuno di noi produce tanti rifiuti urbani all’anno e una discarica ha una certa capienza e dovrebbe durare sei anni perché dopo un anno e mezzo era già piena? Perché in questi rifiuti c’era di tutto: dai pneumatici, alle carcasse d’auto e anche ai rifiuti delle industrie del nord. Poi c’è stato il fenomeno dei roghi tossici. Di solito si parla di terra dei fuochi ma questo termine è fuorviante, non mi è mai piaciuto. Questi fuochi chi li ha visti mai? Noi abbiamo visto il fumo, mica il fuoco. Il fuoco è rosso e scoppiettante, noi abbiamo visto colonne di fumo altissimo che si alzavano verso il cielo e andavano ad oscurarlo. Ci chiedevamo cosa fosse, ci davano spiegazioni poco convincenti. Io sono un prete, una notte di qualche anno fa, in cui un fetore enorme entrava nelle case, mi sono svegliato e ho detto: Signore cosa mi
stai chiedendo? Ho avuto la certezza assoluta che dovevo fare qualcosa e non sapevo da dove cominciare. Cominciai a parlare con le amministrazioni locali, con i carabinieri, con i vigili. C’è stato un giorno in cui tutta Caivano fu invasa dal fumo nero. Io guardavo questo fumo e pensavo: ma siamo diventati tutti folli? Cominciai a fare convegni su convegni, a invitare il dottor Antonio Marfella e altri, poi a mettere insieme i sindaci, a fare incontri, andare in Prefettura a denunciare e tutto il resto. Poi c’è stato un momento molto importante, perché io ero editorialista per Avvenire. Così un giorno scrissi un articolo che accompagnai a una mail chiedendo al direttore di darci una mano.
Silenzi ingiustificati Lo Stato dovrebbe dirci di stare attenti e invece sono io che grido allo Stato che qui c’è un pericolo, lo Stato non fa nulla.
Infatti, Avvenire è uno dei giornali che maggiormente ha fatto informazione su questo problema. È stato “il” giornale che ha denunciato, Avvenire lo ha fatto, mica il Mattino. Il Mattino metteva un trafiletto a pagina 39, 40. Il Mattino non vuole altro che l’inceneritore di Giugliano, il Mattino è di proprietà di Caltagirone, ci sono interessi. Lei è d’accordo con il dottor Marfella quando dice che spostando l’attenzione sui rifiuti ordinari si cerca di coprire il traffico di rifiuti tossici? È stato Marfella a capire ed ad allertare sui
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rifiuti tossici, che ha capito l’imbroglio che c’era dietro. Ancora adesso si parla solo dei rifiuti urbani, solo della differenziata. A Caivano fa il generale Costa ha estratto da un terreno coltivato 70 fusti di veleno e ha messo il terreno sotto sequestro, ha sequestrato anche alcuni pozzi perché l’acqua è avvelenata, addirittura si sono trovate tracce di cloroformio. Noi abbiamo cominciato questa campagna, abbiamo formato comitati, li abbiamo messi in rete, abbiamo raccolto 35 mila firme, abbiamo denunciato le amministrazioni inadempienti abbiamo fatto una petizione al Parlamento Europeo presso il quale io e Marfella siamo stati ascoltati. Poi c’è stato Schiavone con le sue rivelazioni contenute in atti desecretati dopo 16 anni e abbiamo visto che queste cose le aveva dette 16 anni fa. Dopo tutte le lotte che avete fatto il 16 novembre c’è stata la manifestazione “Fiume in piena”. In che fase siamo? In una fase molto pericolosa e delicata. La manifestazione è stata un successo per modo di dire. Io ai ragazzi che alla sera erano entusiasti ho detto “guagliù questo non è un successo, questo è il massimo degli insuccessi, perché è la prova evidente che questo è il corteo dei disperati”. La gente non ne può più qua muoiono persone continuamente. A proposito di morti, nel corteo erano presenti i cartelloni con i volti dei bambini morti di questa zona. Una mamma la cercava con insistenza. Come si sente rispetto al fatto che la gente la vede come una guida? Io ho chiesto ai miei ragazzi di farmi un po’ da scudo perché corro dei rischi anche io in un corteo, sotto al mio braccio si è messo Nino D’angelo e i ragazzi non facevano avvicinare le persone. Quando siamo arrivati a piazza del Plebiscito dietro al palco ho incontrato questa donna. Mi ha fatto una tenerezza immensa, l’ho abbracciata, lei aveva la foto della figlia tra le mani. Sono momenti di grande imbarazzo in cui non sai mai cosa dire. Balduzzi prima e la Lorenzin dopo continuavano a dire che noi stiamo morendo per gli stili di vita sbagliati. Ma se noi fumiamo troppo, i bambini non fumano, come mai così tanti muoiono di cancro? Ad Acerra che ha 50mila abitanti è morta una bambina con
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Foto di Mauro Pagnano
una forma molto rara di cancro, che di solito colpisce una persona su 200mila. Tonia è morta, e altri due bambini hanno lo stesso cancro, come mai? Questa e` una cosa che solo chi è in malafede può negare. Io non sono uno scienziato, sono un prete che raccoglie il grido di questa gente. Lo Stato dovrebbe dirci di stare attenti e invece sono io che grido allo Stato che qui c’è un pericolo, lo Stato non fa nulla. Poi i terreni sequestrati dalla forestale erano tutti quanti coltivati e ora c’è un problema con i contadini, vengono qua e alzano la voce, temono di restare senza lavoro. I terreni non li ho mica sequestrati io, ma la forestale. I pozzi sono inquinati, cosa dobbiamo fare? È possibile che dobbiamo porre questa condizione: vuoi lavorare e morire o non vuoi lavorare più? Questo è disumano. Lei ha voluto incontrare fortemente il Papa, che cosa le ha lasciato quell’incontro? In realtà è stato un incontro fortuito, voluto dalla divina Provvidenza. Mi ha detto poche parole, mi ha incoraggiato e mi ha dato una pacca sulle spalle. È stata una cosa molto bella. Adesso gli abbiamo mandato 100mila cartoline e gli ho scritto una lettera. Spero che da un giorno all’altro mi chiami.
“Noi abbiamo cominciato questa campagna, abbiamo formato comitati, li abbiamo messi in rete, abbiamo raccolto 35 mila firme, abbiamo denunciato le amministrazioni inadempienti abbiamo fatto una petizione al Parlamento Europeo presso il quale io e Marfella siamo stati ascoltati”.
di Maria Rosa Caspariello
Sannio “In” felix Studi dell’Università del Sannio svelano la concentrazione di veleni nei campi della Valle Caudina
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erra dei Fuochi”. Triste destino per una parte del territorio campano che grazie alla fertilità del terreno, dovuto anche alla presenza del fiume Volturno, si meritò il nome di “Campania Felix”. Crocevia di culture e tradizioni, punto fermo delle bellezze storiche, architettoniche e paesaggistiche del mondo intero. Questa è stata ed è la Campania. Lo sanno bene i suoi uomini più rappresentativi, quelli per intenderci che amano il territorio e cercano di tutelarlo ad ogni costo. È loro l’opinione secondo la quale è necessario agire subito per evitare che ‘‘Campania Felix’ subisca un’onta indelebile. Intanto però la nostra regione offre scenari devastanti. Qualche anno fa la “monnezza” di Napoli ha fatto il giro di tutti i tg internazionali. Adesso è la questione dei rifiuti tossici a tenere banco. Lo scenario che si va delineando ricorda l’inferno dantesco: nei gironi ci sono tutte le province. Anche quelle che fino a qualche tempo fa erano considerate piccoli paradisi incontaminati. Sono state le dichiarazioni del pentito Schiavone, desecretate dopo decenni, a scuotere con determinazione coscienze e ricordi anche nel Sannio. E prima ancora uno studio realizzato dall’Università del Sannio e dalla Federico II di Napoli in cui si evidenziano concentrazioni anomale di metalli pesanti proprio in terra sannita e proprio in Valle Caudina – porzione del territorio menzionata dall’ex tesoriere dei casalesi nei verbali inerenti l’audizione che il collaboratore di giustizia svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti –. Due circostanze non automaticamente disgiunte tra loro. Ma procediamo con ordine. Nel 2011 l’Università del Sannio e l’Università federiciana hanno svolto – anche per conto della Provincia di Benevento – uno studio sui tenori di fondo delle sostanze chimiche presenti nel suolo, compiutosi nella redazione di un Atlante geochimico. Lo studio
Foto di Mauro Taddeo
è stato portato all’attenzione dei più soltanto in recentissime pubblicazioni. L’esito è tutt’altro che entusiasmante. I risultati restituiti da un laboratorio d’oltreoceano sui campioni inviati dagli studiosi dei due atenei chiarisce senza ombra di dubbio che il territorio sannita – e la Valle Caudina in particolare – risulta custode di concentrazioni di elementi chimici che superano di gran lunga quelli stabiliti dalla norma. Lo studio diventa poi inquietante nel caso dei livelli di mercurio tracciati sull’area compresa tra Airola arriva e Durazzano: rispetto ad un fondo naturale minore di 0.1 mg\Kg e rispetto ad un limite imposto dalle normative di 1 mg\Kg, vengono identificate zone con una concentrazione di Hg pari a 3 mg\Kg. Dunque, tre volte superiori ai limiti di legge e ben 30 volte superiore al tenore di fondo naturale. Come spiegare le anomalie? Secondo Domenico Cicchella, professore di Geochimica all’Unisannio e tra gli autori dell’Atlante Geochimico di Benevento e della provincia, le cause naturali sono da escludersi: “Mi sono occupato di molte altre zone sia
Campania Felix La nostra regione offre scenari devastanti. Qualche anno fa la “monnezza” di Napoli ha fatto il giro di tutti i tg internazionali. Adesso è la questione dei rifiuti tossici a tenere banco.
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della nostra regione che d’Italia – ha chiarito lo studioso – ma non mi sono mai imbattuto in situazioni del genere. Concentrazioni elevate di mercurio si possono registrare nei pressi di aree a forte attività vulcanica. Dunque, per quanto concerne la zona in esame, si possono escludere fattori naturali”. Le cause? “Il nostro studio è stato improntato sull’esame dei valori degli elementi chimici – ha osservato l’ordinario di geochimica – e non certamente sulle cause che hanno potuto determinare una situazione come quella che si registra in Valle Caudina. Il controllo ambientale spetta ad altri organismi”. Appunto. Come dimenticare allora le dichiarazioni rese nel 2011, dall’allora comandante provinciale del Corpo forestale, Angelo Vita in merito ad alcuni esposti in cui si segnalavano cave a cielo aperto oggetto di deposito illecito di rifiuti tossici e pericolosi? Un fenomeno presente soprattutto nella zona a sud della provincia di Benevento, con centinaia di buche scavate su terreni che avrebbero dovuto essere utilizzate per la realizzazione di case. A questo punto c’è davvero da chiedersi se esiste un nesso tra le dichiarazioni di Schiavone riguardanti l’interramento dei rifiuti tossici e i risultati della ricerca scientifica sui tenori di fondo degli elementi geochimici nel Sannio. La Provincia di Benevento, dal canto suo, ha stanziato 4mila euro per indagare con maggiore dettaglio le aree che hanno restituito concentrazioni anomale di metalli pesanti e soprattutto di mercurio. Ma sull’ipotesi dell’interramento di rifiuti tossici anche nel Sannio è sceso un velo di silenzio. Eppure stiamo parlando di una porzione del Sannio il cui ultimo territorio – Forchia – dista appena 6km da Santa Maria a Vico, uno dei siti più inquinati d’Italia secondo il rapporto del Ministero della Salute. Allora, se è vero come è vero che il grado di civiltà di un popolo si misura anche attraverso la capacità di adottare comportamenti positivi rispetto all’ambiente è altrettanto vero che le istituzioni a tanto deputate devono essere in grado non solo di sollecitare buone prassi ma anche di rimuovere tempestivamente ciò che potrebbe essere causa di sofferenza per le popolazioni. Insomma, ci sono abbastanza elementi per spingersi ad indagare con serietà anche il sottosuolo sannita. Cum grano salis.
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ALLARME RIFIUTI TOSSICI NEL SANNIO
“Sulla presenza di rifiuti tossici e di mercurio nei terreni della provincia di Benevento, sono state diffuse notizie che hanno destato allarme nell’opinione pubblica. È vero che il Sannio è stato duramente e profondamente colpito. Abbiamo pericolosi bubboni, situazioni critiche e punte di alto inquinamento. Su questo tema così importante e delicato, come dimostra l’attenzione dei mass media nazionali, non dobbiamo calare ombre o, in maniera inconsapevole, offrire supporto a chi vuole minimizzare o nascondere, ma dobbiamo anche non consentire ambiguità e confusioni. Iniziamo allora a precisare che la Provincia di Benevento non è la terra dei fuochi né dei veleni. Nonostante i tanti problemi che abbiamo, il Sannio resta un punto di riferimento in Campania per la qualità ambientale del territorio e dei prodotti ed abbiamo tutte le credenziali per investire sulla green economy. Non è vero che noi siamo le degradate aree interne della Campania; in tempo di economia verde noi siamo miniere d’oro della Campania, noi siamo la Campania del vento buono, siamo la sua green belt, la Campania del vivere en plein air in sicurezza ed immersi in uno straordinario scrigno di valori umani, relazionali e culturali, con un patrimonio di beni culturali e soprattutto naturalistico, identitario e di tradizioni non solo originale ma inestimabile in quantità e qualità. Proprio perché siamo consapevoli della valenza di un progetto locale di economia verde, la Provincia di Benevento assicura il massimo impegno a difesa del territorio, anche a supporto delle forze dell’ordine e della Magistratura, per individuare discariche abusive in attesa di avere i necessari riscontri alle dichiarazioni di Carmine Schiavone che ha parlato di sversamento di rifiuti tossici anche nel Sannio. Nel contempo, sulla quantità anomala di mercurio in alcuni comuni della Valle Caudina, abbiamo incaricato gli specialisti dell’Università del Sannio che faranno nuovi campionamenti. E’ però importante chiarire che le analisi svolte dalla Provincia negli anni scorsi hanno interessato le sponde fluviali e quindi agricoltori e consumatori possono stare tranquilli. Non c’è alcuna sottovalutazione del rischio ma oggettivamente il Sannio non rappresenta un caso critico. Per valutazioni più approfondite, però, occorre attendere i nuovi risultati”. Prof. Aniello Cimitile Commissario Straordinario Provincia di Benevento
SPECIALE: FEMMINICIDIO
di Daniela Mattolini Valgiusti
Foto di Neal Peruffo
La Scheda: violenza di genere e femminicidio La violenza sulle donne è un fenomeno allarmante
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emminicidio è un neologismo che si riferisce a qualsiasi forma di discriminazione e violenza – fisica, psicologica, economica, istituzionale – attuata contro la donna “in quanto donna”. È una violenza che si nasconde nella mancanza di equilibrio relazio-
nale tra il genere maschile e quello femminile e nella necessità di controllo e di possesso da parte degli uomini sulle donne. Uomini padroni, incapaci di vivere relazioni alla pari e di accettare l’autonomia delle loro compagne. Gelosia, possesso, amore malato. La violenza sulle donne è un dramma pre-
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SPECIALE: FEMMINICIDIO
I dati parlano chiaro: nel mondo, ogni otto minuti una donna viene uccisa; una ogni due giorni in Italia, dove solo lo scorso anno ne sono state uccise 128 per la stampa, 170 secondo il rapporto Eures-Ansa. sente in tutte le culture, abbraccia tutte le classi sociali ed è un fenomeno di proporzioni allarmanti: in tutto il mondo, una donna su tre – nella sua vita – ha subito violenze fisiche, sessuali o abusi di altra natura, specialmente da parte del proprio partner. L’omicidio è la forma estrema di violenza contro le donne, la punta dell’iceberg. Spesso la società tace su questi “delitti d’amore”, copre, condona, alleggerendo il problema e riducendolo a concetti come “amante incompreso o impazzito”. Sgombriamo la nostra mente da questi concetti: nessuna attenuante, sono omicidi! Infatti, non si tratta, come vuol sembrare, di delitti passionali, di raptus, di follia, ma di reati e come tali devono essere trattati. Non è una questione femminile. Si tratta, invece, di una questione maschile, dato che sono gli uomini ad agire la violenza. I dati parlano chiaro: nel mondo, ogni otto minuti una donna viene uccisa; una ogni due giorni in Italia, dove solo lo scorso anno ne sono state uccise 128 per la stampa, 170 secondo il rapporto Eures-Ansa. Perlopiù sono omicidi che maturano nell’ambiente famigliare o delle relazioni sentimentali, e l’autore è da ricercarsi nel partner – marito, fidanzato, convivente – in un ex partner o nell’amante. La decisione di porre fine a una relazione e i primi tre mesi successivi alla rottura del rapporto rappresentano il momento in cui le donne rischiano di più. Il femminicidio costituisce, infatti, la conseguenza di un “possesso negato” e solitamente dipende dalla decisione della donna di uscire da una relazione sentimentale. Ciò si spiega con il ruolo chiave che la donna ha negli equilibri e nelle dinamiche di coppia, che la vedono come la colpevole della rottura di quel complesso patto emotivo e sentimentale che – una volta compromesso – provoca nell’uomo frustrazioni, violenze e aggressività, che niente
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Foto di Carlo Hermann
hanno a che vedere con l’amore. Il 25 novembre – Giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne – non deve essere una ricorrenza rituale, ma un’occasione per riflettere e mettere a punto politiche adeguate per fermare queste gravissime violazioni dei diritti umani, che vanno ben oltre il danno individuale, costituendo una minaccia allo sviluppo e alla sicurezza di ogni società. Occorre tenere sempre presente che le leggi da sole non bastano. È fondamentale agire anche sul piano culturale e sociale, combattendo atteggiamenti e comportamenti che tendono a tollerare, giustificare o ignorare la violenza agita contro le donne.
La giornata mondiale contro la violenza Il 25 novembre non deve essere una ricorrenza rituale, ma un’occasione per riflettere e mettere a punto politiche adeguate per fermare queste gravissime violazioni dei diritti umani.
di Nicoletta Corradini
Foto di Alfonso Di Vincenzo
ONE BILLION RISING, 14 febbraio 2014 Partecipare alla lotta contro la violenza sulle donne in nome della consapevolezza e della solidarietà
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l giorno dopo mi risveglio e la visione di Eve Ensler (drammaturga statunitense, fondatrice nel 1998 del V-Day, movimento internazionale contro la violenza su donne e bambine) è realtà. Oltre un miliardo di persone nel mondo hanno pacificamente invaso piazze, strade, scuole,.. in difesa di tutte le donne violate nel nostro Paese e nel mondo. Insieme, abbiamo affermato la volontà di porre fine alla violenza inflitta al corpo e allo spirito delle donne in un modo nuovo, ballando! un atto celebrativo non violento per rivendicare la libertà del corpo, della mente e dell’anima. Sono inondata da immagini, commenti, gioia e sorrisi. Mi piace questa nuova energia che ha risvegliato la volontà di partecipare alla lotta contro la violenza sulle donne in nome della consapevolezza e della solidarietà, oltre all’appartenenza politica o partitica: abbiamo trasformato il S.Valentino dei fiori e dei cioccolatini in una giornata di mobilitazione nel nome del rispetto, inalienabile e inviolabile, delle donne. Il prossimo
14 febbraio 2014 questa energia liberata si rinnoverà in un impegno civile: One Billion Rising per la Giustizia – Libera la tua storia. La rete di donne, uomini e giovani si sta riunendo per dare vita di nuovo ad un’ insurrezione pacifica e globale per chiedere GIUSTIZIA. Parteciperemo perché qualunque donna, bambina o adolescente abbia il diritto di vivere al riparo dalla violenza e dall’abuso; balleremo per le donne maltrattate e uccise, per quelle che iniziano ora il loro percorso fuori dal silenzio e per porre fine all’impunità dilagante. One Billion Rising per la Giustizia è un invito a rompere il silenzio, a liberarsi dalla vergogna, dal senso di colpa, dal dolore per uscire dall’isolamento perché il dramma privato riguarda tutti, l’intera società. “Immaginate un miliardo di donne che raccontano le proprie storie, che ballano, parlano ad alta voce… la giustizia ha inizio quando cominciamo a parlare, a liberare le nostre storie e a riconoscere la verità nella solidarietà della comunità.”
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SPECIALE: FEMMINICIDIO
di Marianna Quaranta
Foto di Salvatore Laporta
Le novità legislative La risposta del legislatore italiano ai richiami della normativa internazionale e comunitaria
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ulla spinta della Convenzione del Consiglio d’Europa di Istanbul dell’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza sulle donne e in ambito domestico, si è affidata al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, l’introduzione di nuove norme per contrastare la violenza di genere e per prevenire il femminicidio.
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Prima di approcciare il tema è doveroso evidenziare che la prospettiva giuridica pur essendone per certi versi il prodotto, non riesce ad impattare a pieno le implicazioni socio – culturali del fenomeno. La norma, infatti, per quanto si sforzi di arginarne gli effetti, interviene a valle quando, purtroppo, la violenza si è già consumata. Non è errato, dunque, affermare che l’efficacia delle novità legislative introdotte potrà essere
tale solo allorquando siano intervenute politiche sociali più incisive ed attente alla tutela della vittima, ma anche del carnefice per prevenire condotte violente a vantaggio della collettività tutta, senza distinzione di genere. Non a caso la recente normativa non prevede solo misure repressive più severe, ma punta sulla erogazione di risorse finanziarie ed un piano di azione per contrastare la violenza e creare una “rete – rifugio” a sostegno delle vittime. Le iniziative internazionali e comunitarie Per comprendere l’importanza delle attività e le dimensioni del fenomeno è opportuno, seppur sinteticamente dare conto delle molteplici iniziative che in materia sono state adottate dalle istituzioni internazionali e comunitarie. Il primo spunto, si rinviene nella Convenzione
che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. La Raccomandazione Rec (2002)5 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulla protezione delle donne dalla violenza adottata il 30 aprile 2002 è stato il primo strumento internazionale per proporre una strategia globale finalizzato alla prevenzione della violenza ed alla protezione delle le vittime e tutt’oggi costituisce una delle misure legislative fondamentali a livello europeo in questo ambito. I Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno riconosciuto l’importanza della lotta alla violenza contro le donne in occasione del Terzo Summit dei Capi di Stato e di Governo, tenutosi il 16 e 17 maggio 2005 a Varsavia ed hanno, quindi, deciso di lanciare una Campagna per combattere la violenza contro le donne, inclusa la violenza domestica, il cui progetto tecnico è stato ap-
Per completare il piano di interventi è stato varato un piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere che prevede azioni di intervento multidisciplinari per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979, entrata in vigore il 3 settembre 1981 e ratificata dall’Italia nel 1985 che, come noto, condanna ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne ed è volta a sollecitare gli Stati ad adottare i provvedimenti necessari per reprimere tutte le forme di tratta delle donne e di sfruttamento della prostituzione. Parimenti assume particolare importanza la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata nel 1993 ed il Protocollo opzionale alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 6 ottobre 1999, aperto alla firma il 10 dicembre 1999, entrato in vigore e ratificato dall’Italia il 22 dicembre 2000. In Europa la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo all’art. 3 testualmente recita
provato dal Comitato dei Ministri il 21 giugno 2006 e la Conferenza di avvio che ha avuto luogo il 27 novembre 2006 a Madrid. Sempre nel 2006 è stata inoltre istituita la Task Force del Consiglio d’Europa per combattere la Violenza contro le Donne, inclusa la Violenza Domestica, che ha il compito di valutare i progressi conseguiti a livello nazionale durante l’implementazione della suddetta Campagna. In Italia … Nella lotta contro la violenza (anche) sulle donne, il nostro Paese ha già adottato su forte sollecitazione del Ministero per le pari opportunità, il decreto legge 20 febbraio 2009, n.11 convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009, n. 38, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché, in tema di atti persecutori, introducendo il reato di stalking, misura salutata con estremo favore anche dai
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SPECIALE: FEMMINICIDIO
La legge sul femminicidio Il decreto 14 agosto 2013, n. 93 convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, non fa che dare continuità alle modifiche apportate al codice penale per garantire una tutela più incisiva ed efficace alle vittime di violenza.
