QUI ED ORA La Sinistra al bivio: riformismo o conservazione?
APPROFONDIMENTI Imprese e diritto al lavoro Strumenti per uscire dalla crisi
CULTURA E FORMAZIONE
ANNO II | NUMERO 4 | € 4,00
Il ruolo delle università campane nella riscoperta dei saperi
Affidamento, adozioni, fecondazione assistita: genitori si nasce o si diventa per fede
laboratorio laboratorio torio di pensieri pe analisi, li i proposte t
in direzione direzione ostinata e contraria
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QUOTIDIANO ON-LINE Direttore Samuele Ciambriello - Editore Silvio Sarno
EDITORIALE
di Samuele Ciambriello
La politica si connetta e risarcisca!
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i sono stragi di innocenti, ferocia integralista, un’ansia tenebrosa del nulla che cova e risorge nella società. C’è qualcosa di ben più distruttivo della crisi economica. La riduzione dell’altro a “cosa di nessuno”, considerare l’Altro estrema periferia del proprio Io. Nessuno è più al sicuro e tutti dobbiamo essere più responsabili. Poi arriva Benigni, in tv, e ci mette l’Anima, portando in prima serata tv il Dio “liberatore” e la profondità dell’uomo. Benigni smantella la libertà intesa come “fa ciò che vuoi”, senza norme, per arrivare all’amore che vince sulla cultura dell’indifferenza e “dello scarto”. Di fronte alla crisi economica e sociale, alla corruzione dilagante, ai facili populismi, alla demagogia di certa politica, c’è sconforto ed alienazione. Appare, altresì, sempre più pervasiva e corrosiva la concezione autoreferenziale ed utilitaristica della vita e del nostro futuro. Oggi per molti i sogni si chiamano tablet, veline, smartphone, goleador, selfie, saldi, apparizione su t v e giornali. Se non appari non sei! Questa crisi è innanzitutto crisi dei fondamenti dell’umano e della concezione della politica come servizio e non come economia di rapina e di umiliazione. E’ dentro questa non inquietudine che si inseriscono
i nostri appuntamenti politici, le riforme, le elezioni, le scelte di candidati e programmi. Intanto il presidente Giorgio Napolitano con un discorso istituzionale e politico, quasi un testamento politico, sintetizza le cose da fare: aperto sostegno a Renzi, critica chiara, esplicita alla minoranza del PD che rischia di incrinare la stabilità del governo e il cammino delle riforme. Stabilità e riforme. È quello che ci chiede anche la comunità internazionale. Ma le riforme ci vogliono anche nel campo sociale, della cultura, dei giovani. Anzi le risposte. Perché la spinta del nulla ci fa perdere nel niente e un grande nemico si annida nel nostro Paese: il disagio sociale, l’antipolitica che rischiano di diventare rabbia contro tutto e tutti. I temi della giustizia, mai più una sentenza Eternit in prescrizione, i temi dell’immigrazione, della dispersione scolastica, delle famiglie povere, la difesa dell’ambiente e del territorio, i servizi, i trasporti, devono essere riconosciuti nei programmi politici a livello nazionale e regionale. Non solo lo spettro dell’instabilità ci deve spaventare ma quello dell’oblio dei problemi reali delle persone. Abbiamo perduto tanti giorni, tante occasioni. Adesso occorre connettersi, ascoltare, interpretare e risolvere. Avendo a cuore anche il risarcimento. Sì la politica deve risarcire.
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lettere ed opinioni Un uomo misterioso… in carcere L’ho incontrato stamane sul cammino della mia giornata, è stato un incontro senza avviso. È piombato all’improvviso, mi ha guardato e mi ha parlato e su di me si è soffermato. Ho percepito che in quell’istante quell’uomo, per me senza identità, stesse valutando la misura delle mie capacità. Lui è un giornalista che ha avuto modo di leggere un articolo che ho rilasciato al quotidiano “Il Mattino”. Sono una persona umile e quindi spesso non riconosco la bravura che ho nel fare delle cose, attribuisco sempre i meriti alla casualità e per questo motivo che, anche oggi, mi sembra strano che una persona, così acculturata, spenda il suo tempo per parlare con il sottoscritto… un rapinatore rinchiuso nel penitenziario di Poggioreale. Le sue domande m’incuriosiscono, mi sembra interessato. Capisco che forse possiedo un talento che nemmeno io, padrone del mio corpo e della mia mente, riconosco. Tutto sommato credo che nessuno nasca con la consapevolezza di sapere quale sia il suo dono. La conversazione è piacevole, non lo conosco, non me l’aspettavo, ma ho la sensazione che lui rappresenti quel treno… io, fermo alla stazione delle possibilità, incontro una mente preparata e sensibile, amante della lettura. Non so se ci incontreremo ancora, certezze non ce ne sono, se non quella che lui è un giornalista e io un detenuto. L’uomo misterioso è Lei, caro direttore, che mi sta dando la possibilità di esprimermi tramite le pagine del suo giornale. Approfitto di questa opportunità per esprimere il mio dissenso, in questo Paese dove la meritocrazia non esiste e gli incapaci sono sempre al posto dei capaci… è vero, se sono qui è perché non ho rispettato la legge, ma in quanti, seduti sulle poltrone del potere la rispettano? Pertanto, assicuro i lettori di questo giornale, che un detenuto, nonostante i suoi errori, può essere più leale di chi rispetta la legge, ma pecca tutti i giorni con la coscienza. Caro direttore ho da dare un’ultima risposta alla sua domanda: perché ti piace scrivere? Allora, sicuramente, vista la sua preparazione avrà certamente letto Parole indecifrabili, ma la risposta di un ragazzo che proviene da luoghi difficili è semplice: “Ci sono parole che per esperienza vissuta, non vanno pronunciate per poi perdersi nell’aria, ma vanno incise per essere ricordate”. Gennaro Riccio
Il dono della maternità Ho accettato di raccontare la mia esperienza per tutte quelle donne che pur essendo mamme nel cuore non lo sono ancora… mi sono sposata per amore ed ho atteso con pazienza l’uomo giusto per me, mi sono preservata per lui, non ho fatto altro nella vita se non aspettare il momento in cui avrei dato alla luce il mio bambino: tutto mi sarei aspettata nella vita fuorché che al momento di coronare il mio sogno non riu4 |
lettere ed opinioni scissi a diventare madre. È difficile descrivere quello che si prova è una sofferenza lenta e costante che lacera l’anima, che ti fa sentire sbagliata, che ti toglie la gioia e che ti fa chiedere continuamente a Dio: perché? Ci sono donne che uccidono i loro figli, altre che li abbandonano nei cassonetti ed io che darei la vita per averne, anche solo uno, niente! Dopo il primo momento di smarrimento, mi sono data da fare ed ho intrapreso un percorso di fecondazione assistita, è una strada in salita costellata di speranze e fallimenti, continuo a ripetermi che la prossima volta andrà meglio… ho deciso, nonostante tutto, di non arrendermi e di continuare. A tutte le donne che hanno avuto la fortuna di diventare madri dico: siate grate per il grande dono ricevuto… a quelle che stanno pensando di non accogliere i loro piccoli dico: qualsiasi sia il motivo, non disprezzate la vita, tenete duro, perché non è detto che avrete un’altra possibilità… a quelle che soffrono come me dico: siete già madri perché conoscete la sofferenza e la fatica, perciò continuate a sperare… a te piccolo mio, ovunque tu sia, dico: aspettami, la mamma sta lottando per te! Manuela C.
Le carrette del mare Egregio direttore, le notizie di tanti minori non accompagnati che arrivano nel nostro Paese sulle carrette del mare, hanno riportato alla mia mente il travaglio vissuto oltre trenta anni fa, quando io e mio marito ci siamo ritrovati nelle ore successive al terremoto dell’Irpinia del 1980 a dover decidere il destino di una creatura di soli 11 mesi, unica sopravvissuta sotto le macerie della sua abitazione. La bambina, di cui noi eravamo zii, era rimasta senza genitori e l’anziana nonna materna, nella disperazione di un paese completamente distrutto dal sisma, non vedeva altra soluzione per la sua sopravvivenza che affidarla alla giustizia cosicché venisse data in adozione a qualche famiglia. Tante coppie, dalle province vicine e persino dalla Francia, nelle settimane successive al 23 novembre, vennero da noi o cercarono nostri contatti tramite il tribunale e gli assistenti sociali per ottenerne l’adozione. Di bambini rimasti soli in Irpinia ce ne erano diversi. Noi però ci sentivamo responsabili e ci battemmo per tenere nostra nipote con noi. Grazie al supporto e al prezioso lavoro del giudice Ernesto Aghina del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, decidemmo per l’affido. Io avevo 30 anni e mio marito 35 e avevamo già una figlia di 9 anni. A noi interessava garantirle affetto, contatto con la famiglia e la conservazione delle sue origini, del suo cognome. “Non esiste coppia migliore della sua per età e per legame familiare già esistente”, ci disse Aghina. La prendemmo con noi non senza difficoltà | 5
lettere ed opinioni dovute alle pressioni delle coppie che volevano adottarla, allo scetticismo di alcuni giudici del tribunale di Napoli e a relazioni non sempre incoraggianti degli assistenti sociali. Oggi, a distanza di 34 anni, mi piacerebbe capire cosa è cambiato a livello legislativo in materia di affido e adozioni, se la burocrazia si è alleggerita nei confronti delle famiglie. Quali progressi abbiamo fatto e come tuteliamo i bambini? Per esperienza personale posso dire che l’adozione è sicuramente un percorso valido per le famiglie, ma quello dell’affido consente al minore di conservare legami preziosi e gli evita traumi dovuti al distacco da luoghi, abitudini e persone. Claudia Carissime Manuela e Claudia, grazie per le vostre lettere. In questo numero al centro delle nostre riflessioni c’è il tema dell’affido, delle adozioni e della fecondazione assistita: qui dove madre si nasce o si diventa per fede. Uno speciale sul tema da voi sollevato anche alla luce delle recenti normative. (s.c.)
Inciuci e dignità Caro direttore, guardo agli eventi di queste ultime settimane, agli inciuci romani, e non posso non esprimere una mia riflessione. Penso a quei tanti giovani, impegnati in politica e alla ricerca di un ideale, decisi a cambiare il mondo sotto la guida e i consigli di un esempio concreto; penso all’importanza di sentirsi rappresentati dalle Istituzioni, di aver fiducia negli uomini che ci governano; ci penso, e mi rendo conto, che è proprio in scandali come questi che attecchisce l’antipolitica, che si annida il malcontento. Solo pochi giorni fa, da segretario di circolo dei Giovani Democratici, ho ceduto la guida e il passo a un giovane capace e motivato, in grado di amare e sacrificarsi per il nostro territorio tanto e forse più di me; ma di esempi come lui, come me, quasi nessuno s’interesserà; quasi nessuno si occuperà di tutti quei miei coetanei che quotidianamente, tra la gente, costruiscono un’Italia migliore. Non facciamo notizia. Eppure siamo noi, i primi cui sono rivolte le lamentele, le accuse, i primi a pagare le conseguenze di scelte scellerate. A noi chiedono perché. Ci chiedono perché le riforme non si attuano, perché non si esce dalla crisi e soprattutto, colpendo lì dove può far più male, ci chiedono perché ancora crediamo, ancora speriamo. Un’unica risposta non c’è, ognuno di noi, attraverso la propria esperienza e il proprio personale percorso, trova in ogni singola azione il motivo per continuare ad andare avanti, sia questo la voglia di riscatto o il desiderio di confrontarsi. Non perché siamo il futuro, ma perché siamo il presente, la forza motrice per ripartire, la parte onesta che ancora conferisce credibilità al Partito Democratico. Sgomitando, se serve, ridaremo dignità a questo paese. Paola Maiurino 6 |
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SOMMARIO
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EDITORIALE - La politica si connetta e risarcisca! Samuele Ciambriello
QUI ED ORA “Il Pd napoletano non esiste” Raffaele Perrotta
Sinistra al bivio, riformismo e conservazione Massimiliano Amato
Quale futuro per la nostra società? Anna Malinconico
L’arte del dirigere la società verso il suo fine Raffaele Soddu
Napolitano Berlinguer e la Luna Valentina Capuano
Lo stato dei diritti in carcere a che punto siamo? Dario Stefano Dell’Aquila
Regionali, tutti aspettano Godot. Persino Caldoro … Marco Staglianò
SPECIALE L’adozione nazionale ed internazionale: la scheda Alessandra Iannone
L’affido: complessità ed efficacia Dominique Pontoriero
Comunicare l’adozione: procedure ed esperienze a confronto Giuseppina Biscotti
L’Adozione Mite: spunti di riflessione Maria Rusolo
Qui dove madri si nasce O si diventa… per fede Helga Sanità
Biotecnologie: desiderio o diritto di avere un figlio Nicoletta Costanzo
APPROFONDIMENTI Scambio & Gerachia sono una coppia superiore a Stato & Mercato Massimo Lo Cicero
Confindustria Avellino: conferma Sabino Basso Marco Staglianò
Adriano Giannola: «L’Italia ristagna dal 1998, non è mai più ricresciuta» Sveva Scalvenzi
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Crisi economica e capitalismo morale-culturale Guido Migliaccio
Più che il reddito, oggi deve crescere la produttività Amedeo Lepore
Fiat-Chrysler e la filiera autoveicolare italiana Francesco Pirone
Gli strumenti per uscire dalla crisi Marianna Quaranta
L’intervista a Massimo Paolucci a cura di Paola Liloia
Abbiamo perso la partita dei fondi europei e rischiamo di ipotecare la prossima Raffaele Perrotta
Luciano Morelli, l’imprenditore dal sorriso rassicurante Maria Beatrice Crisci
Anna Rea: «Renzi sembra essere molto peggio di Berlusconi» Sveva Scalvenzi
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CULTURA E FORMAZIONE Il ruolo delle Università la riscoperta dei saperi a cura della Redazione
Connettere Università e territorio genera grandi opportunità economiche e culturali Samuele Ciambriello
A colloquio con il Prof. Francesco Piro Paola Liloia
Studiare Scienze dell’educazione attraverso i corsi di laurea online Franca Pietropaolo
L’Università si tinge di rosa Maria Beatrice Crisci
WELFARE La cessione di Edenlandia e dello Zoo di Napoli Marianna Quaranta
La crisi morde ma Benevento tira un sospiro di sollievo Rosaria de Bellis
Intervista a Antonella Leardi «Sto ancora aspettando giustizia» Andrea Vitale
Palma Scamardella: vittima Innocente di camorra Emanuela Sannino
Tossicodipendenti e rifugiati politici: il “Borgo” di Roccabascerana Gennaro Zollo
Il pranzo dei poveri Maria Beatrice Crisci
La rinascita di Mahlet Lorenza Iavarone
Ri – Partire dalle Periferie a cura della redazione
Vaccini anti-influenza. Maria Beatrice Crisci
La salute viene dalle Terme Marianna Quaranta
Alimentazione e Benessere Giuseppe Lepore
Oreste Zevola Enzo Battarra
Se qualcuno cercasse di me Samuele Ciambriello
Link. Trimestrale di Cultura e Formazione politica Anno II, numero 4, 2014 Registrazione del Tribunale di Napoli n. 52 del 09 ottobre 2012 ISSN - 2282-0973 Direttore Responsabile Samuele Ciambriello Coordinamento Editoriale Marianna Quaranta Comitato Editoriale Massimo Adinolfi Sergio Barile Filippo Bencardino Luca Bifulco Antonio Borriello Paola Bruno Gian Paolo Cesaretti Umberto De Gregorio Dario Stefano Dell’Aquila Francesco Fimmanò Salvatore Gargiulo Nicola Graziano Giovanni Laino Massimo Lo Cicero Anna Malinconico Marco Musella Marino Niola Stefania Oriente Gianfranco Pecchinenda Patrizia Perrone Francesco Pirone Paolo Ricci Francesco Romanetti Marco Staglianò Segreteria di Redazione Tel. +39 081.19517494 Fax. +39 081.19517489 e- mail: info@linkabile.it Editore LINKOMUNICAZIONE S.r.l. Amministratore unico: Silvio Sarno Centro Direzionale Isola G/8 80143 Napoli P.IVA /Cod. Fisc. 07499611213 Amministrazione e Abbonamenti Centro Direzionale, isola G8 80143 Napoli Tel. 081 19517508 Fax 081 19517489 Dal lunedì al venerdì 9,30 - 14,00 e- mail: info@linkabile.it Abbonamento annuale 15,00 euro conto corrente postale intestato a: Linkomunicazione S.r.l.: C/C 001013784739 oppure, bonifico bancario sul conto intestato a LINKOMUNICAZIONE S.r.l. IBAN: IT24W0760115100001013784739 Fotocomposizione e stampa Poligrafica F.lli Ariello s.a.s. Corso Amedeo di Savoia, 172 - Napoli
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Le due anime della sinistra
“Il Pd napoletano non esiste” Intervista al filosofo Biagio de Giovanni di Raffaele Perrotta
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ual è la reale situazione, a Napoli, del più grande partito di derivazione di sinistra? «Il Pd napoletano non esiste, è il vuoto pneumatico», volendo rispondere con le parole del professore Biagio de Giovanni che traccia un’analisi sulla situazione politica in Italia partendo proprio dalla ‘Sinistra’. Un viaggio attraverso quei partiti che «sono nomi che passano, il pro-
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blema è culturale», dice, riflettendo sui movimenti come Lega o M5S che «non disprezzo perché nascono da problemi reali». Chiudendo sul ‘movimento operaio’ oggi ed il PD di Renzi. Biagio de Giovanni, già deputato europeo con il PCI ed il PDS, è un filosofo e politico italiano. Ha insegnato Dottrine Politiche all’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’.
La sinistra italiana ha sempre cercato di andare oltre il vecchio classismo operaio. Prendiamo il caso della riforma del lavoro: il PD fa una sua politica, prova a dare una reinterpretazione dei rapporti d’impresa, prova a dire che se un operaio viene licenziato per ragioni economiche giudicate valide dall’azienda, non sarà il giudica a dire se quelle ragioni sono fondate o no.
Professore, quante ‘Sinistre’ ci sono in Italia? Bella domanda, forse la più difficile. Intanto bisogna capire cosa si intende oggi per sinistra. È un problema riaperto e non è pacifico come lo era fino ad una ventina di anni fa quando sostanzialmente la sinistra si identificava con la prospettiva del socialismo. Sinistra oggi può significare movimenti che hanno culturalmente un’attenzione maggiore per l’uguaglianza e per la libertà, per lo stato sociale piuttosto che per il mercato. Questo è il quadro molto generale, poi naturalmente ci sono accenti diversi. Volendo ricavare una sintesi, si può dire che abbiamo due sinistre: una sinistra per la quale governare è una sofferenza e quasi una colpa. L’altra che dice responsabilmente “mi assumo il governo di questa complessa società anche se so che non potrò fare una politica interamente interna a certi vecchi parametri della cosiddetta sinistra ma devo aprirmi a grandi novità”. Qual è ‘la Sinistra’ in Italia, oggi? Non voglio porre un problema ancor più generale se abbia un senso oggi la distinzione tra sinistra e destra. Ho qualche dubbio su questo. C’è una sinistra di governo che la sinistra radicale nega perché si assume la complessità dei grandi cambiamenti della struttura del mondo. C’è, poi, una sinistra più arroccata sulle vecchie posizioni, più conservativa di un mondo che non c’è, secondo me. Penso che in Italia ci sia uno sforzo di sinistra dentro il Pd, con tutti i problemi che sappiamo, e qualcosa di interessante in quella sinistra che chiamo radicale, che ha un’attenzione più liberal per i diritti e per l’ambiente. Con i tempi che cambiano, come dice lei, ha ancora senso parlare di ‘Movimento operaio’? Non è che non esistono più gli operai o le organizzazioni sindacali. Il movimento operaio era un’altra cosa, voleva interpretare dal suo punto di vista lo sviluppo della storia futura. Quando dico che certe cose non esistono più, non nego che esistono gli operai, sarei matto. Non esiste più quel significato centrale che il movimento dava alla fabbrica ed al movimento stesso come marxianamente soggetto destinato a liberare tutta la società. In tutta la vicenda del ‘900, prima ancora del 1917, è stato un movimento che si era
assunto sulle sue spalle il riscatto dell’umanità: è questo che è finito, questa cultura, non gli operai o le fabbriche o i sindacati. Quelli continueranno ad esistere finché ci sarà lavoro dipendente e siccome ci sarà sempre i sindacati esisteranno finché esiste una società plurale e democratica dove ognuno può dire la sua. Se il Partito Democratico non ha più feeling con gli operai non è più di ‘sinistra’? No, questa è una sciocchezza. La sinistra italiana ha sempre cercato di andare oltre il vecchio classismo operaio. Prendiamo il caso della riforma del lavoro: il PD fa una sua politica, prova a dare una reinterpretazione dei rapporti d’impresa, prova a dire che se un operaio viene licenziato per ragioni economiche giudicate valide dall’azienda, non sarà il giudica a dire se quelle ragioni sono fondate o no. Il Partito di Renzi giudica che bisogna, in questa situazione mondiale, reinterpretare il rapporto tra imprese e lavoratori. Oggi una sinistra degna di questo nome si accolla la responsabilità di interpretare il cambiamento della struttura del mondo, il fatto che l’Occidente non è più centrale, che i famosi trent’anni di grande sviluppo e democrazia dello stato sociale sono alle spalle, non perché il capitale è cattivo ma perché adesso mangiano anche i brasiliani, i cinesi, gli indiani ed i sud africani che prima non mangiavano. La grande conquista della sinistra, in realtà, era una sorta di capitalismo mondiale perché si creava quello stato sociale sulle sofferenze del terzo mondo. Il Movimento 5 Stelle e la Lega possono essere le risposte, nel Mezzogiorno, ai deficit della classe politica degli ultimi decenni? I grillini sono in caduta libera dappertutto perché questi grandi fenomeni populistici, che non disprezzo perché nascono da problemi reali, sono stati governati malissimo in questi anni. Grillo non è riuscito a dare una linea politica ne un’effettiva linea di opposizione, ha confuso le cose ed in questo momento, come sappiamo tutti, lui persino l’ha capito, si è tirato indietro. La Lega, per ora, nel Mezzogiorno non c’è ma potrebbe anche comparire per due ragioni: il centro destra non c’è più nella sua forma che ha dominato questi venti anni in Italia, visto che Berlusconi è alla fine. Inoltre, Salvini che è
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un po’ il Renzi della destra ha fatto un’operazione intelligente: è passato dalla Padania alla nazione, in un momento in cui in tutta Europa i movimenti nazionalistici riprendono fiato. Si pensi alla Le Pen in Franci o anche a Farage in Inghilterra. Salvini sta assumendo il ruolo di capofila di un nuovo centro destra, più spostato a destra di prima, e più aderente o simpatizzante per questi movimenti nazional populistici che addirittura danno a Marine Le Pen il primo posto in Francia, un grande paese democratico. Ma ha ancora senso parlare di ‘Questione Meridionale’? Ha ancora senso, anzi cresce il divario tra nord e sud. Dopo settant’anni dal secondo
Il Pd napoletano non esiste, è il vuoto pneumatico. In più le mele un po’ vecchie stanno di nuovo in campo, vedi Cozzolino e De Luca, contro cui non ho nulla di personale ma uno sperava che emergessero candidature interessanti, anagraficamente più giovani. dopo guerra, la sinistra non è riuscita a dare una risposta vera al problema meridionale pure avendolo assunto nella sua cultura ed avendolo dichiarato nelle sue politiche. Esiste una questione meridionale che non può essere affrontata con gli strumenti di prima, con la spesa pubblica e basta perché in passato non ha risolto nulla. La risposta un po’ banale è che i ‘Mezzogiorni’, perché ogni regione è diversa dalle altre, dovrebbero riuscire a mettere in moto le proprie energie interne, le proprie capacità, i talenti, le bellezze, le tradizioni, le culture ma purtroppo, lo dico senza fare il qualunquista, le classi dirigenti locali sono di una inadeguatezza tragica. Infine un pensiero sul PD di Renzi. Viene accusato di essere autoreferenziale anche nelle leggi che approva, lei che ne pensa? Io l’ho votato, già contro Bersani alle primarie e non ne ho fatto mistero. La ragione
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è molto semplice: la vecchia classe dirigente aveva esaurito il proprio compito. Alle ultime elezioni politiche, secondo D’Alema “Bersani ha mancato un rigore a porta vuota”, cosa c’è da aggiungere a questo? Le ha perdute non perché non è capace ma perché quella classe dirigente era esaurita, l’Italia non li voleva e non li votava più. Renzi ha rappresentato una scossa all’albero che fa cadere i frutti marci. D’altro lato, però, la centralizzazione che Renzi fa dell’azione politica, per cui solo lui al comando, non crea una classe dirigente ma uno staff. Sembra, infatti, che si disinteressi dei partiti locali. È vero, tratta i partiti locali come se non fossero fatti suoi. Quando è venuto a Napoli, in maniera dissacrante, ha incontrato il capo dell’opposizione di destra, Lettieri, e Caldoro. Ha ignorato non solo de Magistris, ma qui ha fatto benissimo perché lo considero un sindaco pessimo, ma non ha incontrato neanche il Pd. Questo è dissacrante e mi piace, mi incuriosisce una persona così. Però il 14 gennaio ci saranno le primarie per la scelta del nuovo candidato a Governatore della Campania. Come ne uscirà il Pd napoletano? Precisiamo che il Pd napoletano non esiste, è il vuoto pneumatico. In più le mele un po’ vecchie stanno di nuovo in campo, vedi Cozzolino e De Luca, contro cui non ho nulla di personale ma uno sperava che emergessero candidature interessanti, anagraficamente più giovani. C’è bisogno di dare valore anche all’età. Mi immagino un ragazzo di 30-35 anni che si mette di buzzo buono dalla mattina alla sera. Invece, ancora Cozzolino che è una bravissima persona, un deputato europeo, ma delle ultime primarie per la scelta del sindaco a Napoli, chi ne ha saputo più nulla? Nessuno ha potuto capire come sono finite tra lui e Ranieri ma sappiamo solo che abbiamo regalato la città a de Magistris. Queste cose non le dimentico. De Luca, poi, è già stato sconfitto da Caldoro e rischia la seconda. Purtroppo, ad oggi, non c’è la personalità sbocciante che ci fa sperare di non rivedere ne Cozzolino ne De Luca, avremo delle primarie tra vecchie personalità che vanno incontro ad una sconfitta perché Caldoro non è affatto debole.
di Massimiliano Amato
Sinistra al bivio, riformismo e conservazione Giocare la partita o abbandonare il campo
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precedenti dovrebbero rassicurare chi teme nuove fratture. Nella sua ormai secolare storia di divisioni e spaccature, la sinistra italiana s’è scissa sempre sotto l’effetto di formidabili pressioni esterne. A Livorno, nel 1921, Gramsci, Togliatti e Bordiga s’impegnarono semplicemente ad applicare la linea che il Comintern aveva stabilito due anni prima sulle ceneri del fallimento della Seconda Internazionale. Palazzo Barberini nel 1947 fu, in un mondo rigidamente diviso in due blocchi con il nostro Paese nel poco invidiabile ruolo di cerniera, il tentativo (riuscito) dell’amministrazione Usa di sottrarre un pezzo della tradizione socialista italiana (da sempre integralmente marxista: tale era anche Peppino Saragat) alle suggestioni provenienti da Est. Perfino la nascita del Psiup nel 1964 fu eterodiretta dai “compagni” d’oltrecortina, preoccupati delle conseguenze di un ingresso organico dei socialisti nell’area di governo. L’ingerenza dovette essere molto forte, perché riuscì a piegare finanche la convinta opposizione di Togliatti. Al quale non sfuggiva il particolare che la fuoriuscita dei “carristi” dal Psi avrebbe finito col certificare il trionfo della linea “autonomista” di Nenni e Lombardi. L’unico (e ultimo in ordine di tempo) strappo fuori da questo perimetro (non si trattò, tecnicamente, di una scissione, ma di una sorta di “separazione consensuale”) è stata la nascita del Partito della Rifondazione comunista dopo il congresso di scioglimento del Pci. E, visti gli sviluppi di quella storia, si tratta di una vicenda decisamente poco incoraggiante. È da escludere categoricamente che, nel-
l’odierno scacchiere internazionale ci sia una qualche potenza interessata alle dinamiche interne del Pd, tanto diverse appaiono le condizioni storiche di contesto che incoraggiarono le precedenti scissioni. E il carattere maggioritario assunto dalla democrazia italiana sconsiglia passi azzardati. Certo, la vocazione “al minoritarismo” di buona parte della sinistra di casa nostra non è un’invenzione di Galli della Loggia, che per averla recentemente riesumata sul Corriere, s’è beccato un bel po’ di reazioni tanto indignate quanto ingiustificate. Sopravvive, anzi, come tara genetica e in quanto tale continua ad essere tramandata di generazione in generazione. Tuttavia, per una scissione servono anche motivazioni forti, un progetto se non alternativo almeno diverso da quello dal quale ci si accomiata, una “visione”, per dirla con una parola abusata. Occorre, poi, un minimo di accordo anche sugli approdi. Ed è veramente difficile, quasi impossibile, trovare un filo concettualmente e politicamente unitario capace di tenere insieme il ritorno all’Ulivo vagheggiato da Rosy Bindi, il Partito del lavoro che sarebbe il naturale sbocco della trasformazione della Fiom di Maurizio Landini in soggetto politico, il movimentismo radicale 2.0 di Pippo Civati, le aristocratiche nostalgie, non si capisce bene di quale passato, di Gianni Cuperlo e, infine, i mal di pancia dell’antica (e prestigiosa) “ditta”, Bersani in testa, e della vecchia nomenclatura brutalmente rottamata. Per soprammercato, ad incrementare la confusione contribuisce, fuori dal recinto del partito, Nichi Vendola con il suo “Human Factor”, enne-
A che punto siamo? Il renzismo sembra essere l’indicazione di una via d’uscita dal tunnel nel quale i gruppi dirigenti che hanno gestito tutti i passaggi dalla morte del Pci alla nascita del Pd brancolano da 25 anni.
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simo progetto di straordinaria suggestione ma sostanzialmente indefinito. È vero: all’esterno del circuito dell’attuale sistema di rappresentanza esiste uno spazio che va allargandosi sempre più di elezione in elezione con la crescita esponenziale del partito del “non voto”. Ma non è assolutamente scontato che esso rappresenti la terra promessa di quanti, nei passaggi parlamentari sul Jobs Act, hanno detto no a Renzi e alla maggioranza del partito in nome “della dignità della persona e della civiltà del lavoro” (cit. Cuperlo). Per le Regionali emiliane in cui pare abbastanza agevole quantificare quanta sinistra (termine che continuiamo a utilizzare per approssimazione, non avendone a disposizione uno meno banale) si è rifugiata nell’astensione, ci sono, infatti, quelle calabresi e, soprattutto, i risultati delle ultime Europee (oltremodo penalizzanti per il centrodestra, Forza Italia in primo luogo) che si ribellano ad interpretazioni troppo scontate. Non disponendo (allo stato) di una plausibile (e univoca) “ragione sociale” e difettando di certezze sull’effettiva consistenza del proprio retroterra elettorale non si capisce, quindi, da dove le varie opposizioni interne al segretario - premier possano ricavare la spinta necessaria per una fuga dal Nazareno. Ragionando per paradossi, d’altronde, il renzismo sembra essere l’indicazione di una via d’uscita dal tunnel nel quale i gruppi dirigenti che hanno gestito tutti i passaggi dalla morte del Pci alla nascita del Pd brancolano da 25 anni. Discutibile finché si vuole sul piano politico, la definizione di “fase suprema del berlusconismo” che Angelo d’Orsi dà del fenomeno su uno degli ultimi numeri di “MicroMega” non fa una grinza dal punto di vista dell’osservazione empirica. Come il Cavaliere ha fornito una casa, un senso, e alla fine anche un blocco sociale finalmente compatto ad una destra per buona parte della storia repubblicana maggioritaria nel sentimento del Paese, ma minoritaria e marginale in politica (cit. Giuliano Ferrara), così il “non progetto” di Renzi, vale a dire lo svuotamento completo del partito e la sua trasformazione in un comitato elettorale permanente, rappresenta per ora una rispo-
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sta (non l’ultima, si spera) alle tre grandi crisi, singolarmente convergenti, di questo primo scorcio di terzo millennio: la crisi della democrazia, la crisi della rappresentanza, la crisi della sinistra, o almeno della sua declinazione otto e novecentesca. Con Renzi il Pd si acconcia a rappresentare la maggioranza di quella minoranza di elettori che ancora si reca alle urne: giudicando “un fattore secondario” l’alto tasso di astensionismo, il segretario – premier ha fatto chiaramente capire che cosa ha in mente. Si tratta di un’impostazione abbastanza in linea con quella delle altre leadership democratiche occidentali. Il punto è: come contrastarla? Le vecchie parole d’ordine condannano all’irrilevanza; se la sfida si chiama “partito della nazione”, le opposizioni interne hanno il dovere di raccoglierla e giocarsi la partita. Combattendo, se possibile, la tentazione di bucare il pallone. O, peggio, di abbandonare il campo.
Sinistra sotto pressione I precedenti dovrebbero rassicurare chi teme nuove fratture. Nella sua ormai secolare storia di divisioni e spaccature, la sinistra italiana s’è scissa sempre sotto l’effetto di formidabili pressioni esterne.
di Anna Malinconico
Quale futuro per la nostra società? Occorre una sinistra moderna, colta e coesa. E di sinistra c’è sempre bisogno Miseria e nobiltà In Italia, i dieci più ricchi cumulano un patrimonio pari a quello posseduto dai 3 milioni di italiani più poveri. L’11% delle famiglie è in condizione di povertà relativa ed il 5% di povertà assoluta.
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a profonda e lacerante crisi che stiamo vivendo tutti in Europa e nel mondo cosiddetto avanzato, non ci da più tempo per agire senza riflettere. Ma non abbiamo nemmeno più tempo di pensare a lungo, in maniera isolata, come se avessimo le capacità di segnare il passo di una rinascita affidandoci ad intuizioni brillanti. I numeri della disoccupazione sono davvero drammatici. Siamo nel guado. Il modello di sviluppo economico dell’Occidente che ha dominato con un pensiero unico, negli ultimi 30 anni, non regge più. L’era della globalizzazione, in cui siamo dentro da tempo, ed il colpo di coda dato dalla Grande crisi in
atto, esplosa nel 2008 ed ancora in evoluzione, non permette più di utilizzare i vecchi paradigmi. Il Paese è allo sbando. I giovani, i più coraggiosi, fuggono altrove, cercando fortuna; gli adulti per lo più devono ridefinire la propria vita per aver perso il lavoro; la stragrande maggioranza degli anziani non riesce ad avere il necessario; mentre una piccola cerchia di essi ha un reddito alto a tal punto da potersi far carico di molti nuclei familiari. A proposito di questo, in Italia, i dieci più ricchi cumulano un patrimonio pari a quello posseduto dai 3 milioni di italiani più poveri. L’11% delle famiglie è in condizione di povertà relativa ed il 5% di povertà assoluta. Nonostante i molte-
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plici benefici che abbiamo ricevuto come umanità della globalizzazione, stiamo assistendo ad un intollerabile aumento delle disuguaglianze. Dall’altra parte del mondo milioni di profughi scappano dalla miseria, dalle guerre, dai disastri naturali, dalle persecuzioni politiche e religiose per rifugiarsi in Paesi più fortunati, fra i quali molti includono anche il Nostro. Il mondo non è più felice. Il progresso senza felicità, senza energia pura, non esiste. Lo sforzo da compiere è proprio quello di uscire dai paradigmi del vecchio secolo sui temi dell’occupazione e del lavoro per costruire nuove categorie interpretative di comportamento ed azione. Abbiamo attraversato l’era post-industriale, e, che ci piaccia o no, almeno il 70% del lavoro in prospettiva, è di tipo intellettuale, immateriale e non più fisico.