Foto di Alfonso Di Vincenzo
sostenitori di una legge sul femminicidio. Il decreto 14 agosto 2013, n. 93 convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, non fa che dare continuità alle modifiche apportate al codice penale sempre in vista di garantire una tutela più incisiva ed efficace alle vittime di violenza. Più in dettaglio, la normativa prevede l’inasprimento delle pene quando: (a) il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di un minore; (b) il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza; (c) il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner. Parimenti, vengono inasprite le pene per il reato di stalking. In particolare, viene ampliato il raggio d’azione delle aggravanti che vengono estese anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché a quelli perpetrati con strumenti informatici o telematici da chiunque. È, inoltre, previsto l’arresto obbligatorio in caso di flagranza per reati di maltrattamento familiare e stalking e l’allontanamento del coniuge (o compagno) violento se c’è rischio per l’integrità fisica della donna. Viene poi prevista l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori nei casi di gravi minacce ripetute (ad esempio con armi) sempre per tutelare la vittima che tornata a casa potrebbe essere costretta a ritirare la de-
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nuncia. Per i maltrattamenti in famiglia viene garantita una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento dei procedimenti penali ed estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno stato di particolare vulnerabilità. Va, infine, rimarcato che, anche al fine di dare più compiuta attuazione alla Convenzione di Istanbul, recentemente ratificata, per i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di stalking, la vittima è ammessa al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito, come pure è previsto il rilascio di un permesso di soggiorno per tutelare le vittime straniere dalla violenza domestica. Il piano di protezione Per completare il piano di interventi è stato varato un piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere che prevede azioni di intervento multidisciplinari per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza e soprattutto formare gli operatori in modo che sappiano come intervenire in una casistica che per le implicazioni familiari ed affettive che nella maggior parte dei casi manifesta è estremamente complessa e delicata.
di Raffaella Pisani
Centro Italiano Femminile Un’associazione di donne per le donne
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l Centro Italiano Femminile è un’associazione di donne per le donne, presente su tutto il territorio nazionale che opera senza fini di lucro e si propone di far fronte ai bisogni sociali. Il centro comunale di Napoli è nato nell’anno 1945 e da subito si è impegnato per dare un contributo importante alla ricostruzione del paese nell’immediato dopoguerra e stimolando il processo di emancipazione della donna. Il Cif è impegnato soprattutto perché sia riconosciuto il valore intangibile della vita umana, la dignità della donna e la centralità della famiglia. È stato tra i primi enti a sostenere ed aiutare la donna lavoratrice aiutandola nel complesso compito di conciliazione del tempo per la famiglia e per il lavoro. Il Cif continua con le proprie attività ad essere al servizio delle donne, riconoscendo in esse il principale soggetto storico del cambiamento e dello sviluppo del paese, nella diversità e peculiarità del proprio modo di essere, di sentire e di agire; le donne rappresentano una riserva di energie, di potenzialità e di positiva influenza nell’attuale fase storica che richiede un supplemento di sensibilità per arricchire e umanizzare la cultura e la vita. L’attuale impegno del CIF comunale di Napoli sul territorio è sostanzialmente finalizzato al conseguimento di obiettivi di crescita civile, culturale e sociale del mondo femminile pertanto è caratterizzato soprattutto da progettazione e realizzazione di convegni, seminari, interventi in ambito di ricerca e formazione, nonché di attività laboratoriali. Presso la sede del centro comunale di Na-
poli è inoltre conservato l’archivio storico e fotografico inventariato dalla Sovraintendenza Archivistica che testimonia le attività svolte nel passato dal Cif relativamente alla storia dei Centri sociali e delle attività educative svolte sin dal secondo dopoguerra, documentazione importante e significativa sia per la storia delle donne che per quella del Cif. Il Cif di Napoli ha attivato una convenzione con l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” per l’attività di tirocinio delle studentesse del Corso di Laurea triennale in Servizio sociale e del Corso di Laurea Magistrale in Servizio sociale e Politiche sociali. Inoltre, propone seminari di formazione permanente per gli assistenti sociali in collaborazione con l’Ordine Professionale degli Assistenti Sociali della Regione Campania, che vede coinvolti come formatori psicologi, giudici onorari, professori universitari e professionisti di settore. Il Cif di Napoli partecipa alla consulta delle Associazioni laicali della Curia di Napoli e insieme alla Caritas gestisce uno sportello di ascolto e orientamento per le donne immigrate. Ha intrapreso, inoltre, una stretta collaborazione con l’associazione Donna Pink, le cui attività sono finalizzate al sostegno delle donne vittima di violenza, si stanno progettando una serie di iniziative di sensibilizzazione culturale rivolte in particolar modo alle giovani generazioni. Cif Napoli: Via Concezione a Montecalvario, 61 cif.napoli@gmail.com fb Cif Napoli
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SPECIALE: FEMMINICIDIO
di Lia Imazio
DONNA PINK lavitachemimerito@donnapink.it www.donnapink.it
Nessuno si salva da solo L’esperienza di Donna Pink
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vero, come è vero che 66.000 sono le vittime di femminicidio nel mondo, secondo le ultime stime: circa il 17% degli omicidi intenzionali totali che segnano direttamente la vita di più della metà della popolazione e quindi quella di tutta la comunità. Donne ferite a morte. Donne lasciate da sole. Donne che non hanno trovato nella società, cosiddetta civile, un aiuto per non morire. Donna Pink, associazione contro la violenza sulle donne, di cui sono il presidente, vuole accrescere la sensibilità sulla condizione femminile nella nostra città e favorire lo sviluppo di un contrasto locale più attento ai bisogni delle donne attraverso l’elaborazione partecipata di un codice etico che definisca comportamenti più attenti alle esigenze delle donne da parte di soggetti pubblici e privati. È necessario ribadire come la maggior parte della violenza si consumi in ambienti domestici e sembra impossibile non riuscire ad arginare questo fenomeno. Leggi che difendono le vittime di maltrattamenti oggi esistono, ma sembra che ci siano troppe difficoltà ad applicarle, e non si capisce perché non si interviene tempestivamente,nel mo-
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mento stesso in cui c’è necessità di cautelare fattivamente le donne e i figli, spesso minori, dalla situazione di pericolo in cui si trovano. DONNAPINK insieme alle donne che si scontrano con una realtà che si oppone alla dignità, alla libertà, al cambiamento, ma non se ne fanno schiacciare e invece creano relazioni istituiscono possibilità per se insieme alle altre, lancia l’allarme sull’inadeguatezza delle strutture di accoglienza rispetto al bisogno generato dal fenomeno della violenza nel nostro paese, che è in contrasto con le indicazioni dell’Unione Europea, i cui standard prevedono l’esistenza di almeno un centro antiviolenza ogni 50.000 abitanti. Donna Pink collabora con il CIF, da anni impegnato nel riconoscimento del valore della vita umana, della dignità della donna, per promuovere conferenze, eventi, iniziative e convegni che sono ad oggi, l’unica risorsa per cambiare. Contiamo sul sostegno volontario e su contributi finanziari di singoli o organizzazioni chiedendo di farsi carico insieme a noi, di queste tragedie ormai quotidiane perché crediamo fondamentale l’impegno comune di uomini e donne per creare insieme una nuova civiltà delle relazioni.
Foto di Alfonso Di Vincenzo
Il femminicidio: Il corpo che le donne non abitano La violenza su una donna colpisce anche tutte le altre di Mariassunta Madonna
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ell’ultimo anno si è parlato molto di femminicidio ed in questo lasso di tempo è salito a centotredici il numero di donne uccise in Italia, di cui 73 dal proprio partner. Tuttavia, parlare senza trovare delle soluzioni sembra essere controproducente. E’ come se gli animi di certi uomini si infervorassero ancor più di fronte alle ossessioni di altri uomini che presentate in televisione diventano una smania collettiva. “Ci vuole l’ergastolo per chi uccide una
donna“, dice l’avv. Giulia Bongiorno e per quanto possa sembrare una pena fortissima sembra essere una delle vie più consone per ovviare a questa emergenza. L’invito che, invece, andrebbe rivolto alle donne è una sorta di preghiera ad uscire dalle loro mura domestiche che spesso diventano gabbie. Un invito ad uscire dalle loro prigioni e dalla perversione di uomini che non sono più tali, ma bestie. Il loro grugnito quando tornano a casa è il segnale che di lì a poco sporcheranno le carni delle loro donne. I lividi diventano
L’umanità ha perso se stessa Il mondo ha bisogno di donne ed uomini che gridano ad alta voce il loro nome e lo facciano sentire al compagno accanto. Il giardino della vita lega tutti con un filo invisibile e vivere significa saper restare in equilibrio pur guardando giù.
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SPECIALE: FEMMINICIDIO
mine sui corpi di chi piuttosto che portarli di fronte alla legge li nasconde sotto un maglione dopo aver già tentato di mandarli via con una doccia fredda. Spesso le donne sono le prime a non voler denunciare per il bene e la pace della famiglia; una “pace” in cui però si muore ogni giorno. Le prime a dover trovare il coraggio di dar voce ai loro tormenti sono proprio le vittime di questo scempio. Non c’è una violenza intollerabile ed un’altra meno, non bisogna perciò sottovalutare le prime avvisaglie di violenza talvolta anche morale e/o psicologica. L’unica voce che si è sollevata in questi ultimi mesi è il “Si” del Senato che ha approvato il decreto sul femminicidio con 143 voti a favore. Con il via libera di palazzo Madama il provvedimento diventa legge Le donne sono le prime a non anche se con molte polemiche. voler denunciare per il bene Le nuove norme che regolano questa forma e la pace della famiglia; di violenza si basano una “pace” in cui però si muore soprattutto su un forte inasprimento delle ogni giorno. Le prime a dover pene. trovare il coraggio di dar voce La prima grande introai loro tormenti sono proprio duzione è sicuramente l’arresto in flagranza le vittime di questo scempio. obbligatorio per i reati di maltrattamento. In secondo luogo, inoltre, la polizia giudiziaria potrà disporre l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi generalmente frequentati dalla persona lesa. La nuova legge si preoccupa di risanare una ferita aperta da tempo e lo fa con il massimo scrupolo. Le segnalazioni non possono essere anonime, ma ovviamente si protegge l’identità di chi le fa rendendo irrevocabile la querela. Eventuali intimidazioni sono, quindi, escluse dalla nuova ottica in cui chi decide di denunciare deve poter tornare a casa senza alcun timore. La violenza su una donna è una scheggia che si portano nelle carni anche tutte le altre, perché l’universo femminile che per lungo tempo ha cercato la strada per l’emancipazione vede la sua libertà frenata dalle mani di uomini che non tollerano la libertà di autodeterminazione. E’ previsto anche lo stanziamento di 10 milioni di euro
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per un piano anti-violenza che verrà elaborato dal ministero per le Pari opportunità, e che avrà come obiettivo l’informazione e la prevenzione della violenza contro le donne. Gli occhi stanchi ma non ancora spenti sono il segnale che qualcosa può e deve ancora succedere. Vestiti lasciati per terra e ferite ricucite sono simbolo di ripartenza ed è questo il vagito dell’universo femminile in questi mesi di rinascita. Il 25 novembre è ricorsa la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, ma quello che dobbiamo fare nostra è la convinzione che non c’è un giorno per ricordare qualcosa o qualcuno; ogni giorno è quello giusto per riprenderci la voce. Le leggi da sole non bastano , serve una riforma che parta da dentro per crescere giorno dopo giorno. Occorre «un’educazione incessante che entri nelle case e nelle scuole», per «cambiare radicalmente la mentalità degli uomini, ma anche delle donne» (Umberto Galimberti). Quella che spesso viene perpetuata è una mentalità per cui l’uomo prevarica la donna; si tratta di un archetipo antichissimo rafforzato da una cultura diffusa in tutto il mondo primitivo e che viene ricalcata tanto dalla filosofia quanto dalla religione. L’umanità è fatta di donne ed uomini, è fatta di occhi che cambiano forma e colore senza tuttavia mentire. La violenza la si legge in uno sguardo ma il mondo sembra completamente bendato, i lamenti si fermano in gola e la rabbia resta chiusa tra le mura del petto piuttosto che venire fuori con una voce di protesta, di denuncia, di forza e di coraggio. L’umanità ha perso se stessa, ha perso il coraggio di elevarsi a persone e cuori preferendo la condizione di massa caotica ed informe. Il mondo ha bisogno di donne ed uomini che gridano ad alta voce il loro nome e lo facciano sentire al compagno accanto. Il giardino della vita lega tutti con un filo invisibile e vivere significa saper restare in equilibrio pur guardando giù. Non bisogna perdere la forza, la speranza e la grinta ma bisogna rinascere sempre con lo stesso nome pur diventando una persona migliore ogni giorno.
WELFARE
Modernità e Welfare al tempo della crisi Occorrono politiche forti e maggiori investimenti di Enrica Amaturo
* Direttore
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l dibattito sui temi del welfare in Italia diventa sempre più interessante, tutti rappresentano la drammaticità della situazione attuale. I tagli alle risorse, la disattenzione di gran parte della politica; la tentazione di ritornare a ipotesi di welfare caritatevoli e familistici sono solo alcuni dei nodi che stanno mettendo in ginocchio decine di pratiche di lavoro sociale e con loro migliaia di posti di lavoro. L’interrogativo da cui muove la discussione – se per una sinistra inclusiva sia sufficiente la socialdemocrazia – costituisce purtroppo una premessa fin troppo ottimistica rispetto alla situazione reale. L’idea che il modello sociale europeo non sia più sostenibile, e che la “modernità” porti necessariamente con sé un drastico ridimensionamento del welfare è, infatti, sempre più diffusa, e sottende qualunque dibattito politico ed economico, costringendo la sinistra ad un difficile gioco in difesa, che presta il fianco a continue accuse di “passatismo”. Si assiste in sostanza ad una delegittimazione di quel modello sociale, e la battaglia per la sinistra sembra persa sul piano culturale prima che su quello economico. È, invece, importante riaffermare che il welfare non è un lusso non soltanto per le ragioni di so-
lidarietà sociale di solito invocate, ma dimostrandone la sostenibilità economica e sociale e il suo positivo impatto sull’economia di una nazione. È quanto ho cercato di argomentare a partire da alcune azioni concrete fatte a favore dei giovani quando sono stata assessora al Comune di Napoli e nell’Università con i giovani. Ciò comporta la necessità di una nuova progettualità della sinistra, e la capacità di proporre i propri modelli di sviluppo. In Campania la situazione si presenta come al solito caratterizzata da tanta instabilità, il Fondo Nazionale Politiche Sociali per il 2012 prevede per la Campania una dotazione finanziaria di circa 4 milioni di euro, ben 113 milioni in meno dal 2007. Allo stesso tempo, il fondo Nazionale per la non autosufficienza è stato azzerato mettendo a rischio di chiusura la già fragile rete di servizi presente nella nostra Regione. Migliaia di anziani, disabili, bambini correranno il rischio di essere abbandonati a se stessi. In questo settore occorrerebbero politiche forti, maggiori investimenti economici mettendo mano ai veri sprechi della macchina, per entrare a pieno titolo nell’era della modernità.
dipartimento Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
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WELFARE
INTERVISTA A SUOR RITA GIARETTA
Osare la speranza Significa stare dentro fino in fondo a questo tempo, in questa storia, in questo territorio e nella Chiesa. A Caserta suor Rita è la “buona samaritana” a cura di Beatrice Crisci
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sare la speranza. Il messaggio di Suor Rita Giaretta, religiosa orsolina, da diciotto anni impegnata a Caserta nella sfida di ridare dignità e speranza alle donne vittime della tratta per la prostituzione. A Caserta è la “buona samaritana” di tante donne sfruttate e violate da criminali e aguzzini senza scrupoli, donne migranti in situazioni di difficoltà, sole o con figli. Fare del bene agli altri, dunque, come dono supremo di Dio. Questa è la missione di Suor Rita Giaretta, 56 anni, vicentina di nascita ma campana d’adozione, dell’ordine delle Orsoline del Sacro Cuore di Maria. Nel capoluogo di Terra di Lavoro fonda Casa Rut, una comunità di Suore Orsoline arrivate nel 1995 da Vicenza a Caserta, accolte dall’allora Vescovo Monsignor Nogaro, con un sogno: occuparsi delle donne in difficoltà soprattutto immigrate, che vivono in una condizione di invisibilità e di precarietà sociale e umana. Dopo il lavoro nelle carceri, sulle strade del litorale domizio,
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le Suore hanno aperto una Casa di accoglienza per donne in difficoltà. Casa Rut da allora, è un luogo in cui si respira un’aria di famiglia, in cui c’è la presa in carico della vita delle donne da parte di altre donne che hanno a cuore il loro destino, che si occupano di loro e dei loro bambini anche dopo la fine del percorso di accoglienza previsto per legge. Tantissime le ragazze accolte fino ad oggi, tante sono state vittime della tratta di esseri umani, una delle più gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona. Suor Rita ci racconta: La violenza che subiscono in quanto donne, vederle violate nella loro dignità e sfruttate mi procura un grandissimo dolore al contempo, però, avverto la grande chiamata del Dio che si fa salvezza per aiutare proprio queste persone. Vedere quei volti abbruttiti e deturpati dal dolore e dalla violenza tanto da non apparire nemmeno volti umani mi fa pensare a Gesù che andava incontro alla Croce così sfigurato da non sembrare nemmeno più un uomo. Il “miracolo” tuttavia si ripete sempre:
questi volti rifioriscono, si aprono alla vita e al sorriso. Non c’è gioia più grande che vedere questo e quanto è bello il Vangelo della vita e della speranza. Casa Rut ha festeggiato da poco 18 anni! Possiamo dire di essere diventate maggiorenni. Chiediamo a Dio di continuare a benedire il nostro cammino di vita e di speranza sempre nuova insieme al cammino della nostra Chiesa e della nostra gente. Ringrazio Dio per le tante presenze amiche che hanno accompagnato e che continuano ad accompagnare questo nostro camminare, non sempre facile. Ringrazio le tante e tante giovani donne che hanno abitato e quelle che ora continuano ad abitare questa spazio di vita ritrovando una nuova spinta per riprendere il cammino sotto il segno di una nuova dignità e di una nuova speranza. I tanti bambini che hanno riempito la casa con i sorrisi, i pianti e la gioia di vivere, le tante amiche e i tanti amici che con noi hanno forzato il sogno per farne una realtà e hanno creduto nella forza dell’amore, a partire da quelli della prima ora ad oggi. I loro volti sono scolpiti, ad uno ad uno, nei nostri cuori di madri, di sorelle e di amiche. Un grazie al nostro padre vescovo Raffaele Nogaro che ci ha accolte, sostenute e incoraggiate con la sapienza di un cuore davvero di padre affidandoci poi al cuore del vescovo Pietro Farina che ricordiamo con vivo affetto e gratitudine.
Osare la speranza, suor Rita, è il suo slogan, ma anche il titolo del suo libro, che significato ha? Osare la speranza significa io ci sto dentro fino in fondo in questo tempo, in questa storia, in questo territorio, nella Chiesa ma ci sto a testa alta, con fiducia e con speranza perché il Dio della vita è con noi e vuole che generiamo sempre qualcosa di nuovo. Ogni comunità religiosa, ogni famiglia, dovrebbe essere un pò come una sala parto che in ogni tempo, anche in quelli più duri e drammatici, è capace di generare qualcosa di nuovo e dare vita. Non possiamo essere donne senza speranza e ciò che chiediamo di vedere in tutti quanti ci circondano. E una testimonianza di questo è anche la Cooperativa Newhope pensata e voluta da lei e che il prossimo anno festeggia i primi dieci anni di vita. Newhope è composta esclusivamente da donne. Un sogno forte che è divenuto un laboratorio di sartoria etnica e un’occasione per conoscere, attraverso i prodotti che vi si confezionano, la cultura delle loro etnie. Nel laboratorio in rione Acquaviva si confezionano prodotti unici ed originali. Uno spazio pieno di colori e di fantasia dove si possono ammirare e acquistare straordinari manufatti per farne un’alternativa utile ai tanti doni inutili di questo tempo di Natale. Mi piace ricordare che l’anno scorso alla Biennale di Venezia, alla Newhope è stato assegnato il prestigioso premio Melograno che annualmente viene dato ad una donna immigrata che si sia distinta a favore dell’incontro tra donne straniere e italiane. Il premio è stato consegnato alla presidente della cooperativa Mirela Macovei. Casa Rut non si ferma all’accoglienza, ma va oltre con tutti i percorsi per la regolarizzazione. Si è proprio così perché è importante il contatto con le istituzioni, con il territorio e poi soprattutto la dignità che passa attraverso il lavoro dove le donne diventano protagoniste. La nostra casa diventa una scuola di vita. È questa una sfida, ma sentiamo che la stiamo vincendo. Nell’ottobre scorso a suor Rita è stato consegnato a Pompei il premio “Marianna De Fusco” nell’ambito dei festeggiamenti della decima edizione della manifestazione “Pompei è città.
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INTERVISTA A FAUSTO PEPE
“Regione Campania non ti conosco. Renzi operi il rinnovamento” Conversazione con il Sindaco di Benevento di Rosaria De Bellis
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austo Pepe, 50 anni, ingegnere, è sindaco di Benevento dal 29 maggio 2006. Prima di passare tra le fila del Partito Democratico è stato un dirigente dei Popolari Udeur che ha abbandonato dopo il passaggio di Clemente Mastella al centrodestra. Oggi Pepe si professa renziano in occasione del congresso nazionale dei democratici per la scelta del nuovo leader. In questa intervista, il primo cittadino del capoluogo sannita spazia su tutti i temi dell’attualità politica ed amministrativa, lanciando duri strali all’indirizzo della Regione Campania e del Governo nazionale. Sindaco, anche nella città di Benevento la crisi economica ha spazzato via aziende e posti di lavoro. Cosa sta facendo il Comune per rispondere al disagio sociale delle famiglie? La crisi in città ha fatto sentire i propri effetti con ritardo rispetto ad altri territori, ciò per la specificità del tessuto economico sannita. D’altra parte, oltre al negativo momento dell’economia, anche talune scelte piovute dal livello centrale hanno contribuito: penso ai tagli drastici effettuati ai servizi pubblici e agli investimenti infrastrutturali. Il Comune, nonostante le riduzioni costanti nei trasferimenti, anche per il 2013 ha realizzato un bilancio che vede diminuire tutti gli appostamenti tranne quelli dedicati al so-
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ciale. Stiamo provando a tamponare l’emergenza ma di certo non è questa la strada per uscirne definitivamente. Un problema sociale all’ordine del giorno è quello dell’emergenza abitativa. Basta l’intervento del Comune per risolvere questa vertenza? Figuriamoci se, dopo che le istituzioni di tutti i livelli non sono riuscite a risolvere questo problema per decenni, il Comune da solo e proprio in questo momento storico, può coltivare l’ambizione di assicurare un diritto costituzionale come quello all’abitazione. In ogni caso, va detto che il programma più serio di edilizia residenziale abitativa l’abbiamo messo in campo proprio sul piano locale, sfruttando quei pochi strumenti a nostra disposizione. L’housing sociale è proprio una delle leve che hanno in mano gli enti locali: praticamente poggiando sull’investimento dei privati si impongono standard di locazione, oltre ad un numero di alloggi che può concretamente soddisfare parte della domanda inevasa. Non credo che qualcuno possa pensare di attendere una stagione di investimenti da parte degli IACP. Da settimane l’Anci denuncia la difficoltà dei sindaci a chiudere i bilanci a causa dell’incertezza del Governo sulla politica fiscale. A Benevento com’è la situazione delle
Tamponare l’emergenza Il Comune, nonostante le riduzioni costanti nei trasferimenti, anche per il 2013 ha realizzato un bilancio che vede diminuire tutti gli appostamenti tranne quelli dedicati al sociale.