Vanno valorizzate le eccellenze, le capacità individuali, le competenze, che sono in grado di assicurare l’employability, molto meglio di qualunque forma contrattuale. Affrontare il lavoro con categorie di fatto superate frena qualunque tipo di sviluppo. Il concetto di produttività introdotto da Taylor è nato con le fabbriche: ebbene oggi la produttività così intesa può essere ricercata solo nelle fabbriche, dove resiste il lavoro fisico, che è circa il 30% di quello totale. Ma non esiste a tutt’oggi un’unità di misura sostenibile e condivisa, di “questo lavoro”. Bisognerebbe spostare l’asse dalla quantità alla qualità. La qualità è direttamente proporzionata alla competenza, alla soddisfazione, alla motivazione: alla professionalità. Una delle domande più appropriate da porsi oggi sul tema lavoro è: ha ancora senso considerare il tema occupazione solo (o quasi) in termini di domanda, e continuare a parlare di forme contrattuali (lavoro a tempo determinato, indeterminato, ecc.), o non è il caso di spingere verso il tipo e la qualità di offerta e considerare le varie
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forme di occupazione come fattori relativi alle capacità, alle competenze, alle attitudini “imprenditive” del soggetto. Per affrontare il nuovo occorrono più che mani paradigmi nuovi. Quello di cui abbiamo bisogno è favorire lo sviluppo di un pensiero nuovo: vanno valorizzate le eccellenze, le capacità individuali, le competenze, che sono in grado di assicurare l’employability, molto meglio di qualunque forma contrattuale. La disoccupazione, in questa visione, deve diventare un nuovo modo di essere occupato. In questa nuova visione del lavoro, ad esempio, si dovrebbe diminuire l’orario di lavoro ed incrementare finalmente il telelavoro, che non solo migliora la qualità della vita, ma diminuisce il traffico; l’ingolfamento delle strade; l’inquinamento e costituisce, se adottato in maniera sistemica, un grande passo verso la green economy. Per rendere tutto questo possibile, bisogna sapere quale futuro volere. Bisogna insistere su percorsi di formazione, di motivazione per ottenere quella spinta in vanti necessaria per saltare il guado. I cambiamenti sociali sono lentissimi, ma la cosa che in questo momento, dal punto di vista sociologico, è più rilevante, è che siamo in una fase di disorientamento molto forte. La strada verso un progresso sostenibile conduce alla lotta verso gli sprechi, in tutte le forme in cui si manifestano. La crescita economica cui si sta lavorando dovrà essere abbinata ad una nuova difesa dell’ambiente, a nuove politiche per l’energia, per l’istruzione, la ricerca, la formazione. Tutti devono diventare consapevoli del fatto che un mondo che distrugge le sue risorse è un mondo che non ha futuro. Dietro la crisi dei rappresentanti politici, dunque, c’è un’inadempienza degli intellettuali, pronti ad arraffare i vantaggi da sinistra, ma altrettanto pronti a dissociarsene quando più non conviene. Tutti gli apparati partitici e sindacali sono sempre più deboli in tutti i Paesi democratici, i leader sono per lo più funzionari di media statura culturale, privi di carisma. Le cosiddette classi sociali sono confuse. Senza istituzioni politiche forti, la società manca di mezzi per definire e realizzare i suoi interessi comuni. La capacità di creare istituzioni, politiche è la capacità di creare interessi generali e condivisi. Istituzioni politiche deboli costringono la società alla lotta di tutti contro tutti. La capacità di creare istituzioni politiche forti coincide con la capacità di creare
Domenico De Masi
interessi generali. Molti dei nostri leader democratici vivono in uno stato confusionale ed hanno abbandonato i temi del lavoro e del riscatto sociale; molti intellettuali hanno abdicato al proprio ruolo per interesse. La sensazione è di assistere ad una degenerazione della politica. È innegabile storicamente che il successo delle relazioni affettive, sociali, commerciali, fra individui e stati, dipendano dal capitale sociale e dalla fiducia. E se c’è fiducia le relazioni scorrono e la vita sociale riprende. Insomma, il quadro ci rappresenta una società corrotta, dove le istituzioni politiche sono deboli e le forze sociali, per quanto confuse e miscelate, molto più forti. La forza di un paese risiede certamente nella sua crescita economica, ma soprattutto dalla sua capacità di distribuire la ricchezza in maniera equa, così pure il lavoro, le opportunità. Dopo le ultime elezioni l’Europa sembra aver voltato pagina, promuovendo, come ha fatto, un piano per il superamento della crisi internazionale che prevede massicci investimenti per la crescita sostenibile e l’occupazione di qualità; sistemi di welfare inclu-
sivi e strutture innovative di ricerca ed istruzione; la fine dell’evasione e delle frodi fiscali; una tassazione equa per finanziare un piano di investimenti. Anche in Italia la leadership forte (fino a prova contraria) di Renzi sembra essere orientata a realizzare un modello basato su una forma di flexsecurity, che pone innanzi a tutto il resto la facilità di trovare lavoro più che l’impossibilità di perderlo. Di rimando spinge per realizzare grandi opere; per riformare la scuola; per aumentare la formazione, rendendola permanente; insomma sembra avere in mente un modello (vicino a quello tedesco) da costruire con caparbietà. Se è così, è un passo importante, perché il nostro disorientamento deriva proprio dalla carenza di un modello condiviso di vita. È il non modello ad indebolire i legami. Si perché alcuni, i più forti, emergono comunque anche a scapito degli altri. Per questo bisogna agire con paradigmi nuovi dove Lifelong learning non è solo una indicazione europea ripetuta per impressionare, ma diventi prassi consolidata: apprendere, per formarsi e cambiare, per tutta la vita deve diventare un dovere: ma per apprendere in tal modo ci vogliono politiche attive, creatività, opportunità verso cui misurarsi, flessibilità, autonomia, coraggio. All’interno di questo nuovo paradigma ci devono essere interventi che favoriscano la creatività, i processi di empowerment, imprenditività, il tutto all’interno di una nuova visione economica in cui il “commons collaborativi” (Rikin) è il nuovo paradigma economico. I nostri politici, i sindacati devono andare oltre il passato e proiettarsi verso questo futuro. La crisi non è solo crisi economica è assenza di modelli concettuali con cui elaborare una strategia. Il partito democratico, ha detto molto efficacemente De Masi, è un “estuario melmoso” in cui trovi di tutto: cattolici faccendieri e laici baciapiedi; conservatori e progressisti; ma anche ex: ex sessantottini; ex marxisti; ex democristiani; ex socialisti; ex preti; ex balilla. Ma questa non è la sinistra. E di sinistra c’è sempre bisogno: ovunque nel mondo ci sono vittime o ingiustizie, c’è bisogno della sinistra. Occorre una sinistra moderna, organizzata, colta, post-industriale, coesa. Questo è il territorio per l’unico dibattito politico credibile. Se qualcuno avrà il coraggio e la forza di condurlo, sarà il traghettatore della nuova era.
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di Raffaele Soddu
L’arte del dirigere la società verso il suo fine L’essenza della politica nel pensiero di Rosmini
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osmini – che Manzoni definì «una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità» – elaborò il suo pensiero politico in un periodo di grande fermento per i destini delle nazioni in un’Europa scossa da movimenti e rivoluzioni a sfondo politico-sociale. Tra gli scritti di contenuto politico più significativi, la Filosofia della Politica (1837), la Costituzione secondo la giustizia sociale, il Saggio sull’unità d’Italia e la Costituente del regno dell’Alta Italia (1848). Interessanti considerazioni politiche sono contenute anche nella Filosofia del diritto (1841-1844). Rosmini pervenne ad organizzare sistematicamente il suo pensiero politico al culmine di una ricerca filosofica, morale e antropologica. Per il roveretano la Politica è “l’arte del dirigere la società verso il suo fine mediante que’ mezzi che sono di partenenza del governo civile”. Il politico deve conoscere innanzi tutto il fine per il quale la società civile fu istituita e al quale deve essere spinta, la natura della società, le forze che sono atte a muoverla e le grandi leggi del movimento o progresso sociale. Da tale fine, i governanti non si devono mai discostare, neppure se glielo richiedono i governati: colui che governa, infatti, è obbligato a fare ciò che esige la natura e il fine della società mentre non dipende dall’arbitrio altrui. Ad analogo principio si ispira l’art. 67 della Costituzione Italiana per il quale ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni “senza vincolo di mandato”. E il fine di ogni società non può che essere il bene umano, che comporta l’appagamento. Esso può anche non coincidere con l’opinione della maggioranza dei cittadini, “ché quando la volontà dei sozi, eziandoché sembrino unanimi, si riferiscono ad una cosa evidentemente contraria all’umano appagamento, per errore, o per caldo di passione; queste non sono volontà veramente sociali, né possono costituire alcuna
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legge”. Quando, dunque, i veri interessi del popolo sono contrari ai suoi desideri, il dovere dei governanti è quello di combattere l’errore nel quale la maggioranza dei cittadini è momentaneamente incorsa, per dargli il tempo di rinvenire e considerare le cose a sangue freddo; ciò in quanto, “la volontà di una società, o dè sozi che la compongono, non è vera, ma solo apparente, ogni qualvolta ella non tenda al bene sociale, e per dirlo con più generalità, al vero bene umano, al vero umano appagamento”. E questo altro non è se non la virtù morale e tutti quei beni che possono stare insieme con la virtù; invece, “ogniqualvolta un bene di qualsiasi specie non può stare insieme con la virtù, egli cessa dall’esser bene umano, perché niente è bene umano di ciò che esclude la virtù”. Se l’animo fosse puro e non prevenuto da torti e ciechi appetiti, non sarebbe difficile all’uomo conoscere il suo vero bene, quello che è sempre desiderato dalla sua natura e che spesso è fuggito alla sua volontà. Di qui il necessario riferimento per chi governa al diritto extrasociale e alla morale. Con un esempio efficace, Rosmini diceva che “come se in una macchina di ferro non si ungono le ruote, queste stridono, e per l’attrito che hanno insieme si logorano e si consumano mutuamente; così nella macchina sociale fanno le due grandi ruote del diritto sociale e del diritto extra-sociale, se non vengono unte, per così dire, e allinite di continuo, dall’olio della morale obbligazione e dal grasso della virtù”. Non bisogna, tuttavia, confondere la teoria rosminiana con lo Stato etico teorizzato da Hegel che giunge a conferire allo Stato una razionalità perfetta, l’autosufficienza e la supremazia assoluta identificandolo quasi con la divinità. Il pericolo dell’assolutismo è escluso nell’impostazione rosminiana, dato che ciascun individuo conserva diritti inalienabili inerenti alla sua dignità umana che trovano fondamento
Il pensiero di Rosmini Rosmini diceva che “come se in una macchina di ferro non si ungono le ruote, queste stridono, e per l’attrito che hanno insieme si logorano e si consumano mutuamente; così nella macchina sociale fanno le due grandi ruote del diritto sociale e del diritto extra-sociale, se non vengono unte, per così dire, e allinite di continuo, dall’olio della morale obbligazione e dal grasso della virtù”.
nel diritto naturale e che non possono essere violati dal diritto statale. “Se noi distruggiamo le fonti della giustizia e dei diritti che da essa provengono, ammessi da tutti i secoli … e non riconosciamo più per fonte di ciò che è giusto e di ciò che è retto se non la maggior utilità pubblica, noi diamo al governo una autorità senza limiti. La sola utilità pubblica è per sé un’idea vaga e al tutto inetta a fissare il principio dell’autorità governativa o di ciò che è giusto”. Dunque, occorre tenere conto, innanzi tutto, del fine per il quale la società civile fu istituita, il bene umano, cioè l’appagamento dell’umana natura. Tale bene che è il “fine rimoto” della società non deve mai essere sacrificato per realizzare un fine prossimo. Vale, poi, l’altro principio per il quale “l’uomo dee trattare le persone come fine, cioè come aventi un proprio fine” e non come mezzo; “rispetta il fine della persona: non pigliarla siccome un mezzo a te stesso”. Nello Stato, infatti, le persone “tengono tutte insieme la parte di fine, e a tutte ugualmente si riferisce il vantaggio che aspettarsi di trarre dall’associazione”. Di conseguenza, “le persone componenti una società essendo tutte fine, niuna di esse mezzo, non differiscono essenzialmente come tali; sono tutte essenzialmente uguali”. “Ciascuno si obbliga, coll’associarsi, a volere il bene comune degli associati, e a concorrere alla produzione o all’acquisto di esso – o mediante degli atti suoi personali, o mediante delle cose esterne da lui possedute”. Ancora viene in rilievo il necessario rispetto dei diritti inalienabili inerenti alla dignità umana. “Il governo ha l’obbligo di difendere un egual diritto a tutti gli individui, impedendo che un individuo particolare usi del suo diritto in modo da mettere ostacolo agli altri individui di usarne ugualmente”. Nella Filosofia del diritto, Rosmini affronta in termini generali il rapporto tra “bene comune” e “bene pubblico”, sottolineando come la confusione tra i due concetti è foriera di gravi danni alla scienza del diritto pubblico. Bene comune “è il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale, e che sono soggetti di diritti”. Il Bene pubblico, invece, “è il bene del corpo sociale preso nel suo tutto, ovvero … nella sua organizzazione”. “Il principio del bene pubblico sostituito a quello del bene comune è l’utilità sostituita alla giustizia; è la Politica che, preso nelle sue mani
prepotenti il Diritto, ne fa quel governo che più le piace”. Dalla prevalenza del principio del bene pubblico derivano questi falsi principi che lacerano, in tutti i tempi il genere umano dietro la promessa di salvarlo: 1) il diritto non è che l’utilità; 2) la legge suprema è la salvezza dello Stato; 3) è preferibile che muoia un solo uomo per il popolo piuttosto che non perisca la nazione intera; 4) la ragion di Stato giustifica qualsiasi attentato; 5) la tirannia delle maggioranze sulle minoranze (tutto si deve decidere a maggioranza). Seguendo questi principi, la società civile, istituita al fine di proteggere e di migliorare tutti i diritti dei suoi membri, finisce con l’operare contro il suo naturale ufficio, contro l’ufficio per il quale solamente esiste. È stato merito del Cristianesimo, secondo Rosmini, preferire il principio del bene comune rispetto a quello del bene pubblico che veniva perseguito nelle società pagane. Ma se la società civile deve proporsi di formare il bene comune di tutti i singoli suoi membri, come deve essere distribuito questo bene fra di essi? Il criterio da seguire è quello di pareggiare “la quota parte di utilità. Tale è il bene comune equamente distribuito”. E se tale obiettivo è difficilissimo da realizzare completamente, dovere del Governo è quello di “accrescere in sé e nel popolo i lumi, cò quali la società civile possa sempre più avvicinarsi all’ottenimento dell’indicato pareggiamento”, “facendo tacere ogni interesse privato e di partito”. Ancora Rosmini: “Domandiamo dunque se la società civile possa avere in qualche maniera per fine anche il ben pubblico? E rispondiamo di si: ma a condizione che il bene pubblico sia sottordinato come un mezzo al bene comune, che è il suo unico fine prossimo”. E da questa risposta fa conseguire i seguenti principi: 1) nessun diritto dei singoli cittadini può essere sacrificato per ragione del bene pubblico. 2) salvi i diritti dei singoli, deve essere preferito il bene pubblico al bene privato. Altra indicazione è quella che anche i sacrifici dovrebbero essere distribuiti in base alla “quota parte di utilità”, senza che gravino in modo sperequato su una sola o alcune classi di cittadini. Quanto mai attuale è poi l’invito a far tacere e mettere da parte ogni condizionamento derivante da “interesse privato e di partito”.
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QUI ED ORA
di Valentina Capuano
Napolitano Berlinguer e la Luna La sinistra riformista tra comunismo la ventata di novità di Matteo Renzi
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apolitano è stato il suo punto di riferimento politico, Berlinguer il suo faro: Umberto Ranieri, presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa ed ex sottosegretario agli esteri racconta nel suo libro “Napolitano Berlinguer e la luna”, l’evoluzione del partito comunista attraverso la storia delle sua militanza in esso. “Obiettivo di questo libro - dichiara l’autoreè fornire un approccio più veritiero e meno convenzionale alla vicenda politica: che dalla trasformazione del PC in PDS giunge fino al Pd, e, all’impetuosa irruzione di Renzi sulla scena politica nazionale”. Le vicende politiche di questi ultimi anni mesi, il cambio di guardia alla guida del Pd, che ha visto il trionfo di Renzi su altri candidati e poi la nascita del suo governo dopo la sfiducia a Letta, sono tutti passaggi rievocati attentamente da Ranieri, che ne spiega le premesse: ovvero anni e anni di duri confronti dialettici all’interno del partito comunista, all’interno del quale maturava una “corrente migliorista”, osteggiata dallo zoccolo duro del partito e di cui l’autore fu precursore ed espressione insieme a Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica. Le vicende interne del partito, rievocate attraverso i suoi primi incarichi risalenti ai primi anni 70’, lasciano emergere la granitica fede politica che ha sempre animato la sua militanza: “Dedicai la mia vita alla politica, convinto di poter cambiare il mondo e la vita, che il cammino avrebbe reso gli uomini più liberi”. La sua esperienza giovanile fu particolarmente formativa, sia per la sfida che gli veniva posta, ovvero conquistare il territorio lucano, avamposto della democrazia cristiana, sia per i contatti e le amicizie che si consolidarono in quegli anni: Paolo Bufalini, Pio La Torre, Giorgio Amendola e
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Guido Sacerdoti (nipote di Carlo levi), Giorgio Napolitano. Fu in quegli anni che Ranieri realizzò che l’immobilismo ed il centralismo democratico costituivano il principale ostacolo al sorgere di correnti, interpretate dai più come pericolose derive o rese socialismo: il suo distanziarsi da tali posizioni gli valsero l’appellativo di “menscevico”. Poi giunsero gli anni di piombo e il trionfo del PSI: quello che era mancato era un assetto politico maggioritario, ma la miopia del partito, anche dopo Berlinguer continuò a considerare l’antisocialismo un dogma. Fu in quegli anni che Ranieri, accanto all’amico Giorgio Napolitano si sarebbe conquistato la fama di “destro”. Un’etichetta interpretata da taluni come un vero e proprio tradimento verso il partito”. Un appellativo che scaturì, racconta, dal duro confronto con la realtà, avvenuto in quegli anni trascorsi in quei territori affascinanti quanto impenetrabili come la Lucania. Fu in quei luoghi che egli cercò “nella tradizione delle componenti antimassimalistiche del Pc, alcune risposte, e s’imbattè in Amendola, Chiaromonte, Napolitano”. Sarebbero stati loro i suoi punti di riferimento nel suo lungo percorso politico, ovvero quella corrente “migliorista” di sinistra, ben lontana tuttavia da un concetto vago di “centro”, riconducibile, a suo dire, ad “un magma indistinto”, luogo del conformismo burocratico. Del resto, nella sua militanza politica, ricorda Ranieri, resteranno sempre forti le motivazioni che lo spinsero ad abbracciare il comunismo: “l’insofferenza alla miseria dei quartieri della periferia nord di Napoli in cui vivevo, le condizioni di vita drammatiche dei miei amici di gioventù”. La sua fama di “destro” si rafforzò negli anni in cui diresse il partito a Napoli (vi giunse nel 1981, dopo il terremoto), anni in cui
Lettura e letteratura Le vicende politiche di questi ultimi anni mesi, il cambio di guardia alla guida del Pd, che ha visto il trionfo di Renzi su altri candidati e poi la nascita del suo governo dopo la sfiducia a Letta, sono tutti passaggi rievocati attentamente da Ranieri, che ne spiega le premesse.
strinse contatti col sindaco Valenzi e Bassolino, Claudio Velardi, Umberto Minopoli, Amedeo Lepore e Peppe Russo, ma anche con i nomi più alti del giornalismo italiano cresciuti nella redazione dell’Unità. La caduta del muro di Berlino viene ricordata con emozione nelle pagine del suo diario e da lui accolta come la “liberazione dal totalitarismo comunista”. La svolta della Bolognina, la nascita nel ’91 del PDS e il consolidarsi della corrente migliorista sono rievocati nei minimi dettagli, grazie ai preziosi diari annotati e conservati dall’autore in tutti questi anni. Tuttavia, l’accusa rivolta loro era sempre la medesima: essere subalterni ai socialisti e a Craxi. Poi venne il tempo di mani pulite (1993)e l’Italia, travolta dagli scandali vide affacciarsi e poi trionfare, nell’agone politico, Forza Italia e il cavaliere Berlusconi. Ma anche nei successivi governi Prodi, d’Alema e Amato non fu colta l’occasione dai miglioristi, pur nelle lacerazioni interne al partito. Anche le vicende dei successivi governi Berlusconi, Monti e Letta sono rievocate con dovizia di particolari. E Renzi? Renzi è l’outsider, l’enfant prodige della politica italiana: un giovane under quaranta che ha saputo interpretare un’ansia di cambiamento della società conquistando, in poche settimane, la segreteria del Pd e palazzo Chigi. Chiedo all’autore quali sono le sfide di Renzi in questa legislatura?
Renzi ha colmato un vuoto: è riuscito ad aprire il partito a nuove forze politiche ed è riuscito a comprendere l’impellenza di puntare sullo sviluppo economico mettendo in campo riforme ed investimenti: un’impresa non facile da condurre con la tenacia, il buon senso ed il realismo di chi si propone dei fini, doti che furono dei miglioristi, ai quali mancò la compagna di strada di ogni ambizione teorica e politica: la determinazione. Tornando al suo libro lei ha dichiarato che le motivazioni che lo hanno spinto ad abbracciare il comunismo sono state passione e spirito rivoluzionario e soprattutto “l’insofferenza alla miseria dei quartieri della periferia nord di Napoli in cui vivevo”: vi è ancora questo desiderio di riscatto delle classi sociali più deboli? Il Pd è ancora espressione di questo riscatto? Il Pd attuale, nella ventata di novità portata da Renzi, risponde alle attese di una società investita da una pesante crisi economica che il governo Renzi sta fronteggiando adeguatamente con misure atte a rilanciare l’economia e al tempo stesso attraverso una riduzione degli sprechi e delle spese pubbliche in eccesso. Quale futuro prevede per Bagnoli? La riqualificazione di Bagnoli passa attraverso l’attuazione del decreto sblocca Italia, unica misura atta riqualificare adeguatamente un’area dismessa.
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QUI ED ORA
di Dario Stefano Dell’Aquila
Lo stato dei diritti in carcere a che punto siamo? Le responsabilità dello Stato e l’attenzione mediatica a fasi alterne I numeri del carcere Al 31 ottobre (ultimo dato ufficiale disponibile) su una capienza di 49.327 posti, erano presenti 54.207 detenuti (di cui 2.343 donne). Ben 17.578 (poco meno di un terzo) sono stranieri. Circa 34mila sono i condannati in via definitiva, gli altri ventimila circa sono in attesa di un giudizio. Si registra, dunque, una positiva inversione di tendenza, dopo che la crescita esponenziale di presente aveva portato i detenuti sotto soglia 70mila.
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o Stato è chiaramente responsabile perché quel ragazzo è morto quando era nelle mani dello Stato. Ma sono il capo del potere esecutivo e non commento le sentenze. La partita non è chiusa, i giudici valuteranno”. Con queste parole, pronunciate nella trasmissione televisiva Ballarò, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha commentato l’assoluzione degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009, in ospedale, dopo sei giorni di detenzione. Parole im-
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portanti, che affermano un principio elementare di diritto, la tutela della vita e della salute di una persona quando questa, a qualunque titolo, è nelle mani dello Stato. A queste parole, però, è seguito subito il caso di un detenuto napoletano, ricoverato in gravissime condizioni in ospedale, dopo il suo ingresso in carcere, (un caso la cui dinamica è tutta da approfondire), un carcere al centro di un’inchiesta per presunti episodi di maltrattamenti avvenuti in quella che era definita la “cella zero”. Al netto di un’attenzione mediatica che si interessa di carcere a fasi
alterne, ma che segna, certamente, una nuova attenzione al tema e anche la presenza di giornalisti preparati e competenti nella materia, quale è la situazione nelle carceri del nostro paese? Cominciamo dai numeri, come sempre indispensabili, per comprendere le dinamiche in atto. Al 31 ottobre (ultimo dato ufficiale disponibile) su una capienza di 49.327 posti, erano presenti 54.207 detenuti (di cui 2.343 donne). Ben 17.578 (poco meno di un terzo) sono stranieri. Circa 34mila sono i condannati in via definitiva, gli altri ventimila circa sono in attesa di un giudizio. Si registra, dunque, una positiva inversione di tendenza, dopo che la crescita esponenziale di presente aveva portato i detenuti sotto soglia 70mila. Questa riduzione dei numeri si deve
Sarebbe opportuno che chi ha responsabilità di governo non si limiti a parole belle e significative, ma faccia tutto quanto in suo potere per ridurre la condizione degradante di violenza e disagi nella quale sono costrette le persone detenute alle misure adottate negli ultimi due anni per favorire misure alternative alla detenzione e alla sentenza della Corte costituzionale che ha inciso sugli effetti della famigerata Fini- Giovanardi, la legge che ha riempito le nostre carceri di tossicodipendenti. Sia chiaro, questa riduzione non è affatto sufficiente a ripristinare negli istituti di pena le condizioni di vivibilità richieste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma almeno segna un’importante inversione di tendenza lunga vent’anni. Dal 2000 ad oggi, nelle carceri italiane si contano 2.358 morti, dei quali 839 suicidi e migliaia di episodi di autolesionismo e di scioperi della fame. Nell’ultimo anno contiamo 38 suicidi e 120 morti, un dato che se, da un lato, conferma un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, dall’altro, segnala che la situazione rimane comunque grave.
Grave perché progressivamente si riducono le risorse investite negli interventi sociali e nelle figure professionali “civili” (educatori, psicologi, operatori sociali, mediatori culturali) che operano in carcere e perché si prospetta uno scenario di riforma che sembra segnare un passo indietro nella gestione del sistema penitenziario. Corre voce (ma si tratta di molto di più, di semplici rumors) che sia all’esame dei vertici del Ministero della Giustizia una proposta di riforma frutto del lavoro di tre pubblici ministeri, Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Un progetto che affida – a quanto si apprende informalmente – alla polizia penitenziaria la direzione delle carceri e che scioglie il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Una svolta che, se confermata, appare configurare un modello detentivo “poliziesco”, di fatto, rompendo il già fragile equilibrio tra le funzioni di sicurezza e controllo e quelle di tutela dei diritti e di presa in carico. Una scelta che va in direzione contraria agli indirizzi e raccomandazioni degli organismi sovranazionali di tutela dei diritti. A ciò va aggiunto che, sebbene l’Italia abbia ratificato 26 anni fa la convenzione ONU che lo chiedeva, non è stato mai approvato nel nostro ordinamento l’introduzione del reato di tortura. Può apparire incredibile ma, come recita lo slogan delle associazioni che, come Antigone, si battono per la sua introduzione, in Italia “la tortura non è reato”. Sarebbe opportuno che chi ha responsabilità di governo non si limiti a parole belle e significative, ma faccia tutto quanto in suo potere per ridurre la condizione degradante di violenza e disagi nella quale sono costrette le persone detenute e, per riflesso, tutti gli operatori penitenziari. Che le esigenze di una reale riforma che estenda garanzie, tutele e diritti sono più che mai vive e passano attraverso l’estensione di misure alternative al carcere, l’abrogazione delle norme che etichettano gli immigrati come criminali, l’istituzione del Garante nazionale delle persone detenute, l’introduzione del reato di tortura. Misure di minima civiltà democratica che non dovrebbero arrestarsi di fronte alle prime rimostranze di alcuni sindacati di polizia corporativi e conservatori.
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QUI ED ORA
di Marco Staglianò
Regionali, tutti aspettano Godot. Persino Caldoro… ...le ragioni sono chiare. Le prospettive del Centrodestra Renzi ha perso!
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el largo campo del centrosinistra campano regna la confusione più totale, una confusione che si risolve in un preoccupante immobilismo. Tanto più alla luce dei drammatici dati sull’astensione registratisi in Calabria e in Emilia Romagna. Le cause sono molteplici. Muovendo dai territori, il primo dato da analizzare è la debolezza politica di un Partito democratico che non riesce ad esercitare fino in fondo la centralità che il partito di Renzi, a livello nazionale, continua ad esercitare. Le ragioni sono chiare: Renzi s’è preso il partito grazie al contributo determinante dei medesimi apparati che avrebbe preteso di rottamare e quel che ne viene fuori è un partito che a Roma ha i volti della Leopolda, mentre alla periferia dell’Impero continua ad essere rappresentato dai medesimi gruppi dirigenti di sempre. L’unica differenza è che quei gruppi dirigenti si sono rimescolati dando vita a maggioranze spurie, disomogenee, incapaci di elaborare e di dar vita a linee politiche riconoscibili. Spesso, molto spesso, il timone del governo del Pd ai livelli territoriali è nelle mani di maggioranze costruite su intrecci di ambizioni che non si tengono e questo, ovviamente, ha delle conseguenze sul terreno del radicamento e dell’interlocuzione sociale. Allo stato non s’intravede nemmeno la trama di un’alternativa possibile, resta solo la confusione di cui sopra ed il quadro è aggravato da quanto avvenuto nel corso di questi anni, anni nei quali, fuori e dentro l’Assise regionale, il Pd ha condotto un’opposizione molto spesso di testimonianza, adagiandosi
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su di una subalternità che sovente ha assunto i caratteri di uno strisciante consociativismo. Il punto vero è che il Pd non ha mai fatto davvero i conti con la sconfitta di cinque anni fa, tutto è rimasto come allora e la prova è nel fatto che, ieri come oggi, tutto il dibattito si risolve nel medesimo schema che produsse quella debacle: il sindaco di Salerno da un lato, quel che resta del bassolinismo dall’altro. Uno schema sterile, uno schema sul quale, oggettivamente, appare quasi impossibile costruire un’alternativa credibile in grado di incrociare lo sgomento delle comunità, la sete di cambiamento e di speranza che pervade gran parte del tessuto sociale, sete che però non trova acqua e che, dunque, finisce con il tradursi in disaffezione, indifferenza. Schema sul quale, per finire, non ci sono le condizioni per costruire un centrosinistra organico, per il semplice motivo che non è uno schema di cambiamento, ma di conservazione, uno schema non inclusivo che trova legittimità e prospettiva solo nell’autoreferenzialità di classi dirigenti superate dalla storia ed incapaci di produrre linguaggi e visioni nuove. E questo è un dato del quale a Roma sono ben consapevoli, ed è anche questa la ragione per la quale le primarie sono state rinviate: occorre trovare un modo per superare quello schema, costi quel che costi. E qui veniamo all’altro punto. L’attendismo del Nazareno trova ragione nell’incrocio di diverse variabili. In primo luogo, la difficoltà ad individuare personalità sufficientemente autorevoli da imporre, personalità in linea con la narrazione ren-
Renzi ha perso, voti consapevoli, riconducibili a quel blocco sociale che continua a riconoscersi nelle parole d’ordine della sinistra, voti che non sono andati da nessuna parte ed il cui peso specifico non s’è fatto sentire solo in ragione dell’assenza di un’alternativa credibile.
ziana ed in grado di anestetizzare il conflitto tra apparati sui territori. Su questo vuoto, però, s’innesta un’ulteriore variabile, quella delle alleanze. Il Partito della Nazione avocato da Renzi dal palco della Leopolda è un partito onnivoro, forte di una centralità che tutto assorbe, un partito che non è più parte e che, fisiologicamente, sposta il suo asse al centro sino ad inclu-
dere tutto quel che può includere. Ma quel partito è, in qualche misura, stato superato proprio dalle elezioni in Emilia Romagna e in Calabria, alla luce delle centinaia di migliaia di voti che Renzi ha perso, voti consapevoli, riconducibili a quel blocco sociale che continua a riconoscersi nelle parole d’ordine della sinistra, voti che non sono andati da nessuna parte ed il cui peso
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QUI ED ORA
specifico non s’è fatto sentire solo in ragione dell’assenza di un’alternativa credibile. Ma Renzi e i suoi sanno leggere i numeri: in una cornice diversa, senza quella sinistra il Pd rischia di andare a sbattere. Perché è chiaro che le scelte di oggi saranno funzionali alla definizione dello schema sul quale si andranno a giocare le prossime politiche ed in presenza di un centrodestra riorganizzato, magari rinforzato dalla debolezza dei risultati che questo esecutivo sarà in grado di conseguire sul terreno dell’economia, potrebbe dare non pochi problemi ad un Pd orfano del suo blocco sociale storico, isolato nella pretesa di esercitare una centralità che non è, tallonato a sinistra dall’emergere di una nuova proposta in grado di riassorbire il consenso di quel blocco sociale in fuga e, magari, parte consistente di un altro blocco sociale, quello coagulatosi attorno al Movimento Cinque Stelle ed oggi parimenti sgomento. Renzi, dunque, si trova ad un bivio e le pro-
Nell’equivoco è sempre difficile scegliere, qualsiasi via si intraprende rischia di risolversi in un vicolo cieco. babilità che abbandoni la via del Partito della Nazione, ovvero di un’intesa organica con le forze dell’universo moderato con le quali oggi governa il Paese, per ripiegare su di uno schema organico di centrosinistra, non sono basse. Ma è chiaro che, in tale contesto, sui territori nulla si può muovere, perché qualsiasi iniziativa in termini di proposta rischierebbe di andare in contraddizione con la linea che il Nazareno imporrà. Una linea che stenta ad arrivare perché nell’equivoco è sempre difficile scegliere, qualsiasi via si intraprende rischia di risolversi in un vicolo cieco. Nelle more, come accennato, a sinistra molte cose stanno accadendo. E se è vero che Piazza San Giovanni non può essere la soluzione, nel senso che quella era una piazza di speranze e sofferenze, di una sinistra che va ben oltre Camusso e Landini
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ma che è ancora alla ricerca di parole nuove e di una leadership in grado di affrontare la sfida di questo tempo, il conflitto che quella Piazza ha rappresentato va lentamente prendendo forma ai livelli territoriali ed è chiaro che dinanzi ad un Pd che dovesse sterzare a destra, a sinistra non rimarrebbe il vuoto, al netto delle scelte che chi oggi rappresenta la sinistra nel Pd assumerà. Eccoci, dunque, a Stefano Caldoro e alle prospettive del centrodestra. Tutto, per le ragioni che abbiamo provato a sintetizzare, dipende dal Pd. Il governatore resta forte, ha diverse leve su cui puntare, ma in questa fase non può far altro che attendere che tutto si compia. Sa di essere il vero valore aggiunto, sa che a certe condizioni questa può rappresentare la partita cruciale, la partita che potrebbe consegnargli, in via definitiva, un ruolo di primo piano a livello nazionale nel percorso di rinnovamento al quale il centrodestra appare costretto alla luce della polverizzazione subita. Allo stesso modo, però, non è disponibile a sacrificarsi, non è disponibile a correre se non in ragione del suo schema, che è quello di un centrodestra ampio ed organico, il medesimo centrodestra con il quale governa. Qualora quello schema non dovesse replicarsi, Caldoro potrebbe rinunciare al bis per sparigliare, per provare ad inserirsi nel conflitto che sta lacerando quel campo, per giocarsi la partita del rinnovamento del centrodestra sullo scacchiere politico, avendo come orizzonte le prossime politiche. Posto che, c’è poco da fare, tolto Caldoro in Campania non resta quasi nulla. Sintetizzando, l’equivoco sul quale Renzi ha costruito la sua ascesa, equivoco che ha trovato corpo e sostanza nelle politiche messe in campo da questo esecutivo e che il premier ha provato a tradurre in linea politica dal palco della Leopolda, ha ingessato l’intero quadro politico. Come un buco nero, quell’equivoco ha risucchiato tutto e nulla si muoverà fin quando, in un modo o nell’altro, verrà superato. Il nostro Godot si chiama Matteo Renzi, un Godot consapevole del fatto che di attendismo, a volte, si può anche morire.
SPECIALE: AFFIDAMENTO, ADOZIONE E FECONDAZIONE ASSISTITA
di Alessandra Iannone
L’adozione nazionale ed internazionale: la scheda
I
fondamenti legislativi dell’adozione hanno radici molto antiche e travalicano gli ordinamenti giuridici a noi contemporanei. In un primo momento, l’istituto dell’adozione ebbe come finalità quella di assicurare ad una famiglia la continuità, evitando il rischio dell’estinzione. Grazie alla diffusione del Cristianesimo il concetto di adozione si trasformò e si ampliò con la sostanziale finalità di dare un figlio a chi non poteva averne. Il Codice Civile del 1942 fa riferimento alla possibilità di adottare con la sostanziale finalità di dare un figlio a chi non poteva averne con la limitazione che l’adottato non avesse meno di diciotto anni d’età e l’adottante non ne avesse meno di cinquanta. La prima vera e propria normativa sull’adozione è la legge n. 431 del 1967 con la quale fu introdotta l’adozione legittimante dei minori di età – che allora era adozione speciale – la cui disciplina attualmente è contenuta nella L. 184 del 1983, così come modificata dalla L. 149 del 2001. La funzione di questa adozione è radicalmente diversa da quella precedente: ora è il diritto del minore ad una famiglia che viene posto in
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primo piano e che la legge intende garantire e, pertanto, la domanda di adozione si è trasformata in un’offerta di disponibilità ad accogliere come figlio un bimbo abbandonato. Il principio ispiratore dell’attuale disciplina dell’adozione, secondo cui il minore ha diritto ad essere educato nella propria famiglia di origine, incontra il suo limite laddove questa non sia in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’obbligo di mantenere, educare ed istruire i figli, con conseguente configurabilità dello stato di abbandono. Solo in tal caso il minore potrà essere destinato a crescere ed essere educato in una famiglia diversa rispetto a quella di origine. La predilezione della famiglia di origine, statuita dalla normativa, determina, però, che i casi in cui i bambini siano dichiarati adottabili siano pochi e, quando viene dichiarato lo stato di abbandono e si da il via libera all’adozione, spesso i minori hanno già qualche anno di vita trascorso in situazioni familiari di disagio, o con famiglie affidatarie diverse. Inoltre, nella fase di preadozione nazionale bisogna sempre fare i conti con il rischio giuridico, che consiste nella pos-
sibilità che il minore debba ritornare alla famiglia di origine (genitori o parenti sino al 4° grado). Invero la struttura familiare italiana consente sempre agli operatori dei servizi sociali di provare a recuperare un soggetto interno al nucleo familiare di origine che possa occuparsi del minore in assenza o nell’impossibilità del genitore naturale. Non sempre però queste situazioni sono definitive e la predilezione della famiglia di origine diviene pregiudizievole al minore al quale potrebbe essere garantita una famiglia stabile fin dai primi anni di vita. La sensazione è che la previsione normativa, così rigidamente seguita, tende a prediligere più un concetto sociale di famiglia piuttosto che l’interesse del minore, limitando inoltre la possibilità delle coppie italiana di adottare bambini italiani e portando la maggior parte a rivolgersi all’adozione internazionale. A questo punto veniamo all’analisi delle possibilità previste dalla normativa italiana per garantire ai minori una figura genitoriale adeguata nel caso di mancanza di quella naturale. I coniugi sposati da almeno tre anni e non separati, neppure di fatto, posso proporre domanda di adozione nazionale (dichiarazione di disponibilità all’adozione) al Tribunale per i Minorenni presso cui si intende procedere e che nella maggior parte dei casi i coniugi scelgono rispetto alla loro residenza anagrafica. La domanda, va presentata in carta semplice accompagnata da alcuni documenti ed alcuni esami clinici necessari per attestare la buona salute complessiva dei futuri genitori. La domanda di adozione nazionale ha una validità di tre anni ed è rinnovabile alla sua scadenza, qualora ma non avessero avuto alcun riscontro da parte del tribunale nel corso dei tre anni. A questo punto, il Tribunale dispone la verifica preventiva dei presupposti ed esegue gli accertamenti ritenuti necessari al fine di accertare e dichiarare l’idoneità della coppia che ha proposto la dichiarazione di disponibilità. Il Tribunale per i Minorenni incarica i servizi sociali con il compito di conoscere la coppia e di valutarne le potenzialità genitoriali, raccogliendo informazioni sull’ambiente famigliare, le motivazioni della domanda, nonché, la situazione personale e sociale dei coniugi. I servizi sociali devono valutare le potenzialità genitoriali della coppia, il desiderio di entrambi all’adozione, la loro situazione socio-economica ed informare in modo corretto
e completo gli aspiranti genitori adottivi sulle possibili criticità che l’adozione può comportare. La legge sull’adozione prevede che le indagini siano completate entro 120 giorni (prorogabili una sola volta) dall’invio della documentazione relativa alla coppia da parte del Tribunale per i Minorenni che ha disposto l’accertamento dell’idoneità. Al termine del periodo di accertamento, i servizi devono redigere una relazione conclusiva che sarà inviata al Tribunale per i Minorenni di competenza. Il Tribunale per i Minorenni esamina la relazione inviata dall’ente locale e convoca la coppia per uno o più colloqui, a seguito dei quali vi possono essere due esiti: il Tribunale stabilisce che la coppia è idonea all’adozione, oppure dispone ulteriori approfondimenti rinviando nuovamente i coniugi ai servizi. Il Tribunale dovrà scegliere tra tutte le coppie che hanno presentato domanda di adozione e sono state dichiarate idonee, quella più adatta al minore adottabile (anche in base alla differenza di età tra adottanti e adottando che non può essere inferiore a 18 anni e maggiore di 45 anni) e disporne, con ordinanza del giudice, l’affidamento preadottivo. Per l’affidamento preadottivo, occorre il consenso del minore che abbia compiuto 14 anni; il minore di età superiore a 12 anni deve essere sentito (anche di età inferiore, qualora il giudice lo ritenga opportuno). L’affidamento preadottivo dura 1 anno e può essere prorogato per un altro anno. Può essere revocato se si verificano gravi difficoltà nella convivenza. Nel corso dell’anno di affido preadottivo la coppia è seguita dai Servizi Sociali. In questa fase dell’adozione nazionale, come abbiamo detto, bisogna sempre fare i conti con il rischio giuridico, che consiste nella possibilità che il minore debba ritornare alla famiglia di origine (genitori o parenti sino al 4° grado). Al termine di questo periodo, e a seguito di un ulteriore colloquio che la coppia effettuerà con il Giudice del Tribunale per i Minorenni per la verifica della sussistenza delle condizioni previste per legge, valutati le informazioni e gli esiti delle indagini e sentiti i soggetti indicati dalla legge, il Tribunale può o emettere il decreto di adozione o dichiarare con sentenza la non idoneità. Nel primo caso, gli effetti giuridici del provvedimento di adozione sono i seguenti: 1) effetto legittimante: il minore adottato diventa a tutti gli effetti figlio legittimo della coppia adot-
L’adottabilità La predilezione della famiglia di origine, statuita dalla normativa, determina, però, che i casi in cui i bambini siano dichiarati adottabili siano pochi e, quando viene dichiarato lo stato di abbandono e si da il via libera all’adozione.
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tante, di cui assume il cognome. 2) effetto risolutivo: cessano i rapporti giuridici tra il bambino e la sua famiglia d’origine (ad eccezione degli impedimenti matrimoniali). Nel secondo caso, avverso la sentenza che dichiara di non fare luogo all’adozione può essere proposta impugnazione davanti la sezione minorenni della Corte d’Appello da parte del Pubblico Ministero, degli adottanti e dal tutore del minore, entro 30 giorni dalla notifica della sentenza stessa. Avverso la sentenza della Corte d’Appello è proponibile ricorso in Cassazione. La sentenza che pronuncia l’adozione, divenuta definitiva, viene trascritta immediatamente nel registro di cui all’art. 18 (registro conservato presso la cancelleria del Tribunale per i minorenni) e comunicata all’ufficiale dello stato civile del comune di nascita del minore, che lo annota a margine dell’atto di nascita dell’adottato. Adozione Internazionale Per quanto riguarda, invece, la procedura di adozione internazionale, il percorso è il medesimo indicato per l’adozione nazionale almeno per quanto concerne gli incontri con i Servizi sociali e con il Tribunale fino al decreto di idoneità. Dopo aver ottenuto il decreto di idoneità all’adozione, a seguito delle valutazioni e della dichiarazione del Tribunale per i minorenni, deve inderogabilmente dar corso alla procedura attraverso una delle numerose associazioni appartenenti all’albo degli enti autorizzati iniziando con l’indicazione del paese (o dei paesi) verso i quali orientare la propria candidatura entro un anno dall’emissione del decreto di idoneità, pena la nullità. La scelta dell’ente a cui affidarsi è un passo importante perché determinerà i tempi e i modi del raggiungimento dell’adozione anche se non è facile fornire indicazioni relative alla durata della procedura per l’adozione internazionale per la complessità della stessa e i fattori molteplici che vi sono coinvolti. Una volta scelto l’ente a cui affidarsi e firmato l’incarico, che è un contratto in cui sono definiti i diritti e i doveri della coppia e i servizi dell’ente, in genere si presenta un periodo d’attesa in cui la coppia è inserita in una lista d’attesa dell’ente prima e del paese poi. Questo periodo può durare da pochi mesi ad alcuni anni. Può dipendere dall’andamento delle adozioni nel paese scelto, può dipendere dalla capacità dell’ente di predisporre la documentazione,
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può dipendere dalla capacità amministrativa del paese di predisporre gli abbinamenti. Durante questo periodo verrà richiesto alla coppia la preparazione della documentazione che ciascun paese richiede ed infine l’abbinamento con uno o più bambini. I documenti consegnati all’ente, verranno tradotti e inviati alle autorità del paese scelto. Quando la pratica giunge all’autorità preposta nel paese straniero la coppia è inserita in una lista in attesa dell’abbinamento con uno o più minori. Ad abbinamento avvenuto o contestualmente all’abbinamento i coniugi possono conoscere il figlio. Devono presentarsi alle autorità del paese straniero e, a seconda del paese, presenziare in tribunale o presso gli uffici del ministero competente. La variabilità delle procedure all’estero è molto alta: in alcuni paesi è obbligo per la coppia convivere con i figli fino a due mesi prima di poter rientrare in Italia, in altri sono necessari più viaggi a distanza di mesi, in altri è sufficiente una settimana di permanenza all’estero. Questa fase della procedura prevede il coordinamento tra le varie autorità (italiane ed estere) al fine di consentire, da un lato, l’emanazione del provvedimento da parte dell’autorità estera, dall’altro la verifica della corrispondenza dell’adozione ai criteri previsti dalla convenzione dell’Aja in materia da parte dell’autorità italiana, la quale, solo all’esito positivo, potrà autorizzare l’ingresso del minore nel territorio dello Stato eventualmente solo per un periodo di affidamento preadottivo. Terminato l’eventuale periodo di affidamento preadottivo, il Tribunale per i minorenni avente competenza territoriale in funzione della residenza degli adottanti, provvederà alla trascrizione dell’adozione la quale, oltre a produrre gli effetti già citati, determinerà per il minore adottato l’acquisto della cittadinanza italiana. A differenza dell’adozione nazionale che risulta gratuita, la complessità della procedura all’estero, il coinvolgimento dell’ente autorizzato e la preparazione della documentazione che verrà presentata alle autorità straniere, la sua traduzione e il suo invio, la presenza necessaria di intermediari, la necessità di uno o più viaggi nel paese d’origine del minore e la permanenza in loco concorrono a determinare dei costi non indifferenti che possono superare anche i 20 mila euro.
L’adozione internazionale La scelta dell’ente a cui affidarsi è un passo importante perché determinerà i tempi e i modi del raggiungimento dell’adozione anche se non è facile fornire indicazioni relative alla durata della procedura per l’adozione internazionale per la complessità della stessa e i fattori molteplici che vi sono coinvolti.
di Dominique Pontoriero
* cultore della materia
L’affido: complessità ed efficacia
cattedra di organizzazione del servizio sociale presso Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
Leggi, riforme, proposte. Occorre rafforzare le politiche di sostegno all’infanzia
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in dall’antichità, l’affidamento familiare, è stato praticato come intervento di sostegno all’infanzia trascurata, infatti già gli stessi Edipo, Mosè e Paride sono stati accolti in una famiglia diversa dopo essere stati abbandonati. Nel corso del tempo, diverse cause hanno determinato varie forme e modalità di allontanamento del minore dalla propria famiglia, frutto dei momenti storici e dell’organizzazione sociale e istituzionale vigente. Per questo motivo si può ritenere l’attuale istituto dell’affidamento come la diretta conseguenza di una prassi antica che è andata evolvendosi e consolidandosi nei secoli, cioè quella del collocamento di bambini abbandonati o non sufficientemente curati dai propri genitori, in famiglie diverse da quella di origine (Quaderno n. 24, I bambini e gli adolescenti in affidamento familiare, Rassegna Tematica e Riscontri Empirici, Quaderno del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Firenze, Istituto degli Innocenti, 2002). La legge 184 del 1983 sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, ha istituito e regolamentato l’ istituto dell’affido, quale forma di aiuto al minore e alla famiglia in difficoltà. Da qui, l’affido si è configurato come intervento preventivo e riparatore, la cui funzione è stata ed è garantire al minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, un altro ambiente che gli assicuri con modalità familiare, il mantenimento, l’istruzione, l’educazione. Attualmente, l’affido è disciplinato dalla legge 149 del 2001 (modifiche alla legge 184/83) “Diritto del minore ad una famiglia”. Questa legge, in linea con il mutamento culturale e sociale del tempo, ha rappresentato una tappa fondamentale nel processo di riforma legislativa in materia di affido ed adozione.
Nello specifico, ai sensi dell’art.1, Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. 2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto, viene ribadita la necessità di superare lo stato di indigenza dei genitori – complessivamente considerati come nucleo familiare di origine – che, di fatto, non deve ostacolare la crescita e il sostentamento del minore stesso. A tal proposito, l’architettura istituzionale delle Regioni e degli Enti Locali territoriali, nell’ambito delle proprie competenze amministrative e capacità finanziarie, deve supportare con un’ampia ed articolata gamma di interventi di sostegno i nuclei familiari a rischio, non solo in termini di miglioramento delle condizioni di reddito, assistenza educativa ecc., ma soprattutto in relazione all’aspetto della prevenzione di eventuali future situazioni di ulteriore disagio: è questa una prima novità della legge in oggetto. Vi è una differenza rispetto al precedente complesso di norme attuate ai sensi della legge 184 del 1983, caratterizzate dalla sola analisi di uno stato di disagio di carattere transitorio o permanente del nucleo familiare individuato, per cui appunto palesava la necessità di un intervento: la riforma introdotta nel 2001, si concentra anche sull’impegno delle istituzioni a dover agire in maniera preventiva al fine di scongiurare il pericolo di un futuro abbandono del minore dal nucleo di appartenenza. In tal senso, gli interventi previsti dalla riforma del 2001 si interrelano in maniera più stringente con l’insieme di azioni di sostegno previste dal welfare state e, in ambito territoriale locale, con le misure di sostegno contenute
Le norme dell’affido Attualmente, l’affido è disciplinato dalla legge 149 del 2001 “Diritto del minore ad una famiglia”. Questa legge, ha rappresentato una tappa fondamentale nel processo di riforma legislativa in materia di affido ed adozione.
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nei Piani Sociali di Zona. Deve essere chiaro che l’istituto dell’affidamento familiare nel nostro ordinamento è contemplato come “ultima ratio”, nel caso in cui neanche i previsti interventi di sostegno abbiano sortito gli effetti sperati di ricomposizione e normalizzazione delle condizioni di autosufficienza ed autonomia del nucleo familiare di origine del soggetto: il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia viene ad essere reintegrato, in questa e solo in questa fase, tramite l’affidamento ad un nucleo familiare diverso, senza distinzione di sesso, età, religione e lingua, nell’ambito della più grande cornice dell’osservanza dei diritti umani, cioè nel rispetto dell’identità culturale già precostituita (Nel caso di diritti umani applicati ai bambini e, più in generale, ai soggetti di minore età, si preferisce usare l’espressione diritti dell’infanzia, quale espressione rafforzativa della necessità di una doppia tutela verso, da una parte la persona umana e, dall’altra, un soggetto non autosufficiente dal punto di vista anagrafico ed economico. Lex et Jus. Diritto di famiglia e Diritto Minorile degli Studi Giuridici Superiori, pp12 e ss.). L’affidamento è disposto dal servizio locale, dopo aver accertato le cause obiettive e testimoniate di patologia o di crisi della famiglia di origine; l’art 4 della L.149/01’, disciplina le modalità e le caratteristiche dell’ affido che può essere realizzato con il consenso dei genitori o del genitore esercente la responsabilità genitoriale o del tutore, sentito il minore che ha compiuto 12 anni ed il minore di età inferiore che sia dotato di capacità di discernimento: in questo caso il Giudice tutelare rende esecutivo il provvedimento emesso dal Servizio Sociale, mentre nel caso di mancato assenso dei genitori o degli esercenti la potestà o la funzione di tutore, la competenza tramite decreto di esecutività spetta al Tribunale per i Minorenni territorialmente competente, cui sarà già stata preventivamente trasmessa la notizia di intervento dei Servizi Sociali. Ove non sia possibile l’affido presso un nucleo interfamiliare o etereo familiare, la tutela deve essere ugualmente prestata all’interno di comunità familiari caratterizzate da organizzazione e dai rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia vera e propria: in tale ambito spetta alle Regioni e agli enti locali definire gli standard dei servizi e dell’assi-
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stenza che devono garantire le individuate comunità di tipo familiare, verificando periodicamente il rispetto e l’applicazione degli stessi. In particolare e diversamente dalle norme precedenti, la riforma si è posta un duplice obiettivo: da un lato l’estensione della titolarità dello status di affidatario anche a categorie non tradizionalmente incluse in tali processi, intendendo realizzare una sensibilizzazione di una più vasta parte dell’opinione pubblica per il tema della tutela dell’infanzia e ha di fatto determinato un aumento qualitativo e quantitativo dei soggetti normalmente eleggibili per questo istituto; dall’altro invece, ha voluto evitare in ogni modo la permanenza dei minori in istituti, proponendo un ambiente temporaneo che riproducesse il clima familiare e fosse disposto ad accogliere un minore in difficoltà. Tuttavia, tra i nodi problematici cui la riforma del 2001 non è stata in grado di trovare risoluzione, vi è il contributo economico assegnato alle famiglie affidatarie da parte delle singole amministrazioni locali. A tal proposito, una parte degli affidi intrafamiliari ed etero familiari, non può contare su un contributo mensile, non a caso l’art. 5 della legge 149/01 recita che lo Stato, le Regioni e gli enti locali (..) intervengono con misure di sostegno e di aiuto economico in favore della famiglia affidataria, esprimendo in maniera vaga e poco programmatica le forme e le intensità degli aiuti, che di fatto sono comunque sempre limitati dalle capacità di spesa e dal grado di articolazione, quasi sempre inefficace, del decentramento funzionale delle singole amministrazioni pubbliche locali, determinando disparità regionale (specie tra settentrione e meridione) nel trattamento delle famiglie affidatarie. Sicuramente le famiglie disponibili all’affido sono aumentate, ma è anche vero che a tutt’oggi, esse sono ancora lontane dal costituire una risorsa paragonabile alle comunità, in poche parole non sono ancora candidate pienamente a sostituire la rete di “ricoveri” in strutture specializzate, benché dal 2006 le vecchie strutture di accoglienza del minore disagiato abbiano perso i contorni restrittivi per trasformarsi in rassicuranti case-famiglie. Altri nodi sono caratterizzati dal: – Mancato perfezionamento dello strumento dell’anagrafe dei minori, fondamentale per la conoscenza ed il monitoraggio delle realtà territoriali
Interventi di sostegno Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia viene ad essere reintegrato, tramite l’affidamento ad un nucleo familiare diverso, senza distinzione di sesso, età, religione e lingua, nell’ambito della più grande cornice dell’osservanza dei diritti umani, cioè nel rispetto dell’identità culturale già precostituita.
– Scarso ricorso all’integrazione e al lavoro di rete – Inadeguatezza professionale e formativa del personale coinvolto; – Servizi e strutture non adeguate e non connesse alle realtà minori- famiglia di origine; – Mancata promozione della cultura dell’affido Inefficace collegamento tra le politiche di welfare tra i livelli nazionale, regionale e locale Rispetto alle suddette criticità, va detto che l’affido familiare è uno strumento difficile e complesso e perciò realizzabile solo nell’attuazione di un sistema di aiuto a rete fondato sull’integrazione e la collaborazione tra servizi
diversi e diverse figure professionali e tra pubblico, privato e terzo settore. Inoltre la L. 149/2001, confermando la titolarità dell’intervento al servizio sociale pubblico, sia per le funzioni di selezione, formazione, abbinamento minore – famiglia, sia riguardo l’elaborazione del progetto educativo individualizzato, ha inteso consolidare le competenze del servizio sociale, ma di fatto non ha corrisposto risorse economiche, professionali e strutturali adeguate a supportare tali compiti, generando sottodimensionamento organizzativo, difficoltà tecniche, carenza di personale qualificato, mancato rispetto delle norme lavorative e determinando una scarsa attenzione verso i diritti dei bambini in difficoltà e delle loro famiglie disagiate. A ciò va aggiunto che la mancata promozione della cultura dell’affido, intesa come diffusione del concetto di famiglia invece di comunità, non solo contravviene alle disposizioni di legge ma comporta dei costi tutt’altro che bassi per l’ente locale (basti pensare che un minore costa circa 80 euro al giorno in una struttura, mentre ad una famiglia affidataria viene corrisposto un contributo mensile di circa 500 euro). Perché il ricorso alle strutture residenziali è attuato in via prioritaria rispetto ad altri interventi di sostegno e ad altre modalità di affido, negando il carattere residuale e di estrema ratio di tale misura? Più che potenziare il ricorso alle strutture è importante rafforzare il complesso delle politiche sociali ed economiche di sostegno all’infanzia, all’adolescenza, dunque alla famiglia: ciò significa progettare politiche integrate, del lavoro, della sanità, dell’istruzione, della formazione professionale, della previdenza e delle pari opportunità, politiche che devono fornire alle famiglie strumenti, beni e servizi per non essere risucchiati da un sistema che nella pratica e nell’attuazione degli interventi è assai problematico oltre che contraddittorio. In conclusione, potenziare i servizi di assistenza domiciliare, sostegno alla genitorialità, centri per le famiglie, S.A.T., strutture diurne, servizi educativi territoriali, insomma i servizi sociali locali e rafforzare l’integrazione con altri servizi nel quadro più generale delle politiche sociali, vuol dire tutelare il diritto minore alla famiglia, ad un’infanzia serena, ad uno sviluppo armonico, ricordando che sostenere il minore oggi, equivale a sostenere il cittadino di domani.
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SPECIALE: AFFIDAMENTO, ADOZIONE E FECONDAZIONE ASSISTITA
di Giuseppina Biscotti
Comunicare l’adozione: procedure ed esperienze a confronto Genitori si nasce o si diventa? Una ricerca-studio a Salerno
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uando si parla di rapporto di filiazione o di genitorialità, inevitabilmente si parla di comunicazione: riuscire a comunicare ad una coppia che non sarà mai nella condizione di poter concepire biologicamente un bambino; comunicare al proprio partner di desiderare di adottare un bambino, anche se in famiglia ve ne sono già; trovare le parole giuste per comunicare al proprio figlio che è stato adottato, raccontandogli una storia che comincia dalla sua nascita ed arriva gradualmente al momento del suo arrivo nella nuova famiglia. Quando poi si tratta di un bambino che proviene da un paese straniero, allora tutto diviene più complesso e articolato, a causa del differente panorama sociale, emotivo, culturale, etnico e relazionale. L’adozione internazionale è uno strumento giuridico che permette l’incontro tra un bisogno ed un desiderio: quello di un bambino in stato di abbandono, che non può trovare, nel suo paese, una famiglia che lo accolga e si prenda cura di lui e che, senza il ricorso all’adozione dall’estero, sarebbe destinato a crescere in istituto o sulla strada; e quello di una coppia di coniugi che aspirano a diventare genitori e che sono disposti ad accogliere un figlio di etnia e nazionalità diverse. All’interno di un rapporto di filiazione adottiva internazionale si inserisce quindi un elemento in più, quello etnico, dato che il bambino che entra a far parte del nuovo nucleo familiare proviene da un paese straniero ed è portatore di un’etnia e una cultura differenti. Genitori si nasce o si diventa? Tra genitore biologico e genitore adottivo c’è differenza? Queste sono due delle tante domande che le coppie aspiranti adottive pongono spesso alle
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figure professionali che si occupano della loro valutazione sociale e psicologica. Questi ed altri sono gli interrogativi che caratterizzano la motivazione adozionale e che necessitano di un percorso di formazione e informazione, finalizzato all’acquisizione di una maggiore consapevolezza nella scelta della genitorialità adottiva. Oggi, non esiste il certificato o la patente del genitore perfetto, che si ottiene nel momento in cui giunge in famiglia un bambino, sia esso naturale o adottato. Essere genitori è un percorso caratterizzato da un insieme di elementi da imparare e da sapere, che servono a conoscere meglio se stessi e i propri figli. I genitori sono quelli che allevano i figli, aiutandoli a diventare buoni adulti. Questo è il tipo di genitore che ognuno, se vuole, può diventare, perché non si è genitori soltanto dei figli, ma si può esserlo per ogni essere umano che si incontra sulla propria strada. Per comprendere più a fondo le problematiche che le famiglie incontrano durante quel delicato momento di transizione alla genitorialità adottiva nei confronti di un bambino straniero, è stato condotto, nell’anno 2014, un lavoro di ricerca/studio sugli strumenti operativi introdotti dalla normativa vigente in materia di adozioni internazionali nella Provincia di Salerno, quali le linee guida regionali del 2002, le linee guida recepite dal Tribunale per i Minorenni del 2003 e il protocollo operativo istituito nello stesso anno, e sulla loro concreta ricaduta sui principali soggetti coinvolti in tale percorso, ossia quelli istituzionali, come il Tribunale per i Minorenni, i Servizi Sociali Territoriali/Equipe SAAT, gli Enti Autorizzati, e quelli principali, ovvero le famiglie adottive e i bambini adottati. Sono state prese in considerazione tutte
le procedure adottive concluse nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2013 nella Provincia di Salerno, per un totale di 65 bambini, di cui 32 maschi e 33 femmine, provenienti dal Brasile, Russia, Ucraina, Bulgaria, Bielorussia, Congo Mali, Vietnam, Cina, Etiopia, Senegal. Attraverso la somministrazione di 84 questionari e 13 interviste semi-strutturate, è stato possibile raccogliere dati quantitativi e informazioni qualitative sulla concreta applicazione degli strumenti operativi da parte dei soggetti istituzionali, quali i Servizi Sociali Territoriali/Equipe SAAT e il Tribunale per i Minorenni, gli Enti Autorizzati un po’ meno nel periodo del post-adozione, i quali, in materia di adozioni internazionali, svolgono la propria attività con competenza e professionalità; relativamente alle famiglie, la differenza è emersa sostanziale tra il periodo pre e post adozione, significando come durante il periodo che precede l’adozione, le famiglie percepiscono una buona qualità delle informazioni e della preparazione da parte dei soggetti pubblici, un buon livello di collaborazione tra pubblico e privato, un buon accompagnamento da parte degli Enti Autorizzati durante la fase dell’abbinamento, supporto che va a diminuire nella fase del post-adozione, ovvero
quella più delicata, dalla quale dipende il buon esito di tutto il percorso adottivo, la fase in cui si rilevano i bisogni prevalenti della nuova famiglia, quella fase delicata in cui si costruisce la relazione di attaccamento tra genitori e figli. Ecco perché comunicare l’adozione, perché tutti i soggetti istituzionali, pubblici e privati, coinvolti nelle procedure adottive, dovrebbero saper comunicare tra loro in ogni momento del percorso, ovvero quando la coppia viene informata, formata e valutata, riceve l’idoneità dal Tribunale per i Minorenni, conferisce mandato all’Ente Autorizzato, è in attesa di abbinamento, parte per l’estero ma per un abbinamento fallito torna a casa a “mani vuote”, quando attende un altro abbinamento, quando parte per andare il proprio bambino e torna a casa con tre fratellini, quando deve iscrivere il proprio figlio a scuola o scegliere il pediatra di base. Questi sono tutti momenti molto delicati del percorso adottivo e se i soggetti istituzionali cointeressati non utilizzano un unico canale di comunicazione, una procedura operativa univoca, che faccia sentire le famiglie giustamente accompagnate nel loro percorso, questo potrebbe compromettere, anche gravemente, la buona riuscita di un’adozione internazionale.
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SPECIALE: AFFIDAMENTO, ADOZIONE E FECONDAZIONE ASSISTITA
L’Adozione Mite: spunti di riflessione Lo stato non può abbandonare i suoi figli di Maria Rusolo
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l nostro ordinamento disciplina solo due tipi di adozione: la prima nazionale o internazionale, detta anche legittimante di cui agli artt. 6 e ss. della legge n.183 del 1984 così come modificata dagli artt. 6 e ss. della legge n. 149 del 2001, disposta in presenza di uno stato di abbandono materiale e morale del minorenne e la seconda comunemente definita “adozione in casi particolari” di cui all’art. 44 della legge n. 183 del 1984. Il ricorso a quest’ultima può essere disposto solo in casi tassativamente previsti dalla legge e solitamente, tranne casi eccezionali, l’adottato antepone al proprio cognome quello dell’adottante, dato questo non di scarsa importanza e che rileva con evidenza
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una relazione a tre completamente diversa. Presupposto fondamentale di questo tipo di adozione è che i genitori dell’adottando diano il consenso se nella condizione di farlo. I legami con la famiglia di origine in questi casi permangono e gli adottandi non acquistano alcun diritto sugli eventuali beni del minore adottato. Il minore, invece a tutti gli effetti è equiparato ad un figlio legittimo e concorre, pertanto alla divisione ereditaria dei beni degli adottanti. È bene specificare, inoltre che questo tipo di adozione può essere “revocata”. In questa logica si pone quella che viene comunemente definita “adozione mite”, che si pone come una sorta di zona grigia tra l’adozione in senso proprio ed affidamento
Presupposto dell’adozione mite Il minore è equiparato ad un figlio legittimo e concorre, pertanto alla divisione ereditaria dei beni degli adottanti. È bene specificare, inoltre che questo tipo di adozione può essere “revocata”.
familiare e, che viene prospettata e sperimentata dal Tribunale per i Minorenni di Bari, presieduto dal dott. Francesco Paolo Occhiogrosso, non disciplinata espressamente dalla legge, anche se riconducibile in qualche misura nell’alveo dell’art. 44 della legge n. 183 del 1984. Appare evidente la necessità di un ordinamento capace di fornire risposte mirate ed adeguate. Spesso l’ambiente familiare d’origine del minore, pur non essendo in grado di accogliere e soddisfare gran parte dei bisogni essenziali del minore, è tuttavia capace di fornire ad esso un qualche apporto positivo. La condizione presente in questi casi e la impossibilità di un miglioramento nel tempo della situazione esistente, rendono auspicabile il ricorso all’adozione mite, come risposta adeguata posta in essere dal sistema. Questo tipo di risposta è ben lungi dall’essere pacificamente accettata ed in tal senso è opportuna la lettura della recente sentenza della Corte della C.E.D.U del 21 gennaio 2014 nel Caso ZHOU c. ITALIA. In questa occasione, la C.E.D.U ha condannato per violazione dell’art. 8 della Convenzione il nostro Paese, per lesione del diritto al rispetto della propria vita familiare, anche laddove ci si trovasse in presenza di difficoltà oggettive. Lo Stato deve sostenere, aiutare, disporre strumenti che consentano al minore di preservare il rapporto con la propria famiglia d’origine in tutti i modi possibili. L’adozione definitiva è l’extrema ratio a cui ricorrere, ove non è stato possibile intervenire e risolvere diversamente la grave crisi familiare, ma sempre nel solo interesse del figlio minore. La C.E.D.U ha riaffermato il principio secondo cui il requisito della “necessità in una società democratica”, previsto dal secondo paragrafo dell’art. 8 della Convenzione, per giustificare un’ingerenza, fa necessariamente riferimento a dei “bisogni sociali imperiosi” commisurati allo scopo legittimo da esso perseguito. Ha, altresì, ribadito la C.E.D.U che qualora non vi siano maltrattamenti, ma anzi vi sia ancora un rapporto affettivo stabile tra genitori e figli, lo Stato ha il dovere di permettere che questo legame venga mantenuto. In quest’ottica, l’adozione mite, pur richiesta dalla madre, non era stata minimamente
presa in considerazione dai giudici, i quali spesso divengono arbitri assoluti, ma sono anche messi nella difficoltà di interpretare un sistema normativo assai lacunoso, ma soprattutto inidoneo ad offrire delle risposte valide ed eque. L’adozione mite non è esente da critiche, da dubbi e da riserve, ma può essere anche un punto di partenza che consenta di portare al centro dell’attenzione il minore con le sue difficoltà, anche di adattamento ad una nuova situazione. A differenza di quanto accade nel caso di adozione legittimante, l’adozione mite, pur dando luogo ad uno stabile e duraturo rapporto con l’adottante, prevede (tra l’altro) che sia mantenuta – nei tempi e nei modi stabiliti dal Tribunale – una continuità di rapporto anche con la famiglia di origine. Questa “doppia appartenenza” appare interessante sia dal punto di vista psicologico che nell’ottica delle relazioni tra i soggetti coinvolti. Nella recente prassi del Tribunale di Bari, “qualora l’affidamento familiare superi la scadenza prevista ed anzi si protragga per vari anni oltre tale termine, gli affidatari del minore vengono invitati a presentare – sempre nel caso in cui il rientro nella famiglia di origine non risulti praticabile – una domanda di adozione mite come dimostrazione della loro disponibilità a modificare la qualità del rapporto già da tempo esistente con il minore”. Con il provvedimento di adozione (mite) la famiglia affidataria diventa adottante “in un modo speciale” e quella di origine resta tale ma in una modalità anch’essa necessariamente diversa. Dunque, il minore passa da un gruppo familiare ad un altro, passa dall’appartenenza definita “affido” a quella definita “adozione”. Anna Oliviero Ferraris in una serie di studi ha sottolineato la necessità dei bambini di avere punti di riferimento fisici e psicologici, sempre possibilmente chiari ed individuabili. È, infatti, questo tipo di condizione che determina una costruzione dell’autostima, della sicurezza e dell’identità, almeno durante una prima fase della vita. Sotto questo profilo, il provvedimento relativo all’adozione mite ben potrebbe rappresentare una vera e propria panacea per i cosiddetti “bambini nel limbo”, potrebbe
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offrire ai bambini una vita relazionale stabile ed appagante. Nei procedimenti giuridici che toccano persone e relazioni dovrebbero evitarsi i tempi lunghi, dilatati, bisognerebbe, invece soffermarsi sull’intreccio tra tempo ed elemento psicologico/relazionale e tempo giuridico. Da tempo ormai siamo consapevoli, noi operatori del diritto che la semplice definizione giuridica è si, un elemento importante, ma che, in ogni caso, non è sufficiente ad eliminare la confusione che si determina in molte circostanze. Relativamente all’adozione mite vanno sicuramente definiti ed inquadrati i legami, i ruoli, le aspettative e le funzioni nell’ambito di due storie familiari diverse, ma complementari. L’affido e l’adozione muovono dalla scelta consapevole, socialmente ed umanamente importante di prendersi cura di un figlio non proprio. Cosi come la nascita di un figlio naturale, la decisione di accogliere un figlio non proprio comporta la creazione da parte della coppia e della famiglia allargata tutta di uno spazio “fisico e mentale”, uno spazio che sia in grado di inglobare ed accogliere. Eccola la parola magica “accoglienza”. Molti autori hanno spiegato in maniera efficace come spessissimo proprio nella fase pre-adottiva i genitori che accolgono vorrebbero un figlio privo di storia, un “figlio” che non abbia alle spalle accadimenti a volte, o forse dovrei dire quasi sempre, dolorosi e difficili con i quali doversi confrontare; l’adozione viene vissuta come un’esperienza più simile alla genitorialità naturale e relativamente alla quale il legame con il bambino sembra potersi stabilire con maggiore facilità. Nel tipo di adozione mite, invece, sin da subito questo comprensibile desiderio è di per se irrealizzabile: i genitori dovranno convivere con il passato e dovranno costruire un futuro di inclusione e non di “rottura”. Dovranno partire dalla storia del bambino, prenderne atto, comprenderla, accettarla e viverla. Nel caso dell’adozione mite, dunque, il prendersi cura di un bambino nato da altri non è che una parte del progetto: in tale decisione vi è la piena consapevolezza e l’enorme responsabilità di favorire e consentire la presenza della famiglia d’origine del bambino
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e di tutto quanto a questa sia legato. Gli studi si sono quasi sempre concentrati sulla famiglia che adotta e sul suo ruolo, e sulla posizione del minore che vi fa ingresso, poca attenzione è stata riservata alla famiglia naturale che perde un legame, che perde in qualche modo la propria identità, la propria struttura e che deve fare i conti con sensi di colpa e fallimento. Nasce nell’adozione mite una nuova e diversa identità familiare. Si esplica in questo istituto quel principio di mitezza giuridica che richiede una necessaria comunicazione tra tutti gli interlocutori, privilegiando l’ascolto e la tutela della famiglia e della realizzazione della personalità del minore. Il bambino si colloca tra due storie. Nel suo svolgersi ideale, questo processo di collaborazione e consenso dovrebbe portare ad una integrazione in cui le diversità sono in un certo senso valorizzate e in cui vuoti e mancanze trovano la strada per un senso altro. In tale relazione il minore è parte attiva e principale. Gli adulti di riferimento hanno il doveroso compito (con responsabilità diverse) di tutelare la consapevolezza di cui il minore è portatore sia dal rischio di una eccessiva responsabilizzazione riguardo alle decisioni da prendere (specie in casi spesso caratterizzati da una “adultizzazione” precoce) che da ostilità e indifferenze più o meno manifeste tra i soggetti coinvolti. Tutto questo ha una sua logica ed è pienamente realizzabile solo se esiste una rete esterna perfettamente funzionante, fatta da soggetti competenti tecnicamente ed emotivamente. Ed è opportuno precisare che il buon funzionamento della rete “esterna” (servizi, sistema giudiziario) diventa nel caso dell’adozione mite un’assoluta necessità. I servizi dovrebbero essere adeguatamente organizzati, ed i soggetti competenti e, coinvolti emotivamente. La valutazione del singolo caso consente una tutela massima per i minori, ma tutto questo sarà possibile solo attraverso un intervento attento e puntuale ad opera del legislatore che ripensi integralmente l’intero sistema, in maniera complessiva e strutturale. Uno Stato che si rispetti non può non prendersi cura dei propri figli!
di Helga Sanità
* Ph.D. M-DEA/01 – Antropologia del Patrimonio – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
Qui dove madri si nasce O si diventa… per fede In cammino verso la genitorialità e per il superamento di un’idea tradizionale della famiglia
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erché una famiglia sia una famiglia secondo i crismi dettati dalla religione e dalle teorie della parentela, bisogna che essa si costituisca attorno a quello che gli antropologi hanno definito l’atomo di parentela costituito dai genitori (biologici o sociali) e da almeno un figlio. Questa unità minima della struttura sociale sembra attraversare una delle crisi più profonde dall’origine della storia dell’umanità. Già nei primi anni novanta l’Italia aveva raggiunto un tasso di natalità di circa 1,3 figli per famiglia, a quel tempo i più bassi del mondo. Ma negli ultimi anni i dati diventano sempre più sconfortanti tanto che una recente indagine del CENSIS (1 ottobre 2014) ha dimostrato che solo nel 2013 in Italia si è registrata una riduzione delle nascite del 3,7% rispetto all’anno precedente, con un calo del tasso di natalità da 9 a 8,5 nati per mille abitanti e che dall’inizio della crisi economica a oggi sono più di 62.000 i nati in meno all’anno, passando dai 576.659 bambini del 2008 ai 514.308 del 2013, il numero più basso nella storia d’Italia (le serie storiche ufficiali partono dal 1862), nonostante l’aumento della popolazione, i progressi della medicina e il contributo degli immigrati residenti. Ma l’Italia è veramente una nazione destinata a morire di vecchiaia? Le donne hanno veramente smesso di desiderare la maternità? Se consideriamo questi dati a
partire da quello che succede a Napoli nel piccolo santuario della fertilità dedicato a Santa Maria Francesca delle cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo, osserviamo una netta controtendenza. Santa Maria Francesca è meglio nota come La Santa della Famiglia e della Vita. Nella sua casasantuario annessa alla chiesetta di Vico tre re a Toledo, nei Quartieri Spagnoli, arrivano ogni giorno da tutto il circondario urbano ed extraurbano, ma anche da altre regioni d’Italia e da paesi esteri, numerosissime donne con problemi di fertilità, più o meno giovani, di provenienza sociale e livelli di alfabetizzazione eterogenei per sottoporsi ad un particolare rituale, nella speranza di diventare madri. Dopo avere assistito alla celebrazione eucaristica in chiesa, le donne salgono al secondo piano dell’edificio e si dispongono in fila aspettando il proprio turno per potersi sedere sulla sedia miracolosa che appartenne alla santa e ricevere la benedizione. Questa viene impartita con uno speciale reliquiario che contiene una ciocca di capelli e una particella dello sterno della Santa da una delle sette suore che abitano il terzo e il quarto piano del santuario, denominatesi Figlie di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe. La formula liturgica, più o meno fissa, recitata da dalla suora officiante di turno invoca nell’atto della benedizione la Madonna e Sant’Anna, affermando così che la funzione di Santa Maria Francesca sia quella di una potenza
Il santuario della fertilità Santa Maria Francesca è meglio nota come La Santa della Famiglia e della Vita. Nella sua casa-santuario annessa alla chiesetta di Vico tre re a Toledo, nei Quartieri spagnoli, arrivano ogni giorno da tutto il circondario urbano ed extraurbano, ma anche da altre regioni d’Italia e da paesi esteri, numerosissime donne con problemi di fertilità
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vicaria e mediatrice presso altre potenze divine. Le devote attribuiscono soprattutto alla sedia una funzione magico-terapeutica. La sedia è considerata la reliquia più efficace della santa, ma ci sono nella casa-santuario molti altri oggetti ai quali si potrebbe riconoscere lo statuto di reliquie: le bende e i guanti con cui la santa copriva le sue stimmate, le cordicelle, i cilici, le catene con le quali si fustigava, i materassi dove patì le frequenti malattie negli ultimi anni della sua vita, le stoffe ricamate con le sue mani. E poi ci sono i segni tangibili della sua potentia: le innumerevoli coccarde rosa e azzurre – recanti i nomi di bambini nati per sua intercessione e battezzati con il suo nome – che coprono fino all’horror vacui le pareti di una delle stanze della casa. Le coccarde sono portate dai genitori miracolati in forma di ex voto. Segni ancora più concreti del suo potere sono gli ex voto viventi che arrivano a renderle grazie, e cioè i bambini nati per sua intercessione che vengono portati al santuario ogni 5 ottobre per ricevere la benedizione. Ho ascoltato per ore le storie delle donne che ricorrono a Santa Maria Francesca, a tutte loro ho chiesto di spiegarmi perché ritengono così importante essere madri ad ogni costo. Molte di loro hanno già passato una o più d’una delle tappe previste dal protocollo biomedico della Procreazione medicalmente assistita. Quasi tutte, indipendentemente dalla provenienza sociale e dal livello di alfabetizzazione, me lo hanno spiegato tirando in causa un presunto “istinto materno naturale e universale” comune a tutte le donne. Nella maggioranza dei casi la maternità non è spiegata tanto come scelta personale, ma piuttosto come convinta adesione ad un determinismo di tipo biologico. Una delle motivazioni più ricorrenti è l’istinto. Il mito dell’istinto materno che Simone de Beauvoir aveva decostruito già nel 1949 nel saggio Le deuxième sexe (Il secondo sesso), torna prepotentemente sulla scena. Anche quando si parla di “desiderio” di maternità questo viene definito “innato”, cioè congenito e dunque non maturato attraverso l’esperienza di vita. Molte mi hanno raccontato di essersi sentite “donne incomplete” senza un figlio, e molte hanno affermato con to-
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tale convinzione di essersi sentite madri fin da bambine. Una di loro, in quanto sterile, si definisce «orfana di figlio». Dunque “mamme si nasce” e non si diventa. Le storie di queste donne sono storie di corpi che incarnano inconsciamente modelli culturali ancestrali perché scegliere di non assecondare il modello di donna madre significherebbe, in questo orizzonte di senso, essere devianti (devianti da un modello che viene percepito come il più ovvio e naturale possibile), significherebbe andare contro-natura e di conseguenza non riconoscersi nella propria identità di ruolo e perdere il consenso sociale. I loro discorsi sono diametralmente opposti a quelli delle filosofe femministe, alle teorie di Simone de Beauvoir, Nancy Chodorow, Julia Kristeva, Elisabeth Badinter. Qui l’istinto materno è un fondamento etico ed esistenziale inamovibile. La donna è matrix, a lei viene riconosciuto il potere di dare la Vita, qualcosa di sacro in pericolo di scomparire. In questa società, ancora incentrata su quel modello che Anne Parsons definì “matriarcale” e Thomas Belmonte descrisse più acutamente come “matricentrato”, le donne non sentono il bisogno di mettere in scena rivolte contro il patriarcato, la maternità funziona come “dispositivo di inquadramento della femminilità” nel contesto della famiglia che è considerata un capitale sociale primario. Perciò qui – ma non solo qui – se la Natura non compie il suo corso ‘naturalmente’ rendendo feconde le donne, non bisogna assecondarla, ma è lecito dichiararle guerra per riappropriarsi dell’identità “naturale” di madre, ricorrendo prima alla fecondazione artificiale – quindi alla tecnica come artificio per ricostruire la natura – e poi alla fede, rimettendo comunque, in ultima istanza, la Natura nelle mani di Dio. Se allora il desiderio di maternità sopravvive, ancorandosi in egual misura alla scienza e alla fede, nonostante la crisi economica e l’insufficienza delle politiche pubbliche a sostegno della famiglia, c’è ancora una speranza di scongiurare lo spettro della denatalità e dell’invecchiamento precoce del Paese. L’altra chance sarebbe nel superamento degli angusti confini di un’idea troppo tradizionale di famiglia.