Ambulatori di musicoterapia sociale in Campania Si è svolto a Scampia, nella sede del Don Guanella di Miano, il Convegno dei musicoterapisti italiani che ha dibattuto il tema del riconoscimento di una professione emergente, essenziale nel mondo educativo, riabilitativo e terapeutico. I lavori sono stati introdotti dal presidente di Musicoterapia Democratica, Rolando Proietti Mancini; a lui sono seguiti i saluti del sindaco Luigi De Magistris, dell’assessore regionale per la formazione professionale, Severino Nappi e del direttore dell’Opera Don Guanella, don Enzo Bugea Nobile. Le relazioni hanno esplorato le attività musicoterapiche campane, affiancando il dibattito a due laboratori pratici che hanno coinvolto i partecipanti in esperienze comunicative di gruppo. Grande attenzione è stata riservata alla tavola rotonda che si è tenuta nel pomeriggio per discutere della legislazione del settore delle arti terapie, con la partecipazione dei vertici istituzionali della Cgil nazionale e campana. Il Convegno ha prodotto soluzioni organizzative di coordinamento delle realtà musicoterapiche del centro-sud e ha posto le basi per la realizzazione di progetti operativi in collaborazione con gli Enti locali coinvolti.
casse comunali? A Benevento si vive la condizione paradossale di tutta l’Italia: chiudiamo a dicembre 2013 il bilancio preventivo 2013. Il cambio delle poste di bilancio, frutto delle scelte di governo, è pratica quotidiana. L’esempio dell’Ici cancellato e sostituito dall’Imu, di cui ora si provano a cancellare le ultime rate, oppure la condizione della tassa sui rifiuti che era Tarsu o Tia ed è diventata Tares e da febbraio Trise, con le conseguenti modifiche strutturali che incidono sia sui bilanci degli enti che sulla vita dei cittadini, sono esemplificative di un modo disastroso di intendere la fiscalità. Il Comune paga le difficoltà di questi tempi, ma stiamo riuscendo in un’operazione verità sui nostri conti, in grado anche di restituire una prospettiva di programmazione. In città ci sono diversi cantieri aperti grazie alla programmazione dei fondi europei. A che punto è la spesa dell’enorme patrimonio finanziario che avete acquisito? Il patrimonio assicurato attraverso l’accesso ai fondi strutturali è una ricchezza effimera senza una programmazione degli interventi necessari a moltiplicare l’efficacia di queste misure. Creare una piazza, rivisitare un quartiere e la sua vivibilità, o costruire un ponte, è addirittura un controsenso se non si creano le precondizioni perché gli imprenditori impian-
tino attività produttive e le famiglie possano godere delle nuove opere. Come giudica il rapporto della Regione Campania con le aree interne? Pessimo. Non è mai stato un rapporto semplice, si è sempre pagato dazio all’egemonia economica e demografica di Napoli, ma negli ultimi anni le cose sono esponenzialmente peggiorate. Dopo l’inclusione del complesso di Santa Sofia nel patrimonio dell’Unesco, quali iniziative avete in mente per promuovere la città? Il patrimonio Unesco, come sottolineata anche da recenti indagini di settore, troppo spesso costituisce un motivo di vanto e di prestigio poco supportato da azioni mirate. A Benevento l’inserimento del complesso monumentale di Santa Sofia ha costituito un momento di rottura rispetto alla staticità da troppo tempo avvertita. Siamo entrati nel Forum delle Culture e con il Ministro Trigilia stiamo immaginando anche azioni sperimentali tarate proprio sulle specificità locali. Vogliamo promuovere Benevento ma con oculatezza: è un’azione costante quella che serve per promuovere i flussi turistici, le istituzioni possono fare tantissimo anche se il vero incoming è nelle mani dei cittadini, dei bar, dei ristornati, dei negozi che costituiscono il primo e più efficace biglietto da visita. Lei è tra i sindaci che si sono schierati a favore di Renzi nel congresso del PD. Cosa si aspetta dal nuovo segretario del partito? Mi aspetto un’importante opera di rinnovamento: nelle metodologie prima ancora che nei nomi. Il Pd si gioca una delle ultime carte in grado di far breccia nella percezione di conservatorismo che tutti i partiti portano con sé. Se non ci riesce Renzi, sarà populismo dilagante: e mentre la deriva di qualche tempo fa era legata alle scelte prese in base ai sondaggi, rischiamo una fase di scelte adottate in base all’applausometro… e in un momento come questo è facile intuire che per suscitare entusiasmo si debba parlare alla pancia. Dal sindaco di Firenze mi aspetto che sappia tracciare un argine dentro al PD ma soprattutto fuori dal Partito Democratico.
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WELFARE
Foto di Salvatore Laporta
Le politiche sociali a Salerno L’opinione di Anna Petrone: “A tutti bisogna garantire il necessario”
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olidarietà è una parola dai significati sempre nuovi. Dal latino in solidum, indicava l’obbligazione da parte di un individuo, appartenente a un gruppo di debitori, di pagare integralmente il debito. Con il tempo il significato cambia, diventa ideologico: la solidarietà è sostegno reciproco nell’uguaglianza e nella fraternità. L’idea di solidarietà, tra gli uomini, sarà così forte che in ogni forma di convivenza civile, fino alle più moderne democrazie, l’uomo proverà a consolidarla in sistema in vista di una maggiore coesione sociale. La predisposizione di un apparato pubblico che sostenga il cittadino in difficoltà, nella quotidianità dell’esistenza o in un ciclo della sua vita, è storia del progresso umano. Oggi il nuovo ordine economico sociale mette a dura prova il sistema di assistenza pubblica. Le politiche sociali in
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Italia rischiano di essere smantellate o mortificate con scelte di politica economica ridicole. Nessun piano di investimento edilizio per strutture di assistenza ai senza tetto e agli immigrati. Nessun piano di assunzione per presidi sanitari carenti di personale. Nessuna vera e realistica politica di sostegno alla famiglia. Insomma, assistiamo al crollo verticale (non solo metaforico) delle strutture pubbliche e dell’idea di solidarietà pubblica. Il volontariato, l’associazionismo sono importanti, sono segni di una coscienza sociale viva e vigile ma questa è solidarietà civile ed è un’altra cosa … Quello che bisogna pretendere da uno Stato che voglia ancora definirsi “di diritto” o “democratico” è un organizzazione efficace sul piano dell’assistenza alla persona. Questo non vuole dire che dobbiamo collocarci in posizioni intransigenti( o pubblico o privato); sappiamo che
Solidarietà è sostegno Il volontariato, l’associazionismo sono importanti, s ono segni di una coscienza sociale viva e vigile ma questa è solidarietà civile ed è un’altra cosa … Quello che bisogna pretendere da uno Stato che voglia ancora definirsi “di diritto” o “democratico” è un organizzazione efficace sul piano dell’assistenza alla persona.
è necessario il compromesso e l’unità fra chi si impegna, onestamente, nell’ambito solidaristico, ma è altrettanto necessaria la chiarezza nelle scelte di governo. In riferimento al territorio Campano e in particolare alla città di Salerno, raccogliamo l’opinione del Consigliere Regionale del Partito Democratico Anna Petrone.
Per la maternità I due consultori familiari attivi nella città, se si fa riferimento all’utenza, possono essere considerate sufficienti. I punti di debolezza sono altri. E sono riconducibili alle scelte finanziarie nazionali e alla gestione sanitaria regionale: sempre meno fondi e sempre meno personale. (foto di Katia Di Ruocco)
Una politica sociale di investimento sulle persone è in grado di combattere non solo l’esclusione sociale, ma può avviare addirittura un circuito occupazionale. Nella regione Campania, secondo gli ultimi dati ISTAT, vivono un milione e mezzo di persone in condizioni di povertà, nonostante ciò è in programma la chiusura di molti ospedali pubblici … Purtroppo a causa del forte taglio al fondo sanitario nazionale, e del rigore della politica economica di Governo, nella nostra regione alcuni ospedali pubblici rischiano la chiusura. E potrebbe riguardare proprio quei presidi, che per la loro collocazione territoriale, sono strategici per le esigenze di una vasta area di popolazione. Per quanto riguarda il territorio salernitano, che ha una provincia vastissima, penso all’ospedale di Agropoli, Scafati, Cava dei Tirreni. Considerando la morfologia del territorio alcune zone dell’entroterra potrebbero non avere addirittura i livelli essenziali di assistenza socio sanitaria, accrescendo il disagio di tutti i cittadini, in particolare di quelli disabili e di quelli anziani. Ho visitato molti ospedali della provincia e sebbene in alcuni casi possa anche giustificare una razionalizzazione delle strutture, la carenza di personale infermieristico mi pare invece grave e ingiustificabile. Si lavora in una condizione di precarietà che mette a rischio non solo i malati ma gli stessi operatori sociosanitari pressati da un continuo stato di emergenza. La priorità è riattivare risorse finanziare per sbloccare il turn-over delle assunzioni negli ospedali pubblici. Programmeremo a breve un tavolo tecnico regionale per rimettere al centro la necessità di una sanità pubblica più efficiente: a tutti deve essere garantito il necessario! E non per puro spirito di carità … ma per mantenere ferma la coesione sociale e la convivenza civile che un forte disagio sociale
mette a rischio. Promuovere e finanziare le buone politiche di sostegno alla persona è segno non solo di lungimiranza politica ma di pragmatismo politico. Tema marginale nel contesto sanitario nazionale, ma dirimente in quello regionale, è l’assistenza alla maternità. A Salerno ci sono solo due consultori familiari. Sono sufficienti? Per molte donne, soprattutto immigrate, sono l’unico punto di riferimento per affrontare le problematiche della maternità. I due consultori familiari attivi nella città, se si fa riferimento all’utenza, possono essere considerate sufficienti. I punti di debolezza sono altri. E sono riconducibili alle scelte finanziarie nazionali e alla gestione sanitaria regionale: sempre meno fondi e sempre meno personale. Le strutture pubbliche per la tutela della maternità esistono, quello che bisogna organizzare meglio è la gestione degli spazi, i tempi di lavoro e le professionalità. Andrebbe formato un personale con una maggiore professionalità multidisciplinare affinché la donna si senta veramente presa in carico e seguita in tutte le fasi della maternità, anche in quelle fasi di mera prevenzione e informazione medica. Una buona notizia. L’ASL di Salerno ha messo a disposizione per gli imputati con malattie psichiche un servizio pubblico per superare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Primo esperimento nel Sud Italia: un’iniziativa che riveste un alto valore etico e morale. Lo è! Questa potrei definirla solidarietà interistituzionale, e da sempre buoni frutti. Perché professionalità di settori diversi collaborano per costruire nel bene comune. Gli operatori della Giustizia si confrontano con quelli del SSN per valutare cure riabilitazione appropriati. L’obiettivo finale è quello di aumentare lo standard di sicurezza sociale spezzando lo stigma della malattia mentale. Questo è un tema delicatissimo che meriterebbe più attenzione da parte della politica nazionale e regionale. Il progetto in atto a Salerno è un esempio a cui guardare. P.C.
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Foto di Roberto Salomone
RICERCA E INNOVAZIONE
di Massimo Lo Cicero
* Docente IL FOCUS
L’economia reale, l’economia finanziaria e l’economia monetaria di produzione
Economia della Comunicazione nella Facoltà di Economia dell’Università di Roma, Tor Vergata ed Economia Aziendale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma.
Il mondo non ha idee sulla crescita possibile, dunque?
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a moneta (fiat money) è un bene pubblico ed è l’architrave che regge e sostiene il rapporto tra gli scambi dei beni ed i servizi ed il trasferimento del risparmio agli investimenti. Senza la moneta, e la finanza, non esisterebbero la crescita della tecnologia, l’allargamento progressivo dello sviluppo economico e l’esistenza del welfare, cioè di una distribuzione più equa della ricchezza rispetto alla concentrazione dei grandi patrimoni. Ovviamente l’economia monetaria di produzione non è il traguardo ma il percorso che dobbiamo migliorare nel tempo: non avendo nessuno strumento migliore dello Stato Nazione, che non riesce, con i suoi strumenti ad aggredire i risolvere i problemi che ci pone il mercato globale: i mercati finanziari, il clima , l’energia, le migrazioni tra i continenti. Lo stato attuale del mercato globale. Il profilo della crescita mondiale resta piatto: come l’encefalogramma di chi non abbia più attività celebrale. Il mondo non ha idee sulla crescita possibile, dunque? La verità potrebbe essere ancora più sgradevole. Da un update, che segue a ruota il World Economic Outlook (WEO) di aprile 2013, il Fondo Monetario afferma che siamo sotto le previsioni rilasciate appena due mesi prima di adesso. La domanda interna è debole, e la crescita è più lenta, nei paesi emergenti del mondo mentre l’area europea rimane nella sua prolungata recessione economica. La diagnosi del problema si potrebbe formulare in questi termini: non esiste
un traguardo di medio termine al quale si sentano di aderire i paesi emergenti e l’Europa. Per motivi vari e diversi la caduta della fiducia nel futuro si tramuta in una volatilità dei mercati finanziari che genera incrementi degli spreads sui tassi di interesse, che aggravano la dimensione dei costi per i paesi, e le imprese, troppo indebitate. Ci sono negli Stati Uniti e nel Giappone le condizioni per una ripresa della crescita ma, in Giappone, prevale, per il 2014, una spinta deprimente causata dalle condizioni globali del mercato mondiale. Se il mondo cresce poco i “teorici” delle esportazioni a tutti i costi incontrano un serio problema. Il quarto ordine di problemi è presto detto: l’Europa rimane in piena recessione economica. Ma nel complesso, e nonostante queste varianti di continente, c’è un segnale preoccupante: la crescita globale sarà meno intensa di quanto pensavamo potesse essere nell’aprile del 2014: e si limiterà ad un 3% nel 2013 e, nel 2014, si adeguerà al 3,75%. Niente di straordinario, meno di quanto pensavamo ad Aprile. Il caso italiano. Alberto Quadrio Curzio propone per l’Italia una soluzione che ricalca il processo mentale di Keynes: “Prendendo esempio dal modello Bei (Banca Europea degli investimenti di grande prestigio e solidità), che è mobilitata anche con un programma per l’occupazione e le competenze giovanili con prestiti fino a sei miliardi per il 2013 e che da sempre opera nel campo sia dei finanziamenti alle imprese
La verità La domanda interna è debole, e la crescita è più lenta, nei paesi emergenti del mondo mentre l’area europea rimane nella sua prolungata recessione economica.
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sia alle infrastrutture sia all’occupazione, perché il Governo italiano non potrebbe creare (magari modificando qualche istituto già in essere) una Ital-Bei? Cioè un Istituto bancario-finanziario in partenariato pubblico-privato, che anche con apporti di capitali privati, generi un effetto leva dei fondi per l’occupazione giovanile e per le infrastrutture che avremo a disposizione da oggi al 2015”. Non si tratta di un’ipotesi contingente, perché da tempo persone autorevoli ritengono che in Italia si debbano ricostruire istituti di credito, non bancari, che siano capaci di trasformare risparmio in investimenti assumendo su se stessi l’onere della raccolta di fondi, attraverso la emissione di obbligazioni, e finanziando infrastrutture, reti e piattaforme condivise, ma anche nuovi progetti industriali ed imprenditoriali che non possono, e Secondo Mario Draghi il non debbono, essere mestiere del banchiere centrale realizzati solo mediante crediti che alimentano il è dare un’interpretazione capitale circolante ma del futuro possibile che egli non sono idonei per il intravede. Non si tratta di creare supporto di radicali trasformazioni ed innovacon le proprie dichiarazioni una zioni industriali. Questa esigenza, di una nuova alterazione nelle aspettative generazione di interdegli attori economici. mediari finanziari non bancari, nasce da un problema creatosi nella struttura dell’economia reale del nostro paese e da una anomalia dei mercati finanziari in presenza di questo problema di natura reale. È nota la microdimensione di larga parte delle imprese italiane e la loro “confusione”, in termini patrimoniali e di governo strategico, tra la famiglia proprietaria e l’impresa. È difficile prezzare il rischio di imprese simili che volessero quotare azioni od obbligazioni, come accade nei paesi anglosassoni, mentre sarebbe molto più semplice la interposizione di intermediari non bancari, che assumessero su se stessi il rischio delle obbligazioni, o di altri titoli, e selezionassero progetti di investimento, industriali od infrastrutturali, rialimentando, in tal modo la dinamica della crescita. Scrive Draghi, nel suo discorso tenuto a maggio alla Luiss, in occasione del conferimento di una laurea magistrale, che “l’indagine sull’accesso al credito delle piccole e medie imprese (PMI) nell’area
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dell’euro appena pubblicata dalla BCE fotografa bene lo stato difficile di questo settore così vitale per l’economia dell’area. Fra i motivi di preoccupazione più rilevanti citati dalle PMI intervistate, l’accesso al credito è secondo solo alla difficoltà nel trovare clienti per i propri prodotti. L’esistenza di ostacoli al finanziamento (legati, cioè, al rifiuto di concessione di credito) persiste ed è uno dei maggiori fattori di eterogeneità fra i paesi dell’area, anche se non si limita ai soli paesi sotto stress. Accanto a Grecia, Irlanda e Spagna, infatti, tali ostacoli sono segnalati in misura importante da PMI operanti nei Paesi Bassi (circa il 45% delle imprese rilevate). Un risultato, questo, che riflette la considerevole eterogeneità delle condizioni di prestito, come anche emerge dalla più recente indagine sul credito bancario. Questa frammentazione è tanto più gravosa in un’economia, come quella dell’area dell’euro, dove l’intermediazione finanziaria è fondata sulle banche per 3/4 almeno dei finanziamenti alle imprese. Ed è tanto più penalizzante per quelle imprese, spesso di piccole e medie dimensioni, che dipendono in misura più rilevante dal sistema bancario. Ciò è particolarmente grave se si pensa che tale comparto dà lavoro a circa 2/3 dei lavoratori nell’area dell’euro”. Sta di fatto che, nell’ipotesi di Quadrio Curzio, la triangolazione tra un istituto di credito non bancario, che si colleghi alla BEI, che raccoglie, mediante obbligazioni, risparmio dai mercati mondiali, sarebbe anche un intelligente travaso di risparmio non necessariamente generato in Italia ma comunque investito nel nostro Paese . La politica monetaria della BCE. Secondo Mario Draghi il mestiere del banchiere centrale è dare un’interpretazione del futuro possibile che egli intravede. Non si tratta di creare con le proprie dichiarazioni una alterazione nelle aspettative degli attori economici: il banchiere centrale non usa la retorica per convincere gli altri ma la usa per spiegare le proprie opinioni agli altri. Si tratta di mostrare chiaramente cosa intende fare il banchiere centrale nel campo della politica monetaria spiegando quali sono i giudizi che lo hanno condotto a quella scelta. Non è difficile capire che, comportandosi in questo modo, il banchiere centrale si assume tutta la responsabilità della diagnosi, che ha formulato, e della terapia che, sulla base della dia-
Mario Draghi Governa la politica monetaria dell’area euro e formula la propria forward guidance. Non si vedono tracce altrettanto stimolanti o convincenti nel ceto politico che guida le nazioni europee e la stessa Unione.
gnosi, ha applicato. Le riforme, che Draghi chiede ai Governi europei di porre in essere – mantenendo aperta la opzione di una politica monetaria, che accompagni l’uscita della recessione e la ripresa della crescita, come una condizione necessaria – sono la condizione sufficiente perché quegli stessi Stati possano ritrovare la reputazione necessaria a dare valore ai titoli che essi emettono per finanziare la propria politica economica. La strategia possibile, per ottenere questi risultati si lega, in definitiva, all’allargamento della moneta unica per un unico mercato in una duplice prospettiva: la praticabilità di una vigilanza sulla stabilità bancaria in quel medesimo mercato e di una ritrovata reputazione della qualità della politica nei paesi europei e nell’insieme delle istituzioni della Unione Europea. Mario Draghi governa la politica monetaria dell’area euro e formula la propria forward guidance. Non si vedono tracce altrettanto stimolanti o convincenti nel ceto politico che guida le nazioni europee e la stessa Unione. La parabola dell’euro. L’avventura dell’euro nasce dalla convinzione che garantire un’unica moneta per un mercato unico avrebbe riaperto la strada del processo di unificazione europeo e creato le premesse per la creazione di una area economica capace di contemperare la dimensione della competizione e quella della diffusione della conoscenza: due leve che avrebbero garantito un tasso di crescita sostenuto ed una dimensione della qualità della vita, capace di assicurare lo sviluppo economico e la piena integrazione degli Stati che avrebbero partecipato all’impresa. La relazione positiva tra un’unica moneta ed un mercato unico era certamente una condizione necessaria per riavviare il processo di integrazione. Non era, tuttavia, una condizione sufficiente. L’ottimismo sulla ripresa del progetto europeo, e l’enfasi sui vantaggi che un’unica moneta poteva generare combinandosi con la rete del mercato unico, posero in ombra i costi necessari per chiudere gli squilibri reali interni al mercato stesso: in termini di tecnologie e di assetti istituzionali. Vennero sottovalutate, insomma, le differenze interne ai paesi dell’Unione, nella configurazione originaria, ed in quella attesa una volta che fosse stato allargato allargando il processo di integrazione. L’effetto di trascinamento positivo della mo-
neta unica mise in ombra la necessaria rielaborazione delle politiche economiche necessarie alla integrazione. Molti commentatori, nel secondo decennio del terzo millennio, sottolineano come i benefici di un’ipotetica optimum currency area (OCA) in Europa siano stati inferiori ai costi ed agli attriti interni, relativamente alla sua eventuale sostenibilità. Una accentuazione di queste difficoltà, d’altra parte, viene proprio dalla numerosità degli shock che il progetto di allargamento ed integrazione subisce dal 2000 al 2013: september eleven; il crollo della Unione Sovietica e la necessaria accelerazione per la creazione di un club commerciale, che allarghi e circonda il perimetro del club monetario che aveva promosso la moneta unica; la prima crisi finanziaria mondiale e la lunga recessione che fa seguito alla crisi deflagrata nel 2008. L’insieme di questi effetti genera l’allargamento delle fratture e l’allargamento degli squilibri tra nazioni, appartenenti ai due club che convivono nell’ambito europeo, e tra le economie regionali che si collocano nell’ambito di quelle nazioni. Un’ulteriore deformazione della struttura industriale ed economica dell’Europa deriva dalla contrapposizione tra grandi filiere produttive cross border: una contrapposizione che vede la segmentazione tra filiere inter – trade e filiere intra – trade, che generano effetti divergenti sulla struttura delle bilance dei pagamenti ed inducono percorsi diversi, tra paesi che perdono colpi nella competizione internazionale extraeuropea e paesi che, riducendosi gli effetti positivi dell’innovazione tecnologica e della competizione internazionale, vedono aumentare il costo del lavoro per unità di prodotto ed i livelli della disoccupazione, nel contesto della recessione successiva alla prima crisi finanziaria internazionale. La lenta crescita, infine, di una parte dell’Europa, dovuta ai divari tra nazioni e tra regioni europee, genera una preoccupazione per l’equilibrio mondiale della crescita: essendo, ancora e comunque, la dimensione della capacità potenziale di produrre, in Europa e negli Stati Uniti, superiore al 51% della capacità mondiale. Con la evidente conseguenze di un limite alla crescita mondiale in presenza di un profilo stagnante e recessivo in larga parte delle economie europee.
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RICERCA E INNOVAZIONE
Il pallino della Qualità Le eccellenze campane: il Centro Orafo IL TARI di Floriana Marino
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l futuro del Tarì e delle nostre imprese è affidato pienamente al perseguimento dell’obiettivo della Qualità. È solo nella qualità, infatti, che si gioca la competizione dell’intero Sistema Italia: Qualità nei prodotti, Qualità nell’innovazione, ovvero negli investimenti in design e ricerca tecnologica, e, infine, Qualità nei servizi. Da questo punto di vista il Tarì è più che mai operativo e, soprattutto, disponibile ad investire nel futuro”. Nel 2013, a distanza di 17 anni dall’inizio delle sue attività, il presidente Gianni Carità sintetizza così la mission de IL TARI’, puntando sulla Qualità in modo integrato sia nell’ambito del core business che in molti nuovi
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settori di attività. Una realtà senza confronti. Fondato nel 1996 sulla grande tradizione orafa napoletana, IL TARI’ rappresenta oggi, per la complessità delle attività svolte e dei traguardi raggiunti, una realtà di indiscusso rilievo nel mondo imprenditoriale nazionale. Forte di una decisa integrazione di servizi e aziende, la struttura organizzativa ha consentito alle 400 aziende operanti al suo interno di affrontare negli ultimi anni molte priorità, dalla crescente competitività dei mercati globali, alla sfida della innovazione, dall’apertura al design e a prodotti innovativi alle difficoltà derivanti dalla crisi internazionale.
L’avere affiancato ed integrato le attività produttive, commerciali ed artigianali con l’ideazione e l’organizzazione di eventi fieristici specializzati ha contribuito non poco, anche attraverso una forte visibilità presso i mezzi di informazione nazionali, ad accentuare ulteriormente l’identificazione del Centro come realtà imprenditoriale di eccellenza.
La passione per la bellezza Gianni Carità è fondatore e presidente de “il Tarì”. La struttura ospita quotidianamente 3500 persone ed è nata in Italia e all’estero per la qualità dei manufatti e delle materie prime trattate.
Oggi, i numeri sono: 400 aziende stabilmente presenti (30% produzione, 30% servizi, 40% distribuzione); 3500 presenze quotidiane (7000 durante le fiere di settore). 400.000 operatori presenti annualmente; 3 manifestazioni fieristiche specializzate per il settore l’anno (marzo, maggio, ottobre), con oltre 25.000 presenze consolidate per ogni edizione e la partecipazione delle 400 aziende interne e di 100 espositori esterni. Diversi eventi espositivi e manifestazioni extrasettore l’anno; 850 milioni di euro di fatturato consolidato l’anno; 30% del prodotto delle aziende destinato all’export (in prevalenza Russia, Cina, USA). 135.000 mq. di estensione globale, per un totale di oltre 80.000 mq. dedicati permanentemente alle attività di produzione e distribuzione dei soci, cui si aggiungono i 9.500 mq. dei padiglioni fieristici (ciascuno di 4.000 mq.). Le attività fieristiche. Attraverso i propri servizi, IL TARI’ interpreta la più attuale tendenza del “fare fiera” non solo come una occasione di business, ma come un palcoscenico su cui presentare, con grande attenzione ai dettagli e alla qualità, il meglio della propria immagine ad un mercato sempre più selettivo, confrontandosi con operatori e concorrenti in momenti di dialogo di grande importanza. Sempre puntando sulla qualità sono stati realizzati due padiglioni che offrono sui 9.500 mq espositivi un mix di comfort, funzionalità e design unici in Italia. L’investimento di 15 milioni di euro, sostenuto dalle aziende consorziate e dalla regione Campania, ha dato luogo, infatti, ad una realizzazione di straordinario impatto architettonico, che completa in modo efficace e armonioso l’originaria opera arricchendola di nuove potenzialità. Un’assistenza continuativa e personalizzata, dedicata sia ad espositori che a clienti, è il segno distintivo ed esclusivo del centro, che negli anni ha segnato la specificità
della struttura orientandola, in ogni momento, all’Eccellenza. Attualmente IL TARI’organizza due edizioni annuali di un’importante fiera di Gioielleria, a maggio e ottobre, e una dedicata al Bijoux in marzo. Le fiere di gioielleria de IL TARI’ sono certificate da enti accreditati dal Ministero per lo Sviluppo Economico, ed inserite nel calendario internazionale degli eventi fieristici. Il Tarì Design Lab e il Tarì ADV. Leva strategica per lo sviluppo e la competitività delle imprese, il design è, sia sul piano della formazione che su quello dei servizi alle imprese, uno degli elementi fondamentali delle attività del centro. Il Tarì Design Lab, operativo dal maggio 2003, è un “incubatore” di nuovi talenti, in grado di accreditare la struttura nel campo della creatività oltre i confini del gioiello. Il Codice Etico. A partire dal 2010, IL TARI’ si è dotato di un Codice Etico. Il Codice Etico pone, per la prima volta, evidenza ai principi che la Società, nel tempo, ha già condiviso e posto a fondamento delle proprie azioni. Si tratta di principi ispirati, in particolare: alla tutela del buon nome della società consortile, quale risorsa immateriale essenziale; alla efficienza delle attività interne; alla correttezza e alla efficienza delle attività rivolte a terzi; alla promozione e alla costante formazione delle risorse umane; alla tutela del patrimonio aziendale quale bene appartenente alla collettività dei soci; alla tutela e alla promozione di interessi diffusi tra la collettività. Il Comitato Leonardo e il Premio di Laurea. Dal 2004 Gianni Carità è tra i soci del Comitato Leonardo, che rappresenta oggi in Italia la più prestigiosa organizzazione finalizzata alla promozione del Made in Italy nel mondo. Nel settore della gioielleria, oltre a Buccellati e Bulgari, Gianni Carità è l’unico imprenditore a farne parte. In collaborazione con il Comitato Leonardo, a partire dal 2006 IL TARI’ ha istituito un Premio di Laurea che ogni anno viene consegnato a un giovane laureato in occasione di una solenne cerimonia in Quirinale direttamente dal Capo dello Stato.
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Cira A Capua un’eccellenza dell’aerospazio riconosciuta in tutto il mondo che resiste anche alla crisi: parla Leopoldo Verde
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n fiore all’occhiello non solo per la Campania, ma per l’intera Italia. Parliamo del Cira ovvero il Centro italiano ricerche aerospaziali una società consortile per azioni, a maggioranza pubblica, che opera nel campo delle ricerche aerospaziali e che ha sede nel territorio di Capua zona scelta per l’alta concentrazione di aziende aerospaziali e la presenza di ben due università con corsi di ingegneria aerospaziale, Federico II e la Seconda Università di Napoli. Il centro si sviluppa su circa 600.000 m2, un’area che, oltre agli uffici del personale, ospita diversi laboratori scientifici dove vengono effettuati gli esperimenti. Il Cira nasce nel 1989 per precisa volontà dello Stato Italiano di investire in ricerca, tecnologia, strumenti e menti per cercare di rilanciare la competitività del nostro settore. A ricordarlo è il direttore del Centro Leopoldo Verde, ex ricercatore nel Dipartimento Meccanica del Volo e Controlli, che
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con grande cordialità mi accoglie nel suo ufficio per raccontarmi di questa eccellenza riconosciuta a livello internazionale, un centro di ricerche aerospaziali con un valore della produzione sui 48 milioni, con un utile operativo di circa 12 milioni e con un organico di 350 ricercatori quasi tutti provenienti dalle università campane. Lavoriamo - evidenzia il direttore - su progetti internazionali di ricerca che attraggono finanziamenti per circa 55 milioni di euro all’anno riuscendo anche ad avere degli utili. Negli ultimi cinque anni ci siamo attestati su una media di circa 10 milioni di euro all’anno di utili che per statuto reinvestiamo in nostri programmi di ricerca, ma recentemente li stiamo utilizzando anche per dare nuove opportunità a giovani laureati che vogliono intraprendere il mestiere della ricerca e che possono trovare da noi questa possibilità. Stiamo crescendo in questa direzione. Vero è che abbiamo assunto negli ultimi tre anni 20 ricercatori all’anno.
Foto di Franco Guardascione
a cura di Beatrice Crisci
NASA - CIRA La Nasa, l’agenzia spaziale americana sta utilizzando un fiore all’occhiello dei nostri impianti ovvero il Plasma Wind Tunnel un impianto che serve per provare i sistemi di protezione termica delle navicelle che rientrano dallo spazio.
Tutta questa forza e queste menti è riuscita a dare al Cira una competenza utile all’industria nazionale, ma anche laboratori che sono unici al mondo. Ci fa qualche esempio, direttore? La Nasa, l’agenzia spaziale americana sta utilizzando un fiore all’occhiello dei nostri impianti ovvero il Plasma Wind Tunnel un impianto che serve per provare i sistemi di protezione termica delle navicelle che rientrano dallo spazio. Ebbene insieme alla Nasa stiamo sviluppando delle tecno-
logie di protezione termica che potranno essere utilizzate per il rientro dal cosiddetto spazio profondo ovvero il rientro da un altro pianeta. Esplicitamente il programma è quello di supportare l’emissione su Marte. Questo sicuramente è uno degli esempi di eccellenza, ma non l’unico. Ricordo che per studiare le condizioni di formazione del ghiaccio il Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali (CIRA) ospita il più grande e moderno Icing Wind Tunnel (IWT) del mondo.
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Grazie ad un sistema innovativo che genera nuvole artificiali, l’IWT è in grado di simulare tutte le condizioni di formazione del ghiaccio esistenti in natura, anche quelle ancora non previste dalle norme di certificazione aeronautica. Per rendere la simulazione quanto più completa possibile, l’impianto è capace di generare velocità dell’aria sino a circa 800 km orari, condizioni di quota fino a 7000 metri (velocità e quota limite in cui si possono verificare fenomeni di formazione del ghiaccio) e temperature fino a 40 gradi sottozero. Le diverse camere di prova consentono l’installazione dei più diversi oggetti in scala naturale: dalla presa d’aria del motore alle
Direttore, la crisi attuale mette a rischio anche i gioielli del nostro paese! Perché investire allora nell’aerospazio anche in tempi difficili? “È noto che proprio nei periodi di crisi il mondo della ricerca può a maggior ragione svolgere il suo ruolo che è quello di indurre innovazione nei prodotti e nei processi produttivi delle imprese così da farle competer a livello internazionale. In Regione Campania, va detto, questi presupposti ci sono tutti”. Direttore, allora, quali sono i progetti futuri del Cira? “Noi lavoriamo sempre in stretto contatto con le imprese perché siamo convinti che
Il Centro italiano ricerche aerospaziali opera nel campo delle ricerche aerospaziali e che ha sede nel territorio di Capua zona scelta per l’alta concentrazione di aziende aerospaziali e la presenza di ben due università sezioni di ala, ai carrelli, ai sistemi di arma. La disponibilità della strumentazione più avanzata al mondo consente inoltre di valutare l’efficacia dei sistemi di protezione dal ghiaccio soggetti a certificazione e di comprendere quale sia l’effetto di eventuali loro malfunzionamenti sulla sicurezza del volo. Grazie alle prestazioni di questo impianto e alle competenze di sperimentazione sviluppate nell’ambito di accordi pluriennali con NASA e Boeing, le principali aziende aerospaziali nazionali, europee ed internazionali si avvalgono del CIRA per certificare velivoli immuni dalla formazione del ghiaccio”. Verde poi aggiunge: “Il ritorno degli investimenti sulle infrastrutture è evidente. Nel 2011, ad esempio, abbiamo raccolto ordini dall’industria del settore per circa 25 milioni. Oggi le imprese vengono a fare verifiche dei propri velivoli anche dalla Cina. Grande utilizzatore del wind tunnel è poi il consorzio Airbus”. Centri similari ce ne sono, ad esempio in Olanda o in Russia, ma il Cira attrae soprattutto per le verifiche sulla resistenza dei materiali al ghiaccio”.
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non esiste un progetto vincente se non attrae l’interesse dell’impresa o, comunque, se non è indirizzato da un progetto industriale. E questo è un concetto molto generale che a noi piace applicare come modello di cooperazione. Noi lavoriamo per una maggiore integrazione tra industria e ricerca. Per arrivare a ciò c’è bisogno di uno sforzo notevole perché la nostra cultura non è orientata al sistema, ma alla capacità individuale dei singoli. Come Cira, dunque, stiamo facendo la nostra parte collaborando sempre con l’impresa che insieme a noi, insieme alla compagine che ci finanzia decidono come e dove investire le risorse che vengono destinate a questa struttura. Anzi, nel momento in cui partecipiamo insieme alle imprese ai progetti strategici di ricerca ci garantiamo che le idee che produciamo insieme non restino nel cassetto. Da qualche anno, poi, noi favoriamo la nascita di nuove imprese il cui compito è proprio quello di sfruttare le idee che noi sviluppiamo per metterle sul mercato”.
Progetti futuri Noi lavoriamo per una maggiore integrazione tra industria e ricerca. Per arrivare a ciò c’è bisogno di uno sforzo notevole perché la nostra cultura non è orientata al sistema, ma alla capacità individuale dei singoli.
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Foto di Salvatore Laporta
L’acquisizione e la rinascita dell’antico Zoo di Napoli Il cerchio virtuoso della collaborazione tra imprese ed istituzioni di Marianna Quaranta
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assa attraverso una richiesta di fallimento la vicenda dello Zoo di Napoli che dopo anni di difficoltà e di degrado intravede prospettive di rinascita e riqualificazione. Il proficuo lavoro svolto dalle istituzioni, in primis, il Comune di Napoli ed il Tribunale Fallimentare ha consentito di restituire alla città una struttura storica e molto amata. Il giudice delegato Nicola Graziano, con ormai indiscussa sensibilità e lungimiranza, ha autorizzato il curatore fallimentare Salvatore Lauria a cedere la struttura ad uno stimato imprenditore campano l’ing. Francesco Floro Flores che acquisterà il brand “Zoo di Napoli” e prenderà in fitto i suoli della Mostra d’Oltremare per 30 anni, puntando sulla trasformazione dello Zoo in un moderno parco dedicato alle famiglie.
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Ingegnere ci descriva questo suo progetto “È un progetto di riqualificazione importante e già in parte già attuato che prevede il rifacimento degli impianti idrico ed elettrico, l’allestimento di aree a verde dedicate ai bambini, la bonifica ed il riempimento di un laghetto dedicato ai lemuri, spazi adeguati per gli animali ed un ambulatorio veterinario moderno e specializzato fruibile anche dall’esterno”. Quali sono i numeri dello Zoo di Napoli? “80.000 metri quadri di verde con piante spettacolari. Opere architettoniche di grandissimo valore pensi che nel 1940 i lavori sono stati affidati a Piccinato che è stato uno degli architetti più importanti dell’epoca .. gli animali sono 320 – 330 di diversa specie .. la prima cosa che abbiamo fatto è stato reclutare veterinari fissi e specializzati.
Proposte di riqualificazione Il giudice delegato Nicola Graziano ha autorizzato a cedere la struttura a Francesco Floro Flores che acquisterà il brand “Zoo di Napoli” e prenderà in fitto i suoli della Mostra d’Oltremare per 30 anni.
Francesco Floro Flores È proprietario e presidente del Gruppo Trefin. Ha fondato nel 1992 l’Aerosoft Spa azienda divenuta leader nel settore aeronautico, spaziale ed automobilistico, oggi, trasfusa nel Gruppo Aerosoft.
Il numero dei visitatori... oggi, si viaggia su numeri di 2000 – 3.000 al mese bisogna portare questi numeri a livelli seri e significativi”.
sorride proprio più, vedo la gente disperata, spenta .. quindi se riusciamo a creare un luogo dove, anche solo per un’ora, si vive sereni abbiamo fatto una bella cosa”.
Cosa significa per la città di Napoli puntare sulla riqualificazione? “Ottima domanda. Uno degli aspetti per cui ci siamo avvicinati allo Zoo è che nelle città italiane ci sono molti tesori che non sono valorizzati… io devo competere con il mio lavoro di ingegnere con i cinesi con gli indiani che sono già più avanti ed è difficile competere su un territorio dove loro sono più forti tecnicamente e finanziariamente. Mentre, invece, se valorizzassimo le nostre ricchezze quelle non ce le può togliere nessuno. Ho scoperto che a Napoli ci sono monumenti di grandissimo fascino tutti chiusi e poi c’era questo zoo che io ricordavo da bambino come un posto bellissimo in uno stato di degrado… se si valorizza qualcosa che i competitor stranieri non ti possono togliere, diventa un’opportunità di business più significativa della ricerca che facciamo nelle nostre imprese. Bisogna valorizzare ciò che abbiamo e non fare esattamente il contrario. C’è un altro fatto importante dovendo comprare uno Zoo ne ho girati un bel po’. Uno dei più belli è quello di Verona, 400mila mq ma è a Bussolengo.. non ci arriva neanche il navigatore. Lo Zoo di Napoli è nel cuore della città. Quando mi hanno chiesto di chiamarlo bioparco mi sono arrabbiato.. lo zoo di Napoli è un brand oramai famoso è uno degli zoo più antichi di Europa dopo Vienna e Roma.. vogliamo perdere anche questa identità mi sembra un paradosso…”
Come hanno visto gli altri imprenditori questa sua iniziativa? “Napoli si divide sempre in due ci sono quelli pro e quelli contro. Quelli pro sono si sono impegnati a far rivivere lo Zoo con entusiasmo, quelli contro guardano sempre con scetticismo. Noi non abbiamo retro pensieri anzi dopo aver presentato la proposta se qualcun altro fosse intervenuto e avesse deciso di prendersi lo Zoo, come imprenditore, mi sarei sentito sollevato …
Quali sono le difficoltà che ha incontrato con le istituzioni? “Questa è la domanda più complicata. Sa qual è la verità e che tutte le istituzioni di fronte al problema del degrado degli animali, della collocazioni dei dipendenti erano tutte quante a favore dell’assegnazione, però nel concreto sono emersi mille interessi diversi, noi speriamo a dispetto di tutte queste tendenze derivate, di riuscire a fare qualcosa a vantaggio di tutti in particolare dei bambini napoletani, io vorrei fare qualcosa che consenta ai genitori di rilassarsi ed ai bambini di sorridere perché in questa città non si
Si è preso una bella responsabilità anche nei confronti della città … E quella la cosa che ho scoperto. Noi abbiamo un bel gruppo industriale che opera a livello internazionale fa aeroplani ha sviluppato una notevole esperienza nel campo navale, ma in questa città non abbiamo mai fatto notizia, oggi se si ammala la tigre o spostiamo la capretta si mobilitano il Comune, le associazioni animaliste .. la stampa, un putiferio…” e i costi … “Oggi lo Zoo di Napoli costa circa 100.000,00 euro al mese tra i dipendenti, i consulenti, i medicinali, l’alimentazione e tutte quelle che sono le spese generali per portare avanti la struttura. In questo momento a fronte di 100mila euro di costi abbiamo circa 10mila euro di ricavi… c’è questo delta importante che è quello che ha spaventato tutti gli acquirenti per due motivi fondamentali: il conto economico inizialmente è durissimo, quindi, bisogna reggere il cash per portare avanti l’iniziativa e poi gli investimenti che attenzione non patrimonializzano per l’azienda, ma un bene del Comune di Napoli. Queste due variabili sono in antitesi con un ritorno immediato dell’investimento… se siamo bravi però nel medio lungo periodo realizzeremo quello che ci aspettiamo.. giusto in tempo per la scadenza del contratto .. ma questo è il rischio che si corre in questo tipo di iniziative … e va bene così”.
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RICERCA E INNOVAZIONE
Foto di Carlo Hermann
Doppia faccia dell’economia campana tradita ma resistente Il Presidente di Confindustria Campania Sabino Basso: “agli sciacalli del Nord rispondiamo con la verità” a cura di Marco Staglianò
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a necessità di difendere i prodotti e le aziende campane del comparto agro alimentare dal continuo attacco mediatico governando i processi e recependo la voce della piazza. L’esigenza di dare continuità al lavoro avviato in questi anni sul crinale dell’interlocuzione istituzionale per ridefinire un modello di sviluppo capace di contenere la complessità di una regione di oltre sei milioni di abitanti ed estremamente composita da un punto di vista territoriale. Di questo e di altro abbiamo discusso con Sabino Basso, Presidente di Confindustria Campania.
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Presidente, i prodotti agroalimentari della nostra regione sono finiti nel mirino di una campagna mediatica cieca e spietata. Alla luce di quel che sta avvenendo in quella che ormai è conosciuta come la Terra dei Fuochi era prevedibile. Confindustria come si sta muovendo per difendere le nostre produzioni? È vero, siamo nel mirino. La grande distribuzione si muove con diffidenza e molte delle nostre aziende sono costrette ad accettare analisi particolari sui prodotti. S’è creato un clima molto pesante e credo che, in questa fase, sia indispensabile tenere un profilo basso per non alimentare questo cortocircuito dannosissimo.
Difendere le eccellenze Serve un modello di sviluppo capace di contenere la complessità di una regione di oltre sei milioni di abitanti ed estremamente composita da un punto di vista territoriale.
Valorizzare l’irpinia L’Irpinia dovrebbe essere parte costitutiva dei grandi circuiti turistici regionali, dovrebbe attrarre molto più di quanto avviene oggi, imprenditori provenienti dalle fasce costiere ormai completamente antropizzate. Questo vale per la mia terra ma vale anche per il Sannio.
Dobbiamo reagire ma non con l’isteria. Dobbiamo lavorare per governare e respingere questo attacco ed in tal senso già ci stiamo muovendo da tempo. Confindustria, venendo alla sua domanda, non può agire in autonomia ma deve, necessariamente, porsi come punto di riferimento per le tante sottosezioni di categoria. È quello che stiamo facendo e devo dire che il sistema ha dimostrato grande coesione e reattività. Noi facciamo da cerniera tra il sistema produttivo ed i livelli istituzionali superiori, in primo luogo la Regione, cui spetta l’onere di recepire le nostre istanze e di tradurle in azioni concrete e forti. Anche sul punto, ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Ma le ripeto, è un lavoro che va fatto assecondando un profilo basso. Chi immagina che urlando si possa risolvere il problema non si rende conto del danno che procura alle nostre aziende. Dobbiamo far fronte alle richieste, sovente irragionevoli e strumentali, della grande distribuzione perché è quello l’unico modo per difendere le nostre eccellenze, per tutelare i nostri prodotti in funzione dei grandi circuiti. Intanto, come certamente saprà, già si sono registrati casi di importanti aziende del Nord che hanno provato a lucrare sulla tragedia di Terra dei Fuochi per trarne un vantaggio sui mercati. La pubblicità della Pomì, per esempio, ha fatto molto rumore. L’immagine dello Stivale con un pomodoro disegnato nel cuore della Pianura Padana e lo slogan “Solo da qui, solo Pomì”, ha sollevato molte polemiche e tanta indignazione. Non ho visto quella pubblicità, ne ho sentito parlare e le dico, assumendone la responsabilità, che si tratta di una becera operazione di sciacallaggio. Ai cittadini campani dico di boicottare quei prodotti, di lasciarli sugli scaffali dei supermercati. Se hanno le palle, scusi il termine, è questo che dovrebbero fare. Ma dinanzi a queste cose è l’intero sistema produttivo che dovrebbe reagire con coesione, mettendo in campo azioni concrete anche in termini di comunicazione. Ma non abbiamo questa cultura, siamo purtroppo ancora lontani dal pensarci come parte di un tutto da difendere. Ognuno insegue il proprio interesse e questo resta uno dei grandi punti deboli del nostro sistema.