di Nicoletta Costanzo
Biotecnologie: desiderio o diritto di avere un figlio I dubbi sulla fecondazione assistita ed eterologa
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razie ai progressi della scienza e delle nuove tecnologie di riproduzione le coppie che, per ragioni di sterilità o infertilità, non riescono a concepire un figlio possono diventare genitori realizzando così una delle più profonde aspirazioni inerenti la sfera intima e personale di ogni essere umano. L’idea di armonia domestica centrata nella famiglia tradizionale viene messa in discussione dall’eterogeneità delle relazioni genetiche che la procreazione medicalmente assistita rende possibile. L’incidenza delle biotecnologie sui casi concreti della vita umana genera nuove posizioni giuridiche soggettive, facendo sorgere nuovi pretesi diritti, come quel tanto aspirato “diritto alla felicità”, che si sostanzia ad esempio nel cosiddetto “diritto ad avere un figlio”. Le questioni etiche e giuridiche, connesse al progresso biotecnologico, avranno un impatto sempre più notevole sulla nostra società ed un incremento di casistica. Nel nostro Paese, la legge 40/2004, all’articolo 4, comma 3, vietava tassativamente il ricorso alla tecnica di fecondazione eterologa. Nonostante la norma abbia
formato oggetto di uno dei quattro quesiti referendari che la Corte Costituzionale aveva ritenuto ammissibile, il mancato raggiungimento del quorum nella consultazione referendaria del 12 e 13 giugno 2005 lasciò immutata la formulazione legislativa. In quel preciso momento storico, attraverso il potere persuasivo dei media, come afferma il Prof. Samuele Ciambriello, «si decide su pressione della lobby cattolica (trasversale agli schieramenti parlamentari) che non è il caso che gli italiani partecipano al referendum. Li si convince che la fecondazione assistita non è “affar loro”, che riguarda al più una minoranza esigua» (cfr. “Dentro la Comunicazio” - Guida 2012). Secondo i dati forniti nel 2010 dall’Osservatorio sul Turismo Procreativo, creato da CECOS (associazione di centri per la PMA), sono mediamente 2.700 le coppie italiane che ogni anno si recano all’estero per tentare di avere un figlio mediante il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo. Per poter quantificare il fenomeno, l’analisi dell’Osservatorio ha preso in considerazione le mete più gettonate del turismo procreativo,
I dati Secondo i dati forniti nel 2010 dall’Osservatorio sul Turismo Procreativo, creato da CECOS, sono mediamente 2.700 le coppie italiane che ogni anno si recano all’estero per tentare di avere un figlio mediante il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo.
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Le ragioni di Giuseppe Tesauro «La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali».
monitorando 36 centri esteri di PMA. Da una recente indagine, condotta nel 2012 dall’Osservatorio, emerge che sono circa 4000 le coppie italiane che nel 2011 hanno varcato i confini nazionali per cercare di dare una risposta al loro desiderio di avere un figlio. Nell’arco di questo decennio, in ragione del divieto assoluto del ricorso alla PMA di tipo eterologo, si è così legittimato
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il turismo procreativo mettendo a repentaglio la stessa integrità psico-fisica della coppia, esposta sia al disagio psicologico ed emotivo di allontanarsi dal proprio luogo degli affetti, sia al rischio di essere contagiati da malattie trasmesse dal donatore/donatrice per carenze di controlli ed informazioni. Analizzando anche le conseguenze di ordine economico del divieto
di fecondazione eterologa vigente finora nel nostro ordinamento, si ritiene che abbia, inoltre, generato una sorta di doppia discriminazione: tra coloro che possono o meno permettersi di sopportare i costi economici necessari per accedere ai trattamenti di PMA eterologa all’estero, e nell’ambito di quest’ultima categoria di soggetti, tra coloro che dispongono di risorse economiche tali da consentire una scelta tra i centri di eccellenza cui rivolgersi e coloro che, al contrario, finiscono con l’essere costretti a rivolgersi a centri in cui non sempre vengono attuati seri controlli, con rischi ulteriori per la salute della donna e del nascituro. L’incremento di questo fenomeno è anche la conseguenza della posizione di forte isolamento del nostro ordinamento ri-
Dopo un lungo iter giurisprudenziale il Giudice delle leggi con la pronuncia del 2014 n.162 ha dichiarato l’illegittimità Costituzionale del divieto di fecondazione eterologa spetto al contesto europeo in materia. Dalla sua entrata in vigore ad oggi, la legge 40/2004 ha vissuto il susseguirsi di diversi ricorsi da parte dei tribunali ordinari, i quali prendendo spunto anche dalle argomentazioni addotte dai giudici di Strasburgo nella sentenza del 1 aprile 2010 prima, e nella sentenza del 3 novembre 2011 poi caso Austria, hanno sollevato la questione di legittimità Costituzionale del divieto assoluto di fecondazione eterologa. Dopo un lungo iter giurisprudenziale, sostanziatosi in un dialogo giuridico puramente processuale e non di merito tra Corti ordinarie e Consulta, il Giudice delle leggi con la pronuncia del 2014 n.162 ha dichiarato l’illegittimità Costituzionale del divieto di fecondazione eterologa ai sensi dell’articolo 4, comma 3, della legge 40. Il Prof. Giuseppe Tesauro scrive nelle mo-
tivazioni della sentenza: «La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali». Tale sentenza apre un aspro dibattito in merito al vuoto normativo che si sarebbe venuto a creare come conseguenza della caduta del divieto e porta alla luce questioni etiche e giuridiche rilevanti, le quali necessitano di ricevere tutela, come ad esempio: la questione delle origini biologiche del nascituro che si contrappone con il diritto all’anonimato del donatore/donatrice, il disconoscimento di paternità/maternità come anche il diritto all’impugnazione, ancora il numero delle donazioni per ogni singolo donatore ed il commercio dei gameti... Con la dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa si riconosce il “diritto a diventare genitori”, un diritto che prevede il rifiuto di ogni impedimento al suo esercizio, ma che non assurge ad essere assoluto in quanto esso va contemperato con la tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, attraverso un ragionevole bilanciamento tra gli stessi, nella ricerca di una tutela di tutte le parti coinvolte senza tralasciare la tutela dei più deboli. I principali problemi di ordine etico connessi alla PMA eterologa sono riconducibili a specifiche aree critiche con evidenti ripercussioni sulla famiglia, nonché sull’identità biologica, psicologica e giuridica del nascituro. Sarà compito del legislatore regolamentare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale tutti gli aspetti critici e le implicazioni biogiuridiche in materia di fecondazione eterologa, prevenendo e prevedendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza e discriminazione tra cittadini. Il riconoscimento della libertà ed autonomia delle persone nel campo della procreazione e della famiglia è l’esito di un processo storico in cui viene progressivamente affermandosi il principio di laicità dello Stato, uno Stato che non ha una sua visione etica da proporre a tutti i cittadini, ma è invece rispettoso delle scelte individuali ed offre a tutti pari opportunità di espressione.
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APPROFONDIMENTI
Scambio & Gerachia sono una coppia superiore a Stato & Mercato
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di Massimo Lo Cicero
* Docente di Economia della Comunicazione nella Facoltà di Economia dell’Università di Roma, Tor Vergata ed Economia Aziendale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma.
L’entropia italiana è il freno che blocca il sistema
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economia del mondo contemporaneo è molto cambiata negli ultimi venticinque anni: nell’ultima decade del ventesimo secolo, e nei primi quindici anni del secolo in cui viviamo, sono accaduti tre fenomeni globali che hanno letteralmente ribaltato il modo di fare impresa e gli strumenti per governare le imprese. Negli ultimi dieci anni del novecento la rivoluzione digitale ha allargato gli strumenti della comunicazione ed ha progressivamente destrutturato la relazione tradizionale tra spazio e tempo. Le imprese erano strutture gerarchiche verticali, piramidi dalle basi larghe e distanze notevoli tra la base ed il vertice: grazie ad una scala di operai, impiegati, quadri, funzionari, dirigenti intermedi ed alti dirigenti. Erano chiude in se stesse: impermeabili alle innovazioni che il sistema economico proponeva, chiuse nei perimetri del proprio confine. Le risorse umane migliori rendevano spesso incontinenti le imprese stesse, perché la rigidità dello stile aziendale, e la pesantezza della stratificazione che conduceva ai top manager, cristallizzavano e paralizzavano la possibilità del cambiamento interno e degli stili di comportamento aziendale. Le imprese, dopo la rivoluzione digitale, hanno accorciato molto la distanza
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APPROFONDIMENTI
tra la piattaforma di base ed il top management. Sono diventati obsoleti molti strumenti di trasferimento intermedio tra il vertice e la base delle organizzazioni, pubbliche o private. I privati lo hanno fatto meglio e prima. Sono venute meno le mura che cingevano il perimetro aziendale. Oggi, la comunicazione attraversa i confini tra impresa e mercati, tra impresa ed altre istituzioni. Al fianco del capo azienda ci sono l’uomo della finanza strategica ed il responsabile delle relazioni istituzionali. Non si parla più di Stato & Mercato, un antagonismo ideologico nel quale non si riesce a capire come si possa realizzare una relazione affidabile tra l’impresa ed i due termini antagonisti del dilemma. L’impresa contemporanea condivide oggi con entrambi,
Se l’Europa è ferma l’Italia lo è ancora di più. Gravida di giovani disoccupati, periferie degradate, sfarinamento della pubblica amministrazione, moltiplicazione ridondante di Regioni, Comuni ed enti pubblici. l’ambiente economico e le organizzazioni diverse dalle imprese, il contenuto e la prospettiva da raggiungere dei propri piani strategici. Gerarchia & Scambio sono i perni di un sistema, che consente alle organizzazioni di condividere e realizzare i progetti che sviluppa al proprio interno (la dimensione della gerarchia), ed offre a chi intende proporre lo scambio reciproco di merci, servizi, esperienze e compiti operativi. La rivoluzione digitale ha creato un sistema di connessioni che agiscono tra persona e persona, tra le persone come reti di collegamento e condivisione del valore da produrre, tra gerarchie e tra gerarchia e persone. La seconda trasformazione radicale è la scoperta della finanza derivata e la rivisitazione della finanza: Paul Samuelson, un grande economista degli anni cinquanta, affermava alla fine del secolo
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scorso che la finanza non è più una branca dell’economia, ma che ha una sua costituzione propria ed un’identità affermata. Oggi, sappiamo distinguere il rischio, che noi generiamo perché agiamo senza conoscere pienamente le conseguenze delle nostre azioni, dall’incertezza. Che è l’insieme di informazione mancata e di opportunismo, da parte di chi sfrutta l’azione e l’informazione nascosta agli altri, che ci impedisce di conoscere pienamente le conseguenze della nostra azione. La finanza dei derivati è un potente strumento per convivere con l’incertezza: l’opportunismo di banche ed entità finanziarie che utilizzano i derivati per il proprio interesse, e non per far funzionare meglio il sistema, è uno dei mali da aggredire e reprimere. Sappiamo che la moneta è la chiave di volta tra i mercati dei beni e dei
Una terza rivoluzione? La regolamentazione delle banche, della competizione, dell’energia o delle telecomunicazioni, deve essere approfondita ed affinata. Perché spesso i regolamentatori si fanno catturare da coloro che dovrebbero regolare: in particolare quando le imprese diventano troppo grandi e potenti e le banche troppo grandi per fallire.
servizi e quelli delle attività finanziarie, di ogni genere e tipo. La regolamentazione delle banche, della competizione, dell’energia o delle telecomunicazioni, deve essere approfondita ed affinata. Perché spesso i regolamentatori si fanno catturare da coloro che dovrebbero regolare: in particolare quando le imprese diventano troppo grandi e potenti e le banche troppo grandi per fallire. In questo nuovo contesto si apre una terza rivoluzione. Crescono le nazioni che sono emergenti e che hanno abbandonato, ma non del tutto, un approccio gerarchico pesante e non hanno ancora trovato le strade di una democrazia adeguata: la Cina e l’India, la Russia ed il Brasile. Le economie avanzate, cioè gli Stati Uniti e l’Europa marciano, invece, lungo una scia diseguale. La seconda non riesce a riscattarsi dalla crisi del 2008/2009 e si mantiene su un profilo stagnante e recessivo, l’inflazione è scomparsa e si profila lo spettro minaccioso della deflazione. La prima, gli Stati Uniti, ha ripreso la strada della crescita e le banche americane sembrano oggi più robuste di quelle europee. Anche perché alle banche si affiancano i mercati finanziari e non tutto il peso dell’intermediazione, tra risparmio ed investimento, si deve caricare sulle spalle delle banche, come accadde nel vecchio continente. L’Europa presenta due problemi scabrosi: deve riordinare le modalità della moneta unica ed allargare alle politiche di bilancio ed alla politica monetaria, ma anche ai mercati finanziari ed ai mercati del lavoro, un coordinamento unitario delle proprie strategie. Bisogna superare la catena dei Capi di Stato e di Governo, che condizionano, con la forza dei loro Stati nazionali il destino dell’Europa, in una rete di regimi incrociati. E costruire davvero una giurisdizione plurale ed una capacità di coordinamento tra i popoli dell’Europa e le loro nazioni. Il secondo problema scabroso è la pretesa dell’Europa di opporsi agli Stati Uniti su molti terreni. La verità è che l’occidente cresce, si espande e crea nuovi valori, quando agisce in regime cooperativo tra le due sponde dell’Atlantico. Un’Europa che divorzi dal legame atlantico con gli Stati Uniti diventerebbe quasi subito una penisola dell’Asia, in partico-
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lare della Russia e dei suoi satelliti. Non conviene questo esito agli Europei. Questo turbine di cambiamenti, negli ultimi venticinque anni lascia alle sue spalle la crisi del Fordismo e del Toyotismo: le grandi strutture industriali autosufficienti e capaci di tenere testa agli stessi Stati. Con la loro scomparsa, e la nascita delle imprese piatte e senza perimetri definiti sul proprio confine, scompare progressivamente anche la figura dell’operaio come strumento. Una condizione che non è quella di un uomo che governa le macchine. Quell’operaio del fordismo era solo un tassello delle catene tecnologiche, incluso in quei processi che perdeva la sua identità personale, il controllo dei suoi diritti e la responsabilità dei propri doveri. Il lavoro è molto cambiato, non solo perché ci sono in giro moltissimi lavori diversi che solo dieci anni prima non
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avremmo saputo rintracciare in nessun luogo. Ma perché sta cambiando la percezione del se ed ognuno di noi deve saper costruire il proprio profilo e la propria relazione con le gerarchie e gli scambi. Siamo sempre più individui, persone, non numeri da cumulare. Se l’Europa è ferma l’Italia lo è ancora di più: cristallizzata tra gruppi di pressione e disordine entropico. Gravida di giovani disoccupati, periferie degradate, sfarinamento della pubblica amministrazione, moltiplicazione ridondante di Regioni, Comuni ed enti pubblici. Un paese dove si trovano molte delle innovazioni descritte in queste poche pagine ma che sono costrette e vivere con il disordine, l’entropia crescente, di un passato che rimane impotente e non riesce a trasformarsi in un futuro convincente.
di Marco Staglianò
Confindustria Avellino: conferma Sabino Basso La mission è dare continuità al percorso di concertazione avviato
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orrei lasciare al futuro Presidente di Confindustria Avellino tratti più nitidi di una situazione oggi molto convulsa, affinché egli possa, con pienezza di slancio, dare maggiore efficacia al suo impegno, avendo portato a compimento e consolidato alcune azioni intraprese, comprese quelle a livello regionale …” Quelle che avete appena letto sono parole di Sabino Basso, confermato all’unanimità alla guida di Confindustria Avellino per altri due anni. Il primo dicembre la giunta ha proposto e ratificato la conferma di Basso ed il Consiglio Direttivo ha dato l’assenso. Due giorni dopo, mercoledì tre dicembre, l’Assemblea ha ratificato il voto del Consiglio. Una scelta unanime, figlia di un dialogo ampio con la base coltivato attraverso il lavoro del comitato dei saggi, nelle persone del Cavaliere De Matteis, del Past President Silvio Sarno e di Claudio Sampietro. Una scelta necessaria, dettata dall’esigenza ineludibile di condurre a compimento il percorso avviato in questi anni in Irpinia come in Campania (Basso è anche Presidente Regionale di Confindustria ndr), una scelta che ha trovato compimento negli stessi giorni nei quali un altro percorso va invece compiendosi, quello che condurrà alla riapertura di quella che fu l’Irisbus e che sarà l’I.I.A, Industria italiana autobus. Insomma, l’Assemblea di Confindustria Avellino ha confermato il mandato a Basso per altri due anni negli stessi giorni in cui Fiat ha definitivamente detto addio a Valle Ufita: un segno della storia, si potrebbe dire. Una verità che si rivela e ci dice che l’Irpinia è in mezzo al guado, che un gran lavoro è stato fatto, sul piano della pianificazione e del governo della crisi, ma che molto c’è ancora da fare. Da un
lato c’è la sfida del futuro, che trova la sua grammatica nel disegno infrastrutturale definito in questi anni, pensiamo alla fermata irpina dell’Alta Capacità Napoli – Bari, alla piattaforma logistica in Ufita, agli investimenti in tecnologia ed innovazione, dall’altro c’è la necessità di affrontare una contingenza ancora estremamente difficile, al netto di successi faticosi ed importanti, proprio come nel caso dell’ex Irisbus, che tuttavia vanno misurati nel tempo, sul mercato. Insomma, la missione è quella di dare continuità al fruttuoso percorso di concertazione avviato in questi anni, percorso che troverà concretezza nell’arco del decennio a venire ma che nei prossimi due anni dovrà trovare il suo senso. E la partita è quella della nuova pianificazione europea, nella misura in cui le infrastrutture, siano esse materiali o meno, non bastano a definire l’identità e la vocazione di un territorio. È questo che deve cucirsi addosso una prospettiva per dare senso a quel disegno di sviluppo possibile, che deve farsi trovare pronto: prima che in Ufita si fermi l’Alta Capacità e sorga la piattaforma logistica ci vorranno molti anni. Pochi, però, per un territorio vivo, consapevole del cambiamento a cui è condannato, che però deve lavorare ancora molto per arrivare pronto a quella grande sfida. Ma quel che vale per l’Irpinia vale per il resto della regione. Anzi, l’Irpinia è un pezzo di un disegno complessivo di cambiamento, un pezzo essenziale perché la sfida del futuro passa per le aree interne, ovvero in un rinnovato dialogo tra le due Campanie, non più l’osso e la polpa di Rossi Doria ma finalmente pezzi di un tutto organico: “Confermo l’intenzione di proseguire e rilanciare il Tavolo provinciale per lo sviluppo - ha affermato Basso dinanzi all’Assemblea - Le proposte
Una sfida per l’Irpinia Il primo dicembre la giunta ha proposto e ratificato la conferma di Basso ed il Consiglio Direttivo ha dato l’assenso. Due giorni dopo, mercoledì tre dicembre, l’Assemblea ha ratificato il voto del Consiglio. Una scelta unanime, figlia di un dialogo ampio con la base coltivato attraverso il lavoro del comitato dei saggi, nelle persone del Cavaliere De Matteis, del Past President Silvio Sarno e di Claudio Sampietro.
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di priorità da esso scaturite sono troppo importanti per essere abbandonate: piattaforma logistica, banda larga, reti idriche, bonifiche. Con la Legge Sblocca Italia vediamo confermata la priorità della tratta per alta capacità Napoli - Bari e con essa della costruzione della stazione Hirpinia. Siamo convinti che quest’opera di fondamentale importanza, sia in grado di dare nuova configurazione al territorio delle aree interne…” Questa, in fin dei conti, è la grande sfida alla quale sarà chiamato il prossimo governo regionale, quella di coltivare una reciprocità autentica tra i diversi sistemi territoriali, attraverso politiche organiche in termini di programmazione: è la sfida della politica, è la sfida di Confindustria, è la sfida dei sindacati. La sfida di una nuova mobilità, di una nuova complementarità tra territori molto diversi e per questo funzionali l’un l’altro, la sfida del lavoro, dell’innovazione, del turismo, di una nuova internazionalizzazione, di una nuova industrializzazione. La riconferma di Sabino Basso alla guida di
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Confindustria Avellino va letta in questo senso, nella necessità di confermare un presidio indispensabile, un’interlocuzione fondamentale nel gioco della mediazione e della pianificazione, in un territorio cruciale per i destini non solo delle aree interne ma dell’intero mezzogiorno. Perché se le aree interne vincono la loro sfide cambia la Campania e la Campania, c’è poco da fare, è il Sud. È in primo luogo la necessità di confermare un metodo ed è, in quanto tale, un monito alla politica, monito che Basso ha esplicitato a margine del voto dell’Assemblea, evocando l’impegno di tutte le forze a misurarsi sul terreno del cambiamento concreto, in Parlamento portando a compimento il percorso di riforme avviato, sui territori, invece, misurandosi sul terreno delle proposte, del dialogo civile sulle cose da fare, oltrepassando ogni autoreferenzialità per offrire ai cittadini le ragioni della partecipazione in vista della contesa di primavera, passaggio cruciale sulla via del nostro futuro. Più che un appello, una preghiera.
di Sveva Scalvenzi
Adriano Giannola: «L’Italia ristagna dal 1998, non è mai più ricresciuta» I dati allarmanti dell’ultimo rapporto SVIMEZ; l’analisi del Presidente
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a SVIMEZ, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, è un’organizzazione che nasce con l’obiettivo di studiare le economie del territorio, per fornire programmi di crescita alle istituzioni centrali e locali. Ogni anno stila un rapporto sullo stato di sviluppo del Mezzogiorno, in cui analizza tutti gli elementi necessari ad avere una visione completa dell’economia dell’intero territorio. Il rapporto di quest’anno, presentato lo scorso 28 ottobre, ha riportato dati davvero allarmanti. Dati che hanno iniziato a far parlare di “desertificazione industriale e sociale al Sud”. Basta dare uno sguardo ai numeri, per comprendere il fenomeno di cui, si parla. Solo nel 2013 sono emigrati 116.000 abitanti, il tasso di mortalità continua a essere più alto rispetto a quello di natalità, si è registrato un aumento del 40% di famiglie sulla soglia di povertà, al Sud è stato perso l’80% dei posti di lavoro nazionali, solo tra il primo semestre del 2013 e del 2014, i consumi sono diminuiti del 13%. L’intervista al Presidente SVIMEZ, il professor Adriano Giannola. Dopo l’ultimo rapporto SVIMEZ si è parlato di desertificazione industriale e sociale per il Mezzogiorno, qual è il dato che più l’ha colpita, in uno scenario tanto drammatico? Questi dati non sono una sorpresa, la cosa
che più ci ha preoccupato, è l’aspetto demografico umano, cioè il collegamento molto chiaro, tra la crisi dell’economia e il progredire di conseguenze, che intaccano la struttura demografica di questo paese, in questo caso del Mezzogiorno. Quattro anni fa furono fatte delle proiezioni, che erano ancora molto staccate dal quadro generale e, segnalavano che il Mezzogiorno rischiava di perdere quattro milioni di abitanti. L’analisi fatta in quest’ultimo rapporto, è andata infondo, ha verificato la struttura di età, la presenza di giovani, maschi, donne, la fertilità, il calo delle nascite, tutti fenomeni strettamente correlati. Sono le condizioni materiali dell’economia, che incidono lentamente sulla tenuta della struttura della popolazione. Sembra che in trent’anni, il Mezzogiorno diventerà il 27% della popolazione, che questa popolazione sarà la parte più vecchia del paese, contrariamente ad oggi che è la parte più giovane. Cambierà il ruolo e la percezione che il resto del Paese, ha di quest’altra parte, che diventa una palla al piede. Per cui, io parlo spesso d’eutanasia del problema, basta lasciar passare il tempo, che la questione si risolve, ma dico sempre se si risolve così, l’Italia diventa sempre più marginale all’interno dell’Unione Europea. Possiamo dire che il Mezzogiorno negli ultimi anni sia stato dimenticato dall’agenda nazionale, che quindi non ci
Rapporto SVIMEZ L’associazione ogni anno stila un rapporto sullo stato di sviluppo del Mezzogiorno, in cui analizza tutti gli elementi necessari ad avere una visione completa dell’economia dell’intero territorio. Il rapporto di quest’anno, presentato lo scorso 28 ottobre, ha riportato dati davvero allarmanti.
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siano state politiche mirate ed efficaci per questo territorio? Più che abbandonato credo ci sia stata un’analisi un po’ottimistica o addirittura del tutto sbagliata, su cosa voglia dire fare politiche di sviluppo, non credo ci sia una volontà d’abbandono. Penso dal ’98 in poi, quando è stata varata, con molta enfasi, la
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cosiddetta “nuova programmazione”, che proponeva che il Mezzogiorno seguisse la strada dei distretti industriali, realtà esistenti nel centro-nord-est, che hanno una storia diversissima. Per cui, io e altri, che non eravamo nella SVIMEZ a quei tempi, ma la stessa associazione diceva che fosse un’illusione seguire quel modello, infatti, que-
I fondi? I fondi hanno un problema di utilizzazione, c’è un degrado anche della spesa pubblica, un crollo delle opere pubbliche nel Mezzogiorno.
st’illusione è svanita ben presto. Ci fu una visione del Mezzogiorno totalmente staccata dalla realtà e dalle esigenze reali. C’era l’idea sbagliata, che il Mezzogiorno fosse in grado di uscire da solo dalla crisi, che bastasse dargli un po’di risorse e non fare politiche attive. Quindi, nel Mezzogiorno si è assistito alla mancanza di leggi per il territorio o all’assenza d’investimenti? D’investimenti pubblici senz’altro, vediamo nel rapporto il crollo degli investimenti pubblici degli ultimi vent’anni, i fondi europei sono una piccola cosa, che sostituisce la spesa ordinaria, quella spesa, essenziale per mantenere i diritti di cittadinanza. I fondi hanno un problema di utilizzazione, c’è un degrado anche della spesa pubblica, un crollo delle opere pubbliche nel Mezzogiorno, mentre anche nella crisi il CentroNord, resiste molto di più. Altro elemento è la filosofia contraria all’intervento pubblico, che è prevalsa dagli inizi degli anni Novanta. Lo dicevano anche gli economisti anglosassoni che si occupano di sviluppo, dicevano che fosse illusorio pensare che dare i soldi, bastasse a far ripartire l’economia da sola, invece, si è creata solo un’indipendenza. L’illusione era che l’ambiente potesse rispondere a prescindere, perché c’erano i modelli di riferimento, il famoso capitale sociale, la cooperazione, la fiducia, cose eccellenti. Nella misura in cui il sistema non è maturo per fare coagulare quel tipo di risorse verso un indirizzo preciso, si sono determinate patologie, come la corruzione e la dipendenza. Quali potrebbero essere i primi punti da cui iniziare, per avviare la necessaria ripartenza, di cui tanto si parla? Innanzitutto, non pensare più al Mezzogiorno come al caso particolare di un problema. Il problema del Mezzogiorno è un segnale pericolosissimo per tutta l’Italia. Bisogna capire, se si voglia portare questo paese in una direzione che recuperi le condizioni. In questo momento, la grande opportunità può essere proprio il Mezzogiorno, poiché questo territorio è la propaggine più autenticamente mediterranea del Paese e, la grande opzione per l’Europa del Sud è il Mediterraneo. Il Mediterraneo è tornato ad essere il mare centrale per gli scambi del
mondo, adesso sarà raddoppiato Suez e diventerà ancora più importante. Tutti i traffici dell’India, del Medioriente, passano per il Mediterraneo e non si fermano lì. L’ingresso in Europa va fino al Nord per poi portare a Roma, Milano e Napoli le merci, con un sistema che è irrazionale, ma dal punto di vista economico conveniente, perché il Sud non ha le strutture. Noi dovremmo, assieme agli spagnoli e ai francesi, creare un’alternativa e catturare questa ricchezza, perché questi traffici, significano tante occasioni di lavoro. E poi avere un regime fiscale, che consenta di fare di questi porti il vero ingresso in Europa. Se dovessimo ricercare i motivi della situazione disastrosa in cui versa il Mezzogiorno, dovremmo partire da vent’anni fa, secondo lei dove vanno ricercate le responsabilità di questa situazione? Politica e amministrazione sono sempre stati un problema, anche all’epoca della prima cassa del Mezzogiorno, si creò la cassa per evitare problemi della politica e dell’amministrazione, ed ebbe successo fino agli anni Settanta. È un problema di egemonia culturale. L’idea che l’Italia si diceva fosse, come un calabrone, non si spiega perché vola, ma vola, si è poi dimostrata un fallimento, perché appena siamo entrati nell’Euro, quando è stato impossibile svalutare, la nostra competitività, è scesa drasticamente. L’Italia ha cominciato a perdere e ristagna dal 1998, non è mai più cresciuta. Chi idealizzava questo mondo fatto di piccoli distretti industriali competitivi, globalizzato e diceva che il Mezzogiorno, dovesse seguire questa strada, è stato smentito. Oggi, ci vuole una politica industriale attiva, dove lo Stato da indicazioni e impone indirizzi, poi il mercato si adeguerà. È un rovesciamento diverso, che dovrà essere radicale, che porterà anche a dei conflitti, perché è chiaro che il Nord crede erroneamente di essere forte. Convincerlo che la vera opzione per lui, è guardare al Sud, alla logistica, alle energie rinnovabili, non è semplice, considerando che le nostre imprese non hanno una grossa cultura, sono capaci ad agire ma non a programmare. È un momento difficile, per certi versi utile, perché mette in evidenza tutte le problematiche, bisogna iniziare a prenderne atto.
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di Guido Migliaccio
Crisi economica e capitalismo morale-culturale Note di economia e management
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analisi della crisi (queste note riprendono considerazioni proposte ampiamente nel volume G. MIGLIACCIO, Squilibri e crisi nelle determinazioni quantitative d’azienda. Il contributo della dottrina italiana, Angeli, Milano, 2012) presuppone un excursus sull’evoluzione del capitalismo, distinguendo il capitalismo rurale, mercantile, industriale, manageriale e finanziario (La classificazione proposta, basata sul parametro temporale, non è l’unica. In W. J. BAUMOL, R. E. LITAN, C. J.SCHRAMM, Capitalismo buono. Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici, Egea, Milano, 2009, pag. 77 e segg. si distingue il capitalismo in: diretto dallo Stato, oligarchico, delle grandi imprese e imprenditoriale). Il primo ha caratterizzato i secoli nei quali la produzione agricola era l’unico sostentamento dei popoli, avvalendosi di pochi capitali e di molta manodopera. Successivamente, l’Europa registrò il capitalismo mercantile, dei commercianti che facilitarono l’accumulazione del risparmio poi investito nelle manifatture. Quindi, il capitalismo industriale, all’inizio dell’800, che divenne prevalente solo diffondendo l’elettricità. Nel primo ‘900 le due guerre mondiali furono causa di altalenanti vicende economiche. Dopo la ricostruzione, nel neo capitalismo manageriale, si affer-
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marono le dirigenze apicali che sostennero produzione e consumi, favorendo un apprezzabile progresso socio-economico e riducendo le disuguaglianze tra le classi sociali. Negli ultimi decenni, a causa del calo dei profitti, la proprietà ha richiesto ai manager di incrementare dividendi e quotazione dei titoli. Il capitalismo manageriale è diventato capitalismo finanziario, con operazioni speculative tendenti a profitti elevati, in tempi rapidi. L’impresa “irresponsabile” ha abbandonato, quindi, i superiori principi etici (L. GALLINO, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2009). La crisi recente: le cause La drammatica crisi sembra abbia avuto origini composite, reali e finanziarie. Innanzitutto l’aumento dei prezzi di alcune materie prime, soprattutto dell’energia. Essa sembra, però, soprattutto effetto della “bolla speculativa” del mercato immobiliare statunitense. Le investment bank concessero mutui ipotecari “sub-prime” a contraenti con reddito inadeguato che, nel 2008, furono spesso insolventi, anche per il crollo dei prezzi degli immobili. I crediti dei mutui furono smembrati e poi assemblati con altri prodotti finanziari per guadagnare giudizi migliori dalle agenzie di rating, e dunque cartolarizzati con operazioni di securitization. Le car-
* Professore aggregato di Economia aziendale e Ragioneria nell’Università degli studi del Sannio
tule “tossiche”, apparentemente redditizie, vennero vendute ovunque “infettando” il sistema finanziario mondiale. Gli effetti furono devastanti: aumento dell’inflazione in alcune zone e soprattutto gravissima recessione. La risposta alla crisi di
credito e fiducia fu differente nei diversi Stati, evidenziando spesso le loro debolezze strutturali (F. CAPRIGLIONE, G. SEMERARO, Crisi finanziaria e dei debiti sovrani. L’unione europea tra rischi ed opportunità, Utet, Torino, 2012).
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L’Italia è ancora in crisi principalmente per il debito pubblico elevato, la modesta crescita economica e l’instabilità del sistema politico che non riesce ad avviare adeguate riforme strutturali. Crisi del liberismo e del capitalismo? La crisi ha riproposto l’atavico dibattito tra detrattori e fautori del liberismo e del capitalismo. I primi sottolineano gli esiti catastrofici di un sistema che affida al mercato il raggiungimento degli equilibri. La sottovalutazione dello Stato e delle regole sarebbe la causa principale dei disagi. I secondi, all’opposto, sottolineano la relativa transitorietà della crisi e la debolezza strutturale dei molti Stati: la loro politica assistenzialista avrebbe accumulato debiti tali da indurre al default. Severi giudizi inoltre al modello organizzativo burocratico. Il dibattito esula dagli L’Italia è ancora in crisi obiettivi di questo scritto principalmente per il debito che auspica un sistema economico misto e la pubblico elevato, cooperazione internaziola modesta crescita economica nale quale alternativa alla contrapposizione dee l’instabilità del sistema leteria tra modelli ideopolitico che non riesce logici antitetici. ad avviare adeguate riforme Il capitalismo etico Senza ipotizzare modifistrutturali. che rivoluzionarie, sembra necessario un maggior controllo delle dinamiche aziendali, soprattutto creditizie. Considerando l’effetto “domino” globale, le nuove norme dovrebbero essere concordate tra le Nazioni e le istituzioni internazionali. La ratio: prevenire la mera speculazione e affermare una finanza al servizio dell’economia reale. La legge, tuttavia, difficilmente riuscirà, da sola, ad esaurire le esigenze di una società complessa senza un’adeguata e diffusa formazione etica che contribuisce decisamente allo sviluppo duraturo e alla creazione di valore. La società dovrebbe, però, accettare valori comuni ispirati a più nobili principi che marchino la strumentalità dell’economia rispetto al valore della vita. Solo così, al fallimentare capitalismo finanziario o tecnocratico, si potrebbe sostituire un capitalismo etico, reale speranza per il futuro.