Cosa occorrerebbe fare? Una cosa molto semplice, cominciare a comunicare la verità. E la verità è che se oggi esiste questo problema è perché imprenditori del settentrione hanno sversato nei nostri territori, per decenni, tonnellate di rifiuti tossici. Lo hanno fatto chiudendo affari con la camorra e, facendolo, si sono fatti camorristi. Questa è la verità e andrebbe ripetuta all’infinito. Ma poi c’è anche l’altra faccia della medaglia. Oggi il problema, per quel che riguarda le produzioni, è in via di soluzione. Tutto è tracciato e questo mette in garanzia la filiera produttiva. Ecco perché, come le dicevo, meno rumore si fa meglio è. Posto, ovviamente, che rispetto agli attacchi che stiamo subendo non possiamo porgere l’altra guancia. Ma la Regione si sta muovendo. Veniamo alla crisi Presidente. Lei ha sempre sostenuto la necessità di ripensare complessivamente il modello di sviluppo regionale a partire da un rinnovato rapporto tra aree interne e fascia costiera… Sono convinto che il nodo sia tutto lì. Napoli è la Capitale del Mediterraneo e al netto delle tante problematiche che l’affliggono resta una città ricchissima di energie. Per troppo tempo, tuttavia, Napoli ha rappresentato un alibi tanto per le aree interne che per le aree costiere. Prendiamo il caso di Avellino. Io penso alla mia città come ad un sobborgo di Napoli e reputo che questo sia un grande punto di forza. L’Irpinia è una terra bellissima, la prima provincia d’Italia per quel che riguarda le energie rinnovabili, terra di storia, tradizioni e di grandi eccellenze. Ecco, l’Irpinia dovrebbe essere parte costitutiva dei grandi circuiti turistici regionali, dovrebbe attrarre molto più di quanto avviene oggi imprenditori provenienti dalle fasce costiere ormai completamente antropizzate. Questo vale per la mia terra ma vale anche per il Sannio. Caldoro è ben consapevole di questo ed è convinto, come me, che Napoli può crescere solo nell’entroterra, che l’unica via per ridefinire il nostro modello di sviluppo è quella del dialogo tra i diversi sistemi territoriali. E alcuni risultati raggiunti sul crinale infrastrutturale, pensiamo alla piattaforma logistica in Ufita, dimostrano che è quella la direzione verso la quale ci stiamo muovendo.
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Mauro Maccauro: il territorio salernitano deve credere negli imprenditori I giovani pretendano un futuro migliore, si impegnino per averlo
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illeMille anni fa Salerno era famosa nel mondo per la Scuola Medica e il suo Regimen Sanitatis. Negli anni ’80, bellezze naturali e culturali a parte, era conosciuta oltre oceano per il Centro ricerche della Face Sud sulla litoranea orientale. E l’americana AT&T reclamizzava il proprio brand con l’immagine della Torre Normanna di Maiori sulla copertina della brochure. Dopo un passato se non glorioso certo dignitoso, oggi le imprese di elevato standing nella provincia sono mosche bianche. Come birilli sotto i colpi del boccino sono rovinati uno dopo l’altro tutti i nomi importanti. E le poche idee per rimpiazzarli hanno naufragato anch’esse fra scandali e inchieste giudiziarie, vedi Sea Park, il Parco marino che doveva sorgere sui suoli dell’ex Ideal Standard come modello in scala del Sea World di San Diego, e il Polo informatico di Pierluigi Crudele. Mentre tra altalenanti propositi sono affondati anche i progetti di una Centrale termoelettrica da 760 megawatt della EGL Italia e del secondo termovalorizzatore campano da 400 mila tonnellate. Progetti ideati e sostenuti dal sindaco di Salerno, vice-ministro Vincenzo De Luca, prima che si votasse anima e corpo alla trasformazione funzionale del capoluogo in città turistica. Così, passo dopo passo, la provincia di Salerno è scivolata dal 90° posto nel 2008 al 97° nel 2012 nella classifica di Sole 24 Ore sulla Qualità della vita. Un downgrading fotografato da vari indicatori macroeconomici dell’Istituto Tagliacarne: tra il 2008 e il 2012 i disoccupati nella provincia sono aumentati di 24.395 unità (+48,8%). Il reddito pro-capite delle famiglie, pari nel 2008 a 12.239 euro, è sceso nel 2011 a
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a cura di Giuseppe Vuolo
12.059, una stazionarietà che maschera un’erosione della ricchezza. Riflessi negativi anche nel patrimonio delle famiglie che nel 2008 si attestava a 311.495 euro ed è sceso nel 2011 a 298.710. Un meno 4,10% che conferma che i salernitani consumano più di quanto producono. Per saperne di più e capire come sta evolvendo in terra salernitana la crisi più severa dal dopoguerra sono venuto a parlarne con Mauro Maccauro, presidente da poco più di un anno di Assindustria Salerno e soggetto economico della Euroflex Spa di Mercato San Severino, azienda manifatturiera del settore siderurgico. Presidente, partiamo dallo stato di salute dell’economia salernitana, in specie del settore industriale Il settore industriale ha perso ultimi 5 anni circa 10 punti di PIL, quindi ha vissuto e sta vivendo un momento di contrazione difficile da recuperare a stretto giro. Qualche studio economico dice che si potrà ritornare ai valori ante 2008 non prima del 2018, sempre che verranno fatte le riforme opportune. Questa situazione mette l’industria salernitana e quella campana di fronte alla necessità di chiedere risposte al governo nazionale e a quello regionale per agevolare la politica industriale, e nel contempo continuare all’interno dei nostri cancelli a svolgere al meglio il nostro lavoro. Riguardo all’azione del Governo nazionale, per esempio, è chiaro che per ridare competitività al sistema industriale si devono sciogliere nodi come quello del costo dell’energia che pone a carico del nostro Paese – rispetto a Germania e Francia – un differenziale di 20 30 punti percentuali. Gli industriali salernitani sono spesso accusati dai politici di scarsa propensione al
La crisi “Mette l’industria salernitana e quella campana di fronte alla necessità di chiedere risposte al governo nazionale e a quello regionale per agevolare la politica industriale, e nel contempo continuare all’interno dei nostri cancelli a svolgere al meglio il nostro lavoro”.
rischio d’impresa. Immagino non sia d’accordo Che io ricordi - da quando rivesto il mio incarico ma anche prima - mai le istituzioni politiche locali hanno addebitato un giudizio del genere ai nostri uomini, ai quali viceversa viene riconosciuto coraggio per avere ancora voglia di fare impresa sul territorio. Tenga conto che noi possiamo avanzare proposte o suggerire iniziative, ma poi compete sempre alle istituzioni calibrare le scelte tenendo conto di un contesto di più ampia portata in cui gli interessi di una parte (la nostra) vanno valutati insieme a quelli della collettività. Anche gli industriali a loro volta hanno di che lamentarsi con la politica per l’arretratezza delle infrastrutture che costituisce un freno ad investire. Tutto qui o ce dell’altro? Lei condivide per esempio la scelta “monotematica” compiuta a Salerno di puntare tutte le chance sul turismo? Diciamo che è una scelta. Ed è già un fatto importante che tanti agglomerati puntino risorse sulla vocazione turistica. Già, però non si vive di solo turismo. Non lo fanno neppure Venezia, Firenze e Roma. Non vede un difetto di attenzione alla base delle molte dismissioni industriali nel salernitano? Quando le imprese chiudono, le motivazioni possono essere le più varie. Non è un ente locale che può determinare e neppure influire sulla chiusura o meno di un’azienda. Il problema semmai è di sapere se l’Italia creda o meno in un proprio futuro industriale. Appunto, c’è chi in Europa ci vedrebbe bene nel ruolo di “Grande Parco Giochi” per i cittadini dell’Unione Io invece credo in un Paese che si apra e non si chiuda alla competizione. Rappresento un’azienda metalmeccanica, e verifico che molte imprese del mio settore se non fossero state partecipate o acquisite sarebbero scomparse. Quindi resto per la competizione, pur sapendo che in questo momento siamo più incudine che martello. Ma auspico che ci sia un altro tempo in cui l’evoluzione dell’economia ci riporti a essere martello. Lei elenca l’utilizzo improprio di risorse pubbliche tra le caratteristiche che non possono appartenere al mondo delle imprese. A cosa si riferisce in particolare Mi riferisco alla storia della Casmez e dei fi-
nanziamenti a fondo perduto, finiti spesso nelle cronache giudiziarie. Alla distorsione di danaro pubblico fluito per finanziare opifici, acquistare macchinari e occupare persone in iniziative di soggetti rivelatisi poi finti industriali. La politica del fondo perduto alla fine è stata un danno per quei piccoli imprenditori veri, sani, intelligenti e competenti che non trovavano mai le porte aperte. Però utilizzo improprio di risorse potrebbe significare anche finanziamento di iniziative inidonee a creare valore Assolutamente sì. Faccio sempre una distinzione tra imprenditori veri e quelli che non lo sono. Quando in un settore vedo aziende in affanno nella competizione e altre che viceversa non lo sono perché magari evadono l’IVA o fatturano in nero, la distinzione ritorna e s’impone. Lei ha rivendicato all’Associazione di essersi “incamminata in un’azione di proposizione autonoma e apartitica”. Perché questa sottolineatura È una sottolineatura che viene da lontano. Il past-president di Confindustria Abete invitava gli uomini d’impresa a essere autonomi, apartitici e autorevoli. Non è stato sempre così a Salerno? Posso parlare per il breve periodo che mi riguarda. E la risposta è che mi riconosco appieno nello statement del presidente Abete. In quale modo la politica può marcare la propria influenza sul mondo delle imprese, chiedendo posti di lavoro? Anche. Ma non in questa fase in cui l’occupazione si perde e non si crea. Mi piace però rispondere alla sua domanda insistendo sul concetto di autonomia dell’impresa. Confindustria è il sindaco degli imprenditori, e come tale quando siede a un tavolo istituzionale deve avere un atteggiamento dialettico e mai passivo verso l’istituzione. Riuscite a farvi ascoltare anche quando si tratta di pagare le tasse? Salerno è al top in Italia nella tassazione locale Beh, anche perché abbiamo molti tipi di imposizione locale. Devo dire però che in sede di contenzioso con Soget abbiamo raccolto le istanze dei nostri associati e siamo andati a un confronto serrato in cui abbiamo difeso in contraddittorio le ragioni delle imprese, trovando soluzioni eque e soddisfacenti per entrambe le parti. Quando c’è dialogo e onestà
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RICERCA E INNOVAZIONE
intellettuale le soluzioni poi si trovano sempre. Ho visto che lei attribuisce un ruolo decisivo nel processo di crescita al fatto che il territorio sia capace di costituirsi in un sistema di reti di competenze tra imprenditori, banche e istituzioni locali. Si tratta di nuova aria fritta o di qualcosa che può davvero funzionare? Funziona nei fatti. Il rapporto tra azienda e banca è cambiato rispetto a 20 anni fa, quando non c’erano i vincoli di Basilea e nessuno parlava di rating. Oggi le aziende si confrontano sempre più con il mondo bancario, cercano di capire come funziona il rating e come possono agire per migliorarlo. Alla fine di questo processo conoscitivo avremo un credito più selezionato e più meritocratico. Salerno e provincia hanno perso molte “star” industriali nell’arco di tre lustri. Nel modello innovativo che lei auspica tra le “eccellenze” del territorio nei settori turistico-culturale e industriale, il primo appare ben radicato, seppure ammaccato dalla crisi. Il secondo sembra in perenne gestazione. E’ così o è scarsa solo l’attenzione mediatica? No, guardi. L’idea di attrarre la manifattura sul nostro territorio è un modo di accendere i riflettori su questa provincia. E’ vero, negli ultimi anni abbiamo perso aziende importanti, ma è cresciuto nel contempo un tessuto di piccole e medie imprese. Quando apprendiamo dal Ceo di un’azienda turca che nel loro Paese un operaio costa ¼ di quanto costa da noi e che l’energia viene pagata molto meno dobbiamo capire che sono questi gli elementi che accrescono la capacità di competere. Al tempo stesso dobbiamo saperci giocare sul mercato un elemento che ci viene da tutti riconosciuto: le competenze. Abbiamo un Campus universitario di grande livello, è questa la leva da sviluppare. Avete un buon rapporto con l’Università di Salerno? Non buono, ottimo. Ma deve svilupparsi ancora di più. Ora è in costruzione anche un luogo fisico dove potranno trovare allocazione delle spin-off che potranno diventare delle start-up e queste a loro volta delle attività. Con la Riforma-Gelmini io stesso sono stato chiamato a far parte del CdA dell’Ateneo per apportarvi le competenze delle imprese. Oggi uno studente non può frequentare
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l’Università senza sapere alla fine del corso come e dove potrà trovare lavoro. Uno dei frutti della nostra collaborazione è l’istituzionalizzazione del Placement Day, tenuto quest’anno con 40 aziende che si sono intrattenute con gli studenti per fornire orientamenti. Noi dobbiamo strutturare le nostre scuole superiori e la nostra Università allo scopo di produrre competenze. Perché è questo che ci chiedono i Paesi che domandano lavoro. Ed è esattamente questo il”vantaggio competitivo” con il quale i nostri giovani devono affrontare il mercato del lavoro. Lei sa però che neppure Venezia, Firenze e Roma, “capitali” del turismo culturale, fondano il loro sistema economico soltanto su quello. Se è vero che il turismo è economia, è vero anche che stabilizzarne i flussi rappresenta un elemento di incertezza da bilanciare con una produzione industriale stabile e innovativa Assolutamente sì. E per questo che guardo ai due polmoni industriali dell’Agro nocerinosarnese/Valle dell’Irno e della Piana del Sele. Al tempo stesso occorre creare sinergie per l’internazionalizzazione delle aeree che puntano sul turismo enogastronomico. Non dobbiamo innamorarci dei grandi investimenti industriali dietro i quali spesso c’è qualcosa che non torna. Dobbiamo puntare sulle medie aziende presenti sul territorio, capaci magari di fare rete sviluppando politiche comuni con altre imprese pur conservando la propria autonomia gestionale. L’assenza del sindaco De Luca all’Assemblea generale è stata letta come un segnale di raffreddamento dei rapporti tra Assindustria e Palazzo di Città Assolutamente no. C’eravamo sentiti prima, sapevo non sarebbe venuto. Sarà vero?
Uno dei frutti della nostra collaborazione è l’istituzionalizzazione del Placement Day, tenuto quest’anno con 40 aziende che si sono intrattenute con gli studenti per fornire orientamenti.
CULTURA E FORMAZIONE
Foto di Carlo Hermann
La virtù delle università. Produrre saperi non cifre Non basta leggere gli indicatori per valorizzare il sistema accademico diffuso di Ciro Attaianese
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i risiamo. In maniera ormai puntuale si ripropone il dibattito sul finanziamento pubblico del sistema universitario italiano, con i paladini del merito e della qualità impegnati in tutte le piazze mediatiche
a sbandierare un ridda di indicatori e di graduatorie che condannerebbero alcuni atenei, bollandoli con il titolo di “non virtuosi”, e ne esalterebbero altri, ritenuti invece “virtuosi”. Come purtroppo sempre più spesso accade
dell’Università di Cassino
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CULTURA E FORMAZIONE
nel nostro Paese, quando si prova a rimuovere la patina di superficialità e di omologante qualunquismo che caratterizza gran parte dei dibattiti ospitati dai mezzi di informazione, ci si accorge ben presto che i dati, quando non sbagliati, sono sovente utilizzati in maniera capziosa, e che le parole d’ordine merito e qualità in realtà nascondono il tentativo di ridimensionare pesantemente il finanziamento del sistema universitario, giusto l’esatto opposto di ciò che andrebbe fatto per promuovere lo sviluppo del Paese. Proviamo allora a passare dalle enunciazioni sommarie alla constatazione dei fatti. Il sistema universitario è senza dubbio alcuno l’unico comparto della pubblica amministrazione che ha visto negli ultimi quattro anni una Il sistema universitario è senza diminuzione delle rifinanziarie di dubbio alcuno l’unico comparto sorse oltre il 13%, con una della pubblica amministrazione riduzione di oltre unità di persoche ha visto negli ultimi quattro 10.000 nale docente e ricercatore, nonostante la anni una diminuzione delle spesa media per sturisorse finanziarie di oltre il dente universitario in 13%, con una riduzione di oltre Italia fosse già nel 2010 di oltre il 30% più 10.000 unità di personale bassa della media dei paesi OCSE. Bastedocente e ricercatore rebbe questo dato per chiedere ai detrattori della qualità del nostro sistema universitario se la causa della presunta minor qualità rispetto agli altri paesi con cui amiamo sovente confrontarci non vada ricercata proprio nella carenza di risorse. Nonostante ciò la qualità dell’università italiana si è mantenuta a livelli più che accettabili. Il tanto richiamato fenomeno della “fuga dei cervelli” ne è una prova tangibile, dal momento che i cervelli che fuggono si sono formati nei nostri atenei, così come è una prova tangibile del fallimento della politica che non ha saputo creare condizioni di sviluppo idonee a trattenere questo capitale umano altamente qualificato, per lo più formatosi a spese dello stato. Veniamo agli indicatori. Si potrebbe pensare, che il finanziamento che un ateneo riceve per ogni studente iscritto sia lo stesso per tutti gli atenei. Nulla di più falso. Basta interrogare i dati presenti sul sito web del
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Foto di Carlo Hermann
MIUR per rilevare che ci sono atenei che ricevono per ciascun studente iscritto poco più di 2.700 euro e altri che ne ricevono oltre 6.000, con una media nazionale attestata intorno a 4.000 euro per studente iscritto. Un po’ come le famose siringhe che hanno un costo diverso andando da Palermo a Bolzano. Poiché tutti gli atenei statali svolgono la medesima funzione di sfornare laureati e poiché le percentuali occupazionali sono sostanzialmente simili, sarebbe logico definire “virtuosi” gli atenei che lavorano con risorse minori. E invece no: uno degli indicatori utilizzati per classificare gli atenei misura l’incidenza del costo del personale rispetto alla somma del finanziamento statale e delle tasse universitarie. In questo modo a un finanziamento statale minore corrisponde un’incidenza del costo del personale maggiore e quindi una minore virtuosità. Strano ma vero! Ma le stranezze non si fermano qui. Proprio per com’è definito questo indicatore, sono premiati quegli atenei che
Il sapere non è solo un costo L’Università non può essere considerata alla stregua delle altre spese correnti, per di più residuale e comprimibile a piacere senza effetti sulla società e sull’economia. Il problema economico spesso ostentato rappresenta un falso problema.
hanno maggiori entrate dalle tasse pagate dagli studenti. A riprova di ciò, dai dati disponibili è immediato rilevare che gli atenei ritenuti più “virtuosi” dal punto di vista economico finanziario, sono proprio quelli con una maggiore incidenza percentuale delle tasse universitarie. In tal modo non si tiene conto del dettato normativo introdotto dal DPR 306/1997, come modificato dal D.L. 95/2012, che impone un tetto pari al 20% dei contributi universitari versati dagli studenti “iscritti entro la durata normale dei corsi di studio”. Altro elemento che suscita non poche perplessità nella definizione degli indicatori è rappresentato da come sono portati in conto i fitti passivi. Paradossalmente, confrontando due atenei, uno che ricorra per la sua politica edilizia esclusivamente a fitti passivi senza aver contratto mutui, e l’altro che invece abbia solo oneri di ammortamento derivanti dall’acquisto o costruzione di
immobili senza alcuna spesa per fitti passivi, il primo sarebbe considerato altamente virtuoso, in quanto si vedrebbe assegnato un indicatore di indebitamente nullo, a differenza del secondo, penalizzato, nonostante stia perseguendo una politica di accrescimento del patrimonio pubblico trasformando in investimenti le spese effettuate. Da quanto sopra emerge che gli indicatori considerati non consentono affatto di avere una fotografia chiara, ma soprattutto trasparente, della reale situazione economico-finanziaria dei vari atenei. Quello che non si comprende è perché non sia stato definito un indicatore unico, che tenga conto cumulativamente delle spese per il personale, degli oneri di ammortamento e delle spese per fitti passivi, tutte spese da considerarsi sullo stesso piano proprio ai fini dalla valutazione della sostenibilità del bilancio di un ateneo. L’Università non può essere considerata alla stregua delle altre spese correnti, per di più residuale e comprimibile a piacere senza effetti sulla società e sull’economia. Il problema economico spesso ostentato rappresenta un falso problema. Il sistema universitario italiano ha un valore apparente per il bilancio dello stato di circa 6,5 miliardi di euro all’anno. Apparente poiché il ritorno fiscale su questa cifra porta il valore reale a carico del bilancio statale a poco meno di 4 miliardi, ovvero 0,27% del PIL, 0,21% del debito pubblico, 0,77% delle spese correnti. Tanto per rimanere sui numeri, immediatamente leggibili e inequivocabilmente comprensibili, questo significa che se dall’oggi al domani chiudessimo tutti gli atenei, licenziando tutto il relativo personale, il debito pubblico del nostro paese passerebbe nell’immediato da 2.014 a 2.010 miliardi di euro (dati ottobre 2013). E poi? Sarebbe una riduzione risibile e per di più effimera. Di quanto crescerebbe il debito pubblico dopo per effetto del depauperamento del capitale umano del nostro paese? Il declino sarebbe ineluttabile e per di più rapido, poiché la conoscenza e le persone che ne dispongono sono elementi essenziali per vincere la sfida dello sviluppo. Il vero problema non è finanziario, bensì culturale su come devono essere intesi il ruolo e la natura dell’università.