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Glocalizzazione e capitalismo morale-culturale Innanzitutto, una nota sulla globalizzazione, responsabile del contagio. Innegabili i benefici dell’internazionalizzazione. Tuttavia, sembra che il sistema si orienti verso la convivenza tra globalizzazione e tradizioni locali, generando la “glocalizzazione” (Glocalizzazione o glocalismo è neologismo coniato in Giappone, poi importato in inglese dal sociologo R. ROBERTSON nel saggio Globalization: Social Theory and Global Culture, Sage - London, Thousand Oaks - New Delhi, 1992, e quindi sviluppato da Z. BAUMAN soprattutto in Globalizzazione e glocalizzazione, Armando, Roma, 2005). Con essa beni e servizi sono progettati per un mercato globale, ma adattati alla domanda locale. Il sistema glocale sembra più incline a recepire la necessaria istanza etica. Il reiterato richiamo etico potrebbe però generare legittime perplessità: tale invocazione è talvolta indotta da mera convenienza! Invocano atteggiamenti etici, poi, spesso coloro che, per convinzioni politiche, diffidano del profitto ritenendolo necessariamente intriso di logiche sfruttatrici. Da ribadire, nel contempo, l’oggettiva difficoltà di statuire principi etici universalmente accettati nelle composite società attuali multiculturali. Bisognerebbe riscoprire una morale comune e valori di origine religiosa più facilmente identificabili. Anche questo tentativo, tuttavia, sconta la contemporanea presenza di fedi differenti che però dovrebbero essere accumunate da riferimenti “ultimi” simili. La valenza dei principi morali, più persuasivi di quelli etici difficilmente statuibili, dovrebbe anche ispirare l’avvento determinante delle conoscenze quali fattori di produzione capitalizzabili. Innegabile, oggi, il valore propulsivo della conoscenza che innesta circoli virtuosi tendenti a migliorare prodotti e processi economici e sociali. Anche la conoscenza, tuttavia, dovrebbe essere subordinata a prioritari principi morali. Una fiducia esclusiva nel sapere umano e nella sua accumulazione può, infatti, indurre a errori già sperimentati in altre epoche nelle quali la “ragione” sembrava potesse essere risolutiva di ogni questione esistenziale, con gli esiti negativi ben noti.
di Amedeo Lepore
Più che il reddito, oggi deve crescere la produttività Grazie alle iniziative del Governo si sono ottenuti investimenti per il mezzogiorno modifiche introdotte in Parlamento, è diventato un organo concorrente all’agenzia. Il controllo è affidato all’agenzia per la coesione e non si capisce chi debba gestire tutta la partita dei fondi strutturali, questo è sicuramente un limite grosso. Senza questi due elementi è difficile affrontare la partenza, già siamo in ritardo di un anno, per i fondi strutturali, europei e per i cofinanziamenti nazionali, in termini tali da poter rispettare il periodo 2014-2020. Già c’è uno slittamento al 2015, e ci sono pratiche che richiedono tempo. Il ruolo delle Regioni, in questa fase, il ruolo principale e prioritario dell’agenzia, bisogna fare le modifiche necessarie e dare un’accelerazione a quest’iniziativa. Altrimenti c’è il rischio di vanificare da un lato uno strumento, che sembrava molto positivo, perché dovrebbe svolgere una funzione sostitutiva, nel caso che le istituzioni nazionali o quelle locali, non siano in grado di operare, ma anche per i poteri sostitutivi, che per la prima volta sono stati affidati ad agenzie e poi a Presidenze del Consiglio. Bisogna fare molta attenzione a utilizzare questi fondi, che sono importanti e al momento gli unici di cui c’è disponibilità. Altra cosa, che ha messo in evidenza la SVIMEZ, è che non ci si può basare solo su queste risorse, occorre, sollecitare l’iniziativa di risorse pubbliche. Ma soprattutto l’iniziativa e gli investimenti privati, che vengono anche dall’esterno del nostro paese, ma che siano investimenti diretti al Mezzogiorno e verso un’accumulazione produttiva, che oggi è necessaria. Più che di un aumento del reddito, oggi c’è necessità di aumentare e far crescere la produzione e la produttività e, da qui nasce, l’occupazione e il reddito. *Testo raccolto da Sveva Scalvenzi, non corretto dall’autore. Foto di Livia Crisafi
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l rapporto SVIMEZ fotografa una situazione del Mezzogiorno molto difficile. Dai dati si evince che non è solo il Sud, ma l’Italia intera a trovarsi in una situazione al limite del declinò. C’è la necessità di avviare politiche e strategie, che riguardino il Mezzogiorno in un ambito nazionale, ed europeo. Da questo punto di vista, vi sono, segnali discordanti: da un lato, iniziative di grande importanza, che privilegiano la politica degli investimenti, dello sviluppo e, si è ottenuto qualche risultato anche grazie all’impegno del Governo italiano, attraverso la formazione di una task force per gli investimenti a livello europeo, che necessariamente dovrà guardare alle aree più arretrate di Europa e quindi al Mezzogiorno. Lo dovrà fare attraverso la valorizzazione di progetti e investimenti significativi, all’Italia dovrebbero arrivare dieci miliardi, da quest’intervento importante. Insieme ad altri progetti d’investimento con imprese private e iniziative pubbliche, che il Ministero dell’Economia sta portando avanti. Dall’altro lato vi è un tema che riguarda i fondi strutturali, l’accordo di partenariato con l’agenzia per la coesione territoriale, che registra preoccupanti segni di ritardo. L’agenzia ha due elementi di difficoltà, che vanno affrontati. Il primo è che l’interlocuzione con le istituzioni europee, è stata affidata al Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, mentre il ruolo di monitoraggio e gestione dovrebbe essere affidati all’agenzia per la coesione territoriale. Altro elemento è, oltre ai ritardi tecnici, la formazione del comitato direttivo, un eccesso di burocratismo, che rischia di vanificare la necessità di avere una tecnostruttura agile, che possa operare senza condizionamenti a favore del Sud. Ulteriore dato è rappresentato da un ruolo parallelo che svolge Invitalia, attraverso delle
* Professore di Storia Economica – Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Rischio risorse Bisogna fare molta attenzione a utilizzare questi fondi, che sono importanti e al momento gli unici di cui c’è disponibilità.
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APPROFONDIMENTI
di Francesco Pirone
Fiat-Chrysler e la filiera autoveicolare italiana Opportunità e minacce per l’industria regionale * Dipartimento
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a produzione di autoveicoli in Italia si è fortemente ridimensionata. All’inizio degli anni Duemila si producevano in Italia circa 1,7 milioni di veicoli. Negli anni successivi si è osservata una riduzione costante dei volumi produttivi, arrivando nel 2013 a 658 mila autoveicoli, di cui 338 mila automobili e 270 mila veicoli commerciali. Questo ha determinato un drammatico ridimensionamento complessivo del settore, ma anche una metamorfosi dell’orientamento strategico delle imprese che sono riuscite a ristrutturarsi attraverso innovazione, diversificazione e internazionalizzazione, confermando la capacità del settore di funzionare come traino per accrescere la competitività del sistema economico. La Campania è stata fortemente colpita da questi processi, ma conservando, anche se depotenziata, una posizione nell’organizzazione della catena globale del valore dell’industria autoveicolare. Resta il forte legame con le produzioni e le scelte strategiche dell’attuale gruppo Fiat-Chrysler (FCA) che, tuttavia, alle minacce di ulteriori ridimensionamenti accompagnano opportunità di crescita e qualificazione legate ai nuovi orientamenti strategici del Gruppo. Indicazioni in questo senso emergono dall’ultimo piano industriale presentato a maggio ad Auburn Hills per il periodo 2014-2018. Tali scelte sono rilevanti in quanto si ribaltano sulle imprese della componentistica che operano nei primi livelli di fornitura e rielaborati e trasmessi ai livelli di fornitura inferiori, con margini di coordinamento e collaborazione tendenzialmente decrescenti. Il piano industriale 2014-2018 di FGA presenta una prospettiva espansiva su scala globale con l’obiettivo di produrre 7 milioni di veicoli a fine 2018. Si tratta di una forte espansione di vendite che viene localizzata soprattutto nei
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paesi a domanda crescente (area APC, NAFTA e LATAM), mentre sul mercato europeo (EMEA) si prevede una crescita più contenuta delle vendite a fronte, però, di un significativo riposizionamento di mercato dei marchi e dei nuovi modelli. Entrando più nel dettaglio, si prevede nell’area EMEA il passaggio nel periodo 2014-2018 da 1,1 milioni a 1,5 milioni di autoveicoli venduti: 500 mila in Italia, 600 mila in Europa e 400 mila negli altri paesi della macro-area EMEA. In termini di marchi la previsione di vendita per il 2018 è così ripartita: 730 mila veicoli con marchio FIAT, 270 mila Jeep, 150 mila Alfa Romeo, 80 mila Lancia/Chrysler e 270 mila Fiat Professional. Gli stabilimenti coinvolti sono 9 di assemblaggio (6 in Italia, e gli altri tre all’estero: Polonia, Serbia e Turchia) e 6 di motori (5 in Italia e uno in Polonia). Il programma d’investimento prevede il raggiungimento dell’obiettivo a fine periodo di 32 modelli per una quota di mercato del 10%. Analizzando il programma dei nuovi modelli si rileva un riposizionamento dell’offerta: i modelli FIAT sono razionalizzati intorno ai due marchi “500” (tutti prodotti negli stabilimenti non italiani del Gruppo), “Panda” (in produzione a Pomigliano d’Arco, nuovo modello previsto per il 2018) e – in futuro – nuovo modello in sostituzione della Grande Punto (fine 2016 produzione non ancora assegnata) per coprire i segmenti delle small & compact cars, tradizionale mercato di riferimento del marchio. L’espansione produttiva riguarda, invece, l’area dei SUV: in particolare, quella dei small SUV (si prevede una crescita del 13,3% nel quadriennio) dove si collocano le nuove produzioni della Jeep Renegate (in produzione a Melfi: obiettivo di 200 mila unità/anno al 2018) e della Fiat 500X (modello prodotto sempre a Melfi). Nell’area dei compact e mid & large SUV si collocano, invece, oltre all’im-
di Scienze sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II
Un programma di investimenti Ci sono le condizioni per un nuovo ciclo d’investimenti nell’industria della subfornitura autoveicolare che, anche per la Campania, potrebbero orientare la ristrutturazione del settore.
portazione dei modelli Jeep dagli USA, i nuovi prodotti Maserati e, probabilmente, nuovi prodotti con marchio Alfa Romeo. Per questo marchio è in programma un forte investimento (5 miliardi di euro) che avrà i suoi frutti solo dalla fine del 2015, con 8 nuovi modelli al 2018 – nei segmenti tradizionali di collocazione del marchio Alfa Romeo per ottenere un risultato di vendite di 400 mila vetture annue, rispetto al 74 mila del 2013. I dettagli industriali dell’operazione di rilancio del marchio Alfa Romeo non sono ancora pubblici, ma il primo progetto in corso di sviluppo, dovrebbe riguardare una vettura del segmento mide-size che potrebbe essere prodotto nello stabilimento di Cassino. Appare evidente una strategia di consolidamento nei mercati di riferimento – utilitarie e veicoli commerciali leggeri – e ingresso con marchi premium nei mercati a più elevato tasso di crescita per l’Europa e, in generale, a più alto valore aggiunto. Si sono date, quindi, le condizioni per un nuovo ciclo d’investimenti nell’industria della subfornitura autoveicolare che, anche per la Campania, potrebbero orientare la ristrutturazione del settore. Si rende necessaria, però,
una politica industriale su scala regionale per orientare e coordinare tale processo con l’obiettivo di attirare gli investimenti dei grandi fornitori di primo livello, a partire da quelli già presenti sul territorio (Adler, Lear, PPG, Johnson Controls, Cooper Standard, ecc.) e di sostenere la crescita e la qualificazione delle imprese locali, puntando su innovazione tecnologica e organizzativa, diversificazione e internazionalizzazione. Lo strumento del Contratto di programma regionale (Si fa qui riferimento ai Contratti di programma regionale (L.R. 12/2007) e al più recente “Contratto di programma regionale per lo sviluppo innovativo delle filiere manifatturiere strategiche in Campania” (Fondi FESR-FSE 2007-2013 Avviso n. 31, 14.9.2012), «Azione 1. Sviluppo innovativo della filiera automotive campana». Le risorse previste: 75 milioni € per contributi in conto capitale per (a) strategie di filiera, (b) investimenti in R&S; attualmente (tre proposte sono in fase di istruttoria) non si è mostrato all’altezza di questo compito complesso e, vista la rilevanza del settore, sarebbe opportuno un rapido riorientamento delle politiche.
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APPROFONDIMENTI
di Marianna Quaranta
Gli strumenti per uscire dalla crisi Accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e transazione fiscale
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rattare in sintesi il tema della crisi dell’impresa e dei rimedi previsti dal legislatore per affrontarla non è agevole per la molteplicità di implicazioni che pure dovrebbero essere considerate. Invero, sempre più spesso, le imprese vengono travolte dalla impossibilità di far fronte ai propri debiti e non sanno come gestire la situazione di difficoltà prima che sfoci in maniera irreversibile nella crisi fino al fallimento. Il legislatore, negli ultimi anni, è intervenuto in maniera certosina sulla legge fallimentare, offrendo soluzioni diverse e rafforzando il sistema dei rimedi per affrontare la crisi tra questi vi sono gli accordi di ristrutturazione, il concordato preventivo e la transazione fiscale. Per il vero gli accordi di ristrutturazione non hanno avuto grande successo perché, di fatto, l’imprenditore già opera in tal senso con l’ausilio dei propri consulenti. Maggiore fortuna ha avuto, invece, il concordato preventivo, vediamolo. Ai sensi dell’art. 160 LF, l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei cre-
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diti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, b) l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lettera d). Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. Nel 2012, con il decreto legge n.83 sono stati apportati una serie di correttivi finalizzati quanto al concordato preventivo (i) a sostenere le difficoltà del debitore di reperire risorse finanziarie durante la fase di
Come uscire dalla crisi La situazione di difficoltà delle imprese deve essere affrontata sotto diversi profili. Anche lo scioglimento la liquidazione e la gestione della fase di dilazione è diventata prioritaria per il legislatore e per il Paese.
preparazione del piano di concordato (c.d. “finanza interinale”); (II) rafforzare l’insufficiente protezione del debitore durante la fase preparatoria del piano; (III) sopperire all’assenza di una disciplina che incentivi un’effettiva continuità aziendale nella fase prodromica all’omologazione del concordato. Uno dei profili maggiormente innovativi introdotti dall’art. 33 del decreto succitato è rappresentato dalla possibilità di depositare il ricorso per l’ammissione alla
procedura di concordato preventivo, riservandosi di presentare la proposta, il piano di concordato e la documentazione richiesta dall’art. 161, commi 2 e 3, L.F. entro «un termine fissato dal giudice compreso fra sessanta e centoventi giorni» prorogabile per ulteriori sessanta giorni cd. concordato in bianco. In tal modo, la norma, da un lato, consente al debitore di beneficiare degli effetti “protettivi” connessi al mero deposito del ricorso; dall’altro lato, permette di evi-
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APPROFONDIMENTI
tare che i tempi tecnici necessari alla predisposizione della proposta e del piano di concordato possano aggravare lo stato di crisi dell’impresa. Il nuovo art. 182-quinquies LF consente al debitore di richiedere al Tribunale, nell’ambito della domanda di ammissione al concordato, di essere autorizzato a pagare crediti anteriori per prestazione di beni o servizi a condizione che un professionista indipendente attesti che gli stessi sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali alla «migliore soddisfazione dei creditori». L’art. 186-bis L.F. introduce la figura del concordato con continuità aziendale, ossia finalizzato alla prosecuzione dell’attività di impresa. L’elemento cardine del nuovo concordato preventivo è rappresentato dal rafforzamento del ruolo del professionista indipendente e
L’art. 186-bis L.F. introduce la figura del concordato con continuità aziendale, ossia finalizzato alla prosecuzione dell’attività di impresa. delle sanzioni penali cui è assoggettato in caso in cui renda informazioni false o ometta informazioni rilevanti. Con decreto legge n. 69 del 2013 convertito con modificazioni in legge n.98 del 2013, il legislatore ha apportato ulteriori correttivi all’art. 161 LF finalizzati ad evitare gli abusi dell’istituto, imponendo obblighi informativi periodici in fase prefallimentare e rafforzando la figura del Commissario Giudiziale con il quale i flussi informativi vengono scambiati, al quale è affidato il compito di sorvegliare l’operato del debitore e verificare le scritture contabili. Tra le questioni di maggiore interesse va considerato l’istituto della cosiddetta transazione fiscale di cui all’art.182 ter LF. Possono formare oggetto di transazione i tributi amministrati dalle Agenzie fiscali vi rientrano cioè i tributi di competenza delle
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agenzie fiscali; dell’agenzia delle entrate, dell’agenzia del territorio, dell’agenzia del demanio, dell’agenzia delle dogane (trattasi in sostanza di IRPEF, IRES e IRPEG), nonché, i contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza i relativi accessori e le sanzioni amministrative per violazioni tributarie Rientrano nell’ambito di applicazione sia i crediti chirografari che quelli privilegiati. Con riguardo all’IVA la norma in esame, come modificata dall’art.32 del DL 185/2008 dispone che la proposta di transazione possa prevedere esclusivamente la dilazione di pagamento e non il pagamento parziale del tributo. La proposta di transazione può anche essere parziale e riguardare una sola parte dei tributi, in tal caso restano applicabili per gli altri tributi le condizioni generali previste nel piano concordatario. Ai fini della proposta di accordo, copia della domanda e della relativa documentazione deve essere contestualmente depositata in tribunale e presso il competente concessionario del servizio nazionale della riscossione ed all’ufficio competente sulla base dell’ultimo domicilio fiscale del debitore, unitamente alla copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici nonché delle dichiarazioni integrative relative al periodo sino alla data di presentazione della domanda, al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale. Il concessionario, non oltre trenta giorni dalla data della presentazione, deve trasmettere al debitore una certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo scaduto o sospeso. I criteri che debbono essere seguiti dagli uffici per la valutazione di merito della proposta di transazione si rinvengono nei principi di economicità efficienza dell’azione amministrativa, nonché della tutela degli interessi erariali. Inoltre, in considerazione delle finalità dell’istituto gli uffici dovranno tener conto anche di altri interessi coinvolti nella gestione della crisi quali, ad esempio, la difesa dell’occupazione, la continuità dell’attività produttiva la complessiva esposizione debitoria dell’impresa, nonché, della sua situazione generale e patrimoniale.
L’intervista a Massimo Paolucci La salvezza per il Sud a rischio desertificazione umana e produttiva a cura di Paola Liloia
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n Sud a rischio desertificazione umana e industriale secondo l’ultimo rapporto Svimez, e un’Europa delle opportunità, oltre che dei vincoli, che si stenta a sfruttare. Ne abbiamo parlato con l’on. Massimo Paolucci, vice capo delegazione Pd al Parlamento Europeo. Per il sottosegretario Delrio una possibilità di invertire la tendenza è data dalla green economy. Concorda? A fine novembre, ho visitato la Puglia per le Primarie e ho visto di persona quali e quante difficoltà ci sono, ad esempio a Taranto con Ilva, di tipo ambientale, industriale e di salute, e con il porto che ha perso importanti operatori commerciali come i cinesi. Il Sud è entrato nella crisi economica con forti ritardi rispetto al resto d’Italia, ma rischia di uscirne con handicap che potrebbero non essere mai recuperati. L’unica nostra grande occasione è l’Europa,
le sue politiche di sviluppo, e tra queste certamente la green economy e i fondi comunitari della programmazione 2014-2020. Finora i miliardi arrivati dall’Ue, come ha detto il neo commissario Cretu, non hanno prodotto crescita. Per la Campania l’accusa indiretta è alla Giunta Caldoro, che continua a fare proclami di ottima amministrazione. Il “finto risanatore” Caldoro è ormai rimasto solo a raccontare una storia cui sono sicuro non creda neppure più lui. Nei 5 anni di amministrazione del centrodestra molto è rimasto fermo a ciò che le precedenti Giunte di centrosinistra hanno fatto. Su troppe cose, a cominciare dai trasporti, sono stati fatti dei passi indietro enormi vanificando anni di lavoro e offrendo ai cittadini campani pessimi servizi, e sempre più cari. Il mio giudizio è una piena bocciatura, che sarà certificata anche dagli elettori alle Regionali 2015. C’è però pure una responsabilità delle
Il cantastorie Caldoro Il “finto risanatore” Caldoro è ormai rimasto solo a raccontare una storia cui sono sicuro non creda neppure più lui. Nei 5 anni di amministrazione del centrodestra molto è rimasto fermo a ciò che le precedenti Giunte di centrosinistra hanno fatto.
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giunte bassoliniane nella crisi campana, per una spesa non proprio oculata delle risorse. Caldoro per cinque anni non ha fatto alcunché, anzi ha smantellato quanto di buono, ed è tanto, era stato fatto dalle due giunte Bassolino. Dei limiti e di alcuni errori del passato abbiamo già parlato e i cittadini hanno espresso il loro giudizio nel voto. Tuttavia, quando Caldoro si è insediato, l’utilizzo delle risorse di tutti i Por 2007-2013 era iniziato solo da pochi mesi. Tant’è che oggi, a fine 2014, tutte le Regioni, non solo la Campania, spendono ancora sul ciclo 2007-2013 e lo potranno fare, com’è noto, fino a fine 2015. Cinque anni dopo il suo insediamento, però, i dati
La Giunta Caldoro, insieme alla Calabria è l’unica in Ue a non essere riuscita a presentare il Por 2014-2020 entro il 17 novembre. Grazie a una proroga eviteremo il blocco totale dei fondi. Purtroppo questo si tradurrà in un enorme rallentamento di tutta la programmazione comunitaria per la Campania. parlano chiaro: la Campania è ultima nell’utilizzo dei fondi Ue, con una spesa certificata dei Por Fesr-Fse che al 31 ottobre era pari al 43,2% contro il 53,7% della Sicilia e il 49% della Calabria. Il ritardo c’è anche sulla nuova programmazione 2014-20. Quale il rischio? La Giunta Caldoro, insieme alla Calabria del centrodestra appena sconfitto da Mario Oliverio, è l’unica in Ue a non essere riuscita a presentare il Por 2014-2020 entro il 17 novembre. Grazie a una proroga eviteremo il blocco totale dei fondi. Purtroppo questo, come ha specificato Delrio, si tradurrà in un enorme rallentamento di tutta la programmazione comunitaria per la Campania. Oltre all’inevitabile smacco,
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all’enorme perdita di credibilità per la nostra istituzione regionale e ai problemi che ci saranno per far ripartire le politiche di sviluppo, grazie a Caldoro siamo ultimi ancora prima di iniziare il programma 2014-2020. Nel parlare di sviluppo, centrale è il tema delle politiche energetiche. Qual è la sua idea a riguardo? Serve un approccio europeo. La sicurezza degli approvvigionamenti e l’indipendenza energetica, le scelte strategiche sulle fonti rinnovabili, sull’efficienza energetica, e cioè per un’economia sostenibile, ad esempio, sono temi cui solo una politica comune europea può dare risposte di lungo periodo. Nella nuova Commissione, appena insediatasi, è stato individuato un Vice Presidente responsabile per la creazione di un’Unione energetica, ovvero di uno spazio, di un mercato, di una politica comune dell’energia a livello europeo. E anche tra gli Stati membri questa scelta è ormai definita. Gli obiettivi sono chiari: certezza di regole e sicurezza lungo tutta la catena di approvvigionamento per le nostre imprese, servizi migliori e più economici per i cittadini. Tutto ciò si lega al tema del lavoro, su cui il Pd e il Paese si sono riscoperti spaccati. Dove ha sbagliato Renzi, dove i sindacati? Il Presidente del Consiglio ha sbagliato a chiudersi, a non ascoltare i sindacati che, giustamente, chiedevano un confronto per migliorare la riforma del lavoro sulla quale auspicavo non venisse posta la fiducia. Sul Jobs Act si è sbagliato, perché una lotta esclusivamente ideologica e non nel merito dei fatti rischia di spostare la discussione dai reali problemi – soprattutto quelli dei più giovani – a uno scontro di campo che non è utile a nessuno. I sindacati, invece, alzando a volte i toni esasperano gli animi e rendono più difficile un avvicinamento tra le parti. Sono convinto che le parti sociali siano grande patrimonio del nostro Paese per le battaglie che hanno fatto in questi anni, ma credo si debba aprire al loro interno e, con la loro autonomia che rispetto, una seria riflessione su un cambiamento e una trasformazione che reputo siano inevitabili.
di Raffaele Perrotta
Abbiamo perso la partita dei fondi europei e rischiamo di ipotecare la prossima Intervista ad Antonio Marciano Secondo il consigliere regionale del PD, il governo Caldoro «Ha sbagliato a puntare, in questi ultimi due anni, su mega progetti che non si realizzeranno»
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n cittadino italiano, in qualsiasi momento e da qualsiasi posto, può sapere lo stato dei progetti finanziati e come sta procedendo il programma operativo». La tracciabilità dei fondi europei, in effetti, è a portata di click, ma, nonostante questo, si susseguono annunci e proclami sugli impegni di spesa e sull’utilizzo degli stessi. Il progetto che fa capo al Ministero per la Coesione Territoriale si chiama Open Coesione, grazie al quale si può accedere a grafici e tabelle con l’andamento della spesa certificata delle regioni italiane. «Stando ai dati aggiornati il 31 ottobre, dell’FSE (fondo sociale europeo), la Regione Campania ha certificato spesa per poco più di 500 milioni di euro su un totale di 788 milioni. Ci sarebbe quasi da essere contenti se non fosse che il programma iniziale aveva una dotazione che superava 1 miliardo e 100 milioni. Stiamo al 77% di spesa rispetto al programma già ridotto e dobbiamo ancora spendere, per non perderli, oltre 250 milioni. Una cifra considerevole da spendere in un solo anno. Pensare che abbiamo impiegato sei per spenderne il
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doppio, in media tre anni per spendere quella cifra». Con Antonio Marciano, consigliere regionale del Pd, parliamo di fondi europei, promesse mancate e ‘provvedimenti sospesi’. «Le 1500 delibere – stando alle parole del consigliere Dem – che bloccarono al luglio 2010 appena si insediarono, utilizzando una formula che dal punto di vista dell’amministrazione non so cosa significa. Al più potevano sospenderle in autotutela». Ci spieghi meglio. In quelle delibere c’era di tutto. Come la realizzazione della stazione di Striano est, ultimo anello della Roma-Napoli-Salerno dell’alta velocità-alta capacità. Progetto esecutivo e cantierabile, progettazione internazionale affidata, ma l’hanno definanziata perché secondo Vetrella non era strategico. Se non è strategica l’alta velocità non so cosa sia strategico in Campania sul piano dei trasporti. Hanno bloccato la realizzazione del primo impianto della logistica sulla raccolta, il trattamento e la vendita dei fiori. Pensare che, dopo la Liguria, siamo la regione che produce maggiore quantità di fiori che vengono esportati in
I ritardi della Giunta Caldoro La tracciabilità dei fondi europei, in effetti, è a portata di click, ma, nonostante questo, si susseguono annunci e proclami sugli impegni di spesa e sull’utilizzo degli stessi.
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APPROFONDIMENTI
giro per l’Europa e il mondo. Ovviamente i produttori campani lamentano l’assenza di una piattaforma logistica che raccolga e metta al sistema questa forza e la rende più competitiva nei mercati internazionali. Doveva sorgere a Marigliano, c’erano tutte le autorizzazioni e concessioni, la concertazione con le parti sindacali e le imprese del
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settore, ma l’hanno tolta da mezzo. Con i fondi FESR, in effetti, la situazione non va molto meglio. Se, da un lato, è vero che il governo Caldoro ha raggiunto un risultato soddisfacente, nell’ultimo periodo, rispetto al target europeo, dall’altro, c’è da specificare che la dotazione iniziale di quasi 7 miliardi è stata ridotta a 4 miliardi e
mezzo. Di questo nuovo ammontare, è stata certificata la spesa per circa 1 miliardo e 800 milioni, ovvero il 38% di un totale di gran lunga più basso rispetto a quello di partenza del 2007. La situazione è peggiore con i FESR perché entro il 31 dicembre 2015 ci restano da spendere quasi 3 miliardi e mezzo di euro. Quando parliamo di spesa certificata, c’è da chiarire che non si tratta del bando di gara ma, volendolo immaginare, è la firma dell’assegno a lavori conclusi. L’Europa vuole sapere se questi soldi sono stati dati alle imprese che hanno lavorato, altrimenti queste risorse vanno in disimpegno. L’opposizione, però, è stata spesso silente su quanto mi sta dicendo. Si sbaglia. Il punto di critica che abbiamo sempre rivolto a Caldoro, con la richiesta di consigli monotematici sulla programmazione dei fondi, è stata proprio la partita dei finanziamenti strutturali. In una fase di crisi e recessione, avere risorse in cassa e non spenderle nel modo giusto e nei tempi giusti significa caricarsi di una responsabilità davvero devastante per le condizioni di migliaia di famiglie e verso il sistema produttivo ed economico delle imprese. Già due anni fa, proprio in consiglio regionale, suggerimmo di non mettere, come è stato fatto, il 60% di risorse su grandi progetti che non si realizzano in questa programmazione e non si realizzeranno mai. Vuol dire che circa 3 miliardi sono sui grandi progetti? Si, tra i quali ci sono progetti imponenti come il porto di Napoli per il quale si sono stanziati più di 250 milioni di euro. Dopo tantissimi annunci del Governatore e della sua giunta, oggi non abbiamo aggiunto un mattoncino nel porto e non siamo intervenuti in nessuna opera fondamentale per lo scalo partenopeo che, da grande scalo d’Europa e del Mediterraneo, è diventato scalo regionale. Inoltre, l’altra conseguenza è che non solo non spenderemo adesso queste risorse, ma stanno trattando con Bruxelles la possibilità di metterle a carico della prossima programmazione 2014-2020. I soldi non spesi impegneranno ed ipotecheranno già altrettante risorse per i prossimi 7 anni. Ad inizio anno è stato firmato il decreto per l’accelerazione della spesa. I comuni hanno
iniziato una corsa affannosa alla ricerca dei finanziamenti dei progetti e del placet del governo regionale. La nostra sensazione, incrociando alcuni dati che abbiamo e parlando con i nostri amministratori, è che prevalga il meccanismo della trattativa “one to one”: ovvero una lunga processione di sindaci che devono andare da Caldoro che, in prossimità della campagna elettorale, ha il potere di finanziare o meno il progetto. Spesso sono progetti che rispondono solo alla logica elettorale da seguire per quel comune. Cosa avrebbe proposto per utilizzare i fondi? Di certo non i grandi progetti poiché non si riusciranno a spendere. Puntare su alcune grandi linee di spesa come l’efficientamento e il risparmio energetico per le nostre città e le nostre imprese. Le infrastrutture primarie laddove abbiamo ancora tanti comuni che sono in affanno sulla situazione delle strade, dei sistemi fognari ed idraulici, l’accesso e la riqualificazione dei centri storici o la messa in sicurezza degli edifici scolastici che avevamo proposto prima ancora che il governo Renzi l’acquisisse come priorità nazionale. O ancora il credito di imposta alle piccole e medie imprese. Insomma avevamo individuato un pacchetto di iniziative immediatamente esecutive e cantierabili che avrebbero avuto l’effetto di mettere un po’ in moto l’economia regionale, di immettere liquidità nelle casse di imprese regionali e di aiutare uno dei settori dell’impresa campana particolarmente in difficoltà come l’impresa edile, bloccata sia sul versante dell’edilizia pubblica e privata, dei piani della rigenerazione urbana, sia sul terreno delle grandi realizzazioni. Del parco progetti della Regione Campania, (3.000 esecutivi e cantierabili) che aveva attinto dal sistema delle città, delle università e dal mondo imprenditoriale, oggi, con l’accelerazione della spesa, c’è il recupero di una parte di quei progetti. Mi risulta che l’assessore Giancane ha detto che abbiamo già raggiunto i tetti di spesa e quindi fino al 30 gennaio non si può spendere un euro. Sono passati, cioè, all’annuncio di Caldoro dei 1.000 cantieri all’impossibilità di spendere.
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APPROFONDIMENTI
di Maria Beatrice Crisci
Luciano Morelli, l’imprenditore dal sorriso rassicurante Giovani e green-economy, Confindustria investe sul futuro
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a circa due anni Luciano Morelli è al vertice di Confindustria Caserta. Amministratore delegato della Eco-Bat spa, società metallurgica, leader in Italia nella produzione di piombo secondario, con diverse esperienze maturate nel campo imprenditoriale, Morelli rappresenta l’apice di una categoria, quella degli imprenditori, che oggi attraversa un momento di grande difficoltà e fa i conti con una crisi che non solo non ha ceduto il passo all’auspicata ripresa, ma sembra essersi ulteriormente aggravata. Nei suoi rapporti con la stampa si rende sempre disponibile e ha accettato subito di buon grado e con il sorriso sulle labbra l’intervista. Presidente, come sono stati questi primi due anni al vertice dell’associazione datoriale? Il primo biennio in Confindustria è stato caratterizzato da un’evoluzione della crisi
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senza precedenti. Questo ha inciso ovviamente su tutto il tessuto industriale italiano che ha perso circa un quarto della capacità manifatturiera e in provincia di Caserta si è fatta risentire soprattutto per le imprese che sono legate al mercato nazionale. Quindi, le nostre poche imprese di eccellenza che esportano sono riuscite a resistere all’impatto della crisi, anche in settori abbastanza diversi. Ci sono aziende, ad esempio, del settore chimico che sono andate bene, altre, invece, hanno avuto difficoltà. In sostanza, questo primo biennio è stato caratterizzato da una rincorsa a tutti gli strumenti che potessero alleviare il peso della situazione. In che modo? Innanzitutto, nel credito per le piccole e medie imprese, abbiamo cercato di sfruttare al meglio le opportunità date dai fondi europei per mettere le imprese in condizioni di essere guidate per l’utilizzo di questi strumenti. Abbiamo cercato di operare anche
Il volano di cultura e belle arti La cultura può essere un fortissimo motore di sviluppo. Noi vorremmo che la Reggia di Caserta, più che una cattedrale nel deserto, diventi un attrattore che possa agire in maniera sinergica con il territorio. La Reggia deve essere aperta alle iniziative culturali e sociali, e agli spunti che gli imprenditori possono cogliere.
nell’organizzazione delle stesse imprese. È stato certo un biennio di resistenza più che di espansione, ma del resto la situazione questo richiedeva. L’intenzione è quella di essere sempre più vicini alle imprese sia sul versante della rappresentanza sia migliorando i servizi che diamo alle stesse. Presidente, il nostro grande patrimonio artistico-culturale potrebbe sicuramente essere sfruttato meglio e rappresentare un importante indotto economico. Quali le iniziative messe in cantiere in tal senso? Mi piace ricordare che il programma, elaborato due anni fa e riproposto ora con l’approvazione della giunta, prevede da una parte di aiutare le imprese esistenti sul territorio, dall’altra pone l’attenzione sui nuovi motori di sviluppo che sono la cultura, il turismo e la green economy, e poi il manifatturiero. Nello specifico, la cultura può essere un fortissimo motore di sviluppo. Noi Per i giovani abbiamo vorremmo che la Reggia creato dei percorsi formativi di Caserta, più che una cattedrale nel deserto, e stage, in particolare diventi un attrattore che abbiamo rinnovato l’iniziativa possa agire in maniera sinergica con il territo“Progetto Confindustria rio. La Reggia deve essere aperta alle per i Giovani”, iniziative culturali e soche sarà declinata ciali, e agli spunti che gli imprenditori possono in chiave Expo. cogliere. In buona sostanza trovare una economicità di utilizzo di questo bene. Dunque, non un reperto imbalsamato, ma qualcosa di vivo e di utilizzabile. Questo deve essere il futuro. Certo, c’è innanzitutto bisogno di mettere il nostro monumento in un circuito diverso. Poi, c’è la proposta del parco dell’Aerospazio di Caserta. Una importante struttura di edutainment e di attrazione turistica, promossa da Distretto aerospaziale campano e Confindustria Caserta, che si vorrebbe far sorgere nell’area Macrico». È questo, ricordiamo, un polmone verde di circa 33 ettari, in asse con la Reggia di Caserta, di proprietà della Chiesa e oggetto di una lunga vertenza tra Comune di Caserta e clero, quest’ultimo preoccupato di preservare l’ambiente e di evitare speculazioni edilizie. I promotori, Dac e Confindustria Caserta, pensano a un parco urbano con
ampi spazi verdi a disposizione della città e un’area con installazioni leggere di divulgazione scientifica. «Siamo convinti che potrà dare una grande spinta per il rilancio di tutto il territorio. Noi stiamo procedendo con il progetto – aggiunge con soddisfazione il presidente – e pensiamo di presentare quello preliminare dopo la primavera. Da sempre Confindustria apre le porte al mondo della scuola e, in particolare, ai giovani studenti. Siamo riusciti a ospitare giovani in aziende per stage formativi in diversi casi. Il concetto scuola-lavoro è un argomento molto importante. In Germania è una regola applicata in maniera precisa e su larghissima scala. Bisogna però anche dire che il tessuto industriale, imprenditoriale e produttivo della nostra provincia in particolare è fatto di piccole aziende. A questo si aggiunge che in un periodo di crisi non è facile che le stesse possano dedicare un po’ di attenzione ai giovani. Noi lo facciamo perché a Confindustria aderiscono soprattutto imprese strutturate che riescono a dare disponibilità. Comunque, per i giovani abbiamo creato dei percorsi formativi e stage, in particolare abbiamo rinnovato l’iniziativa “Progetto Confindustria per i Giovani”, che sarà declinata in chiave Expo. Ma sono convinto che si debba fare sempre di più. Per questo secondo biennio del suo mandato su cosa intende insistere o puntare? Sicuramente rilanceremo la green-economy come fattore di sviluppo, il mio messaggio sarà sempre questo: fare presto gli impianti. Tante volte la tecnologia può risolvere problemi che sembrano insormontabili. Presidente, chiudiamo questa nostra intervista con una considerazione sull’attuale Governo. Mi dice una cosa che non approva di Renzi e una, invece, che le piace? Quello che non apprezzo di Renzi è il fatto di dare l’impressione di voler portare avanti le cose da solo, non dico con Confindustria, ma in generale e anche con il sindacato. Ma è pur vero, e in questo lo apprezzo, il suo decisionismo. Il mio augurio è che Renzi possa dare luogo a riforme strutturali che interessino il modo di governare questo Paese. Ci dica la verità presidente: se le chiedessero di scendere in politica cosa direbbe? Certamente di no!