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“Architettura al muro” All’ex Carcere Borbonico di Avellino La Calcestruzzi Irpini scommette sulla cultura e promuove iniziative di aggregazione sociale a cura della Redazione
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a redazione di Link ha voluto far tappa ad Avellino per far visita alla sede della Calcestruzzi Irpini S.p.A., azienda leader nel settore del calcestruzzo, tra le più moderne d’Italia e attiva da oltre 50 anni con diversi impianti produttivi dislocati in regione Campania. Come noto, a guidarla è Silvio Sarno che, oltre a trasformare l’azienda in holding di famiglia con risultati entusiasmanti, ha saputo affermarsi quale manager di successo in quella che lui stesso definisce “una entusiasmante e difficile sfida per dimostrare che anche al sud è possibile investire per radicare il concetto di imprenditoria sociale”. Silvio Sarno ha voluto e saputo affermare questo concetto
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ben oltre i confini della propria provincia di riferimento. Ha, nel corso degli anni, ricoperto ruoli di prestigio in Ance e Confindustria sempre al vertice. Politicamente impegnato, oggi è presidente nazionale ATECAP ed editore del nostro trimestrale. Abbiamo voluto dare risalto ad una realtà che, negli anni, ha saputo tradurre in azioni concrete un insieme di valori fondamentali, un modo di vivere, prima che un’idea di fare impresa. L’occasione ci è stata offerta da una delle tante attività sostenute, che proprio in questi giorni festeggia il suo decimo anniversario. Proprio per questo, abbiamo voluto capire di cosa si tratta e raccontarlo ai nostri lettori. La Calcestruzzi Irpini S.p.A., ha da sempre
affiancato il brand aziendale ad iniziative di carattere culturale e, tra queste occupa un posto di primo piano “Architettura al muro”, un progetto di comunicazione visiva che ha contribuito con la realizzazione di un calendario artistico a raccontare attraverso la ricerca fotografica l’architettura in Europa e in significative realtà mondiali. Per festeggiare questo importante traguardo, è stata promossa una rassegna artistica con la partecipazione di numerosi ospiti ed il coinvolgimento di alcuni tra i migliori artisti del territorio irpino. Il progetto del calendario aziendale, nato nel 1997 con l’intento di rafforzare l’identità delle competenze aziendali, solo nel 2000 è stato inteso come strumento di comunicazione di alcuni valori della cultura aziendale. Dai primi temi che ritraevano la natura come espressione dell’ambiente, si è passati ad un progetto molto più vicino al core business della IC. Nel 2005 ha esordito la prima edizione di “Architettura al muro” che trova radici in un processo di ricerca volto a rappresentare una delle tante sfaccettature della nostra civiltà: l’architettura. Ad ogni edizione si affronta questo tema selezionando una nazione, un popolo, una cultura, attraverso una visione trasversale che include architettura spontanea ed accademica, tra storia e modernità. Oggi, il calendario artistico della Calcestruzzi Irpini ha raggiunto l’obiettivo prefissato, diventando oggetto di culto per i suoi contenuti. A dieci anni dalla sua nascita, la notorietà del Calendario IC è cresciuta esponenzialmente, diventando oggetto da collezionare per molti di coloro che lo ricevono. I meriti di questo successo sono da ricercarsi nella qualità del progetto, nella distribuzione mirata eseguita dai responsabili commerciali dell’azienda e, non ultimo, nella fiducia accordata al progetto da Silvio Sarno. Per festeggiare questo importante traguardo, il calendario artistico si presenta al pubblico con un’edizione speciale che raccoglie una serie d’immagini fotografiche raffiguranti alcuni dei progetti di architettura più significativi dell’ultimo decennio. Una mostra fotografica ripercorre la storia del progetto con circa 100 stampe di grande formato. Performance pittoriche, scultoree, teatrali e musicali si
affiancano alla fotografia per circa 30 giorni (fino al prossimo 12 gennaio) nelle sale espositive del Carcere Borbonico di Avellino messe a disposizione dall’Ente Provincia che per l’occasione è anche patrocinatore dell’evento culturale. Ideatore ed autore di “Architettura al muro”, nonché direttore artistico di questa decima edizione è Antonio Bergamino, fotografo professionista ed esperto in tecniche di comunicazione visiva. Accreditato Nikon, ha eseguito servizi fotografici in giro per il mondo prediligendo la fotografia di reportage, subacquea, sociale, di scena e, ovviamente, quella di architettura. Di se stesso ama dire: “Mi piace ricercare le linee che costruiscono l’immagine, mi piace aspettare la luce perché mi dia una mano”. Per questa importante ed avvincente sfida ha costituito e coordinato un gruppo di lavoro grazie al quale è riuscito a portare a termine l’idea che sulla carta era nata nel mese di gennaio. Con lui hanno lavorato al progetto assolute eccellenze del panorama artistico irpino. Il pittore e scultore Giovanni Spiniello, la cui fama è ben nota ben oltre i confini nazionali per opere quali “Reminescenze fossili” e “l’Albero vagabondo”uniche per creatività e per le tecniche utilizzate. Lo scultore Giuseppe Rubicco, famoso per le sue schegge composte di materiali vitrei riciclati. Il pittore e scultore Fabio Mingarelli, figlio d’arte, che racconta attraverso installazioni scultoree e pittoriche il dramma delle morti sul lavoro. Il writer Davide Brioschi, eccellenza assoluta nel panorama nazionale che interpreta il valore dell’etica e dell’estetica in architettura. Lo scenografo e pittore Gennaro Vallifuoco, che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Roberto De Simone e che ci delizierà con le sue immagini allegoriche ricche di cromatismi. Infine, l’attore Salvatore Mazza con la sua Compagnia Teatrale Clan H che ha scritto e sceneggiato una rappresentazione ad hoc messa in scena sia nella sala congressi che nell’ala espositiva. Al neonato team è stata chiesta una libera interpretazione sul tema dell’architettura e grazie alle fantastiche visioni degli artisti è stato possibile allestire 5 sale museali.
L’ideatore Antonio Bergamino, fotografo professionista ed esperto in tecniche di comunicazione visiva: “Mi piace ricercare le linee che costruiscono l’immagine, mi piace aspettare l a luce perché mi dia una mano”.
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CULTURA E FORMAZIONE
INTERVISTA A LUCA CIPRIANO
Un successo in cifre Nel corso di questi tre anni abbiamo raggiunto risultati che sono sotto gli occhi di tutti: dagli 800 abbonati di tre anni fa per il Cartellone principale siamo arrivati ai 1400 di oggi. Annualmente fruiscono delle nostre rappresentazioni ben 90mila persone per oltre 100 spettacoli.
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Teatro Carlo Gesualdo, l’Irpinia in scena Presente roseo e futuro in crescita: il bilancio del direttore di Marco Staglianò
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residente Cipriano, il 25 novembre del 2010 cominciò la sua avventura al Teatro Gesualdo di Avellino. Una struttura complessa ed ambiziosa, basti pensare che per capienza è il quattordicesimo Massimo della Penisola, tanto più per una città come Avellino che dista poche decine di chilometri da Napoli, ovvero dalla capitale culturale del Sud, ma anche da Salerno e da Benevento che hanno tradizioni molto più radicate e teatri con una grande storia alle spalle. Ci dia il senso dei risultati che è stato in grado di ottenere… Il Teatro Gesualdo è al suo dodicesimo anno d’età. Mi preme, dunque, affermare in premessa che chi mi ha preceduto ha lavorato bene, consegnandomi un Teatro solido da un punto di vista finanziario. E questo, ovviamente, ci ha consentito di lavorare sin dal
principio con la dovuta serenità. Ciò detto, quando sono arrivato alla guida del Gesualdo, mi sono immediatamente reso conto che gran parte delle potenzialità della struttura erano rimaste inevase e che occorreva imprimere un radicale cambio di impostazione sul crinale della gestione. Nel corso di questi tre anni abbiamo raggiunto risultati che sono sotto gli occhi di tutti: dagli 800 abbonati di tre anni fa per il Cartellone principale siamo arrivati ai 1400 di oggi. Annualmente fruiscono delle nostre rappresentazioni ben 90mila persone per oltre 100 spettacoli. Abbiamo raggiunto una capacità di autofinanziamento pari al 40% del bilancio, ci proponiamo oggi, unici in Italia, con un corso di laurea triennale in arti coreutiche e coreografiche. Abbiamo ampliato molto l’offerta didattica aggiungendo al coro
delle voci bianche l’orchestra giovanile, scuola di Teatro per bambini e, appunto, il corso di laurea. Torniamo ai giorni del suo insediamento, cos’è che non funzionava? Non voglio essere banale ma mi ritrovai alla guida di un Ferrari senza benzina. Le potenzialità del Teatro erano sfruttate solo in minima parte e mancava completamente la comunicazione con il pubblico. Siamo partiti da lì, ovvero dalle potenzialità inesplorate, muovendo da una radicale revisione di tutte le procedure amministrative e gestionali sino a ridefinire completamente il modello organizzativo. Noi misuriamo il nostro agire sulla performance, il nostro è un approccio meramente manageriale. Il che, ovviamente, non significa asetticamente algebrico. La performance la raggiungi se affermi il primato della qualità. Volevamo fare del Teatro un riferimento per la città e per l’Irpinia e credo che ci siamo riusciti. Quale è stata la sua più grande soddisfazione? Beh, quella di aver portato il pubblico al Gesualdo, di aver riempito il Massimo cittadino operando in un periodo di crisi profondissima. Noi abbiamo dimostrato che la qualità paga, che quando si lavora con professionalità ed impegno il pubblico risponde. Poi, è chiaro, il fatto di essere riuscito a portare ad Avellino un corso di laurea unico e di assoluta eccellenza, vincendo la concorrenza del Teatro dell’Opera di Roma e della Fondazione Arena di Verona, si commenta da solo. Quanto pesa la vicinanza di Napoli oltre che di città, quali Salerno e Benevento, con Massimi di tradizioni ben più radicate rispetto al Gesualdo? Ribadisco, la nostra parola d’ordine è qualità. Quando questa mancava il pubblico si rivolgeva altrove. Noi scontiamo un ritardo molto profondo ma oggi possiamo ben dire di averlo in gran parte colmato. Sono molti gli abbonati non irpini e questo capita perché noi poniamo in essere un’offerta sempre alternativa. Componiamo il nostro Cartellone con il Teatro Pubblico Campano, il nostro partner, e laddove è possibile proviamo sempre a caratterizzarci per un’offerta diversa e
sempre eccellente. Pensiamo a Momix o agli Stomp, l’anno scorso in Italia solo ad Avellino, ma pensiamo anche alla collaborazione con il San Carlo. Di più, mentre prima il Teatro era chiuso da maggio a novembre ora non chiude mai ed in estate siamo sempre in grado di offrire spettacoli e momenti di grande qualità. Il Gesualdo vive ogni giorno grazie alla didattica, alle mostre nel foyer, alle rassegne cinematografiche come quelle dello Zia Lidia Social Club, associazione tutta avellinese che s’è imposta come riferimento ben oltre i confini provinciali. Senta Presidente, la politica le è stata di ostacolo o di aiuto? Né di ostacolo né di aiuto. Il Gesualdo è un ente pubblico al 100% ed anche la mia nomina alla Presidenza è figlia di una scelta politica. Questo, ovviamente, mi responsabilizza molto. Ma esiste un gap enorme tra politica e cultura, sovente i partiti si occupano di cultura quando c’è da occupar poltrone e comporre C.d.a. E troppo spesso sceglie per consorterie e non per merito o competenze. Nel mio caso, non voglio apparire immodesto, la scelta è forse stata giusta. Lo scorso anno avete celebrato i 400 anni dalla morte di Carlo Gesualdo, il Principe dei musici. Sì, è stata un’esperienza molto bella ed impegnativa. Era nostro dovere comunicare all’Irpinia chi fosse Carlo Gesualdo, un genio della musica conosciuto nel mondo ma non a casa sua. Abbiamo sollecitato l’attenzione della società civile ed abbiamo incrociato una diffusa vivacità culturale che ci ha meravigliato. Gesualdo è parte della nostra identità, sono innumerevoli e le pubblicazioni che in questi mesi abbiamo presentato al Teatro socializzando la storia di questo genio irpino, facendolo vivere nella nostra memoria condivisa. Quale il suo sogno? Quello di vedere le tante scatole vuote della città finalmente piene di contenuti, di rivedere la Dogana, il simbolo stesso di Avellino, di nuovo viva. Io amo Avellino, l’Irpinia è una terra meravigliosa ed abbiamo tutte le carte in regola per far emergere questa bellezza.
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CULTURA E FORMAZIONE
di Anna Malinconico
Una piccola (grande) impresa meridionale Chiacchiere in libertà con Rocco Papaleo Il calore del Sud
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ncontro Rocco Papaleo in una delle tappe programmate per la promozione del suo secondo film da regista, oltre che da protagonista di “Una piccola Impresa Meridionale”, già nelle sale cinematografiche dal 17 ottobre scorso. Sono emozionata e curiosa, perché conosco Rocco dai tempi del liceo. Entrambi studenti liceali con molte cose in comune: amici, gite, il viale ed il “muretto” di Lagonegro, ma soprattutto la Lucania, una terra piccola, aspra, accogliente, bianca d’inverno e verde in estate. Rocco (Antonio, Totò per “i compagni”), è un lucano doc. Essenziale, ma disponibile; sognatore, ma di quelli che non si perdono dietro i sogni, e che, ogni giorno, ne costruiscono un pezzo, con leggerezza ed impegno. Con la leggerezza dell’essere, con quella sana autoironia che ti fa fare le cose senza assolutizzarle, senza dare loro un’importanza tale da renderle totali; ma, contemporaneamente, con la necessaria abnegazione e caparbietà per ottenere “il proprio risultato”. Mi ricordavo i suoi occhi immensi, incantati…E se fosse diventato “un personaggio”? Il suo primo lavoro cinematografico da regista, “Basilicata coast to coast” si era rivelato un film delicato, per me
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un tuffo nel passato. I colori, l’atmosfera di un Sud ancora non conosciuto pienamente. Mi aveva colpito la sua mano leggera e la grande capacità di raccontare con gli occhi e lo spirito della generazione di allora. Nella Lucania degli anni a cavallo fra i 70 e gli 80, i giovani, lontani dalle aree metropolitane, vivevano di sogni, di musica e, spesso, di politica. I pomeriggi invernali erano trascorsi a “provare”, suonare, cantare, comporre, filosofeggiare, in qualche garage allestito per l’occasione. Musica, musica, ancora musica. E poi tanti discorsi ed idee su come cambiare il mondo. Le prime radio libere; i concerti inseguiti ovunque; la fatica e la ricchezza di inventarsi tutto da sé. Dal niente si riusciva a ricavare l’impossibile. “Basilicata coast to coast” aveva risvegliato tutto questo. Poi il secondo lavoro cinematografico, “Una piccola Impresa Meridionale“. Ancora una volta sono rimasta rapita dai colori, dal calore del Sud, dal mare che ci riporta alle nostre origini; dai personaggi. Un intreccio di storie, di apparenti fallimenti; di pregiudizi persistenti. Tutto si risolve magistralmente ed ognuno troverà ragione della propria esistenza, superando le cadute, rialzandosi, prima in maniera corale, e poi ridefi-
Dal niente si riusciva a ricavare l’impossibile. “Basilicata coast to coast” aveva risvegliato tutto questo. Poi il secondo lavoro cinematografico, “Una piccola Impresa Meridionale“. Ancora una volta sono rimasta rapita dai colori, dal calore del Sud, dal mare che ci riporta alle nostre origini; dai personaggi. Un intreccio di storie, di apparenti fallimenti; di pregiudizi persistenti.
nendo il proprio personalissimo viaggio. Non una spasmodica ricerca di verità nascoste o di risposte, ma semplicemente la grande capacità di fermarsi, guardarsi dentro, riprendendosi la genuinità dei piccoli gesti, delle cose di tutti i giorni. Una ricostruzione fisica e mentale, interiore, senza alchimie, partendo dalla concretezza del quotidiano. Anime perdute, o meglio, disorientate, smarrite nel pregiudizio raccontato senza retorica. Da sfondo, sempre presente, ma mai invadente, l’amore per i propri luoghi, che ciascun uomo del sud ha inciso nel proprio silenzio, e che nessuna mano può raschiare via. Un arcaico mondo contadino forte a tal punto dal rinascere a partire dalla propria compostezza. Lo smarrimento è temporaneo. Il Sud raccontato è affettuoso, verace, ironico, caldo, carezzevole, non ha la puzza di mafie; un Sud non gridato, non insanguinato e mortificato; ma un sud esistenziale; essenziale; autentico; finalmente brillante; ironico. E poi tanta musica, corposa, libera, che accompagna. D’altra parte, mi dice Rocco “ La musica è il posto dell’anima. Questo secondo lavoro con Rita Marcotulli – coautrice delle musiche - è stato più consapevole, più difficile, più soddisfacente dal mio punto di vista. Io vivo per le note e per la poesia... e ancora non so se è la musica che commenta le immagini o viceversa.” Rocco è spontaneo, scherza con il pubblico, e con me. Rocco,- gli chiedo- che ne pensi della scuola italiana? . “La scuola deve rimanere al centro della nostra vita. Non si può elemosinare sull’istruzione, mortificando le intelligenze. Vi prego, rivolgendosi ai giovani intervenuti, pretendete il meglio da chi vi forma; non vi accontentate. Siate sempre i CHE di voi stessi, non vi fate stordire dalla mediocrità”. È una scoperta per molti, questo Papaleo che promuove con amore la sua terra. “Io sono quello che sono anche grazie ad un ottimo insegnante di filosofia, un incontro fortunato”, continua. E poi, riferendosi ai nostri giorni, quasi con pudore cita Papa Francesco. “È immenso – dice – è una roccia, io gli credo. La Chiesa non sempre è riuscita a dare il meglio di sé; talvolta ha alimentato guerre, divisioni, pregiudizi e chiusure. E poi i preti…alcuni sono un grande esempio per tutti, altri no. Il protagonista del mio ultimo film è proprio un ex prete. Ora questo grande Papa, che è rimasto un semplice uomo, ci sta riportando all’
essenza delle cose, senza retorica e pomposità. È uno di noi. Era quello che ci voleva.” Me lo ricordavo così Rocco: un po’ filosofo; apparentemente distaccato e con la testa nelle nuvole, ed invece fortemente nelle cose. Uno che strappa la risata anche mentre parla di cose serie. Che dice di essere “uno assolutamente normale” e si comporta come tale. Che incontra gli amici di sempre, pur essendo “arrivato.” Anche quando ha calcato il palco di Sanremo è rimasto se stesso, ironizzando su un ruolo diverso, cantando un suo brano dopo Sanremo, sorride “sono meno sfigato con le donne che per anni mi avevano notato poco”. Rocco, esisterà mai un’industria culturale al sud? .“Anna, il sud merita una rinascita; necessita di una rivoluzione buona, di energie. È la cultura che deve fare da spartiacque. Ed i media devono aiutare, intercettando i veri bisogni delle persone, e non facendo come i pappagalli che ripetono solo quello che “altri” suggeriscono. Il vero nemico non è la malavita organizzata: è la vecchia mentalità da scrostrare. È la banalità, la superficialità con cui si affrontano i problemi e le questioni di tutti i giorni; è l’ignoranza, l’esaltazione di se stesso, un male contagioso che sta colpendo in tanti. È l’impostazione clientelare di tutto. E poi, i politici che pensano di esserlo a vita, senza scadenze. Oggi nessuno ha certezze, ognuno cambia più lavori, al sud il lavoro manca proprio, ed i politici invece continuano a tramandare i loro incarichi di padre in figli, da mariti a mogli o viceversa… Ci vogliono programmi chiari che identificano le persone che li propongono. Chi viene eletto deve rispettare quanto promesso, anche a costo di essere impopolare per un po’e dimostrare con i fatti che il progetto che aveva era vero e non un espediente elettorale. È sui risultati che si costruisce una generazione, anche politica, che va avanti per meriti, non per investitura, invece si continuano a costruire muretti e marciapiedi, senza fare vere trasformazioni. Per questo ancora oggi i giovani emigrano. Il sud è una grande fonte di ispirazione, ma senza “un’industria” culturale non si svilupperà mai….. Scuola, formazione e meritocrazia sono le parole d’ordine per il presente ed il futuro, e per i politici onestà intellettuale e …reale”. Auguriamocelo!
Il Sud merita una rinascita È la cultura che deve fare da spartiacque. Ed i media devono aiutare, intercettando i veri bisogni delle persone, e non facendo come i pappagalli che ripetono solo quello che “altri” suggeriscono. Il vero nemico non è la malavita organizzata: è la vecchia mentalità da scrostrare.
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CULTURA E FORMAZIONE
di Franca Pietropaolo
Il presente e il futuro nelle opere di Angelo Volpe
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uando si parla di arte, di mostre e di artisti emergenti, si ha l’impressione che tutto sia già stato proposto dalle varie correnti che si sono susseguite e che non ci sia alcuna possibilità di innovazione. Rivisitazioni di tecniche o di opere più o meno famose, contaminazioni di generi, fusioni di discipline e altre insolite combinazioni, sono spesso valutate attraverso una ben solida base di diffidenza dai più o meno assidui fruitori d’arte che si aspettano di trovarsi dinanzi al probabilissimo “già visto”. Ad alimentare questa tangibile sfiducia nei confronti dell’arte vista come “qualcosa che stupirà il suo fruitore”, è la consapevolezza che la maggior parte delle proposte esulano dalla funzione sovversiva che da sempre è stata assegnata
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alle discipline audiovisive. Tutto ciò a discapito degli artisti moderni, degli innovatori che s’imbattono in notevoli difficoltà nel diffondere le loro opere e nell’entrare nella dimensione sociale e collettiva al fine di suscitare interesse e attenzione. Se circoscriviamo questa situazione all’Italia, o ancor più nello specifico ad un città difficile come Napoli, dove la crisi economica, l’inoccupazione e il calderone di problematiche sociali prendono inesorabilmente il sopravvento sul “dilettevole” e sui bisogni non primari, sembra non esserci alcuna possibilità di successo per i giovani talenti emergenti. Artisti che malgrado tutto, continuano a produrre stimolati dal desiderio di mostrare al resto del mondo i frutti del proprio estro creativo e dall’incontenibile desiderio di lanciare un messaggio attraverso
Interprete dell’esistenza I suoi dipinti rigorosamente ad olio, illustrano un mondo fantastico dove un finto velo di romanticismo svela i dilemmi della società moderna occidentale. Tutte le sue creazioni sono popolate da figure singolari ed emblematiche, metafore di inquietudine e di innocenza perduta.
un’opera d’arte. Uno di questi è il giovane artista originario di Pozzuoli Angelo Volpe, classe 1976, pittore proveniente dall’Accademia delle Belle Arti di Napoli. A lui va il merito di aver superato questo scoglio apparentemente insormontabile, affermandosi come solida realtà nel panorama artistico prima napoletano, poi internazionale. Volpe vanta importanti collaborazioni con noti esponenti del mondo dell’arte moderna quali, lo scultore e fotografo inglese David Tremlett, l’artista svizzero Thomas Hirschhorn e l’americano Sol LeWitt, fautore del movimento minimalista e concettuale. Le opere di “Mr Fox”, con grande merito, sono approdate in India, in Spagna, in Slovenia, a Taiwan, hanno girato l’Italia arrivando nel 2011 alla cinquantaquattresima edizione della Biennale
personaggi dei fumetti e dei cartoons che si fondono con i protagonisti delle opere di Volpe, mascherandoli o semplicemente accompagnandoli in questo viaggio tra fantasia e realtà, tra passato, presente, fino a rappresentare una nuova probabile umanità che abiterà la terra in un futuro non molto lontano. Emblematica e fortemente rappresentativa dell’universo descritto da Volpe, è proprio la recente mostra “What about Tomorrow”, nata da un’idea dell’artista Savino Campos e curata dal Presidente Associazione Culturale ArteAs Maurizio Siniscalco. L’idea di base di questa mostra personale è quella di entrare nel merito di un mondo sempre più globalizzato e di evidenziare come l’impatto mediatico della pubblicità di aziende multinazionali possa influenzare il nostro “Io”.
Con “What about Tomorrow”, ancora una volta Angelo Volpe ha dimostrato la sua impareggiabile professionalità dal punto di vista tecnico, regalando al pubblico un insieme di opere profondamente concettuali. Ci troviamo infatti, al cospetto di dipinti che fungono da veicolo del messaggio che l’artista intende trasmettere. di Venezia e negli ultimi mesi a Rio de Janeiro con la personale “What about Tomorrow”. Angelo Volpe, con le sue opere interpreta l’esistenza con splendenti quanto intensi cromatismi. I suoi dipinti rigorosamente ad olio, illustrano un mondo fantastico dove un finto velo di romanticismo svela i dilemmi della società moderna occidentale. Tutte le sue creazioni sono popolate da figure singolari ed emblematiche, metafore di inquietudine e di innocenza perduta. Sexy dolls che stravolgono i canoni della semplicità, icone come Mahatma Gandhi e inquietanti simboli quali teschi o scheletri, scenari da favola e infine personaggi entrati nell’immaginario collettivo diventano testimonial di brand internazionali. Sì, proprio i loghi di famosi fast food o di popolarissime bevande vengono fuori inaspettatamente in punti non definiti dei suoi quadri, convivendo quasi indiscretamente con misteriosi paesaggi fiabeschi. Un mix piuttosto particolare, innovativo e geniale, per non parlare poi degli immancabili
Oltre alle immancabili e provocanti dolls, ormai segno distintivo delle mostre di Volpe, questa singolare galleria si arricchisce di altri improbabili ed emblematici personaggi: San Sebastiano, che mostra insoliti tatuaggi, la Madonna-Chu e il folcloristico folletto di Rio, Saci Pererè, in cui riconosciamo il celebre Popeye, noto come “Braccio di Ferro”. Con “What about Tomorrow”, ancora una volta Angelo Volpe ha dimostrato la sua impareggiabile professionalità dal punto di vista tecnico, regalando al pubblico un insieme di opere profondamente concettuali. Ci troviamo infatti, al cospetto di dipinti che fungono da veicolo del messaggio che l’artista intende trasmettere: la globalizzazione mette a repentaglio la singolarità degli esseri umani, annullandone i tratti distintivi. Opere di grande impatto che dialogano con i propri fruitori, invitandoli a riflettere sugli aspetti della società massificata e sulla ricerca della propria personalità attraverso la ricostruzione di una mappa che riconduca all’Io.
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CULTURA E FORMAZIONE
di Ilaria Urbani
Forum delle Culture Molto rumore per nulla. La promozione fantasma della città
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l logo del Forum Universale delle Culture 2013 è una montagna di mani multicolori. Quell’immagine oggi sembra una premonizione. Perché le mani sull’evento dell’Unesco hanno provato a mettercele un po’ tutti. E registrando, puntualmente, un fallimento. La manifestazione ambita da decine di metropoli nel mondo doveva tenersi a Napoli dall’aprile al luglio scorsi. Nel 2013 appunto. E rilanciare la città. Cecità, liti, sprechi, personalismi e incapacità politiche hanno portato allo slittamento e al conseguente ridimensionamento dell’evento. Così il Forum Universale 2013 è diventato il Forum 2014: si terrà infatti l’anno venturo. Dopo l’inaugurazione tra le polemiche al Teatro San Carlo il mese scorso, sul programma aleggia ancora il mistero. Una serie di incontri al Pan illustrerà la fase progettuale – sarà la volta buona? – e coinvolgerà operatori culturali per progetti su sostenibilità, diritti umani, diversità e pace, finanziabili entro i 20 mila euro. Ma per districarsi nell’infinita rete di litigi e promesse tradite forse è utile riepilogare le tappe fondamentali di una débacle durata cinque anni. Un’occasione mancata per Napoli e per le nuove generazioni. Anno 2007. Manca una settimana al Natale, Napoli viene proclamata sede della quarta edizione della manifestazione dell’Unesco. Dopo Barcellona, Monterrey e Valparaiso. C’erano ancora Rutelli al ministero dei Beni Culturali, la Iervolino a Palazzo San Giacomo e Bassolino a Santa Lucia. Si apre un teatrino di errori e situazioni paradossali. Anno 2010. La sindaca e il governatore, prima dell’elezione di Caldoro alla Regione Campania, fanno appena in tempo a mettere il cappello sull’evento nominando presidente del Forum il suo più grande sponsor fino ad allora: Nicola Oddati. L’assessore comunale alla cultura già nel dicembre 2007 annunciava per il Forum investimenti pubblici e privati per un miliardo di euro, 10 mila nuovi occupati tra i giovani, oltre quattro milioni di visitatori dall’Italia e dall’estero e 500 mila campani. Meno di un anno
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dopo per la prestigiosa occasione veniva previsto il prolungamento della linea 6 della metropolitana fino a Città della Scienza e la linea Cumana parzialmente interrata. Di entrambe nemmeno l’ombra. E suona sarcastico oggi con la situazione dei trasporti al collasso. La cifra reale per l’intera kermesse doveva essere di 250 milioni di euro che con ritardi, sprechi e mancata programmazione diventeranno 150, 56, 25. E infine 16. Oggi ne sono 11: cinque dovrebbero essere impegnati dalla Regione per eventi fuori città. La fondazione ereditata dalla giunta de Magistris troverà già un milione di euro di debiti, ma non sarà certo solo questo il problema. Anno 2011. Con un coup de théâtre, il sindaco arancione scarica Oddati e nomina presidente del Forum, Roberto Vecchioni. Il cantautore lascerà l’incarico in uno sciame di polemiche: “troppe voci maligne, pensavo di dovermi occupare di cultura…”, dirà. L’ex asilo Filangieri, sede del Forum, due mesi dopo verrà “occupato” dal collettivo dei lavoratori dello spettacolo La Balena. Oggi si organizzano eventi dal basso, laboratori teatrali, e si parla del Forum come “pacco universale delle culture”. A fine dicembre nell’edificio si terrà una tre giorni d’arte interdipendente intitolata “Il Grande Vento” che ironizza su quello che doveva essere un “grande evento”. Nel tempo ai vertici del Forum si sono succeduti lo storico Sergio Marotta e l’ambasciatore Francesco Caruso. Quest’ultimo abbandonerà con parole di sdegno e dolore nei confronti della città. Oggi la fondazione è guidata dal commissario Alessandro Puca. Che è riuscito finalmente a versare alla Fondazione Forum di Barcellona i primi 100mila euro dell’accordo di 1,3 milioni per la cessione esclusiva del marchio Forum. Certo. Ma la cittadinanza, che a questo punto dell’esclusività se ne infischia, si chiede ancora cosa sia questo benedetto forumfantasma. Una scatola vuota, un ennesimo laboratorio dello spreco di risorse pubbliche? Finora molto rumore per nulla.
di Paola Bruno
Omaggio ad Aldo Masullo Il filosofo ascoltatore
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ldo Masullo nasce ad Avellino il 12 aprile del 1923. trascorre i primi dieci anni anni della sua vita a Torino. Nel 1933 si trasferisce con la propria famiglia a Nola. Nella città del filosofo Giordano Bruno trascorre l’adolescenza e compie gli studi superiori. Qui inoltre vive intensamente la vita culturale dei giovani nolani anche durante gli anni degli studi universitari. Negli anni sessanta e settanta la contestazione studentesca segnalava il bisogno di rinnovamento dell’università italiana. Masullo, per i caratteri originali del proprio insegnamento (riguardo i contenuti e i modi), è considerato dagli studenti uno dei professori progressisti. Egli in quegli anni in qualità di deputato prima e di senatore poi si occupa dei problemi del sistema scolastico Inoltre come parlamentare europeo lavora al fianco di Nilde Iotti nella Commissione legale. L’attività di insegnamento di Masullo si è svolta esclusivamente a livello universitario e prevalentemente all’Università Federico II di Napoli. Qui Masullo iniziò dapprima a svolgere attività di assistente volontario per alcuni docenti di filosofia. Fu assistente volontario dal 1945 al 1948, «[…] che poi i professori mi facevano fare lezione è un’altra cosa», racconta. Poi fu istituito il posto di assistente incaricato e Masullo lo ricoprì dal 1948 al 1952, «dato il limite della mia funzione dovevo essenzialmente spiegare i corsi dei professori, ma nella spiegazione, ovviamente, ci mettevo il mio pizzico di malignità, di ironia, di estrosità, anche di forzatura tutto sommato» (conversazione del 28/9/2001). Nel 1956 conseguì la libera docenza e l’incarico di Filosofia morale che insegnò, ancora all’Università di Napoli, per circa un decennio, eccetto per l’anno accademico 1957-58 che trascorse in Germania, a Friburgo, dove studiò la fenomenologia di Husserl. Gli inizi degli anni Settanta sono per Masullo gli anni di «massimo invasamento politicoparlamentare». Egli partecipa a decine di con-
vegni, dibattiti, conferenze ed eventi politicoculturali che lo rendono particolarmente visibile e apprezzato. In particolare i suoi corsi universitari sono sempre affollatissimi e il suo pensiero assume presto una connotazione etico-politica ben riconoscibile. Fu così che un gruppo di suoi studenti universitari sollecitarono il partito comunista napoletano a proporgli la candidatura alla Camera dei Deputati. Masullo viene eletto Deputato per la Circoscrizione XXII, Napoli. Proclamato il 15 maggio 1972, convalidato il 20 ottobre 1972. Iscritto al Gruppo parlamentare misto. Durante la sua attività di parlamentare, in entrambe le due legislature, la sesta e la settima, Masullo, oltre a seguire le attività della assemblea plenaria, fece parte della VII Commissione, cioè la Commissione permanente per l’istruzione pubblica, e della Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate in materia di stato giuridico del personale della scuola statale.
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DENTRO LA COMUNICAZIONE CONCETTI, CONCETTI, MODELLI, MODELLI, PERSONE PE RSONE “Divulgare significa far conoscere conoscere e comprendere comprendere non solo cose che ci appaiano misterose misterose e lontane, “Divulgare espressioni che usiamo tutti i giorni in modo spesso inconsapev ole o ma anche concetti ed espressioni inconsapevole Far comprendere comprendere è dunque operazione operazione meritoria, fondamentale nei paesi anglosassoni superficiale. Far dove l’approccio l’approccio divulgativo divulgativo della scienza è essa stessa una scienza e dove dove diventa diventa difficilissima la dove traduzione pedissequa dei nostri testi spesso infarciti infarciti di concetti e metafor e che sarebbe sarebbe oppor tuno traduzione metafore opportuno spiegare e poi esporre. esporre. Quando poi la divulgazione riguar da la comunicazione, non solo l’oper a prima spiegare riguarda l’opera soprattutto coraggiosa”. coraggiosa”. è meritoria ma è soprattutto Pinto)) (dalla postfazione di Ferdinando Pinto
Samuele Ciambriello Samuele Ciambriello, giornalista, è stato pr presidente esidente del Cor Corecom ecom Campania e componente del Comitato Nazionale TTvv e minor. minor. Attualmente è docente della Link Campus ed insegna ““Teoria Teoria e tecniche della comunicazione comunicazione”” all’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Salerno.
Michele Infante “Teoria dell’informazione e della Michele Infante, Dottore Dottore di ricerca ricerca in “Teoria Unoversityy, ed ha sv comunicazione”, comunicazione”, ha insegnato alla John Cabot Unoversity, svolto olto attività di ricerca ricerca presso presso la New School for Social R Research esearch di New Y York ork e la Humboldt Universitat Universitat di Berlino. Berlino. Attualmente insegna “Corporate “Corporate Communication” all’Università degli Studi Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli all’Università e “Teoria “Teoria e tecniche dei nuovi nuovi media” media” alla Link Campus University University di Napoli.
LA BUONA NOVELLA
Ilaria Ilaria Urbani Urbani
STORIE STORIE DI PRETI PRETI DI FFRONTIERA RONTIE RA
LLA A BUONA N NOVELLA OVELLA SStorie torie di p preti reti di ffrontiera rontiera
COLLANA COL L A N A EDITORIALE E D I TO RIAL E WE CARE CAR E
Prefazione di Roberto Saviano
coraggiosi mostrano dire parola ““Tredici Tredici uomini cor aggiosi che ci mostr ano quotidianamente cosa vvoglia oglia dir e la par ola missione, cosa significhi amare signi fichi amar e il prossimo prossimo e cosa sia davvero davvero la chiesa. Questa carrellata carrellata di storie necessarie, di esperienze esperienz e uniche, mostr mostra a chiaramente chiaramente come dal racconto, racconto, dalla denuncia possa arrivare arrivare il riscatto. riscatto. Come dal rracconto acconto di tredici tredici vite eccezionali, fatte di vittorie e spesso di sconfitte, sconfitte, si possa comprendere compr endere una terra terra e amarla anche se non ci appartiene. appartiene. Se poi quella è pr proprio oprio la tua terr terra, a, quella cresciuto, in cui sei nato e cr esciuto, ecco che queste esperienze esperienze ti danno le coordinate. coordinate. Ti Ti mostrano mostrano come che queste esperienz esperienze e ti danno le coordinate. coordinate. Ti Ti mostrano mostrano come poter vivere, vivere, come potercela potercela fare. fare. Come la disperazione disper azione può esser essere e trasformata trasformata in speranza, speranza, in vita.” (dalla pr prefazione efazione di Roberto Saviano) Saviano)
Ilaria Urbani Ilaria Urbani, giornalista, nata a Napoli nel 1980, collabor collabora a con “La R Repubblica” epubblica” e con il settimanale “D - La R Repubblica epubblica delle Donne Donne”. ”. Ha scritto per “Il Manifesto Manifesto”. ”. collaborato Jazeera greca eca E ERT. RT. Ha collabor ato con Al Jaz eera English e per l’emittente di stato gr Ha pubblicato un saggio sull’immigr azione nel libr o ““A A distanza d’offesa sull’immigrazione libro d’offesa”” (Ad Est dell’Equator dell’Equatore). e).
In tutte le librerie.
UN GIUDICE PARTIGIANO DIRITTI, DI RITTI, POLIT POLITICA ICA E G GIUSTIZIA IUSTIZIA SOCIA SOCIALE LE A ALL TTEMPO E MPO DE DELLA LLA C CRISI R IS I dove Ma do ve sta scritto che un giudice debba rinunciare rinunciare a esprimere esprimere le sue idee politiche? “sono “sono un giudice e ho delle idee politiche politiche”. ”. La bellezza di Enzo Enzo Albano sta nella naturalezza naturalezza con la quale rivendica riv endica ciò che molti altri contestano, rimuo rimuovono, vono, negano, a destra destra come a sinistra. sinistra. È stata una profonda articoli scelta sapiente e pr ofonda quella di rraccogliere accogliere i suoi ar ticoli in materia di giustizia insieme a quelli strettamente più str ettamente legati all’attualità politica. Non esiste l’uomo togato scisso dall’uomo senza toga. l’uomo.. C’è chi vvorrebbe ridurre sorta depoliticizzato.. Enzo Esiste l’uomo orrebbe ridurr e il giudice a una sor ta di automa depoliticizzato Enzo Albano ha liberamente espresso rresistito esistito a questa de-umanizzazione e si è liber amente espr esso sulla politica e sui politici italiani, guerra, Palestina, democrazia sulla pace e sulla guerr a, su Cuba e sulla P alestina, sulla democr azia e sullo stato eccezionale. diritto.. La vita è qualcosa di ben più complesso rispetto al diritto Prefazione Gonnella)) (dalla P refazione di Patrizio Gonnella
Vincenzo Maria Albano (1943 - 2011 †) magistr magistrato, ato, giornalista, giurista, esponente di magistr magistratura atura democr democratica atica è stato, tr tra a l'altr l'altro, o, presidente pr esidente dell'undicesima sezione penale del TTribunale ribunale di Napoli e pr presidente esidente del TTribunale ribunale di TTorre orre Annunziata (Napoli) .
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A tutto campo! Il libro di Luca Bifulco e Francesco Pirone nelle librerie dalla metà di gennaio 2014
L’
impegno nella ricerca e nella riflessione sullo sport è cresciuto. Notevolissimi i contributi in campo internazionale e nazionale sul terreno della teoria generale sui giochi e sullo sport, da parte della storia culturale, della psicologia, dell’antropologia e soprattutto attraverso quest’ultima, delle scienze sociali… Abbiamo avuto così in campo internazionale i grandi contributi di Elias e Dunning .. ; in Italia, gli approcci di Nicola Porro e di Pippo Russo, e il notevole lavoro di Antonio Roversi e di Alessandro Dal Lago, non a caso vicini ad Elias, all’etnometodologia e a Simmel. Ma di vera e propria analisi sociale sul campo se ne è vista e letta ben poca. Tanto più risulta apprezzabile dunque questo approccio deciso, conciso e appropriato di due giovani ricercatori, Luca Bifulco e Francesco Pirone. Con piglio sicuro e dotati di ottimi strumenti metodologici e di conoscenza dei classici, gli autori tracciano un originale percorso che conduce al fondo dei grandi problemi che la grande fortuna del calcio propone alla prospettiva sociologica. Grande attenzione è rivolta alla grande trasformazione del calcio prodotto principalmente come spettacolo destinato alla televisione. Apogeo e crisi del nuovo sistema del calcio, della sua connessione stretta tra gara sportiva, spettacolo, finanza “creativa”, dominio dell’immagine televisiva, società uguale ad azienda con centralità della finanza e del “virtuale”: il prodotto è una forma specifica di rappresentazione. Rappresentazione
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è il calcio “televisivo”, nel quale tutto è previsto e ripetuto, non ci sono eventi, fatti, ma «questo è il teatro occidentale, una partita di calcio programmata e poi scrupolosamente eseguita, quindi tre volte rappresentata»… Naturalmente, tutto questo rinvia alla funzione generale, al ruolo che nella società contemporanea assumono i mezzi di comunicazione di massa. C’è in primo luogo un problema specifico, di visione dello sport in tv: dalle forme che riveste la particolare e specifica collocazione dello spettatore, con l’evidente differenza rispetto a chi all’avvenimento agonistico assiste sul luogo in cui esso si svolge. In questo caso, c’è comunque un ruolo diverso di partecipazione, anche se si tratta pur sempre di uno spettatore; ma in ogni caso, un minimo di attività è pur sempre messa in atto. A questo va aggiunta l’enorme quantità di offerta, sia in termini di spettacolo sportivo, sia in termini di continua “chiacchiera” su di esso: i “Processi”, gli “Appelli”, le loro continue e frequenti repliche e copie regionali, cittadine, paesane, senza soluzione di continuità e senza limite, nella qualità, al peggio. Ma c’è, in secondo luogo, il problema generale della comunicazione, così come essa si manifesta nella nostra società dello spettacolo. Importante non è solo e tanto l’apparato espressivo di chi parla, quanto lo “scatenamento” di chi ascolta (chi parla preme il grilletto, ma ciò che importa è l’esplosione che si verifica in chi ascolta). (...) dalla Prefazione di Vittorio Dini
In libreria a gennaio Tanto più risulta apprezzabile dunque questo approccio deciso, conciso e appropriato di due giovani ricercatori, Luca Bifulco e Francesco Pirone. Con piglio sicuro e dotati di ottimi strumenti metodologici e di conoscenza dei classici, gli autori tracciano un originale percorso che conduce al fondo dei grandi problemi che la grande fortuna del calcio propone alla prospettiva sociologica.
LA RECENSIONE di Giovanni Laino
Le Dolomiti di Napoli dicono poco della storia recente
(foto di Katia Di Ruocco)
Bassolino custodisce materiali che meriterebbero un’analisi più franca, leale, non solo sulle proprie responsabilità
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egli ultimi anni sono stati pubblicati molti libri di protagonisti della politica italiana. Alcuni si sono cimentati con la narrativa. Quello di Antonio Bassolino “Le Dolomiti di Napoli. Racconti di politica e vita”, edito dalla Marsilio, è un racconto autobiografico. Nel disorientamento generale, molti cercano un modo diverso, più soddisfacente di vivere nella sfera pubblica, di avere un pubblico di riferimento, ritraendosi da campi troppo tesi, carichi di conflitti e di insoddisfazioni per operare in ambiti un po’ più protetti, ove la costruzione di un qualche orizzonte di senso non sembra una impresa titanica. È evidente nel libro l’elaborazione di una crisi profonda che ha provato l’uomo, anche nella sofferenza fisica, nel senso di tradimento di molte persone emerse grazie alla sua cooptazione. Un’elaborazione fondata sulla impegnativa riconciliazione con il corpo, attraverso la corsa, la riscoperta della montagna e del Cilento, delle possibili relazioni con i gatti e soprattutto degli affetti con i figli e i nipoti. Gran parte delle venti schede del libro parlano di questi ambiti del prendersi cura. Ricorrono
considerazioni, in genere brevi, sull’Europa, l’Italia, Napoli, il PD, la militanza politica e alcuni ricordi di militanti comunisti. Complessivamente però, come già per il precedente libro “Napoli Italia”, ove il racconto delle vicende è un poco più esteso, il lettore resta con un forte senso di elusione. Ho letto il libro di Bassolino con rispetto, con un senso di simpatia per l’autore, costatando però una grande differenza fra l’io narrante del testo e il grande leader politico che è stato ai vertici delle istituzioni per diciassette anni in un periodo cruciale. Fa tenerezza, ma anche un poco rabbia, quando l’autore narra di come ha scoperto le diverse facce dell’umanità di un pronto soccorso e di un reparto di un ospedale molto popolare del centro di Napoli, dovendo curare una improvvisa grave emorragia. È fuori luogo aspettarsi dai testimoni contemporanei un testo come “l’Orologio” di Carlo Levi che racconta la crisi del Partito d’Azione del 1945, ma sono rimaste deluse le mie attese. Bassolino non propone nessuna riflessione sulla particolare gestione della crisi delle ASL, sulle politiche ambientali, il ginepraio dei fondi strutturali, le sperimentazioni del reddito di cittadinanza, le relazioni con le liste dei di-
Elaborare i lutti Bassolino non propone nessuna riflessione sulla particolare gestione della crisi delle ASL, sulle politiche ambientali, il ginepraio dei fondi strutturali, le sperimentazioni del reddito di cittadinanza, le relazioni con le liste dei disoccupati.
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soccupati. Qualche ex assessore appare solo nella sua nuova veste di gestore di ristorante. Le parole Scampia, Ponticelli (e quasi nessuna altra riferibili alle periferie esterne ed interne alla città) vengono riprese in pochi passaggi, in genere per parlare di un ceto operaio che da anni ormai è profondamente trasformato. È fuori luogo l’attesa di trovare in un libro le migliaia di informazioni rilevanti e curiose raccolte in tanti anni di impegno istituzionale. Certo è che Bassolino custodisce materiali che meriterebbero un’analisi più franca, leale, non solo sulle proprie responsabilità. Una riflessione anche molto critica con quei tanti opportunisti abituati a Napoli a “Chiagnere e fottere”, o a persone che hanno avuto un ruolo di primo piano con lui e, di fatto, poi si sono mostrati trasformisti che, mai nominati, fanno capolino nella storia. La lettura insomma restituisce una sensazione di profonda elusione rispetto ad una storia molto densa, certamente faticosa e a tratti dolorosa che sembra rielaborata dall’autore troppo di corsa. Eppure lui stesso, che in vari passaggi rivendica una qualche profetica intuizione su derive negative delle scelte dei capi del suo partito, in uno dei tanti passaggi che si prestano ad una lettura plurima dice di aver maturato l’idea che si può alternare corsa e camminata veloce. Poi non resiste nel ribadire che “il passo giusto anche in montagna, è il passo dopo passo”. Viene in mente un’altra possibile lettura, psicologica, forse non voluta dall’autore, ma suggerita dal testo. C’è un nesso fra il grande valore identitario del sangue di San Gennaro per il popolo di Napoli e la grave emorragia sofferta nel 2012 dal leader come prezzo pagato per “una lunga e tormentata esperienza politica, soprattutto nella seconda legislatura di governatore di regione, portatrice negli ultimi anni di un’impensabile sofferenza”, alla fine poco riconosciuta, acuita dal “fuoco amico che è sempre più cattivo di quello avversario e che ha toccato livelli inimmaginabili”. Per questo Bassolino ha provato sulla sua pelle come “E collere fanno ‘e buch ‘ncuorp”. I gatti, viventi non umani, sono personaggi importanti della storia, che esprimono “un affetto pari al loro opportunismo”. Micia Petra, la più anziana la cui morte dopo diciotto anni di convivenza ha provocato un dolore lace-
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rante; Micetto che, con le sue fughe, non prive di qualche mistero, ha prodotto una collera ingombrante e duratura sino ai due nuovi gattini, Fred e Ginger, testimone quest’ultimo di una simpatica ambiguità. A parte i due gatti cilentani, questi quattro felini possono rappresentare diverse anime del popolo napoletano e campano con cui l’autore si è dovuto cimentare. Gatti cui ha dedicato tempo e cure ma che in genere, pur facendogli molte fusa, lo hanno amato ma anche contestato, tradito, facendo alcuni brutti scherzi. Qualcuno dei quali, da parte del gatto Ginger, reclama forse maggiore cura della lettiera da parte del padrone. Anche così la spinosa questione del ciclo dei rifiuti torna! Infine, Bassolino mette in conto di dover raccontare ai nipoti le vicende del passaggio dalla seconda alla terza repubblica, ma non mostra di aver elaborato i lutti che gli consentano di raccontare a noi i tanti aspetti di una complessa vicenda che ha segnato molto le nostre vite oltre che la sua.