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APPROFONDIMENTI
INTERVISTA AL SEGRETARIO GENERALE UIL CAMPANIA
Anna Rea: «Renzi sembra essere molto peggio di Berlusconi» di Sveva Scalvenzi
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icembre è stato il mese degli scioperi. CGIL, UIL e UGL si sono mobilitati contro le politiche in materia di lavoro del Governo Renzi, in particolare contro il Jobs Act, approvato in Senato, lo scorso tre dicembre. Approvazione che anche nelle frange del PD ha creato non poco scompigli, tant’è che, durante la votazione alla Camera, ben 29 membri del partito, hanno preferito abbandonare l’aula. Al Senato, invece, spinti da un senso di responsabilità maggiore, hanno preferito portare a termine la votazione. E i sindacati hanno provato in tutti i modi a bloccare questa legge e giurano che continueranno, finché il Governo non darà loro ascolto. Sono convinti che non sia questo il modo più efficace per combattere la disoccupazione. Disoccupazione che è diventata la “peste” di questo secolo, soprattutto quella giovanile, che sta tocca, ormai massimi storici. E il Sud, nonostante siamo dinanzi a un declino su scala nazionale, paga lo scotto più duro di questa crisi. Ne abbiamo parlato con Anna Rea, Segretario Generale UIL Campania. Il 12 dicembre c’è stato lo sciopero generale, indetto da CGIL, UIL e UGL, quali sono i motivi per cui avete scioperato? Abbiamo scioperato per il lavoro, per i diritti e per difendere la dignità dei lavoratori e soprattutto di chi un lavoro non ce l’ha. Siamo un Paese che non cresce da anni, anzi i dieci mesi di Renzi hanno portato all’aumento del debito pubblico, dati che ci hanno portato a essere l’ultimo paese dell’OCSE. Siamo anche
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l’ultimo paese per reddito pro capite per capacità di consumo. Alcune dichiarazioni di Renzi, erano interessanti, come la riduzione del numero dei parlamentari, dei consiglieri, provvedimenti su cui la UIL si è molto battuta. Renzi sembra essere molto peggio di Berlusconi, io sono una che l’ha votato, lui vede i sindacati come il capro espiatorio dei problemi di questo paese, quando invece non ha toccato tutta la casta che lo compone, penso ai magistrati, ai professionisti. L’invito lo facciamo a tutti i parlamentari campani “pensate meno alla vostra poltrona, che vi è stata garantita, immaginate i disagi della gente del vostro territorio”. Parlando del Jobs Act, cosa non convince, voi del sindacato, di questo provvedimento? Il problema vero che hanno le imprese attuali e i nuovi investitori è che non c’è certezza dell’ordinamento giuridico, che ci sarà, rispetto ai rapporti di lavoro. In secondo luogo c’è una mancanza d’incontro tra domanda e offerta, questo lo si può creare solo se investi nei centri per l’impiego e sulla formazione. Ci troviamo nel pieno della crisi, con la mortalità delle aziende altissima, è impensabile immaginare di venirne fuori, senza dare strumenti alle aziende. Un’azienda può riconvertirsi se al progetto partecipa la forza lavoro con il sindacato. La UIL ha sempre lottato per la compartecipazione, questo modo di gestione attraverso il Jobs Act ci fa andare indietro anche nelle relazioni sindacali, all’interno dei luoghi di lavoro, noi siamo per il dialogo.
Le pratiche clientelari
Dalla Germania non dobbiamo copiare il modello, ma prendere d’esempio quel metodo, con cui le riforme sono state decise con i sindacati. Il clima che sta innescando Renzi va in tutt’altra direzione. Per quanto riguarda la legge elettorale, invece, a parer suo, le preferenze di genere andrebbero estese anche a livello nazionale? Non dovrebbe esserci il bisogno di questo tipo di certezza, se si scegliessero persone che abbiano delle competenze, sia per le donne che per gli uomini, persone che sul territorio si misurano con le questioni reali. Io credo che il tema della selezione della classe dirigente sia ripartire da partiti presenti sul territorio, che rappresentino con i loro circoli, momenti di confronto e dibattito. La regola dell’amico dell’amico, non può essere il criterio di selezione della classe dirigente. Credo che possa essere utile la parità di genere, ma prima bisognerebbe partire da quest’operazione di cambiamento. Come possono essere riassunti, secondo lei, gli ultimi cinque anni della Giunta Caldoro, quali sono i pro e i contro di questo Governo? Il Governo Caldoro ha fatto un’azione di risanamento di una pratica clientelare, che è stata fortemente abusata, a svantaggio dell’efficienza della macchina regionale, pensiamo alla Sanità e ai Trasporti, dove continuiamo
a pagare un prezzo altissimo per disservizi e tasse, per risanare un debito fuori controllo. Uno dei grandi limiti di quest’amministrazione è stato quello di essere legata a una burocrazia asfissiante. Un esempio sono gli accorpamenti delle società partecipate, come Campania Ambiente, che ha messo assieme un po’di vecchie aziende, provvedimento che abbiamo deciso un anno fa e ancora queste società non partono. I lavoratori, continuano a essere pagati, non hanno un carico di lavoro e soprattutto il lavoro che deve essere affidato a queste aziende, lo si perde a vantaggio di altre, fuori dalla Regione. Ci troviamo davanti a una logica che predica bene e razzola male. La sua esperienza nel sindacato è decennale, non crede sia giunto il momento di scendere attivamente in politica? Non vedo all’interno dei partiti, in questo momento, una progettualità e una ricerca di personale che non risponda alla cooptazione, prevalgono ancora logiche di tribù, piuttosto che cercare di valorizzare altre esperienze. Spero che la politica possa portare in campo risorse umane di grande qualità. Per come sono le discussioni ancora all’interno dei partiti, trovo ancora il sindacato, a differenza di quello che dice Renzi, un luogo più umano e diretto con le problematiche reali e più sano, in questo momento non vedo altro luogo, dove possa restare.
La regola dell’amico dell’amico, non può essere il criterio di selezione della classe dirigente. Il Governo Caldoro ha fatto un’azione di risanamento di una pratica clientelare, che è stata fortemente abusata, a svantaggio dell’efficienza della macchina regionale, pensiamo alla Sanità e ai Trasporti, dove continuiamo a pagare un prezzo altissimo per disservizi e tasse, per risanare un debito fuori controllo.
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CULTURA E FORMAZIONE
Il ruolo delle UniversitĂ la riscoperta dei saperi
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a cura della Redazione
Viaggio offline e online tra i corsi di scienze dell’educazione: esperienze a confronto
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pportunità economiche, opportunità culturali: la fusione Università-Territorio fa bene alla nostra Regione. È quanto afferma Gaetano Manfredi, Rettore dell’Università di Napoli Federico II nell’intervista rilasciata per questo numero di Link. Gli atenei rappresentano una città nella città e una fucina delle nuove classi dirigenti e dei “cervelli” che amplificano le possibilità di sviluppo del nostro Paese al fine di generare le credenziali per competere su scala internazionale. Nelle pagine che seguono l’intervista al Rettore Manfredi, è stato analizzato nello specifico il corso di laurea in Scienze dell’educazione attraverso un viaggio offline e online: l’ateneo tradizionale, ovvero l’Università degli studi di Salerno e la proposta “online”, l’e-learning e l’esperienza dell’Università Telematica Pegaso. Due esperienze a confronto, due modalità di fruizione completamente differenti, piani di studio simili e modus operandi differenti… Ma, la strada da percorrere prima di poter occupare fisicamente la cattedra di un istituto è davvero lunga: tirocini, abilitazioni, corsi di perfezionamento, primo livello, secondo livello… l’iter è corposo e il dato che emerge è che buona parte degli studenti non riesce a terminare il percorso nei tempi stabiliti. Ampia è l’offerta formativa dei due atenei analizzati in questo viaggio: laurea triennale, bienni di specializzazione in vari settori, corsi di perfezionamento, tirocini e stage. I contenuti delle pagine che seguono sono stati stilati in collaborazione con il Professore Francesco Piro che dal 2011 è a capo dell’area didattica di Scienze dell’Educazione dell’Università di Salerno e la Professoressa Lucia Martiniello, Professore aggregato e coordinatore scientifico-didattico dell’Università Telematica Pegaso. | 73
CULTURA E FORMAZIONE
INTERVISTA AL RETTORE GAETANO MANFREDI
Connettere Università e territorio genera grandi opportunità economiche e culturali “L’Università rappresenta una città nella città. L’Università non deve formare solo competenze ma anche personalità” di Samuele Ciambriello
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aetano Manfredi, 50 anni, ingegnere, professore di Tecnica delle costruzioni, il nuovo Rettore, è stato eletto Rettore dell’Università di Napoli “Federico II” lo scorso 5 giugno, alla prima tornata con il 90% delle preferenze. Un uomo di cultura con una grande vocazione per l’Università e la sua importanza per lo sviluppo economico e sociale del Paese: è quanto trapela dall’intervista rilasciata. Iniziamo dal programma di F2 Cultura, una mostra e una conferenza sulla figura affascinante e un po’ controversa di Federico II fondatore nel 1224 della nostra Università di Napoli. Perché questo appuntamento? Abbiamo iniziato con Federico II perché oltre ad essere il fondatore della nostra università è anche una figura estremamente moderna in questo periodo di grande crisi. Federico II è stato imperatore in un momento in cui esisteva una crisi
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economico-politica simile a quella dei giorni nostri e capì che per poter formare uno Stato doveva iniziare dalla cultura e formare una classe dirigente che fosse competente, ma anche aperta la dialogo. Basti pensare che alla sua corte c’erano arabi, ebrei, cattolici, personalità che venivano da ogni parte del mondo. Questo è un messaggio molto importante. La crisi sociale ed economica c’è, però più cultura significa maggiore libertà, quindi le università hanno una funzione non solo educativa, ma anche sociale. Certo, se vogliamo crescere non possiamo non partire dalla cultura e dalla formazione dei giovani, però dobbiamo anche essere capaci di generare una formazione e una cultura aperta in cui le persone dialoghino tra di loro, per combattere una cultura fatta di ideologie e contrapposizioni che non farebbe che acuire i problemi. Dunque, abbiamo bisogno di dibattito e di comprendere anche le ragioni degli altri: solo così possiamo costruire una nuova convivenza.
Le Università, a partire già dalla Federico II, veicolano il 25/30% dell’economia di Napoli Certo. L’Università rappresenta una città nella città, basti pensare che soltanto intorno alla Federico II ruotano più di centomila persone tra studenti, docenti, ricercatori e personale di servizio. Se consideriamo anche tutte le altre Università e i centri di ricerca napoletani arriviamo quasi a duecentomila persone, con un’economia pari a vari miliardi di euro che fanno riferimento a questo sistema, che dovrebbe essere anche una risorsa economica per la nostra città, una risorsa che purtroppo oggi non è sfruttata a dovere. Stabilendo una connessione tra l’Università e la città, si potrebbero creare grandi opportunità economiche e culturali. Se consideriamo che uomini e donne di cultura presenti nella politica vengono dall’università, quindi gli atenei potrebbero essere una fucina anche delle nuove classi dirigenti e di un nuovo modo di fare politica. Io sono del parere che uno dei doveri fondamentali delle università è proprio la formazione di una nuova classe dirigente, a partire dai giovani che si formano nelle nostre aule. Per questo motivo ritengo che l’Università non debba solo formare delle competenze ma anche delle personalità, delle persone capaci di essere casse dirigente. Essere classe dirigente non significa soltanto essere preparati, ma avere la capacità di ascoltare gli altri e leggere la realtà: solo così si riesce a fare una sintesi dei bisogni di tutti. Quali sono le luci e le ombre della politica regionale e nazionale sui temi dell’Università e della ricerca scientifica. In Italia, indipendentemente dai governi e dagli orientamenti politici, la scuole, l’Università e la ricerca scientifica sono sempre stati considerati costi, quindi soggetti a grandi tagli, invece dovrebbero rappresentare dei grandi investimenti. L’Italia, tra i Paesi occidentali, è quello che investe di meno in ricerca e Università; questo rappresenta uno dei motivi della crisi, perché se non disponiamo di capitale umano formato e non abbiamo industrie tecnologicamente avanzate, non
abbiamo le credenziali per competere sullo scenario internazionale. Fino ad oggi i nostri politici non hanno compreso l’importanza dell’investimento: la Germania ha costruito la sua potenza partendo proprio da investimenti importanti nell’Università e nelle scuole con un conseguente benessere e crescita economica importante. Per chiudere: Lei ha la vocazione per l’Università ma, come risponde agli inviti a scendere in campo politico? Li sta valutando o declinando? Sono lusingato perché ho un profondo rispetto verso quanti mi hanno sollecitato, ma penso soltanto alla mia funzione di Rettore, perché sto svolgendo un lavoro che necessita di tutte le energie di cui dispongo per rafforzare il ruolo del nostro Ateneo. In questo senso posso dare un contributo alla crescita della regione e della nostra comunità: mi auguro di darlo in questa forma, gli altri lo daranno impegnandosi in politica.
La città nella città L’Università rappresenta una città nella città, basti pensare che soltanto intorno alla Federico II ruotano più di centomila persone tra studenti, docenti, ricercatori e personale di servizio. Se consideriamo anche tutte le altre Università e i centri di ricerca napoletani arriviamo quasi a duecentomila persone, con un’economia pari a vari miliardi di euro che fanno riferimento a questo sistema
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CULTURA E FORMAZIONE
di Paola Liloia
A colloquio con il Prof. Francesco Piro L’offerta del dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università di Salerno
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re corsi di laurea, uno triennale e due magistrali. L’offerta dell’Università di Salerno dedicata alle Scienze dell’Educazione comprende un corso di studi di primo livello, omonimo, e due di secondo livello: Scienze Pedagogiche e Educatori professionali ed esperti della Formazione continua. Corsi di laurea che negli ultimi anni hanno visto ridursi il numero degli iscritti. Le ragioni ce le ha spiegate il professor Francesco Piro, dal 2011 a capo dell’ADSE, l’area didattica di Scienze dell’Educazione: «la diminuzione del numero degli iscritti è stata voluta perché tre anni fa abbiamo deciso di introdurre il numero programmato. Una scelta dolorosa perché, se è vero che vengono ammessi meno studenti ai nostri corsi di laurea, è altrettanto vero che gli aspiranti continuano a essere intorno alle 700 unità. Abbiamo però deciso di prendere solo un terzo di questi per una serie di ragioni. Innanzitutto, la difficoltà di gestione degli studenti per la pro-
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gressiva riduzione del corpo docenti e l’insufficienza di aule; a tal proposito è bene sottolineare che la nostra didattica si avvale dell’uso di computer per la proiezione di slide, strumenti in presenza dei quali la legge impone che le classi non siano sovraffollate. In secondo luogo, per l’impossibilità di assicurare a tutti e 700 gli iscritti un tirocinio adeguato o quantomeno decente; poi per la crisi occupazionale che interessa anche questo corso di studi e, infine, perché ci siamo resi conto che i punteggi bassi ottenuti dalle matricole alla prova iniziale di comprensione dei testi sono spia di insuccesso nella carriera universitaria o di conclusione degli studi fuoricorso». Proprio quello dei fuoricorso è uno dei problemi delle lauree afferenti all’area delle Scienze dell’Educazione presso l’Unisa: sono circa 1200 gli studenti che non terminano gli studi nei tempi richiesti contro i 1000 che, invece, si laureano in tempo. Tra le cause figurano sicuramente la tendenza,
I numeri di Fisciano Tre corsi di laurea, uno triennale e due magistrali. L’offerta dell’Università di Salerno dedicata alle Scienze dell’Educazione comprende un corso di studi di primo livello, omonimo, e due di secondo livello: Scienze Pedagogiche e Educatori professionali ed esperti della Formazione continua.
soprattutto dagli iscritti un po’ più avanti negli anni, di intervallare studio e lavoro, non facendo dell’università l’attività prevalente delle proprie giornate; ma pure la preparazione piuttosto scadente dei diplomati italiani, che rasenta quasi l’analfabetismo, per cui si rendono necessarie iniziative di supporto o il cosiddetto “anno zero”, in cui la matricola recupera il debito formativo accertato in ingresso. «Tutto
questo però è troppo oneroso in termini di risorse umane ed economiche per il dipartimento, per cui abbiamo deciso di essere più selettivi. Consideri inoltre – continua l’ordinario di Storia della Filosofia – che quello dei fuoricorso è un parametro utilizzato nelle ricerche, ad esempio del Censis, che relegano le università del Mezzogiorno agli ultimi posti nelle classifiche ufficiali. Anche se, a mio parere, non
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CULTURA E FORMAZIONE
è necessariamente spia di una cattiva didattica». Le lauree magistrali, anch’esse oggi a numero chiuso, danno la possibilità di approfondire due diversi ambiti disciplinari: quello sociologico, nel caso degli “Educatori professionali ed esperti della Formazione continua” e quello pedagogico filosofico per quanto riguarda “Scienze Pedagogiche”. Quest’ultimo corso, dando accesso al TFA e quindi aprendo le porte all’insegnamento, è il più gettonato tra i laureati di primo livello. «Nelle lauree magistrali recentemente la conoscenza della lingua inglese diventa un elemento selettivo perché ci siamo accorti di essere di fronte a studenti molto motivati, ma che
Il problema più rilevante però per i laureati di Scienze dell’Educazione è oggi quello del mancato riconoscimento della loro professionalità per cui si registrano percentuali di occupati al di sopra della media delle facoltà umanistiche, ma stipendi medi piuttosto bassi. non hanno un livello di conoscenza della lingua straniera pari al B2. Mentre l’inglese è fondamentale. Non a caso altri due parametri utilizzati nelle ricerche sulla qualità delle università sono il numero di studenti che partono in Erasmus e quello degli studenti stranieri che scelgono di venire a studiare all’Unisa. Su entrambi i fronti non abbiamo buone performance. Il problema più rilevante però per i laureati di Scienze dell’Educazione è oggi quello del mancato riconoscimento della loro professionalità per cui si registrano percentuali di occupati al di sopra della media delle facoltà umanistiche, ma stipendi medi piuttosto bassi. Secondo Almalaurea, nel 2011 a fronte del 45% dei laureati occupati entro i due anni dalla conclusione degli studi, lo stipendio medio si aggirava intorno ai 500 euro per le triennali e agli
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800-1000 euro per le magistrali, per lo più con contratti atipici e precari. «Non esiste una definizione precisa a livello nazionale di cosa debba fare un educatore. Sarebbe riduttivo ragionare solo nell’ottica dell’accesso all’insegnamento – spiega il professor Piro – l’educatore teoricamente si inserisce nel mondo delle professioni all’interno delle carceri, nei servizi sociali, nelle case famiglia, laddove si necessita di una terapia psicopedagogica, ad esempio nelle scuole, diventa una figura cruciale nel settore dell’intermediazione culturale. Il problema è che non c’è una legge specifica che dica quali educatori vanno inseriti in ognuno di questi contesti e quali competenze devono avere. Ed è chiaro che se consenti l’apertura di un asilo nido senza accertare il possesso di determinate competenze, il rischio è di trovarsi di fronte a
casi di cronaca sconcertanti. Finché si resta nella vaghezza, raramente si ottengono risultati concreti». Il non riconoscimento delle competenze apre la strada a comportamenti sbagliati da parte dei datori di lavoro pubblici e privati, accentuando lo squilibrio tra bisogno occupazionale, testimoniato dalle percentuali degli occupati, e livelli di reddito degli educatori. «Le racconto un aneddoto – continua Piro – su Wikipedia la definizione della parola educatore è cambiata già tre volte. L’educazione è una grande scommessa, soprattutto oggi, per la gestione e risoluzione dei problemi sociali. Servono competenze psicologiche, sociologiche e pedagogiche e la sfida, ma pure la prospettiva, sarebbe arrivare alla creazione di operatori dei problemi sociali. Attualmente risiede in Parlamento una proposta di legge per il riconoscimento della professione». Prima firmataria della proposta, presentata lo scorso ottobre, la deputata Vanna Iori che mira all’istituzione di un albo per educatori e pedagogisti. «Anche in questo caso – conclude il responsabile dell’ADSE – bisogna guardarsi bene dal favorire alcune corporazioni a scapito di altre perché esistono tensioni tra chi ha una formazione di tipo sanitario e chi no, con i primi che vorrebbero il monopolio sulle attività di tipo riabilitativo». Educatore educazione L’educazione è una grande scommessa, soprattutto oggi, per la gestione e risoluzione dei problemi sociali. Servono competenze psicologiche, sociologiche e pedagogiche e la sfida, ma pure la prospettiva, sarebbe arrivare alla creazione di operatori dei problemi sociali.
Scienze dell’educazione in dati Iscritti alla triennale in Scienze dell’Educazione A.A. 2009/2010: 700 A.A. 2010/2011: 450 A.A. 2011/2012: 405 A.A. 2012/2013: 411 A.A. 2013/2014: 312 Iscritti alle magistrali Scienze Pedagogiche Educatori professionali ed esperti della Formazione continua A.A. 2009/2010: 84 - 64 A.A. 2013/2014: 100 - 90 (dato in aggiornamento)
Scienze dell’Educazione Età media laurea: 25 Voto medio laurea: 103,3 Studenti-lavoratori: 7,2% Scienze pedagogiche Età media laurea: 26,2 Voto medio laurea: 109,4 Studenti-lavoratori: 14,7% Educatori professionali ed esperti della Formazione continua Età media laurea: 26,2 Voto medio laurea: 108,2 Studenti-lavoratori: 16,1%
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CULTURA E FORMAZIONE
di Franca Pietropaolo
Studiare Scienze dell’educazione attraverso i corsi di laurea online L’esperienza dell’Università Telematica Pegaso
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econdo il recente rapporto Almalaurea, soltanto 3 diciannovenni su 10 decidono di intraprendere un percorso universitario dopo il diploma. Da questa tendenza deriva il ridotto livello di scolarizzazione della società italiana. Lo dimostra soprattutto il numero di laureati nella fascia di età 25-34, pari a un misero 21% in Italia. Da questo punto di vista, il nostro Paese occupa i gradini più bassi della scala: siamo ai livelli di Repubblica Ceca e Turchia. In controtendenza rispetto al calo degli iscritti agli atenei italiani, negli ultimi dieci anni le università telematiche hanno conosciuto un vero e proprio boom nelle iscrizioni, con una punta del 40% di iscritti in più all’Università Telematica Pegaso. Questo perché, il numero di facoltà e corsi di laurea online riesce a coprire gran parte dell’offerta formativa tradizionale. Notevole è anche il risparmio: con-
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seguire una laurea attraverso il sistema e-learning prevede un’ampia riduzione dei costi rispetto a un corso offline. Inoltre, anche se spesso l’onere per le rette risulta essere più alto, le spese relative ai libri, ai trasporti e all’alloggio sono davvero irrisorie. A scegliere un percorso di studi telematico, sono spesso professionisti che desiderano conseguire ulteriori specializzazioni per avanzamento di carriera o per ridurre al minimo il tempo da sottrarre alla propria professione. In Italia, il primo ateneo ad aprire le porte al nuovo e stimolante universo dell’e-learning è stata l’Università Telematica Pegaso istituita con Decreto MIUR del 2006 e presieduta dal giovane imprenditore Danilo Iervolino. Tra il ventaglio dell’offerta formativa dell’“Ateneo telematico”, il corso di Laurea triennale in Scienze dell’Educazione vanta circa cinquemila iscritti dal 2007. Si tratta di
Pegaso in controtendenza In Italia, il primo ateneo ad aprire le porte al nuovo e stimolante universo dell’e-learning è stata l’Università Telematica Pegaso istituita con Decreto MIUR del 2006 e presieduta dal giovane imprenditore Danilo Iervolino.
un percorso di studi particolarmente interessante per chi decide di intraprendere l’iter dell’abilitazione all’insegnamento iniziando da un corso pertinente e per tutti coloro che, anche se già inseriti nel mondo del lavoro, avvertono l’esigenza di ampliare il bagaglio di conoscenze e competenze professionali. Il corso infatti fornisce abilità metodologicodidattiche nei settori dell’educazione e della formazione e sui processi di apprendimento-
insegnamento anche di discipline specifiche; capacità di progettazione e di gestione dei processi di orientamento scolastico e professionale dei processi formativi; conoscenze utili alla formazione attraverso attività creative con valenza socio-educativa; conoscenze e atteggiamenti scientifici in merito alla ricerca e alla sperimentazione nei settori delle Scienze dell’educazione e della formazione a livello locale e internazionale.
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CULTURA E FORMAZIONE
Le “opportunità di lavoro” per i laureati in Scienze dell’educazione e della formazione si concentrano sulle attività formative riferite a percorsi quali la formazione continua (o life long learning), la progettazione didattica e la formazione e l’educazione in ambienti extra scolastici. Questo tipo di laurea fornisce inoltre le basi per lo svolgimento di varie professioni quali: educatore professionale o di comunità, animatore socio-educativo, operatore nei servizi culturali e nelle strutture educative, formatore, progettista di formazione, istruttore o tutor nelle imprese, nei servizi e nelle pubbliche amministrazioni, esperto nella promozione e nella gestione delle risorse umane, esperto nel monitoraggio e nella valutazione dei processi e dei prodotti formativi. Professionalità applicabili sia nei settori del pubblico impiego che nel sistema di impresa e nel terzo settore. A completamento dell’iter di studi intrapreso nel triennio, Unipegaso propone il percorso magistrale biennale in Scienze Pedagogiche che offre contenuti e attività didattiche che perfezionano il profilo culturale, scientifico e professionale dell’esperto in scienze umane, pedagogiche e dell’educazione, perfezionandone le competenze in senso tematico, metodologico e progettuale nell’ambito educativo e dell’istruzione e qualificandolo come pedagogista. Dalla conclusione del percorso magistrale scaturisce la figura del pedagogista, un ruolo operativo sia a livello pubblico che privato, nonché una figura prevista nei concorsi e negli organici del pubblico impiego nei settori dell’istruzione, formazione, educazione. Anche le aree master e corsi di perfezionamento proposte da Pegaso e dettagliatamente illustrate per Link da Lucia Martiniello – Professore aggregato e coordinatore scientifico didattico dell’Università Telematica Pegaso – , si avvalgono di interessanti proposte per una formazione a 360 gradi, applicabile
in diversi ambiti occupazionali. Particolarmente interessante il Corso “Per una nuova metodologia didattica: apprendere ed educare nella società della conoscenza” che propone l’approfondimento delle più innovative metodologie didattiche e di ricerca in ambito sociale – il Corso che prepara al concorso per
I DATI DELLʼUNIVERSITÀ TELEMATICA PEGASO
60MILA
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100
300
FONDATA NEL 2006 HA ISCRITTO 60 MILA STUDENTI
SEDI NAZIONALI
OLTRE 100 CONVENZIONI CON ORDINI PROFESSIONALI SINDACATI ED AZIENDE
ADDETTI AI LAVORI, TRA CUI PIÙ DI 150 DOCENTI
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Dirigenti Scolastici – il Corso sulle strategie d’intervento nella didattica breve – il Corso di Metodologie didattiche, strumenti di valutazione nella nuova prospettiva docimologica o per i bisogni educativi speciali. (Tutti i dati relativi ai corsi di laurea, ai master e ai corsi di perfezionamento, sono reperibili insieme
ad altre informazioni, sul sito dell’Ateneo). Ma come si studia in un’Università Telematica? In che modo l’Ateneo “rintraccia” le esigenze dello studente? Prima di tutto l’Università Telematica Pegaso, consente allo studente una piena indipendenza e personalizzazione del programma di studi senza alcun vincolo di presenza fisica ma, monitorando continuamente il livello di apprendimento, anche attraverso i frequenti momenti di valutazione ed autovalutazione. Sono varie le figure professionali che affiancano il docente: il Tutor, il Mentore e il Coach che assistono il discente durante l’intero corso di studi, e contestualmente Tv Learning e Social Learning coinvolgono lo studente in una esperienza educativa davvero unica ed efficace. La metodologia didattica prevede la partecipazione alle attività della propria classe virtuale, coordinata da tutor esperti dei contenuti e formati agli aspetti tecnico-comunicativi della didattica on-line, e viene seguito dal titolare della disciplina che è responsabile della didattica. L’attività di guida/consulenza è svolta attraverso la creazione di spazi virtuali interattivi sincroni ed asincroni. Ma è ormai noto: al di là dell’offerta formativa proposta dai vari atenei e della preparazione del corpo docente, il tasso di disoccupazione resta comunque elevato. Risulta dunque interessante, in questo senso, il piano mutualistico “Occupato o rimborsato”, attraverso il quale l’Università Telematica Pegaso permette agli iscritti di “assicurare” i propri studi. In che modo? Gli studenti che a tre anni dal conseguimento del titolo, corso di laurea o master, non abbiano trovato lavoro saranno rimborsati dell’intera retta universitaria. Una sfida importante, ma anche un segnale a chi è a quanti sono deputati a creare lavoro e combattere la disoccupazione giovanile.
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CORSI DI LAUREA TRIENNALI E MAGISTRALI
MASTER DI PRIMO E SECONDO LIVELLO
CORSI DI ALTA FORMAZIONE E 10 CORSI DI PERFEZIONAMENTO
ESAMI SINGOLI
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CULTURA E FORMAZIONE
di Maria Beatrice Crisci
L’Università si tinge di rosa Rosanna Cioffi, in Campania la prima donna al vertice dell’Ateneo
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la prima donna in Campania al vertice dell’Università, una delle poche in Italia. Parliamo di Rosanna Cioffi preside del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali della Sun, personalità forte ed energica, grande appassionata d’arte e con un’esperienza alle spalle lunga ma anche piena di soddisfazioni. Nel suo bagaglio non solo competenze di management, ma anche esperienze istituzionali e di ricerca e tra i vari titoli, come non citare, quello conferitogli nel 2009 da Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese di “Chevalier de l’ordre du mérite”. Da qualche settimana accanto al suo impegno di preside anche quello di rettrice vicaria della Sun. Come ha accolto questo nuovo incarico? Questa apertura che c’è stata da parte del nuovo rettore Paolisso nei miei confronti,
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ma soprattutto del Dipartimento da me diretto negli ultimi sei anni è un segnale molto importante. Non solo perché donna, ma anche perché umanista, storica dell’arte, insomma una persona che si occupa di beni culturali. È senza dubbio un riconoscimento che ho sempre cercato anche negli anni precedenti nelle mie tante battaglie tese a dare il giusto peso a questo aspetto formativo, educativo che hanno le nostre discipline. Nell’economia della nuova governance io sono contenta di questo riconoscimento e di questa sua visione d’insieme che gli ha permesso di scegliere due componenti insolite: una donna e un’umanista. A questo punto come sarà il suo impegno? Sicuramente più intenso e di peso? Certo, ma questa è una cosa a cui ha pensato il nuovo rettore nel momento in cui mi ha dato una delega confacente a me, ov-
Una personalità forte ed energica Nel suo bagaglio non solo competenze di management, ma anche esperienze istituzionali e di ricerca e tra i vari titoli, come non citare, quello conferitogli nel 2009 da Nicolas Sarkozy, allora presidente d ella Repubblica francese di “Chevalier de l’ordre du mérite”.
vero alla Cultura. Quindi, io sono Prorettore vicario e ciò significa occuparmi di tutti i dipartimenti e sostituirlo in sua assenza, ma soprattutto l’impegno che mi è richiesto è quello di promuovere attività culturali di carattere universitario, ma anche con una forte attenzione alla divulgazione di questi saperi. In sostanza, l’Università che entra in sintonia con il territorio. Un territorio complesso, difficile, ma ricco di intelligenze come è quello di Napoli, Caserta e dell’intera provincia. E da questo punto di vista sono particolarmente motivata. L’intenzione è quella di sviluppare maggiormente le relazioni con il territorio, in primis con la platea studentesca e quindi, con imprese ed enti pubblici, in risposta anche con le richieste da parte della società civile e in coerenza con il ruolo sociale che l’Ateneo ricopre ormai da anni. Lo scopo è quello di usare l’eccellenza scientifica che la caratterizza per acquisire una quota crescente di progetti di ricerca nazionali ed europei. Nei nostri dipartimenti ci sono moltissime eccellenze non solo studenti, ma anche docenti. A loro e per loro andrà il nostro impegno. Quindi, il ruolo dell’Università? Sicuramente dovrà essere da stimolo affinché i vari contesti si adeguino alle nuove realtà professionali. Nei programmi dell’Ateneo c’è anche una maggiore attenzione al job placement, lo sviluppo e la messa in rete delle relazioni internazionali.
L’ampliamento delle attività di terza missione ed attività permanenti. Bisogna creare sicuramente delle sinergie anche con i vari Dipartimenti. Io ce la metterò tutta anche con la mia presenza sul territorio cercando di cucire rapporti sempre più forti per dare ai giovani che formiamo una giusta prospettiva. Lavorerò per un Ateneo dove gli studenti siano testimoni e coprotagonisti di un processo continuo di diffusione di conoscenze, di relazioni e quindi di collaborazioni con il mondo del lavoro. Sicuramente per un’Università con una prospettiva internazionale, perché il riferimento al territorio non deve limitare la capacità di integrarsi e di interagire con un contesto globale, come il nostro Ateneo ha fatto negli ultimi anni. Cosa si augura per questo Ateneo che ormai è la sua seconda casa? Che diventi sempre più forte sul piano della formazione e della qualità. Che si apra sempre di più all’internazionalizzazione un passaggio questo che sta molto a cuore al rettore e che io perseguo da anni. Nell’ambito del mio dipartimento ho avviato una visione sempre più internazionale e globale della conoscenza. Per cui è vero che i nostri allievi devono andare fuori per avere nuove esperienze, ma noi con i nostri saperi altamente qualificati dobbiamo essere sempre più in grado di attrarre studenti da altre realtà extraitaliane.
Il suo programma Lavorerò per un Ateneo dove gli studenti siano testimoni e coprotagonisti di un processo continuo di diffusione di conoscenze, di relazioni e quindi di collaborazioni con il mondo del lavoro.
Chi è Rosanna Cioffi Rosanna Cioffi è stata dal 2000 al 2002 Consigliere regionale della Campania. Ha al suo attivo più di cinquanta pubblicazioni tra libri, saggi e articoli, incentrati sullo studio delle arti figurative del Sette e dell’Ottocento e su temi legati alla conservazione e alla valorizzazione dei beni culturali. Ha organizzato esposizioni in collaborazione con le Soprintendenze di Napoli e dell’Aquila, ha collaborato a mostre internazionali ed ha promosso e curato la mostra Casa di Re. Un secolo di storia alla Reggia di Caserta, inaugurata nel 2004. È socio ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli, di cui è tesoriere dal 2004, socio ordinario dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Belle Arti in Napoli, e socio della Società di Studi sul XVIII secolo. Dirige progetti di ricerca, finanziati dal MIUR, per la catalogazione dei beni archeologici e artistici del comprensorio della provincia di Caserta; È consulente scientifico dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. È consulente scientifico del Museo Campano di Capua. È componente della Commissione cultura della Regione Campania, con delega consiliare per la promozione culturale del Consiglio regionale della Campania.
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di Marianna Quaranta
La cessione di Edenlandia e dello Zoo di Napoli Storia di un fallimento a lieto fine: intervista doppia a Salvatore Lauria e Nicola Graziano
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a diversi numeri Link sta seguendo la vicenda che ha visto protagonisti due attrattori della città di Napoli, lo zoo di Napoli ed il parco giochi di Edenlandia. Dopo un poderoso investimento di risorse umane e la mobilitazione di tribunali ed istituzioni entrambi i rami d’azienda sono stati assegnati ad imprenditori coraggiosi che si sono impegnati a procedere alla riqualificazione. A cinquant’anni dalla fondazione nel prossimo maggio 2015 anche il parco riapre le porte – per la verità mai chiuse – alla collettività con una veste nuova. Ne parliamo in una intervista a doppio binario con i protagonisti: il dott. Salvatore Lauria, curatore fallimentare, e con il dott. Nicola Graziano giudice delegato del fallimento. Dott. Lauria ci vuole raccontare la sua esperienza di curatore fallimentare del parco giochi Edenlandia e dello Zoo di Napoli? Si, in realtà di tratta di un’unica azienda che inglobava sia lo zoo di Napoli che il parco giochi di Edenlandia. Quando sono stato investito dell’incarico abbiamo avviato un esercizio provvisorio, abbiamo lavorato gomito a gomito con il dott. Graziano e devo dire che è stata un’impresa abbastanza ardua. Ne abbiamo risentito sotto tutti gli aspetti, fisicamente, economicamente e psicologicamente ed è un’iniziativa quella che è stata portata avanti veramente alimentata da uno spirito sociale. Sono energie che si sono spese per la città e che la città ha recepito con entusiasmo. Quando mi è stato proposto di avviare l’esercizio provvisorio mi sono subito accorto che la gestione non era semplice sia per il tipo di struttura che per le problematiche che avevano portato al fallimento. Ricordo che quando ho parlato con il Presidente del Tri-
bunale, il dott. Lucio Di Nosse per valutare l’opportunità di procedere all’esercizio provvisorio, gli dissi subito che dovevo verificare se vi era la possibilità di gestire il problema dei fitti con la Mostra d’Oltremare e la possibilità con i sindacati di ottenere per i lavoratori la cassa integrazione in deroga, diversamente, non ce l’avremmo fatta. Nel giro di 20 giorni abbiamo fatto queste verifiche ed è cominciata l’avventura... consideri che la gestione degli animali non poteva essere differita e quindi a prescindere da ogni ulteriore considerazione abbiamo dovuto fare fronte a quelle che erano le esigenze cogenti della struttura. Questo ci ha portato fortuna perché, quando poi si è sparsa la notizia del fallimento dello zoo e di Edenlandia, il fatto che la città abbia constatato che nonostante tutto la struttura era rimasta aperta, è stato recepito come un segnale molto positivo, sia per la collettività, sia per i dipendenti che chiaramente erano spaventati per il loro futuro. È stata una scelta sicuramente complessa perché abbiamo dovuto confrontarci con problematiche peculiari per consentire di mandare avanti l’attività d’impresa. Per esempio per gestire il problema delle giostre ci siamo rivolti a giostrai non napoletani, abbiamo dovuto affrontare – ripeto – il problema della gestione degli animali... insomma abbiamo avuto esperienze veramente particolari . Chi vi ha sostenuto? In questa vicenda va dato atto che vi è stato il grande supporto delle istituzioni che ci hanno aiutato veramente moltissimo, mi riferisco in particolare al Sindaco de Magistris. Debbo dire che nelle fasi iniziali è stato molto importante che fosse coinvolto il sindaco, ricordo che quando parlai con un mio caro amico Pino Narducci e gli chiesi di incontrare il sindaco, gli dissi che in campagna elettorale
Salvatore Lauria: Quando poi si è sparsa la notizia del fallimento dello zoo e di Edenlandia, il fatto che la città abbia constatato che nonostante tutto la struttura era rimasta aperta, è stato recepito come un segnale molto positivo.
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aveva detto di avere a cuore il futuro del parco. Perciò quando gli ho proposto di incontrare il presidente Di Nosse ha accettato con entusiasmo, anzi mi disse che era onorato e che lo avrebbe incontrato in tribunale. Quando il Sindaco è arrivato al 15°piano c’era una gran folla, all’epoca de Magistris aveva larghi consensi, è stato un piccolo evento per il tribunale di Napoli ed anche in quella sede ribadì la propria disponibilità ed il supporto necessario. Il fatto che ci siamo dati da fare è emerso anche dal fatto che molte aziende napoletane e molti napoletani ci hanno sostenuto. Quando abbiamo organizzato lo spettacolo musicale, abbiamo veramente coinvolto il mio studio, i clienti… tutti hanno dato una mano
“Ricordo con simpatia che molti supermercati della città ci mandavano cibo per gli animali con una tale abbondanza… loro erano felici e anche noi all’inizio… poi però con quelli dell’ASIA ”… per sostenere le spese di organizzazione Tra i primi eventi di apertura al pubblico, ricordo avevamo organizzato con una associazione una giornata di raccolta fondi per offrire una nuova apparecchiatura radiologica all’ospedale Santobono di Napoli, nell’occasione registrammo l’ingresso di due – tremila persone, fu un successo per la gestione provvisoria, anche perché la gente ha potuto toccare con mano il fine sociale dell’attività che stavamo facendo. Tecnicamente Me lo racconta un aneddoto carino, non quello degli elefanti perché già se lo è giocato il dott. Graziano in un’altra intervista… Ride – Ricordo con simpatia che molti supermercati della città ci mandavano cibo per gli animali con una tale abbondanza… loro erano felici e anche noi all’inizio… poi però con quelli dell’ASIA abbiamo dovuto smaltire
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due camion di letame è stata un’esperienza … impegnativa... abbiamo dovuto chiedere di essere meno generosi… Dottore, ma lo rifarebbe? Guardi nel mio lavoro di commercialista vedo le imprese napoletane messe letteralmente in ginocchio dalla crisi, le vedo spegnersi … quando il presidente Di Nosse mi ha detto se potevamo salvare lo zoo di Napoli e l’Edenlandia, mi sono sentito letteralmente investito di una missione per questo le dico che nonostante la fatica lo rifarei… lo rifarei per la città anche se non tutti hanno realmente compreso lo spirito di quello che è stato fatto Mi consente di dire un’ultima cosa? – certo! – interviene Graziano – si però fate dire qualche cosa pure a me…. – ridono – riprende Lauria – anche gli imprenditori cui è stata assegnata la gestione dei due rami di azienda sono stati scelti con estrema cura tra coloro che avevano al loro attivo un curriculum ed una esperienza imprenditoriale di tutto rispetto, mi riferisco sia a Francesco Floro Flores, sia a Schiano… va bhè!… il resto lo racconta il Consigliere… LA PAROLA AL CONSIGLIERE GRAZIANO E Lei Consigliere come ha vissuto questa esperienza? È stata sicuramente una esperienza particolare, anche perché all’Edenlandia come già detto, era abbinata anche la vicenda dello zoo di Napoli ed è stato un fallimento che ha presentato delle assolute peculiarità penso forse unico al mondo, credo che mai nella storia sia fallito uno zoo. Il parco giochi di Edenlandia è stato fondato cinquant’anni fa oramai, nel 2015 sarà l’anniversario del cinquantesimo compleanno, è un parco che vive nell’immaginario collettivo, dei nostri padri e dei nostri nonni che lì hanno vissuto la loro infanzia, la loro giovinezza e quindi momenti significativi della loro vita. Questo era un valore che bisognava conservare e d’accordo con il dott. Lauria abbiamo dato senso a questa azione proprio per difendere questi due posti importanti, il giardino zoologico ed il parco giochi. Tecnicamente quali sono i problemi che ha dovuto gestire? I problemi principali sono stati quelli legati alla gestione provvisoria dell’azienda zoo in
Nicola Graziano: La vicenda ha un lieto fine, qualche tempo fa lo zoo è stato assegnato all’imprenditore Floro Flores ed è in via di riqualificazione progressiva e nel tempo sta assumendo i contorni di uno zoo di carattere europeo.
particolare, anche se abbiamo mantenuta l’azienda Edenlandia aperta per più di un anno. Evidentemente sta nella circostanza che lo zoo non si poteva interrompere, la salute degli animali veniva messa a repentaglio in caso di interruzione dell’azienda per cui siano stati costretti ad esercitare l’attività, l’abbiamo fatto con la partecipazione di tanti, istituzioni e non. Ci ha aiutato il Comune, la Mostra d’Oltremare, ci hanno aiutato tanti volontari ed associazioni, il gruppo dei dottori commercialisti con la commedia “Troppi galli a cantare”… ci hanno dato una mano artisti napoletani in primo luogo, Barca Bentale con tanti altri che hanno tenuto un concerto gratuitamente e sia lo spettacolo teatrale che mi ha visto anche attore, sia gli artisti napoletani del concerto al Palapartenope si sono cimentati per raccogliere fondi per il mantenimento degli animali. Qualcuno Le contesta una eccessiva ingerenza in attività di questo tipo, Lei come pensa che debba essere ripensata la figura del giudice delegato anche rispetto a beni della collettività, come appunto l’azienda
Edenlandia Io credo che la funzione di giudice delegato è una funzione difficile che non può limitarsi alla sterile osservanza della norma e comunque ad una applicazione fredda della stessa… nella legalità, nella quale credo mi sono sempre mosso insieme con la curatela nel rapporto anche con le istituzioni e con la cittadinanza, abbiamo pensato che al di la di tutto, ci dovesse essere la tutela di valori, la salvaguardia del lavoro, della salute degli animali di valori, il verde pubblico, i ricordi, il volto della città di Napoli e questo l’ho scritto proprio nel mio provvedimento di continuazione dell’azienda per cui da questo punto di vista questa atipicità delle condotte era connessa ad un fallimento, ma credo che chi fa il giudice delegato sa che deve anche darsi carico di problemi che apparentemente non sono strettamente collegati a una funzione giudiziaria, ma è anche un manager, un protagonista di azioni e di scelte difficili da compiere … ci vuole un poco di incoscienza e un poco di forza di volontà. E come è andata a finire? La vicenda ha un lieto fine, qualche tempo fa lo zoo è stato assegnato all’imprenditore Floro Flores ed è in via di riqualificazione progressiva e nel tempo sta assumendo i contorni di uno zoo di carattere europeo, a breve arriveranno nuovi animali che lo ripopoleranno e c’è una grande risposta della città, in questo periodo autunnale, particolarmente caldo, il parco è stato molto frequentato, questo significa che i cittadini hanno a cuore questo posto. Ma, quindi, consigliere la politica ora si fa anche nelle aule di tribunale… No, non è politica, è una scelta collegata a valori nobili da tutelare, se poi per politica si intende, nel senso nobile del termine, avere un ruolo di partecipazione attiva, dare cioè un contributo per la salvaguardia dei beni comuni, bhè! allora si fa anche politica. Per quel che riguarda l’Edenlandia recentemente è stata aggiudicata, assegnata e trasferita ad una cordata di imprenditori napoletani capitaneggiati dall’imprenditore Schiano, leader nel settore delle biciclette ed incomincerà la riqualificazione in vista della riapertura che si spera avverrà nel prossimo maggio 2015 in occasione del cinquantenario dalla fondazione di Edenlandia.
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di Rosaria de Bellis
La crisi morde ma Benevento tira un sospiro di sollievo Crescono le assunzioni e le start-up. Esplode la cassa integrazione straordinaria
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un quadro a tinte fosche quello che emerge dalla provincia di Benevento a proposito di economia e occupazione. La crisi ha spazzato via interi comparti produttivi e con essi migliaia di posti di lavoro. Il territorio sannita ha subito anche la silenziosa spoliazione di alcune strutture pubbliche di primaria importanza come la Banca d’Italia, la Scuola Allievi Carabinieri e le sedi provinciali del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Le aree interne si impoveriscono e si svuotano con dati allarmanti sulla desertificazione sociale eppure qualche segnale incoraggiante l’anno in corso sembra regalarlo. Il punto di partenza sono necessariamente i dati del 2013 forniti dal Rapporto Tagliacarne della Camera di Commercio. In un solo anno il pil è sceso del 2,4%: è il terzo calo consecutivo dal 2011 che si accompagna alla contrazione del credito bancario e alla perdita di 9 mila posti di lavoro in un solo anno. A farne le spese sono stati soprattutto i giovani e le donne anche se gli osservatori dicono che la fase più severa di declino occupazionale sia stata superata. I settori tessile, del commercio, tabacchicolo ed edilizio sono quelli più penalizzati dalla crisi che, invece, ha visto in controtendenza l’aumento di piccole imprese che fabbricano mobili e che hanno fatto registrare la crescita del 57% delle esportazioni. Stessa tendenza anche per il settore turistico che ha visto l’aumento del numero di imprese giovanili. Segnali positivi nel settore agricolo sia in termini di esportazioni che di incremento occupazionale. Timidi segnali di ripresa si intravvedono anche nel 2014. Secondo le statistiche presentate dall’Osservatorio Excelsior di Unioncamere, vanno riviste al rialzo le stime occupazionali che avevano fatto le aziende sannite all’inizio dell’anno. Benevento, infatti, è tra le province in cui le imprese hanno cor-
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retto maggiormente al rialzo le prospettive di assunzione. Per il Sannio, la correzione è da rivedere al rialzo del 15 per cento. Tradotto in termini di nuovi posti di lavoro significa che le aziende assumeranno 310 persone in più rispetto a quelle previste a inizio 2014. Una tendenza comune a tutte le altre province campane, tranne Avellino. Per quanto attiene la provincia di Benevento, il trend va letto attentamente perché il saldo tra entrate e uscite dal circuito lavorativo resta comunque negativo. Le aziende hanno stimato infatti che il 2014 si chiuderà con 2000 assunzioni e 3000 uscite. Mille posti persi in un anno, quindi in perfetta continuità con il 2013. Eppure c’è un protagonismo positivo del territorio sannita per quanto riguarda, ad esempio, le start-up innovative. Benevento si colloca al 39esimo posto nella speciale classifica stilata dal report realizzato dalla Camera di Commercio di Milano. Nel Sannio ci sono 16 start-up innovative, lo 0,6% del totale nazionale. Erano 9 le aziende iscritte nell’apposita sezione del registro camerale a fine febbraio 2014. Nella precedente rilevazione, inizio autunno 2013, erano 6. C’è quindi un notevole trend di crescita, in linea d’altronde con quello nazionale, favorito anche dalla presenza di un polo di ricerca come l’Università del Sannio che ha punte di eccellenza soprattutto nel settore dell’ingegneria. Ci sono segnali incoraggianti anche relativamente ad altri settori: cresce, ad esempio, il numero di imprese che operano attraverso internet. Tra il 2013 e il 2014, infatti, è aumentato di tre unità, il numero di aziende che opera in settori legati a internet: passa da 33 a 34 il numero di imprese che si dedica al commercio on line. È aumentato di una unità anche il numero di aziende che si occupa dei servizi di accesso a internet e cresce anche il numero dei portali web. È aumentato, in maniera mag-
Dati in controtendenza Secondo le statistiche presentate dall’Osservatorio Excelsior di Unioncamere, vanno riviste al rialzo le stime occupazionali che avevano fatto le aziende sannite all’inizio dell’anno.
I numeri della crisi Secondo la Uil, le ore di cassa integrazione guadagni autorizzate a ottobre 2014 sono aumentate del 13,2% rispetto al mese di settembre. Analizzando i dati su scala provinciale, viene fuori che sono state autorizzate 35.639 ore di cassa integrazione ordinaria mentre sono 183.836 le ore di cassa integrazione straordinaria erogate.
giore, anche il numero di addetti del settore: internet comincia a dare lavoro nel Sannio. Un aumento piccolo, ma, di questi tempi, la non diminuzione è già di per sé una notizia: 26 erano gli addetti al commercio on line nel 2013, e sono diventati 48 nel 2014, così com’è cresciuto anche il numero di chi ha trovato un lavoro occupandosi dei portali web. È guidata da donne la maggior parte delle aziende di Benevento che si conferma la provincia più rosa d’Italia. Il dato riguarda anche il lato online dell’impresa sannita: il 48 per cento delle imprese che si occupano di questo campo è guidato da donne. Bene anche i giovani che vanno a chiudere il quadro con una percentuale altrettanto importante, 43 per cento del totale. Chiudono il quadro le imprese straniere che sono due. Non vanno bene invece i dati della cassa inte-
grazione. Le ore complessivamente autorizzate nel mese di ottobre 2014 registrano il picco più alto d’aumento dall’inizio della crisi economica. Secondo la Uil, infatti, le ore di cassa integrazione guadagni autorizzate a ottobre 2014 sono aumentate del 13,2% rispetto al mese di settembre. Analizzando i dati su scala provinciale, viene fuori che sono state autorizzate 35.639 ore di cassa integrazione ordinaria mentre sono 183.836 le ore di cassa integrazione straordinaria erogate. Somministrate poi 52.539 ore di cassa integrazione in deroga, con un totale di 272.014 ore. L’analisi comparata ci restituisce una percentuale di 52,2 per gli ammortizzatori sociali ordinari, +498,1 per la cassa integrazione straordinaria e -67,1 per quella in deroga. Totale complessivo di +2,7%.
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WELFARE E SOCIETÀ
INTERVISTA AD ANTONELLA LEARDI
«Sto ancora aspettando giustizia» La mamma di Ciro Esposito parla di Scampia, dei giovani, della scuola, e dei progetti per il futuro di Andrea Vitale
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una mattina di novembre, mezzogiorno è passato da un po’. Appena sceso dal pullman, avverto una netta sensazione, che mi sarà confermata pochi istanti dopo, nel tentativo di trovare un passante a cui chiedere indicazioni. Scampia è deserta, almeno da queste parti. Non un rumore viene dalle scuole o dalle case tutt’intorno. Sembra che questi alti palazzoni con l’intonaco scrostato trattengano dentro di sé ogni suono, diffondendo per le larghe strade solo silenzio. Scampia è ancora “spoglia”, per ripetere un aggettivo usato qualche minuto dopo da Antonella Leardi, mamma di Ciro Esposito. Anche se non come dieci o vent’anni fa. Un uomo mi indica cortesemente l’appartamento. Con ancora più gentilezza, vengo accolto in questa casa, come un vecchio amico di famiglia. La presenza di Ciro è dappertutto. Da quando Lei vive qui, ha notato dei cambiamenti nel quartiere, in positivo o in negativo? Sono venuta a vivere a Scampia più di trent’anni fa, e devo dire che è cambiata tanto, e in meglio, di anno in anno. Si pensi che prima il quartiere era molto più spoglio di come ap-
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pare adesso, non avevamo quasi niente. Poi sono venuti i primi supermercati, i trasporti pubblici sono migliorati, adesso c’è anche una stazione della metropolitana. Da questo punto di vista è diventato più facile spostarsi. Quali sono i pregi di questa zona di Napoli che è tanto spesso vituperata? Qui vive tanta gente onesta, posso assicurare di aver conosciuto tanti ragazzi di buona famiglia che hanno davvero voglia di lavorare, e che si accontenterebbero anche di guadagnare 20 € al giorno per il più umile dei mestieri, ma il lavoro manca, purtroppo. Noi abbiamo la fortuna di riuscire a mettere il piatto a tavola ogni giorno, ma ci sono molte persone che hanno difficoltà, genitori che faticano persino a comprare i libri ai loro figli; così io e mio marito non temiamo di offrire anche un piatto di pasta a chi ci è vicino. In famiglia abbiamo l’usanza di condividere anche il cibo. E poi non bisogna dimenticare che c’è il Centro Sportivo Maddaloni, la ludoteca gestita dalle Suore della Provvidenza, ed altre strutture che si occupano dei ragazzi che vivono qui. Sembra di capire che l’educazione dei giovani, e dunque anche la scuola, siano temi
Omertà e legalità Penso che l’artefice del delitto debba finire i suoi giorni in carcere, e non lo dico in quanto madre della vittima, ma come cittadina italiana, perché altrimenti noi, come Stato, abbiamo fallito.
che Le stanno a cuore. Secondo Lei cosa andrebbe cambiato nella scuola di oggi? Credo che uno dei problemi della scuola, probabilmente non solo a Napoli, sia la mancanza di progetti volti a inserire i ragazzi nel mondo del lavoro, ad insegnare loro un mestiere concreto. Magari si potrebbe prepararli a svolgere un lavoro di artigianato, e cominciare a vendere, già dalle scuole, i loro prodotti. Ma è soltanto un esempio. Anche a tal fine vorrei impegnarmi con l’associazione, per raccogliere fondi che possano servire proprio alle scuole e ai ragazzi più bisognosi, perché i ragazzi sono il futuro, è su di loro che bisogna investire. Parliamo proprio dell’associazione. L’associazione è stata ufficialmente fondata, anche se ancora non ci è stato affidato alcun locale che possa servire da sede. Ciro Vive non è un nome casuale. Sono convinta che la vita non finisca dopo la morte del corpo, ed è proprio la mia fede a darmi la forza per continuare a lottare, a credere che Ciro vive davvero ancora in noi, e quest’associazione può far sì che dal dolore nasca qualcosa di costruttivo, anche al di fuori del mondo calcistico. Avrei potuto lasciarmi andare, e invece
ho scelto di trasformare la sofferenza in un impegno positivo a favore degli altri. Dove vorrebbe che avesse sede l’associazione? Proprio a Scampia. Ciro è nato e cresciuto qui, è sempre andato a scuola qui, fin dalle elementari, quindi mi sembra giusto che la sede sorga nel suo rione. Lui amava Scampia, si è battuto spesso per il quartiere, insieme ai ragazzi sani di questa zona. Mio figlio era un guerriero nato, non che facesse del male a qualcuno, ma di quelli buoni. Io lo chiamavo “paladino”. E a proposito della giustizia in Italia, considerando anche le ultime vicende? L’incidente probatorio mi ha dato la sensazione che si giocasse tutto a favore di Daniele De Santis. Io ho perdonato fin dall’inizio, e posso ripeterlo ancora con sincerità. Mi auguro che l’assassino di mio figlio possa trovare la pace, ma ciò non toglie che debba pagare per quello che ha fatto. È stata strappata via una vita ad un ragazzo di trent’anni senza nessun motivo. L’incidente probatorio è stato davvero ridicolo e surreale. Mi auguro che il processo sia molto più serio. Sto ancora aspettando che sia fatta giustizia, continuo ad aver fiducia nella legge. Adesso ci saranno le testimonianze, poi si vedrà come andrà a finire. Penso che l’artefice del delitto debba finire i suoi giorni in carcere, e non lo dico in quanto madre della vittima, ma come cittadina italiana, perché altrimenti noi, come Stato, abbiamo fallito. L’associazione ha dei progetti in programma? Ce n’è uno previsto per il 23 dicembre al Policlinico Gemelli di Roma. Voglio iniziare da lì, perché lì Ciro è stato trattato come un principe dal Prof. Massimo Antonelli e da tutta l’equipe medica, che non smetterò di ringraziare finché avrò vita. Abbiamo già raccolto dei fondi con l’evento del 25 novembre, Buon compleanno in Paradiso, e se pure non saranno tanti, contiamo comunque di poter fare qualcosa per quei bambini che sono ancora lì in rianimazione. Si conclude così l’intervista. Un abbraccio, poi ancora uno sguardo alla casa. La freddezza delle nuvole grigie di fuori contrasta con il clima che c’è qui dentro. C’è più calore tra queste quattro mura che altrove.
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di Emanuela Sannino
Palma Scamardella: vittima Innocente di camorra Il ricordo della figlia: “avevo solo 15 mesi nel 1994”
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alma Scamardella era una giovane donna poco più che 30enne, viveva nei pressi di via Cannavino, una periferia ad ovest di Napoli, pianura, aveva un sogno non ancora coronato, formare una famiglia tutta sua, avere tanti bambini, ma nel frattempo non esitava a coccolare i suoi nipoti Francesco ed Enza, i figli di sua sorella Maria che tanto amava e tutti quei bambini che vivevano in quel cortile. Palma non a caso lavorava come baby setter, amava la vita, la sua famiglia e proprio come la sua terra, la si poteva paragonare al sole, il sorriso non le mancava mai come quella parola per sdrammatizzare su fatti o eventi poco lieti, Palma era ed è quella persona che ti mette di buon umore solo se la pensi o rievochi vecchi ricordi. Nel 1991 compì il primo passo verso quel suo sogno, si sposò e andando a vivere al piano superiore della casa natia, finalmente, dopo vari tentativi riesce ad avere una gravidanza e negli ultimi mesi del 1992, Palma scoprì che quel sogno presto si sarebbe completato con l’arrivo di una Figlia, Emanuela. Un nome non a caso, quel nome lo scelse proprio perché dopo vari trascorsi ha sempre confidato in Dio e riposto in lui fiducia e tutte le sue sofferenze, e quel nome, Emanuela, significando ‘Dio è con noi’ la riconduceva all’amore. Il 1993 e ‘94 furono per Palma anni di gioia per quel percorso di vita che da tanto aspettava, donare ciò che di meglio aveva a sua figlia, il suo amore! Arrivò dicembre e con esso lo spirito Natalizio, Palma era felice perché il Natale era la festa che preferiva in tutto l’anno e non resisteva ad aspettare l’8 dicembre per addobbare la casa a maggior ragione da quando era arrivata Emanuela, quindi per lei
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la festa iniziò prima. Il 12 dicembre del 1994 era, o per meglio dire, doveva essere un giorno come tanti, un giorno in cui Palma viveva il quotidiano, a casa della mamma al piano inferiore della villetta, si trovava con la sua famiglia, era ora di pranzo, le 14.15 l’ora in cui una bimba mangia e per questo Palma si recò a casa sua, al piano superiore dell’edificio per prendere degli omogeneizzati e dei pannolini.. il tempo passava e la mamma di Palma non la vedeva rientrare, sentì dei botti ma pensò che sono i bambini che avevano iniziato a sparare i fuochi, visto che il natale era alle porte, così si recò vicino alle scale, mano nella mano con Emanuela per chiamarla e vedere cosa sta facendo tutto questo tempo, ma Palma non poteva più risponde, non può più raggiungere la sua famiglia, sua madre, sua sorella, sua figlia, i suoi nipoti.. Palma Scamardella era a terra, morta, in un mare di sangue, tra le urla e il pianto della madre, Palma era morta a soli 35 anni colpita da un proiettile, sparato da due sicari dal cortile della strada, la vittima disegnata era un affiliato ad uno del clan del territorio del momento. Dopo l’accaduto, Maria e la sua famiglia hanno cresciuto Emanuela, donandole l’amore, protezione e l’educazione che Palma avrebbe voluto. Oggi, la famiglia Scamardella come tutti gli altri familiari di vittime innocenti si impegnano nel sociale portando la loro testimonianza nelle scuole, affinché, la memoria di tutte le vittime innocenti di camorra non cessi di camminare sulle nostre gambe. La famiglia Scamardella, Castaldi e Sequino per mantenere vivo il ricordo di Palma, Gigi e Paolo vittime innocenti di camorra, morti tutti e tre nel quartiere pianurese per mano criminale hanno adottato “delle aule della memoria” così battezzate, a loro dedicate..
Testimonianza profetica La famiglia Scamardella come tutti gli altri familiari di vittime innocenti si impegnano nel sociale portando la loro testimonianza nelle scuole, affinché, la memoria di tutte le vittime innocenti di camorra non cessi di camminare sulle nostre gambe.
A Palma, la sua famiglia, inoltre, ha voluto dedicare anche una borsa di studio ed una biblioteca presso la scuola media Giovanni Falcone, in via Pallucci a Pianura, affinchĂŠ quei ragazzini attraverso dei percorsi svolti con i loro docenti portino nel loro bagaglio di vita la bellezza di Palma, Gigi, Paolo, e tutte le altre vittime innocenti di camorra. Nel 2007 undici familiari di vittime diedero
vita al coordinamento campano dei familiari di vittime innocenti di camorra con lo scopo di camminare insieme, sostenendosi e standosi vicino anche durate i vari processi che ognuno di loro ha affrontato. Oggi la lista delle vittime innocenti in Campania comprende piĂš di 300 nomi. per la memoria e per l’impegno! ď Ž
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WELFARE E SOCIETÀ
di Gennaro Zollo
Tossicodipendenti e rifugiati politici: il “Borgo” di Roccabascerana Oltre i muri dell’indifferenza, vicini per sentirsi fratelli e cittadini del mondo
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iamo a Roccabascerana, Comune della provincia di Avellino che può contare poco meno di duemilaquattrocento anime, e proviamo a visitare il “Borgo”, comunità terapeutica e centro di accoglienza per rifugiati politici, situato in contrada Selvarana. La struttura, che si colloca nel paesaggio naturale che caratterizza il Comune di Roccabascerana, è operativa da poco più di otto mesi, e ospita, al momento, circa dieci rifugiati politici, provenienti per la maggior parte dalla Nigeria, e un tossicodipendente. Insomma, ci si “scontra” davvero con situazioni e problematiche che conquistano ogni giorno un po’ di terreno, diventando sempre più invasive nella nostra vita quotidiana. Sarebbe, perciò, davvero sbagliato voltare le spalle e far finta di niente. Al Borgo incontriamo i ragazzi rifugiati, ognuno con la sua storia, ma accomunati tutti dal fatto che la loro terra è ormai scenario di guerra, fame e violenze. Sembra di capire che la loro presenza qui, e in generale in Italia, sia temporanea. Come ognuno di noi, anche loro, nel desiderare una vita normale e dignitosa, hanno voglia di mettersi in gioco, di trovare un lavoro, semmai sperando di poter aiutare qualche familiare che è rimasto indietro, nella sua terra. Manifestano questa loro volontà senza alcuna pretesa, nel rispetto degli altri. Incontriamo inoltre il responsabile del centro, Angelo Moretti, il quale ci presenta il Borgo: in primis vi è da dire che questo luogo di accoglienza e promozione umana nasce dal fortunato incrocio di due volontà. Lo slancio pastorale del nostro Arcivescovo, Andrea Mugione che, fin da quando avviò il suo episcopato a Benevento, chiese con forza alla Caritas un segno concreto di vicinanza alle famiglia colpite dalla tragedia
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sociale delle dipendenze patologiche, e la volontà della comunità territoriale di Roccabascerana, che dal 1999 ha avviato la realizzazione di una Comunità Terapeutica con una progettazione ministeriale. Quando nel 2009 queste due realtà si sono incontrate è nato il “Borgo”. La Caritas Diocesana, aiutata dal Consorzio Mediterraneo Sociale guidato dall’eccellente Salvatore Esposito, fondatore della Comunità Il Pioppo, ha infatti da subito rivisitato la vecchia progettazione della Comunità della contrada di Selvarana, perché intravedeva il pericolo di una ghettizzazione del problema, ed il ritorno a logiche “separatiste” basate sulla costruzione di splendide ville fuori dai centri abitati, in cui la gente dovrebbe curarsi. La Caritas crede fortemente, ed il Comune di Roccabascerana anche, che il disagio non si vince mai con l’isolamento ma favorendo sempre lo scambio tra agio e disagio, tra cittadini e pazienti, habitat naturale e luogo di cura, tra la cura della persona e la cura delle relazioni, con gli altri ma anche con l’ambiente. Il dottor Monetti ci spiega il progetto, le attività, il cammino da fare con la comunità locale. Questo è il progetto del Borgo: 30 posti letto, una sala conferenze, laboratori e un grande refettorio, che potranno accogliere giovani affetti da dipendenze patologiche ma anche famiglie di turisti in visita al Bosco, giovani immigrati in cerca di un futuro migliore, gruppi parrocchiali, eventi culturali e formativi. Il Borgo diventerà presto un eccellenza regionale in campo naturalistico, del welfare, della produzione e del... cinema! Perché tra i tanti laboratori ne nascerà uno specifico sulle produzioni filmiche da cui ci aspettiamo tanto. In questo movimento positivo di solidarietà gli ospiti che si rivolge-
Le ragioni della solidarietà Il disagio non si vince mai con l’isolamento ma favorendo sempre lo scambio tra agio e disagio, tra cittadini e pazienti, habitat naturale e luogo di cura, tra la cura della persona e la cura delle relazioni, con gli altri ma anche con l’ambiente.
ranno a noi per il proprio recupero personale e la propria riabilitazione, non si sentiranno travolti, ma coinvolti, non utenti o pazienti, ma cittadini. Solo se la Caritas saprà annunciare un patto di fraternità, con loro, agli abitanti di Rocca, solo se tutti li sentiranno come cittadini con un disagio, e non un problema per i cittadini. Il Borgo è in definitiva una grande scommessa evangelica, culturale e potremo dire Costituzionale, perché raccoglie in sé i principi cardine della nostra Carta. Cercando di praticarli e farli praticare davvero. Si legge, nelle parole del responsabile, un
messaggio di grande speranza, la volontà di dare un’opportunità a chi è stato meno fortunato o vive nelle difficoltà. E questo messaggio rappresenta al contempo un’opportunità per lo stesso Comune di Roccabascerana e per i suoi cittadini, un’occasione per crescere assieme e condividere parte di questo percorso di crescita, arricchito dalle diversità culturali e non solo, durante il quale ognuno ha davvero la possibilità di essere vicino a chi ne ha più bisogno. È il momento giusto per tirar fuori il coraggio e abbattere, così, i muri dell’indifferenza!
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di Maria Beatrice Crisci
Il pranzo dei poveri L’iniziativa dei volontari dell’Opera Sant’Anna di Caserta con Don Giovanni Gionti
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uando offri un pranzo o una cena non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi, e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. Quella della povertà è una questione centrale e fondamentale nel Vangelo di Luca e a distanza di secoli il “fenomeno”, vuoi anche la crisi contingente, si è andato sempre più acutizzando divenendo quasi un dramma sociale. A Caserta la solidarietà ha il volto di un gruppo di volontari che ormai da cinque anni in occasione del Natale, con spirito di carità e di amore verso il “fratello” meno fortunato, si adopera per
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rendere luminoso un giorno che, altrimenti, sarebbe vuoto come gli altri. Sono i volontari dell’Opera Sant’Anna di Caserta che anche per il prossimo 24 dicembre sono già al lavoro per l’ormai tradizionale Pranzo di Natale. Ad aprire le porte del Santuario di Sant’Anna a più di trecento persone è don Giovanni Gionti, parroco della chiesa di San Vitaliano, e rettore del Santuario. È lui che da anni si adopera affinché la Chiesa dedicata alla Patrona della città possa “ospitare” tavoli e sedie, anziché panche per pregare. «Questo del 2014 – ci racconta don Giovanni – è il quinto Pranzo di Natale in cui con generosità e partecipazione noti ristoratori, piccoli e grandi imprenditori affiancheranno e supporteranno con succulente portate i volontari e quanti desiderino donare un po’ di tempo al popolo degli “invisibili”. Saranno tante le persone anche dei paesi vicini che l’Osa
Il volto della carità A Caserta la solidarietà ha il volto di un gruppo di volontari che ormai da cinque anni in occasione del Natale, con spirito di carità e di amore verso il “fratello” meno fortunato, si adopera per rendere luminoso un giorno che, altrimenti, sarebbe vuoto come gli altri.
segue e sostiene tutto l’anno per dar loro un pasto, un abito, una coperta, un paio di scarpe e quanto altro abbiano bisogno. Molti sono della nostra comunità e tanti quelli che si vergognano a mostrare il loro disagio. Non è facile comunque rispondere a tutti i fabbisogni. Purtroppo a Caserta non c’è una vera e propria mensa, ma ogni parrocchia si organizza per sé assistendo gruppi di persone più o meno numerosi». E le Istituzioni, don Giovanni? «Sono assenti o pronte solo a contestare». Invero, il lavoro dei volontari non si limita al Natale? «Certo, ogni mercoledì ormai da tempo portiamo pasti alla stazione, circa un centinaio. Cerchiamo comunque di aiutarli se occorre, anche in altri giorni della settimana. Non c’è cosa più bella che assistere un fratello in difficoltà». Una frase quest’ultima che non si è soliti raccogliere e che certo ci riscalda ancora di più l’animo, perché loro, i volontari dell’Osa,
E le Istituzioni, don Giovanni? «Sono assenti o pronte solo a contestare». «Non c’è cosa più bella che assistere un fratello in difficoltà». ci credono davvero. «È proprio così. Da qualche anno – aggiunge don Giovanni – portiamo avanti un’attività che consiste in un incontro di preghiera ogni mercoledì. Giorno in cui poi vengono preparati i pasti da distribuire davanti alla stazione. Tutto questo anche grazie alla disponibilità di diversi ristoratori che a turno ogni settimana offrono chi il primo piatto, chi il secondo. Così che almeno una volta alla settimana c’è un pasto completo per questi nostri fratelli sfortunati. Oltre a questo naturalmente distribuiamo anche del vestiario che abbiamo in abbondanza. Indumenti in buono stato che ci vengono dati da persone a noi vicine». Le volontarie ricordano poi che «ai partecipanti al Pranzo di Natale viene consegnato un pacco dono contenente una coperta, una torcia, un impermeabile e un
piccolo panettone. A ciò viene aggiunto anche un plaid nuovo. Chi volesse offrire questo contributo sarà ben accetto». L’Opera Sant’Anna ha però un progetto, invero, già quasi realizzato? «Lei parla della costruzione di una mensa quotidiana con servizi, il progetto Palazzo della Solidarietà, che nasce dall’esperienza del “Pranzo dei Poveri” e che doveva trovare collocazione nella struttura ex biblioteca comunale di via Roma. Purtroppo la cosa non è andata avanti e stiamo cercando altri posti, magari liberando degli ambienti qui nel Santuario o nella parrocchia di San Vitaliano». Sta di fatto che la struttura Palazzo della Solidarietà sarebbe dovuta diventare un punto di riferimento per la città, un fondamento della solidarietà cittadina, un contenitore di tutta una serie di attività, un centro aperto a tutti senza distinzione di religione e di appartenenza etnica, dove si sarebbero svolte quotidianamente una serie di attività di sostegno e accoglienza gratuite per gente bisognosa, oltre a soddisfare i bisogni primari e reali di persone lasciate troppo spesso in balia della indifferenza sociale. Insomma, un servizio mensa 365 giorni l’anno, un punto di riferimento per tutti. Il progetto al quale avevano lavorato tanti e seri professionisti casertani purtroppo non si sa per quale intoppi burocratici o altro si è bloccato e per il momento non si intravede la sua realizzazione. Un vero peccato! Soprattutto se si tiene conto dei dati del rapporto Caritas 2014, secondo i quali cresce la percentuale di persone in situazione di povertà. La Caritas sottolinea, nel suo studio, come in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile e il mancato adeguamento di sei milioni di pensioni ai cambiamenti del costo della vita abbiano avuto un impatto negativo sulle famiglie italiane. Questo soprattutto in un periodo in cui i giovani trovano con difficoltà lavoro e sono in gran numero disoccupati. Fra i sette Paesi analizzati dal rapporto l’Italia ha la percentuale più alta di Neet, giovani che né studiano né cercano lavoro. Questo fa quindi diventare il contributo dei pensionati ai redditi familiari ancora più importante.