RECENSIONE a cura di Sergio Saggese
“Sono nato nel mese dei morti”
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ono nato nel mese dei morti, di Luigi Bartalini, è un romanzo di formazione che ha come protagonista un bambino costretto, nel corso della propria evoluzione verso la maturazione e l’età adulta, a un’esistenza colma di difficoltà, a cominciare da quelle patite nel collegio di suore nel quale viene rinchiuso agli esordi del secondo conflitto mondiale, fino ad arrivare, uscitone, a quelle sofferte durante la successiva magra convivenza con sua madre, una volta finita la guerra. La storia, ricca di emozioni, richiama la vicenda di tutte quelle madri che hanno dovuto abbandonare i propri figli, tuttavia consentendo loro maggiori speranze e maggiori possibilità di sopravvivenza, dimostrando in tal modo un amore ben maggiore, nutrito da un infinito spirito di abnegazione. Il romanzo ricorda, per le sue capacità di ana-
lisi storica attraverso l’osservazione degli sguardi, delle paure e delle “sicurezze crollate” dei protagonisti, La Storia della Morante, e per certi suoi meccanismi psicologici Agostino di Moravia. Viaggia per ascolti e silenzi, più che per dialoghi, e procede su un doppio binario: il punto di vista della madre e quello del figlio. Mentre la prima lamenta per lo più sensi di colpa per il fatto di essere continuamente costretta a negare e a negarsi, lui, il figlio, fomenta una serie di emozioni forti, di progetti e di sentimenti inesprimibili che contribuiranno a dargli forza per crescere, ma anche a incupirlo di incompresa e incomunicabile solitudine. In queste sue vicissitudini il bambino, oltre che venire temprato nel carattere già di per sé duro, tipico – asserisce lui stesso – di chi è nato a novembre, il mese dei morti, acquisisce una precoce maturità nei confronti
Romanzo di formazione il bambino, oltre che venire temprato nel carattere già di per sé duro, tipico – asserisce lui stesso – di chi è nato a novembre, il mese dei morti, acquisisce una precoce maturità
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La sensazione, una volta che si è letto questo romanzo, è quella di uscirne carichi di sentimenti mortificati, impediti, ineffabili; di esserne venuti fuori contaminati da una sorta di solitudine incapace. della vita che lo porterà a una altrettanto precoce autonomia. L’Autore andrà oltre quello che è il classico romanzo di formazione rendendo la storia più intrigante e intimisticopsicologica, con lo scegliere di entrare nella testa del protagonista e raccontarne l’agire dal di dentro. Il bambino finirà col vivere per lo più di pensieri e di sensazioni. Questo perché il legame con la madre non è purtroppo di quelli che favoriscono lo sviluppo di un’espressione spontanea delle emozioni, positive o negative che siano, bensì un legame a causa del quale, insoddisfatto, il piccolo arriverà ad evitare qualsiasi contatto con lei, chiudendosi in se stesso. Non ci riuscirà proprio a comunicare alla madre i propri timori, al punto da finire con lo specializzarsi nella formulazione dei pensieri, sempre più capaci di contenere sentimenti. Alle mancanze della madre si aggiungono le continue assenze di un padre che non lo ha riconosciuto. Sullo sfondo della storia, infatti, la nostalgia per il genitore, nei confronti del quale il ragazzo ha soltanto parole del tipo: “mio padre non c’è”, “non è venuto”, tutte segno di una deleteria latitanza. Una volta cresciuto, in occasione delle festività natalizie il protagonista racconterà della propria esperienza, e nel bilancio, i veri protagonisti della sua vicenda risulteranno essere stati, in fondo, in ragione di tutto ciò, l’Assenza
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e la Negazione. Nella cupezza e nel rancore, troverà comunque una via d’uscita, affidando la propria malinconia al periodo in cui è nato, fino a giungere, per questo, a una rivalsa sociale e a una fertile rinascita. Per esprimere tutto ciò, Bartalini ricorre all’abile utilizzo di una scrittura semplice, elementare ma profonda, fatta di molta, efficacissima, ineffabilità. Sono parole, le sue, paradossalmente e dolorosamente impregnate di silenzio. I protagonisti del romanzo finiscono con l’obbedire mitemente agli ordini crudeli della vita, sono come impacciati di emozioni, e ammutoliscono all’impossibilità di districarsele per giungere ad esprimerle. Per cui la sensazione, una volta che si è letto questo romanzo, è quella di uscirne carichi di sentimenti mortificati, impediti, ineffabili; di esserne venuti fuori contaminati da una sorta di solitudine incapace. Ma che tuttavia, doversene ammalare risulta essere l’unica paradossale via per guarirne.
di Anna Malinconico
LA TESTIMONIANZA
Il silenzio degli innocenti Il ricordo di una sopravvissuta alla strage di Natale sul treno Napoli-Milano
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Natale siamo tutti più buoni. Chi ha qualche cosa da farsi perdonar cerca di redimersi. Ma Natale è anche il momento in cui la ricerca della famiglia, dei cari, anche per poche ore, è una tradizione ancora viva, soprattutto nella cultura del Sud. Per questo, nel lontano 1984, mia madre decise di portare la nostra famiglia (me e mio fratello più piccolo) ancora straziata dalla morte prematura di mio padre, a Milano, da alcuni parenti, per respirare un’aria diversa. In poche ore fu tutto deciso, faticammo a trovare i biglietti del treno, ne erano rimasti pochi: 3 sul rapido 904, carrozza 10 classe II, numero 10. Ci aspettavano 9 ore in treno. Alla stazione di Napoli, capimmo subito che non sarebbe stato un viaggio comodo: c’era tantissima gente con valigie e pacchi regalo. Molti venivano dalla Calabria, dalle aree interne del Cilento. Persone semplici, lavoratori; pezzi di famiglie che con quel viaggio volevano ricomporsi. Il vagone che ci ospitava era pieno, noi tre eravamo seduti sulla destra, ed ai nostri piedi, come da sempre con noi, Veruska, il barboncino nero che ci seguiva ovunque. Dopo la partenza, qualche chiacchiera per conoscere i vicini.. io, come sempre, leggevo e prendevo appunti. Ci fermammo a Roma e poi a Firenze. Non esistevano i cellulari, e contattare gli amici, i parenti, era possibile solo dalle cabine telefoniche.. io chiamai mia cugina Anna per dirle a che ora saremmo arrivati a Milano. Il rumore del treno era assordante; il chiacchierio dei passeggeri in sottofondo continuo ed il buio della sera dell’antivigilia di Natale scese in tutti i vagoni. Imboccammo, verso le 19, la galleria di San Benedetto val di Sambro, il rumore assordante di ferraglia in un attimo si amplificò… poi accadde qualche cosa di inspiegabile.. accadde qualche cosa a cui non riuscimmo per ore a dare un nome… un boato. Un “botto” straordinario. Il fragore fu intenso, forte, devastante, tanto da non essere ricono-
sciuto, da ferire i timpani. Contemporaneamente il treno piombò in un buio profondo, assoluto, mai prima percepito con tale totalità. Non il buio della galleria, pur rischiarato da qualche lampadina. Non il buio della notte, rischiarato da qualche stella, o affollato di ombre. Nemmeno il buio dell’anima, popolato da ricordi o affanni: ma il buio della morte. Un buio totale, avvolgente, soffocante. E poi il silenzio. Il boato, nonostante la sua intensità, cessò all’improvviso, senza lasciare traccia di sé, ed il buio piombò nel silenzio. Il silenzio della fine. Il mondo si fermò in quell’attimo, e noi e tutti gli altri compagni di viaggio arrivammo ad un punto di non ritorno. Che cosa era accaduto non fu la prima domanda, perché la mente era piena di silenzio e di buio. Nemmeno il respiro trovava lo spazio per uscire. Dopo qualche attimo un odore intenso, un misto fra polvere da sparo e gas, colpì le nostre narici, ed ebbe quasi l’effetto di uno schiaffo sul volto che mi fece capire che, forse, c’ero ancora; allungai la mano e sfiorai il ventre di mia madre; chiamai mio fratello: anche lui era là, ed aveva stretto in braccio il nostro cagnolino, che, come tutti non abbaiava, non guaiva, non si lamentava. Noi c’eravamo. Gli altri no. E non c’erano nemmeno più le cose. Pian piano, allungando i piedi cautamente, mi resi conto che del pavimento del vagone era rimasta una lingua di ferro che ci consentiva di rimanere in piedi. Il cervello riprese a funzionare, e comparve l’unica domanda possibile: Cosa è successo? Domanda che non trovò risposta per qualche ora… Eh si, perché nessuno riuscì a mettersi in contatto con noi, e, sebbene fosse ancora vivo il ricordo degli anni di piombo, la certezza che si trattasse di una bomba, di un attentato, l’avemmo molto più in là. Pensammo ad un deragliamento. In ogni caso, anche era secondario. Riprendemmo il controllo di noi stessi e cercammo di capire cosa fare. È difficile raccontare di quelle ore interminabili, soprattutto è compli-
Il passato che non passa Un “botto” straordinario. Il fragore fu intenso, forte, devastante, tanto da non essere riconosciuto, da ferire i timpani. Contemporaneamente il treno piombò in un buio profondo, assoluto, mai prima percepito con tale totalità.
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cato far comprendere come, tanta gente, diversa, ignara dell’accaduto, in silenzio, al freddo, sia riuscita a trascinarsi fuori da quell’inferno. Esatto. Se oggi dovessi spiegare a mio figlio come immagino l’inferno, glielo descriverei con le immagini di quel lontano 23 dicembre 1984. Mano nella mano iniziammo a scendere dalla ferraglia dove eravamo riusciti a rimanere; al buio, senza accendere né luci, né accendini, per paura di saltare in aria, ci incamminammo verso la testa del treno. Faceva freddo, anche la linea elettrica era stata danneggiata. Ci mantenevamo il più possibile sotto il muro, perché eravamo convinti che nessuno “fuori” sapeva niente dell’incidente, e che, dunque, qualche altro treno, di transito, di lì a poco avrebbe potuto travolgerci… formammo una catena umana. Sembravamo topi impauriti e silenziosi, che si trascinavano nelle viscere della terra. L’aria era irrespirabile, perché ai gas già presenti nella galleria, si erano uniti quelli dell’esplosione. Furono proprio questi gas – lo scoprimmo molto più tardi – ad impedire ai soccorsi di entrare nella galleria. Stretti gli uni agli altri, camminammo per un tempo indefinito ed interminabile; i più fortunati si prodigavano per aiutare chi ne aveva più bisogno. I piedi si posavano ovunque: ferraglia; abiti; pezzi di valigie. Resti umani. Fu così che capii di essere nata per la seconda volta. Intorno, qualche pianto sommesso; qualche lamento sordo; ma nessuno urlava; nessuno sbraitava. La paura, il terrore, avevano lasciato spazio ad un dolore collettivo. La dignità, la forza, la voglia di farcela, la generosità della gente del sud, apparve in tutta la sua potenza. Tutti ci facemmo carico di qualcun altro, camminando al buio, verso chissà dove, senza sapere se la morte che ci aveva appena scansato, non sarebbe venuta da lì a poco a riprenderci. Ed io, con questo pensiero, riuscii ad essere quasi contenta, vedendo, come vidi, il volto di mio padre oltre il tunnel. Arrivammo così più avanti, vicino alle carrozze di prima classe; là, c’era più gente, e il capotreno aveva una parola per tutti. Era ferito, ma trasmetteva energia positiva. Con lui, “raccogliemmo” i feriti più gravi che riuscimmo a scorgere, e li aiutammo a salire sulla piccola carrozza motrice Diesel, che fu agganciata a vista, cioè fu guidata per la manovra dai passeggeri stessi.. ognuno fu costretto a superare le proprie paure ed i propri
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limiti, per sopravvivere e per essere utile a chi ne aveva bisogno. Quanto sangue. Quanto dolore. E quanto strazio nel dover lasciare a terra chi non aveva più respiro. Gli aiuti, sotto il tunnel, non arrivarono mai. Lì trovarono la morte 17 innocenti. Alla stazione di Bologna erano in tanti ad aspettare l’arrivo del treno e fu là che incontrai mia cugina che si aggirava incredula e sgomenta. Il giorno dopo, e per molti altri ancora, i giornali parlavano dell’attentato, raccontavano dei diseredati del sud, di urla, di chiasso .. io c’ero, e non fu così.. ricordo ancora il silenzio di quegli innocenti, che fa più rumore di parole inutili. Quella del rapido 904 è diventata nell’immaginario collettivo la strage di Natale.. vennero a galla diFoto di Serena Faraldo
verse linee di collegamento fra Pippo Calò, mafia, camorra napoletana e gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino la banda della Magliana... solo nel 2011 la DDA di Napoli, emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del mafioso Totò Riina, considerato il mandante della strage. Per anni ho associato la data del 23 dicembre, al lutto, sospendendola da tutti i calendari…ma proprio il 23 dicembre di 9 anni fa, è accaduta la cosa più bella e di valore della mia vita di donna: ho incontrato gli occhi di mio figlio. Non poteva essere un caso; non volevo fosse un caso. Il 23 dicembre è, da allora, il giorno della rinascita; della vittoria della vita sulla morte; del futuro sul passato. Con questo sentimento di apertura e riconciliazione, dedico questo mio ricordo, questa mia testimonianza ai compagni di viaggio di allora, augurandomi che il loro cuore si sia riaperto alla vita ed alla speranza.
Il freddo dell’inferno La paura, il terrore, avevano lasciato spazio ad un dolore collettivo. La dignità, la forza, la voglia di farcela, la generosità della gente del sud, apparve in tutta la sua potenza. Tutti ci facemmo carico di qualcun altro, camminando al buio, verso chissà dove, senza sapere se la morte che ci aveva appena scansato, non sarebbe venuta da lì a poco a riprenderci.
RECENSIONE di Samuele Ciambriello
“Non siamo noi che andremo all’inferno” Il libro di Francesco Romanetti raccoglie ballate, tiritere e qualche poesia. Uno scritto-riflessione.
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onosco Francesco Romanetti da molti anni, forse quasi trenta. Cominciammo a incontrarci frequentando detenuti, aule di tribunale e carceri. Credo che allora – io da giovane prete, lui da giovane cronista – mettessimo tutto sommato la stessa passione nel lavoro che facevamo, che era stare nella realtà per comprenderla e raccontarla, ma anche per cercare di cambiarla. Sono queste cose che ho pensato quando ho cominciato a leggere “Non siamo noi che andremo all’Inferno”, il libro scritto da Francesco Romanetti (pubblicato da Intra Moenia, 160 pagine, 10 euro) che raccoglie quelle che il sottotitolo definisce “ballate, tiritere e qualche poesia”. In realtà di poesia ce n’è molta, veicolata da un linguaggio volutamente semplice e chiaro, a tratti forte e brutale, dove io vi ho letto un inalterato desiderio di definire le cose per raccontarle e (perfino e ancora) per tentare di darvi un corso più giusto. In trent’anni o giù di lì, la realtà è cambiata, noi siamo cambiati. Ma nulla ci impedisce di avere la stessa passione di un tempo La “Poesia”, (dal greco “creazione”), serve a trasmettere un messaggio, uno stato d’animo. Francesco si prende delle variazioni per riformulare satira, epistole, parole e denunce. Le poesie di Romanetti raccontano sogni e vere e proprie storie, parlano di prostitute,
di operai, di bambini dell’asilo, di rom, di ricchi e di potenti. Si parla delle ragazze dell’Olgettina, di George W. Bush (qui definito senza mezzi termini un “criminale”), di Hugo Chavez e della sua morte e di una battaglia contro gli “invasori yankee” dove dalla parte dei poveri c’è perfino Gesù Cristo. Poesia “civile”, forse, ma anche riflessione su di sé e sulla propria storia: tra i brani più belli, come sottolinea anche Roberto De Simone nella prefazione al volume, c’è senz’altro “Il prigioniero russo”, dedicato al padre, soldato in Russia nel 1942 e protagonistavittima di un episodio tragico che lo segnerà per la vita. Come una sorta di “preghiera atea” ho letto invece “Il mio dio frequenta certi posti”, dove dio è “spesso basso di statura”, “gioca a carte nei circoli operai” e “qualche volta si innamora quando vede passare le ragazze”: ma dove Dio (io lo scrivo con la maiuscola) in realtà c’è ed è un brav’uomo. Il punto di vista dell’autore, la sua visione del mondo, non è mai taciuta. Non piacerà a tutti perché è e vuole essere fortemente di parte. Ma, comunque la si pensi, non si potrà non apprezzare la sincerità di questa parola poetica. Leggetela, giudicatela. Poi magari ne riparliamo. Uno scritto-riflessione per aiutare ad indignarci e per avere il coraggio di cambiare le cose che non vanno.
Scritto di parte La “Poesia”, (dal greco “creazione”), serve a trasmettere un messaggio, uno stato d’animo. Francesco si prende delle variazioni per riformulare satira, epistole, parole e denunce. Le poesie di Romanetti raccontano sogni e vere e proprie storie, parlano di prostitute, di operai, di bambini dell’asilo, di rom, di ricchi e di potenti.
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POESIE, EMOZIONI IN VERSI Amanda Hai mai ascoltato la sua voce, la voce di Amanda? Non puoi dimenticare i suoi occhi azzurri e la sua pelle bianca. Hai mai conosciuto la ragazza che ancora si incantava per la neve di Dicembre? Provava ad essere invisibile, si nascondeva fra le ombre. Hai mai sentito parlare dei sogni che aveva? Difficile dirlo, lei li scriveva. Credeva nell’amore, ci credeva davvero quello fatto di sguardi e di piccoli gesti, presto il suo mondo divenne nero, di un nero tra i più scuri mai visti. L’ho vista arrendersi a una lotta che non ha avuto vincitori. Il buio cela i suoi demoni più forti La sua luce è perduta tra le notti di un inverno senza fine. Tacito l’urlo che nasconde le ferite. I colori sulla pelle fanno male, mai quanto fa male il cuore. Una voce sconosciuta, nascosta dal silenzio. I ricordi sono spine. Respira Amanda, respira ancora il fuoco è sempre vita respira Amanda, respira ancora nessuno ti ha mai capita. Guarda lontano, Amanda tu sei innocente I tuoi occhi ancora guardano, le persone non ti sentono. Le tue lacrime ancora pungono la tua voce ancora tace. La tua storia è stata scritta su una pietra, da silenzi e remissione un segreto mantenuto con speranza diventato un’illusione. Amanda camminava lentamente, ad occhi bassi, incerti i passi, non dimenticò il dolore. Ingannevoli sorrisi, indecifrabili e complessi come quadri senza autore. Anna Scassillo
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Nella terra dei fuochi... nun se vede maje ‘a luna Luna ca scinne a mare, sta murenno ‘o juorno. Luna ca te guardamme e a nuje ce abbrucia o fronte. Luna caprese, luna e ‘nnammurate, luna ‘e Caivano rossa ca schiare nu cielo già schiarato. Luna n’è sempe a stessa chi a’ vo’ janca e chi a’ vo’ nera; janca comme ‘e criature ca nun pigliano maje sole, nera comm’e ‘a morte e chi c’appiccia ‘o core. Luna ca faje dispietto e ci annascunne ‘o male, luna ca t’annascunne complice de’ criminale. Luna ca scinne ‘nterra e t’avveline a cora, luna tu te ne fuje e nun respire ancora. Luna nuje stamme a sotto e già sfidammo a sciorta, luna tu t’arrepuose e nuje chiurimme a porta. Luna ‘e Caivano luna ‘e Marigliano luna d’Acerra e nuje jamme sotto terra... Carlo Fedele
Rieducazione Le sbarre nel cervello i pensieri tra le quattro mura. il secondino ci ha ingannati, neppure una feritoia. Dice che dobbiamo respirare se lui respira e pensare quando lui pensa... e non è una fortuna per noi che il tempo scorra veloce. Tanto non usciremo mai se non rubando il grimaldello alla guardia il pane alla mensa il danaro al costruttore di celle Carlo Fedele
Cinque sensi
Non dire
Afferrate le ore di sole e riponetele nella scatola del tempo. Vi serviranno quando il carceriere spegnerà le luci. Respirate gli aliti di vento e tratteneteli in gola. Vi saranno utili nell’attesa dell’aria nel cortile. Udite i lamenti del vicino di cella e registrateli, ricordateveli quando vi tortureranno. Guardate negli occhi l’aguzzino memorizzatene il colore. Di solito son tutti uguali ma ogni loro paura ha una luce. Annusate i loro abiti e il fetore che emanano di chiuso. Vi sorreggerà il ricordo quando sarete fuori. E loro sempre dentro. Carlo Fedele
Non baciarmi per dirmi addio. Non tenermi tra le braccia per dirmi che e tutto finito. Non dirmi ti amo se non lo pensi non dirmi che e stato bello se sei tu la ragione delle mie lacrime non dirmi addio se poi ritorni non dirmi sei mia se poi dopo mi lasci andare via non dirmi che non merito nulla se ti ho donato solo amore non parlarmi del tuo futuro insieme a me se non vuoi un futuro con me non dirmi niente, se ora non sei più niente. Maria Maffei
Le ali della vita Le ali di un gabbiano sul mare lasciavano nell’aria l’idea di una tela da continuare a dipingere. Le onde leggere danzavano sulla riva, si aprivano sotto la luce del tramonto ad un gioco di colori mai visto prima. Un bambino seduto su una piccola barca rossa lanciava sassolini in mare ed in quel momento sul mio foglio mi venne in mente di fermare la vita. Cos’è la vita se non un battito d’ali sull’orizzonte? Un sole che tramonta è una vita che finisce ed una nuova che comincia. Le gocce del mare partorite dai sassi del bambino erano diventate inchiostro sul mio taccuino. Le parole nuotavano sul mio foglio bianco, fino a disegnare l’alta marea su una semplice pagina di carta. Galleggiavo sui miei pensieri come se fossero acqua, con quella mia corrente avrei voluto dissetare il mondo. Mariassunta Madonna
Sguardi oltre Oltre lo sguardo dei tuoi occhi, in questa luce immensa che tu hai, mi perdo e mi riporto nel passato, in quei sogni lontani, di quand’ero un ragazzino. Rivedo la mia casa, quella di mia madre; dove si stava tutti insieme, fratelli e sorelle; dove c’era l’innocenza. Tutto, mi torna in mente, come allora. Rivedo quella stanzetta dove dormivamo, l’uno stretto all’altra; proprio lì, dove si rideva e si piangeva, dove insieme si parlava e si giocava, e si sognava. Rivedo quella mia fanciullezza. Oltre lo sguardo dei tuoi occhi, in questa luce immensa che tu hai, risplende quell’armonia sulle facce di ogni uno di noi. Rivedo; quella fantasia, che dava valore, a questa vita. Come una finestrella aperta, sono i tuoi occhi. Il tuo sguardo oltre, sembra il dipinto di un quadro. Ravvivi i colori, si accendono e di riflesso, si espandono nei miei. Una luce grande, si estende sempre di più; dentro c’è la luce del sole C’è segnata la mia vita, la pace, l’amore e l’abbondanza... c’è mia madre! Nessuno sguardo mi potrà mai essere intimo come il tuo; così triste e felice. Perché, oltre, mi riporti con gioia nel passato. In quei sogni lontani di quand’ero un ragazzino. Mario Profenna
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NELLE EDICOLE DELLE CITTÀ DI NAPOLI, AVELLINO, AV VELLINO, BENEVENTO, BENEVENTO, CASERTA CASERT TA E SALERNO SA