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La rinascita di Mahlet Richiesta di solidarietà dal Liceo “Brunelleschi” di Afragola di Lorenza Iavarone
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gregio direttore, sono Lorenza Iavarone, membro del Gruppo di solidarietà Mahlet e scrivo per inoltrarvi una richiesta d’aiuto. Innanzitutto, volevo iniziare con lo spiegarvi chi siamo e di cosa ci occupiamo. Il Gruppo Mahlet è nato nel L.S.S. “F. Brunelleschi” di Afragola una decina d’anni fa all’indomani di un incontro con Carlo e Franca Travaglino, due persone che da più di 40 anni si occupano degli svantaggiati che vivono sparsi nel Corno d’Africa. In quell’incontro ci parlarono del progetto, nato all’interno del Forum Infanzia “Gregorio Donato”, di costruire un Centro dei Diritti dell’Infanzia a Quihà, nel Nord -Est dell’Etiopia. Io ero tra coloro che visionarono per la prima volta un filmato dei Travaglino che rappre-
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sentava la situazione dell’Etiopia. Noi studenti rimanemmo colpiti dall’immagine di una bambina esile, sofferente e intubata. Era sieropositiva e orfana in quanto i genitori morirono di AIDS. Si chiamava Mahlet, un nome che vuol dire “preghiera con il canto”, ed aveva solo la nonna dalla quale non si staccava nemmeno un minuto. Con un programma di nutrizione mirato i medici erano riusciti a far riprendere la piccola Mahlet. Oggi è una splendida adolescente con la quale abbiamo contatto tramite la persona che la segue lì in Etiopia, Letay. Mahlet ha rappresentato il simbolo della “rinascita” per noi studenti del Liceo che pensammo che con un aiuto si potevano creare le condizioni per salvare tante piccole vite umane. Qualcuno tra noi lanciò l’idea di creare
un gruppo di solidarietà all’interno del Liceo. L’idea raccolse un consenso unanime e si volle dare al gruppo il nome di “Mahlet”. Come Gruppo Mahlet, in questi anni, abbiamo messo in moto la nostra creatività promuovendo numerose iniziative all’interno del liceo come mercatini di Natale, vendita uova di Pasqua, vendita frutti del nostro giardino didattico, offerte spontanee da parte di docenti e studenti e anche esterne al liceo come la vendita di beneficenza il giorno di Sant’Antonio. Abbiamo
Come Gruppo Mahlet, in questi anni, abbiamo messo in moto la nostra creatività promuovendo numerose iniziative all’interno del liceo come mercatini di Natale, vendita uova di Pasqua, vendita frutti del nostro giardino didattico, offerte spontanee da parte di docenti e studenti e anche esterne al liceo come la vendita di beneficenza il giorno di Sant’Antonio. contribuito alla costruzione di due moduli del Centro dei Diritti dell’Infanzia “Gregorio Donato” a Quihà-Makallè e oggi a 168 bambini è assicurata un’alimentazione sana, l’assistenza sanitaria e il gioco. Molti di quei primi studenti hanno lasciato da anni il Liceo ma non hanno abbandonato Mahlet. Questo ha portato alla duplice versione del Gruppo Mahlet: quella interna che si rinnova ogni anno, ma continua ad operare con molteplici iniziative guidato, oggi, dalla Prof.ssa Angela Orefice e quella esterna costituita da ex studenti, qualche docente e qualche amico che fa riferimento, essenzialmente, al Forum dell’Infanzia “Gregorio Donato”. Attualmente il gruppo degli ex studenti con una serie di iniziative, di carattere culturale, di tipo promozionale, raccoglie qualche fondo per contribuire alla vita dei due Centri per l’Infanzia di Quihà in Etio-
pia ma è qui che parte la nostra richiesta d’aiuto. Per rinvigorire la somma annuale da inviare in Etiopia e provvedere alla crescita e agli studi della piccola “Mahlet”, alcuni esponenti del gruppo (e non solo!) hanno preso l’impegno di contribuire con 5€ mensili che vengono raccolti ogni 6 mesi da me, Lorenza Iavarone per Afragola e Casoria e da Aldo Bifulco per Napoli. Il contributo per Mahlet viene inviato direttamente mediante bonifico bancario, mentre il contributo per il Centro dell’Infanzia viene inviato al Forum Infanzia che provvede ad inviarlo, sommandolo ad altri contributi provenienti da altri versanti, in Etiopia. Ci tengo a sottolineare che noi non tratteniamo assolutamente niente di ciò che raccogliamo durante le nostre iniziative. Tutto quello che viene raccolto, viene mandato interamente tramite bonifico in Etiopia. L’esiguità del nostro aiuto a fronte di esigenze sempre crescenti, anche perché, come testimoniano costantemente Franca e Carlo Travaglino nei loro periodici viaggi in Etiopia, la crisi che si vive in quelle zone mette in grave pericolo la stessa sopravvivenza della popolazione, falcidiata dalla fame e dalle malattie, ci ha indotto ad INTERPELLARE tutte le persone di buona volontà che sono passati per il Liceo, ma anche quegli amici che hanno avuto modo di relazionarsi con l’esperienza di Quihà. 5 € al mese non scalfiscono le nostre finanze, ma hanno un valore inestimabile in questi avamposti della povertà. Chi vuole assumere questo impegno può far riferimento a me o all’altro responsabile facendosi inserire nella lista oppure versare la somma tramite bonifico utilizzando il seguente IBAN IT87O0101067684510304887447 intestato a Iavarone Lorenza, tesoriere del “Gruppo Mahlet - Afragola” con la causale “Centro per i diritti dei Bambini Gregorio Donato”. Ma c’è un altro impegno che va profilandosi sulla spinta di Eugenio Zito (ex studente del Liceo) che è stato a Quihà: la necessità di costruire una sala parto e aggiungere un altro pezzo importante, indispensabile per la comunità che si sta costruendo attorno ai Centri dell’Infanzia “Gregorio Donato”. Franca e Carlo tra alcuni giorni dovrebbero tornare dall’Etiopia e ci potranno fornire i dati precisi relativi al progetto. Noi non ci tireremo indietro e ci mobiliteremo anche per questa iniziativa. Volete darci una mano?
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RECENSIONE a cura della redazione
Ri – Partire dalle Periferie di Domenico Pizzuti Il nuovo libro della collana We Care, diretta da Samuele Ciambirello ed edita da Linkcomunicazione
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i-Partite dalle periferie e farlo attraverso un dialogo tra un ventenne e un ottantenne. È questo il viaggio che il gesuita e sociologo Domenico Pizzuti ha intrapreso con il giovane genovese Giacomo D’Alessandro. Centonovanta pagine di aneddoti, analisi, interviste, racconti ed esperienza di vita vissuta: dai campi rom alla mala politica, dagli episodi felici ed infelici della Napoli di periferia alle riflessioni politiche e socio-culturali. Questo ed altro ancora è il volume edito da Linkomunicazione per la collana editoriale WE CARE, disponibile nelle librerie Campane e sui principali book-store online. Un libro-dibattito un dialogo con e per la società, una simbiosi di campanelli d’allarme su tematiche-emergenza. La prefazione, affidata ad Alex Zanotelli, elogia la figura di padre Domenico attraverso parole di stima, ammirazione e amicizia. Padre Pizzuti – scrive Zanotelli – dopo il suo ritiro dall’insegnamento alla Facoltà Teologica di Posillipo, non si è rifugiato in una comoda casa di riposo dei Gesuiti, ma è andato a vivere in una periferia degradata come
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Scampia. Da lì sta seguendo da anni, con il Comitato Campano con i Rom, la tragica situazione dei Sinti e dei Rom a Napoli e in provincia. Da anni abbiamo lottato e lottiamo per i diritti dei Rom, che a Napoli vivono una situazione tragica. Non ho mai visto in Italia situazioni così degradate e disumane come quelle in cui sono costretti a vivere i ROM. Con padre Domenico ho seguito la tragica vicenda dei Rom di Giugliano, sgomberati dal loro campo perché “inquinato”, ma poi, raminghi per ben due anni da un posto all’altro, sono stati “scaricati” in uno dei luoghi più “inquinati” di Giugliano: Masseria del Pozzo. Insieme abbiamo visitato tutti i campi Rom a Est di Napoli, da quello di via del Riposo a quello di S. Maria del Pozzo a Barra, da quello di Virginia Wolf di Ponticelli ai 4 di via Brecce a Gianturco. Insieme abbiamo visto gli orrori di tali campi, che ha spinto P. Pizzuti a parlare di “Emergenza Umanitaria”. Insieme abbiamo assistito alla tragica cacciata dei Rom dal campo di Via del Riposo, dato poi alle fiamme, espressione del montante razzismo napoletano verso i Rom. Il
La prefazione di Alex Zanotelli Padre Pizzuti – scrive Zanotelli – dopo il suo ritiro dall’insegnamento alla Facoltà Teologica di Posillipo, non si è rifugiato in una comoda casa di riposo dei Gesuiti, ma è andato a vivere in una periferia degradata come Scampia.
triste episodio dei raid di cittadini napoletani contro le famiglie di Rom romeni, abitanti da un decennio il campo di via del Riposo – ha scritto p. Domenico – lascia l’amaro in bocca e suscita sacrosanta indignazione per i metodi violenti che hanno il carattere di progrom, di intolleranza verso il diverso, di pulizia etnica, e fanno emergere preoccupanti segni di razzismo nella nostra città. In questi anni, ho camminato a lungo con P. Domenico e ho potuto toccare con mano la sua passione per i Rom, gli impoveriti, gli emarginati. E questo non perché è un sociologo, ma perché è un uomo di Dio, che vede nel volto degli ultimi il volto del Crocifisso. Il povero, nella sua indigenza, è il volto di Cristo – scrive il teologo Bruno Chenu – l’identificazione non è generale, ma personalizzata: ogni volto di povero è icona di Cristo. E per ciò stesso diventa rivelatore del cattivo ordine del mondo, denunciatore dell’ingiustizia regnante. Attualizzando Cristo, il povero attualizza il giudizio di Cristo su ogni società”. È per questo che P. Domenico, proprio perché parte dagli ultimi, è così duro nei suoi scritti con il Sistema economico-finanziario, perché necessariamente produce sempre più povertà e emarginazione. In questo P. Domenico è in sintonia con Papa Francesco: Così come il comandamento Non uccidere pone un limite chiaro per assumere il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e dell’in-equità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza via d’uscita. (Evangelii Gaudium) È quanto P. Domenico sta toccando con mano in quella periferia degradata di
Scampia, dove vive. Ed è per questo che P. Domenico è anche così tagliente nei suoi scritti con l’apparato ecclesiastico, così lontano dai problemi della gente, così lontano dai poveri, dagli esclusi, dai Rom. E’ la passione per Gesù riconosciuto nel volto dei poveri, che muove P. Domenico a fustigare anche la Chiesa e ad invitarla a convertirsi come sta facendo Papa Francesco. Una Chiesa che esca dalle sacrestie, che si impegni a fianco degli impoveriti e degli esclusi. La dignità della persona umana – afferma Papa Francesco in Evangelii Gaudium – e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica. Ecco perché è importante che ci sia una voce forte, in questa Napoli, come quella di P. Domenico Pizzuti che, a 80 anni suonati, continua a tuonare! (dalla prefazione di Alex Zanotelli)
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Vaccini anti-influenza Intervista all’infettivologo Domenico Di Caprio Nessuna correlazione tra i due lotti di vaccino antinfluenzale Fluad della Novartis e una ventina di decessi sospetti di Maria Beatrice Crisci
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l Comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza, riunito presso l’Agenzia Europea dei Medicinali a Londra, ha concluso che «non esiste alcun nesso causale tra i vaccini antinfluenzali e gli eventi avversi segnalati in questi giorni». A scagionare il Fluad è stato il Comitato per la Farmacovigilanza dell’Agenzia Europea per il Farmaco (Ema), che ha appunto indicato come non vi sia alcun rapporto con le morti segnalate. L’Ema ha dunque invitato a continuare le vaccinazioni e ha riconosciuto all’Aifa la correttezza dell’azione di sospensione precauzionale. Va detto comunque che, l’allarme era scattato sui decessi potenzialmente legati al vaccino antinfluenzale Fluad prodotto dalla Novartis. Una ventina le morti sospette in 8 regioni: Sicilia, Molise, Puglia, Toscana, Emilia Ro-
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magna, Lombardia, Lazio e Umbria. L’ultimo caso di morte sospetta è in Umbria, a Spoleto. Migliaia di persone hanno temuto per la loro salute e per quella dei loro cari. Morti sospette collegate appunto all’uso del vaccino antinfluenzale. Una vicenda piena di incertezze che si è trasformata ora dopo ora in una vera psicosi collettiva. In Campania fortunatamente non si è registrato nessun caso, ma la paura è tanta. Ne abbiamo parlato con l’infettivologo Domenico Di Caprio dell’Ospedale Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Dottore, come può succedere una cosa del genere? È vero che ci sono stati questi morti, ma è anche vero che si è trattato di persone di una certa età. Un novantenne può morire in qualsiasi momento della sua vita. La vera complicanza di un vaccino è la encefalite
postvaccinica, che capita in casi eccezionali, ma è prevista. Non conosco esattamente le cause di morte di queste persone, ma non mi pare che nessuna di queste sia morta per encefalite. Ma è opportuno vaccinarsi o no? Io non faccio praticare il vaccino a soggetti in buona salute, ma non sono contrario. In ogni epidemia di influenza i decessi ci sono sempre stati. La vaccinazione non garantisce l’assoluta sicurezza nei confronti di chi viene vaccinato, perché può non prendere il virus influenzale ma uno parainfluenzale che può essere peggiore. Partendo da questi presupposti ribadisco che non sono contrario al vaccino, ma sostengo che l’influenza è una malattia virale che può risolversi bene come nella maggior parte dei casi. Di conseguenza
Il presidente dell’associazione, Carlo Rienzi, ha detto: «L’Aifa dovrà inoltre rispondere delle omissioni segnalate dalle regioni e, se verrà accertato un nesso tra i decessi e il vaccino, anche di concorso in omicidio colposo». non ho mai ritenuto opportuno somministrare il vaccino a persone che non avessero motivo di praticarlo. Invece, vedo che ci sono persone giovani che si vaccinano e non ne capisco il motivo. Bisogna aggiungere poi che, se la morte è da imputare a questi vaccini, negli anni quante persone sono state vaccinate e non sono morte. Il problema non è il vaccino, ma la preparazione, che probabilmente è stata fatta troppo velocemente e forse non sono state seguite tutte le tappe necessarie. Ripeto, se queste persone non hanno avuto uno shock anafilattico o encefalite postvaccinica è molto riduttivo attribuire la morte di persone anziane al vaccino. A chi è convinto di doverlo fare che risponde? Lo facessero pure, è una scelta. Intanto, va detto che è stato istituito il nu-
mero verde 1500 del Ministero della Salute che fornirà informazioni sui vaccini antinfluenzali. I controlli continuano a ritmo serrato. L’azienda farmaceutica produttrice del vaccino, la Novartis, dopo la sospensione cautelativa dei suoi vaccini, ha diffuso una nota: «Le verifiche di conformità dei due lotti di vaccino antinfluenzale Fluad ritirati in via cautelativa dall’Agenzia italiana del Farmaco hanno confermato la rispondenza a tutti gli standard produttivi e qualitativi, senza rilevarne alcuna contaminazione». Il Codacons - Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell’Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori - ha annunciato un esposto alla Procura di Roma contro l’Aifa “per omissione di atti d’ufficio”. L’esposto partirebbe in relazione a quanto denunciato dalla Regione Lazio, secondo la quale “l’Agenzia del Farmaco non avrebbe fornito informazioni all’amministrazione, dimostrando grossi limiti di comunicazione”. Il presidente dell’associazione, Carlo Rienzi, ha detto: «L’Aifa dovrà inoltre rispondere delle omissioni segnalate dalle regioni e, se verrà accertato un nesso tra i decessi e il vaccino, anche di concorso in omicidio colposo». Da parte sua il presidente dell’Aifa, Sergio Pecorelli, ha sottolineato: «Adesso è importante ripristinare un clima di fiducia nelle vaccinazioni per evitare le conseguenze negative dell’influenza nei soggetti a rischio e negli anziani». L’esito delle prime analisi effettuate sui vaccini Fluad appartenenti ai lotti bloccati (143301 e 142701) è stato completamente negativo e i risultati dei test, rileva Pecorelli, «hanno confermato la sicurezza di questo vaccino». Si attendono ora i test rimanenti ai quali sta lavorando l’Istituto superiore di Sanità (test di sterilità e di tossicità anormale) e che termineranno tra qualche settimane. Tuttavia, «le caratteristiche dei decessi riportati sembrano già escludere – fa sapere Pecorelli – una contaminazione da microrganismi». Sgombrato il campo dai timori, anche l’Aifa torna dunque a ribadire l’importanza della vaccinazione antinfluenzale: «Chi non si è ancora vaccinato contro l’influenza – ricorda – dovrebbe farlo adesso. La campagna vaccinale, avviata a metà ottobre si concluderà a fine dicembre».
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di Marianna Quaranta
La salute viene dalle Terme L’uso farmacologico delle acque termali
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impiego delle acque termali in Italia ha una tradizione che risale a tempi antichissimi: molte acque sono conosciute a fondo nelle loro proprietà chimiche, chimico-fisiche e terapeutiche. La legge 24 ottobre 2000 n. 323 definisce le acque termali come “le acque minerali naturali, di cui al regio decreto 28 settembre 1919 n. 1924, e successive modificazioni, utilizzate a fini terapeutici”. Ma non sempre la distinzione è nitida: in alcuni casi, ad esempio, quando le acque termali hanno caratteristiche di composizione tali da potere essere impiegate anche come “comuni” acque minerali, possono essere regolarmente commercializzate per tale utilizzo. Per quanto riguarda gli aspetti microbiologici, le acque termali seguono quanto è previsto dalla normativa per le acque minerali mentre per gli aspetti chimici non si applica l’articolo 6 del Decreto 542/92 relativo alle sostanze contaminanti o indesiderabili. Questa norma, infatti, è da riferirsi, secondo il contenuto della nota del Ministero della sanità del 19.10.1993, esclusivamente alle acque destinate all’imbottigliamento. Il tenore di certi elementi (boro, arsenico, bario e altri) è ammesso nelle acque termali in misura superiore a quanto previsto per le acque minerali imbottigliate: il loro uso, infatti, oltre ad essere limitato nel tempo, avviene sotto controllo medico, anzi talvolta è proprio la concentrazione di alcuni elementi a determinare l’attività farmacologica delle acque termali. La dottoressa Maria Costantino, specialista in audiologia ed in medicina termale, collabora con l’Università di Salerno, è presidente dell’associazione F.I.R.S.Thermae che è l’acronimo di formazione interdisciplinare ricerche e scienze termali, inserita nella Anagrafe Nazionale di
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Ricerca del MIUR. F.I.R.S.Thermae è un centro di eccellenza di rilievo internazionale in ambito termale che collabora con strutture universitarie, centri di ricerche, aziende e comprensori termali presenti sia in Italia, sia in diversi paesi europei ed extraeuropei. L’iniziativa nasce, anzitutto, dalla validazione dei mezzi curativi termali secondo protocolli rigorosamente scientifici, che fino a 20 anni fa erano completamente inesistenti. Essendo le acque minerali dei farmaci a tutti gli effetti, come i farmaci “tradizionali” devono essere valutate, ovvero, con le stesse metodologie dei farmaci tradizionali. L’abbiamo incontrata in una conferenza tenutasi a Napoli presso le Terme Stufe di Nerone. Professoressa Costantino come nasce F.I.R.S.Thermae? Nasce dalla scarsa diffusione della cultura termale anche in un paese come l’Italia ricco di terme e dalla constatazione che c’è bisogno tra coloro che si occupano di medicina termale, di confronto e divulgare ciò che gli studi scientifici mettono in evidenza. Tradizionalmente quando si pensa alle terme si pensa sempre a qualcosa di benefico ma è così oppure ci possono essere effetti collaterali… Essendo dei medicinali come tutti i medicinali possono avere oltre a delle indicazioni anche delle controindicazioni e degli effetti indesiderati. Essendo dei farmaci naturali, ovviamente, gli effetti collaterali sono molto ridotti. Le terapie termali sono molto indicate nelle patologie croniche per cui c’è bisogno di un utilizzo prolungato dei farmaci cosiddetti tradizionali. Stasera abbiamo parlato di psoriasi che è una patologia cronica e, quindi, il soggetto deve fare uso di farmaci per tutta la sua vita, ora se noi utilizziamo le terapie termali viene ridotta sia
Gli aspetti microbiologici Il tenore di certi elementi (boro, arsenico, bario e altri) è ammesso nelle acque termali in misura superiore a quanto previsto per le acque minerali imbottigliate: il loro uso, infatti, oltre ad essere limitato nel tempo, avviene sotto controllo medico, anzi talvolta è proprio la concentrazione di alcuni elementi a determinare l’attività farmacologica delle acque termali.
la quantità di farmaco che il soggetto deve assumere e prolunghiamo il periodo di remissione della malattia. Perché appunto, le malattie croniche sono anche caratterizzate da fasi di remissione e fasi di riacutizzazione. Prima Lei parlava di stress, in sintesi ci dice quali sono gli effetti e come si può combatterlo… Ormai tutti siamo stressati e si è visto come dicevo prima durante la conferenza, è coinvolto in patologie cardiovascolari, patologie dermatologiche, neurodegenative e numerosissimi studi tra cui anche quelli effettuati dal nostro gruppo di ricerca hanno dimostrato che, anzitutto, durante il trattamento termale, anzitutto, si ha il rilascio di beta endorfine che sono delle sostanze analgesi-
che endogene che il nostro organismo produce durante il trattamento, non solo durante il trattamento vengono ridotti anche i radicali liberi coinvolti nelle patologie che indicavo prima. Ma in Italia che tipo di sensibilità incontra e all’estero? Fino a qualche anno fa la risposta non era molto entusiasmante, ora grazie a queste iniziative l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’efficacia delle cure termali ed le indica, in associazione a quelli che sono i presidi terapeutici tradizionali.. questo naturalmente per noi idrologi è stato un successo perché grazie agli studi fatti è stata convalidata ufficialmente l’efficacia delle cure termali.
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di Giuseppe Lepore
* Naturopata
Alimentazione e Benessere Gli equivoci che condizionano la nostra salute
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ono in molti a credere che gli esseri umani abbiano sempre mangiato carne: non è così. Studi approfonditi di anatomia comparata e morfologia funzionale comparata fitozoologica, riferiscono che la struttura dei nostri denti e dell’apparato digerente, testimoniano esattamente il contrario. Mangiare cibo animale è un fenomeno abbastanza recente, rispetto alla storia dell’evoluzione umana. Gli studiosi hanno infatti appurato che, fino al periodo che vide l’avvento delle glaciazioni WURM (fenomeno geologicamente collocato a circa 110.000 anni fa e terminato circa 9.600 - 9.700 anni prima di Cristo), l’uomo seguiva un’alimentazione frugivora (frutta, graminacei, radici, bacche tuberi, vegetali etc..). Solo in seguito, l’uomo ha iniziato a nutrirsi di carne, in quanto tutti gli elementi propri della sua dieta erano compromessi dal gelo. Erano ibernati, e l’uomo ha dovuto ricorrere ad un alimento innaturale: la carne. Questo alimento, una volta introdotto nella sua dieta, ha finito col causare epidemie e alti tassi di mortalità, fin quando l’organismo umano è riuscito ad “assuefarsi” non senza difficoltà. La nostra saliva, infatti, è alcalina e contiene un enzima adatto alla predigestione di alimenti vegetali. Il tratto intestinale umano è 12 volte la lunghezza del corpo ed è quindi funzionale alla digestione di alimenti vegetali. Proprio per la lunghezza del tratto digerente la carne che ingeriamo, va in putrefazione, alimentando processi fermentativi e proliferazione batterica. Il confronto anatomico-strutturale, fra essere umano e carnivori naturali indica chiaramente la natura “non carnivora” dell’uomo, così come sembra evidente che lo scostamento dalla sua naturale predisposizione, sia la principale causa di malattia. Effetti del cibo sulla salute Centinaia di studi, condotti negli Stati Uniti,
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in Europa e nel resto del mondo, indicano chiaramente che, alcuni tipi di alimenti, contribuiscono ad un cattivo stato di salute. Uno degli studi più capillari e dettagliati, eseguito dal dott. Colin Campbell e la sua equipe, ha confermato come sia l’alimentazione a determinare i tipi di malattie che affliggono l’essere umano. Tale studio ha portato alla pubblicazione di un libro divenuto un best seller mondiale: The China Study. L’A.C.S. (American Cancer Society) afferma, secondo alcune attendibili proiezioni, che il 47% degli uomini ed il 38% delle donne, costituenti la popolazione occidentale, si ammalerà di cancro nel corso della vita e, una su quattro (ma la stima è assolutamente ottimistica), morirà prematuramente, a causa delle cattive abitudini alimentari. Secondo il prof. Neal Barnard (George Washington University), nell’ultimo secolo, il consumo di prodotti animali, ha ucciso più persone di tutti gli incidenti d’auto, di tutte le guerre e di tutti i disastri naturali messi insieme. Vediamo come questo possa essere successo e, come, stia ancora accadendo. Le Proteine Animali Le proteine animali sono tutte quelle provenienti dal regno animale, compresi i volatili ed i pesci. Oltre alle carni, sono fonti di proteine, i derivati e lavorati dal regno animale, come il latte, le uova, i formaggi, etc. Le proteine furono scoperte nel 1893 e considerate un nutriente fondamentale, da qui il nome, derivato dal greco “protios”, cioè, di primaria importanza. La visione del protios come nutriente fondamentale, resta fortissima ancora ai giorni nostri. Inizialmente si pensava che le proteine fossero presenti solo in alimenti di origine animale ma, alcuni anni più tardi la loro scoperta, si appurò che le proteine sono abbondantemente contenute anche nei vegetali. Le Proteine Vegetali Ciascun cibo vegetale contiene, in adeguate
Effetti del cibo sulla salute Centinaia di studi, condotti negli Stati Uniti, in Europa e nel resto del mondo, indicano chiaramente che, alcuni tipi di alimenti, contribuiscono ad un cattivo stato di salute.
quantità, la maggior parte dei 20 componenti di base delle proteine: gli aminoacidi. Per esempio, 100 Cal di spinaci contengono 12g di proteine – praticamente la stessa quantità di 100 Cal di carne di manzo. Con la differenza che gli spinaci sono privi di grassi e colesterolo, garantiscono il giusto apporto di fibra, di antiossidanti, ferro e calcio. Inducendo inoltre, un maggiore senso di sazietà. La Nostra Alimentazione Secondo recenti studi, la nostra alimentazione dovrebbe basarsi su una certa varietà di verdure, fagioli, lenticchie, cereali, noci, semi oleosi e frutta. Proprio come quella praticata dagli animali più grandi del mondo. La natura ci regala una grandissima varietà di cibi vegetali ed i loro preziosi nutrienti sono una garanzia per la nostra salute. A conferma del poderoso lavoro del dott.
Campbell, il prof. Walter Willet, direttore del dipartimento Haward’s school of public healt, riferisce che in oltre 30 anni di studi su campioni di popolazione, si è potuto correlare al tipo di alimentazione, i tipi di malattie che si potevano contrarre. Il consumo di cibi di natura animale aumenta il rischio di contrarre numerose malattie, come il cancro, il diabete, le malattie cardiovascolari, la demenza, le malattie autoimmuni, etc. E i motivi di base, risiedono sugli effetti che le proteine animali hanno sulle nostre singole cellule. Ogni volta che un tessuto animale viene sottoposto a cottura, sprigiona delle sostanze tossiche cancerogene: le Amine Eterocicliche (HCA). Più è alta la temperatura di cottura, più se ne sprigionano. Viceversa, se la carne viene cotta poco, allora ci sono bacilli come la salmonella, batteri come il campylobacter ed
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altri che, solo la cottura può eliminare. I vegetali, al contrario delle carni, non formano Amine Eterocicliche durante la cottura. Questa è una caratteristica propria di tutte le carni, anche del pesce. Frutta e verdura fresche, oltre all’apporto di vitamine, Sali minerali e proteine, hanno un considerevole contenuto di fibra. E’anche capace di assorbire le tossine introdotte nel nostro corpo con l’alimentazione a base animale e di veicolarle all’esterno attraverso le feci. Sostanze Chimiche Alle cattive abitudini alimentari, si aggiunge anche lo spettro delle sostanze chimiche che, aggiunte al cibo come conservanti, esaltatori di sapidità, etc., costituiscono un aspetto pre-
Una dieta povera di proteine animali, riduce il rischio di sviluppare un cancro e altre malattie degenerative. Parimenti, una dieta a base di alimenti vegetali ne rallenta o addirittura ne arresta la progressione, oltre a promuovere una guarigione veloce e duratura. occupante per la nostra salute, avendo un ruolo importante nell’attivazione di processi cancerogeni. Esse sono presenti praticamente ovunque. Il nostro organismo è in grado di attivare processi di difesa che disattivano tutte queste sostanze estranee rendendole innocue. Questi processi si innescano a livello cellulare, grazie all’azione di enzimi chiamati “Mixed Function Oxidase”. Quando assumiamo cibi vegetali, questi enzimi neutralizzano le sostanze chimiche con essi ingerite. Quando assumiamo proteine animali, invece, questo stesso meccanismo funziona al contrario, producendo reazioni autoimmuni e convertendo queste sostanze chimiche in agenti cancerogeni. Che dire degli antibiotici, dei pesticidi, degli ormoni e le tantissime sostanze chimiche uti-
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lizzate per l’alimentazione degli animali da allevamento. Queste intossicano l’animale trasferendo nei suoi tessuti, tossine che si aggiungono alle famigerate Amine Eterocicliche, creando le condizioni di attivazione continua del nostro sistema immunitario, mantenendolo sotto continuo stress. In conclusione, una dieta povera di proteine animali, riduce il rischio di sviluppare un cancro e altre malattie degenerative. Parimenti, una dieta a base di alimenti vegetali ne rallenta o addirittura ne arresta la progressione, oltre a promuovere una guarigione veloce e duratura. OMS e le Proteine Giornaliere Termino questa trattazione che richiederebbe uno spazio ben maggiore, fornendo le indicazioni dell’organismo internazionale al quale fanno riferimento i sistemi sanitari della maggior parte dei paesi del mondo, L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Questo organismo, recependo quanto emanato dalla FDA (Food and Drug Administration) americana, stabilisce l’apporto proteico giornaliero secondo un valore considerato standard di 0,75g per ciascun Kg di peso corporeo, normalmente arrotondato ad 1g. Questo vuol dire che una persona di 75 Kg, dovrebbe assumere 75g di proteine al giorno. Un autentico suicidio! Soprattutto se dovessimo assumerle principalmente da fonti animali. È stato provato che un consumo eccessivo di proteine animali, oltre i 30 gr al giorno provoca acidosi e stress dell’organismo. Anche le proteine vegetali se consumate in eccesso producono accumulo. Quindi, le quantità consigliate dall’OMS sono oltremodo eccessive (tra l’altro la stessa FDA rivede al ribasso tale quantità che era di 300g negli anni ‘70). L’apporto giornaliero di proteine, per un essere umano, dovrebbe aggirarsi tra gli 11 ed i 25 grammi (11 per un bambino in fase di crescita; 25 per un adulto in fase di mantenimento). Ancora una volta è il caso di ribadire che frutta, verdura, cereali e legumi possono fornire tranquillamente l’apporto proteico ottimale, di cui necessita l’organismo. È importante che questi prodotti vengano consumati nella loro forma “integrale”, dato che le lavorazioni industriali rimuovono gran parte delle vitamine e dei sali minerali, nonché gli antiossidanti che questi cibi contengono normalmente.
Oreste Zevola Il ricordo di un artista tra immagini, sogni ed emozioni di Enzo Battarra
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rtista, illustratore, designer. Ma soprattutto personale geniale, di un’umanità straordinaria, l’amico che avresti voluto sempre incontrare. Il viaggiatore Oreste Zevola è partito per il viaggio più lungo. In questo 2014, in data 17 febbraio, aveva compiuto sessanta anni, ma non gli avrebbero pesato se quel male che ti rode dentro non lo avesse preso di mira. E lui l’ha combattuto il male, con tutte le sue energie fisiche, ma anche con la sua poesia, con la sua arte, con la sua sensibilità. Le battaglie, si sa, si possono anche perdere. Lui lo sapeva, ma non negava mai un sorriso a chi gli era vicino. Ai fratelli, ai suoi
familiari, agli amici, al suo amato cane. E così se n’è andato il 7 dicembre, in un pomeriggio domenicale tiepido come una giornata autunnale. Se n’è andato nella sua Napoli, la città che ha amato profondamente, il suo porto sicuro tra partenze e arrivi in giro per il mondo, intrecciando sempre il lavoro artistico a progetti di solidarietà in ogni continente. Se n’è andato, ma ci ha lasciato una miriade di immagini, di sogni, di emozioni. Se n’è andato, ma noi che abbiamo condiviso pezzi di vita con lui non potremo mai farlo andare. Giro lo sguardo intorno a me e trovo ovunque sue tracce, i suoi libri, le sue opere. È dal 1983 che coltivavo la sua amicizia. L’avevo cono-
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sciuto come artista all’inizio degli anni Ottanta tramite le copertine di Juliet, la rivista d’arte realizzata a Trieste da Roberto Vidali. Nel 1983 lo invitai alla mostra “Campania Felix” che curai a Castel dell’Ovo. Da allora non ci eravamo più persi di vista. Il suo tratto grafico è inconfondibile, lo si riconosce immediatamente. Le sue figure popolano i nostri ricordi, un’umanità varia e flessibile, pronta a modificarsi sotto la spinta degli eventi, delle singole situazioni. I colori sempre vivaci, netti, definiti. Come il contorno delle sagome. Era meticoloso Oreste, e aveva
Il viaggiatore Oreste Zevola è partito per il viaggio più lungo. In questo 2014, in data 17 febbraio, aveva compiuto sessanta anni, ma non gli avrebbero pesato se quel male che ti rode dentro non lo avesse preso di mira. E lui l’ha combattuto il male, con tutte le sue energie fisiche, ma anche con la sua poesia, con la sua arte, con la sua sensibilità. trasferito la precisione dell’illustratore anche nei lavori di grande formato. Era un perfezionista napoletano, perciò piaceva tanto all’estero, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti. Per me era l’artefice magico per eccellenza, l’artista capace di dare vita con le sue creature a ogni situazione, a ogni evento, a ogni stato d’animo. Probabilmente aveva scoperto che il lavoro esorcizzava il male. Il 12 ottobre aveva inaugurato alla galleria d’arte Tricromia di Roma la mostra “Refulgenzia”, curata da Maria Savarese, uno dei critici a lui più vicini negli ultimi anni. Nel testo che ha accompagnato la mostra, è lo stesso grande Goffredo Fofi a spiegarci cos’era per Zevola la refulgenzia: “un’illuminazione che viene da lontano e si allarga improvvisa a rivelarci qualcosa che bensì dobbiamo interpretare, anche se è lì nitida, da-
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vanti ai nostri sensi, e solo per un attimo ne restiamo turbati”. Una visione, un presagio, un assecondare l’epilogo. Forse. L’ultimo evento a Napoli lo avevamo tenuto insieme: la presentazione all’Istituto italiano per gli studi filosofici del poemetto di Edoardo Sant’Elia “Cartografia”, La Scuola di Pitagora Editrice. Il volume comprende una serie di disegni di Zevola. Era il 17 giugno e, insieme con me, intervenne anche Matteo Palumbo. Nell’occasione ci divertimmo anche in un contraddittorio sulle geografie corporee e Oreste ancora una volta mostrò grande prontezza di spirito. In precedenza c’eravamo incontrati il 27 ottobre 2013 in un altro momento pubblico: la collocazione della sua scultura “Duediuno” al Museo Foof di Mondragone. Questa opera è la congiuntura tra due mondi, l’abbraccio tra due passioni. L’uomo e il proprio cane si scoprono sempre più simili, a volte anche fisicamente, sempre più uniti. La scultura site-specific di Oreste Zevola è un grande lavoro di 2 metri per 2,30 realizzato in lamierino di ferro sagomato e verniciato, promosso da Giusi Laurino, la fondatrice della Fabbrica delle Arti. L’imponente opera di Zevola è stata donata dall’artista e resterà permanentemente in mostra in quello che è stato un rifugio per randagi e ora è il primo museo del cane d’Europa, alla cui direzione c’è Gino Pellegrino. La scultura «vuole rappresentare – come testimoniato dallo stesso Zevola – lo straordinario legame che si crea naturalmente nell’incontro tra questo nobile animale e il proprio padrone. Due anime diverse entrano in contatto e si ibridano in un rapporto unico e indissolubile». In realtà Oreste Zevola aveva spesso lavorato in provincia di Caserta già a partire dagli anni Ottanta, grazie alla collaborazione con lo Studio Oggetto. Numerose erano state le sue partecipazioni a rassegne. Memorabili quelle al Real Belvedere di San Leucio. Poi nel maggio 2012 al Centro Commerciale Campania di Marcianise aveva realizzato l’Arca del riciclo universale. L’imponente struttura aveva una lunghezza di circa otto metri ed era alta cinque. Al suo interno ospitava una sua mostra sui temi della botanica e della zoologia fantastica, per condurre il visitatore alla scoperta, attraverso il riuso, di un mondo utopicamente pulito.
RECENSIONE di Samuele Ciambriello
Se qualcuno cercasse di me L’esordio in versi di Carlo Fedele
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e qualcuno cercasse di me, l’esordio in versi di Carlo Fedele, pubblicato dal Quaderno Edizioni, raccoglie emozioni, ricordi, sospiri e parole-fotografia vivide e intrise di sentimenti e di realtà dei fatti. Sì, parliamo di realtà dei fatti perché queste poesie analizzano segmenti del quotidiano: dagli argomenti di natura sociale a quelli strettamente legati alla sua emotività, fino ad interfacciarsi aspramente con la nefasta politica dei giorni nostri. E poi c’è la malinconia, un sentimento rivolto alla sua Napoli bella e dannata. Le poesie di Carlo Fedele possono essere definite da alcuni versi del Poeta Bosniaco Iret Sarajlic: “Sono tra quelli che ritengono che del lunedì si deve parlare il lunedì/ il martedì potrebbe essere troppo tardi”. Un viaggio nelle poesie, nelle fotografie esistenziali di Fedele, porta inesorabilmente nelle periferie esistenziali e nella memoria delle cicatrici e delle speranze dell’umanità. Sono denunce profetiche dei limiti del nostro tempo, ma anche le palpitazioni, le gioie e le speranze di una legione di uomini e donne in cammino verso la speranza. E anche per l’autore la speranza come virtù ha due figli: “lo sdegno” per le cose che non vanno e “il coraggio” di cambiare le cose che non vanno.
Le poesie, in napoletano, sono il suo marchio di identità che contesta una stereotipa oleografia su Napoli, i suoi mali e i suoi tic. Carlo Fedele legge in profondità eventi e sentimenti, l’immaginifico e il realismo. Non è mai avido di ebrezza, è profondamente schietto, lineare, custode di un’anima silenziosa, affabile e consolatoria. Il buon Carlo non sopporta lo snobismo a oltranza, le autopsie del cervello, la retorica a buon mercato, il dichiarare “sono tutti uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Lui, un po’ eccentrico, ma di fragile bellezza, ci vincola a rileggere le sue poesie, a prorogare tempo, sentimento e disposizione interiore. Mentre così va (allo sprofondo) il Bel Paese, l’autore napoletano comunica per condividere. Pagina dopo pagina si compone così, sotto i nostri occhi, una sorta di autobiografia psichedelica. Ma sì, Carlo è un po’ vittima e un po’ lupo, con queste sue “liriche” è un potente che si finge martire per affermare un potere. Il potere della poesia, il potere della bellezza della poesia.
Fedele è un po’ vittima un po’ lupo Le poesie di Carlo Fedele possono essere definite da alcuni versi del Poeta Bosniaco Iret Sarajlic: “Sono tra quelli che ritengono che del lunedì si deve parlare il lunedì/ il martedì potrebbe essere troppo tardi”.
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Direttore Samuele Ciambriello Editore Silvio Sarno