EDIZIONI D’ARTE
Del presente portfolio, contenente 5 tavole, sono stati realizzati 99 esempleri numerati e firmati dall’artista e 15 esemplari della tiratura di testa, numerati in cifre romane, contenenti un acquerello originale di Sergio Tisselli. La riproduzione delle opere è stata realizzata su carta Stucco Gesso da 350 grammi della Fedrigoni. Ideazione di Giuliano Arniani Ricerca storica Sergio Susani e Livio Pierallini Testi di Livio Pierallini Progetto grafico di Santo Alligo
EDIZIONI D’ARTE
APACHE Nelle fantasticherie western gli Apache sono uno dei popoli amerindi che frequentemente appaiono, in primo piano la faccia truce e decisa di Geronimo; intorno a lui un ambiente rude, roccioso e desertico, ostile alla vita. Per la verità gli Apache non se li erano scelti posti simili, ma vi erano stati cacciati a forza da altre potenti tribù indiane provenienti da nord e dai bianchi, americani o messicani che fossero. Dovettero combattere strenuamente contro tutti e nelle loro gesta risaltano capi celebri, che ben conosciamo, quali Geronimo, Ulzana, Cochise, Mangas Coloradas, Delgadito, Victorio, Nana, Bonito, Cuchillo Negro, Loco, Apache Kid…, generalmente collegati l’un l’altro nelle gesta che compirono in luoghi che destano suggestioni nella mente: i forti Sill e Apache, Pass Apache, Piños Altos, Llano Estacado, Cibicue, Bosque Redondo, Sierra Madre, i Canyons del Perro e de Los Muertos, Tre Castillos e tanti altri, dei quali si avvertono i paesaggi aspri, i cieli tersi, le rocce dalle strane forme. Gli Apache ebbero i primi contatti con gli europei agli inizi del 1500, ma non tolleravano gli insediamenti degli spagnoli e compirono continue incursioni e razzie contro di loro; neppure gli statunitensi che, nel 1848, subentrarono ai messicani in alcuni territori, riuscirono a controllarli. I contrasti, poi, si aggravarono a causa dell’invasione delle terre indiane effettuata dai cercatori d’oro e dagli allevatori. Quando gli spagnoli di Coronado incontrarono per la prima volta il gruppo Apache–Navajo, li chiamarono Querecho; agli inizi del ‘600, invece, i due popoli si erano già separati e i Navajo, che avevano assimilato in parte la cultura Pueblo, chiamarono se stessi Diné (Il Popolo) e, per indicare gli Apache, usavano il termine di Ndee. Gli Apache, peraltro, si suddivisero subito in diversi gruppi; una parte si stabilirono nel territorio corrispondente all’attuale Arizona, altri in quelli che oggi sono il New Messico e il Texas. La parola Apache, da Apachu nella lingua degli avversari Pueblo, significa “Reietti”, “Ripudiati”, “Nemici” e ne erano fieri, ma si appellavano con il termine usato dai Navajo per definirsi “Il Popolo”, vale a dire, secondo la pronuncia, Tinneh, Dinè, Indè, T’Inde, o N’ne. Parlavano una lingua del gruppo Athapaskan ed erano suddivisi in numerose tribù, indipendenti l’una dalle altre; le maggiori di queste erano gli Aravaipa, i Be-
donkohe, i Chiricahua, i Jicarilla, i Janeros, i Lipan, i Mescaleros, i Tonto, i Mimbres, i White Mountains (Coyotero), i Carrizo. I nomi degli Apache erano di origine spagnola e indicavano caratteristiche o abitudini del gruppo, luoghi, prodotti del suolo, animali. Non erano soggetti in maniera permanente a nessun capo e il comando era conquistato sul campo; solo in casi di emergenza veniva riconosciuto un leader. La famiglia era la base della tribù e la casa della madre ne costituiva il nucleo, poiché era lei il capo famiglia e presso di lei dovevano vivere i mariti delle figlie che, però, non dovevano guardarla o parlarle. Grandi feste erano organizzate in occasione della raggiunta pubertà di una ragazza. Diversi nuclei familiari costituivano i gruppi, che prendevano il nome dal luogo dove si accampavano; non erano mai molto numerosi, in modo da potersi spostare rapidamente. Solo nei momenti di crisi era scelto un condottiero, ma le scelte erano fatte da tutti i membri del gruppo. Se il capo era stimato, altri guerrieri si univano a lui. Un certo numero di gruppi, poi, si riuniva in bande per cacciare e combattere, anch’esse piccole e agili, nelle quali c’erano solo dei conduttori autorevoli, se riconosciuti come tali per la loro capacità e abilità. Le varie bande formavano la tribù; queste erano stanziate in territori vastissimi e alcune di esse non conoscevano le altre. Gli Apache usavano “stare a veglia”, la sera, intorno al fuoco, a raccontarsi le storie e i fatti del giorno. Si riunivano di frequente per fare feste, cerimonie, riti religiosi o magici. Giocavano in ogni maniera, dalle gare fisiche a quelle verbali, con indovinelli e racconti; inoltre piaceva loro scommettere. L’abbigliamento Apache era fatto, in origine, con pelli di daino, poi sostituite da stoffa. Gli uomini generalmente indossavano una sorta di brache corte, fatte con una striscia di stoffa, e alti mocassini di pelle per proteggersi i piedi e le caviglie dagli spini e dai serpenti. Le donne avevano mocassini un po’ più bassi e usualmente portavano gonne con le frange. Erano molto bravi nel costruire cesti, ornati da bei disegni colorati. Erano pure arcieri abilissimi e utilizzavano archi corti e molto potenti. Le frecce, lunghe quasi un metro e con le punte di pietra o di ferro che restavano nel corpo, inabilitavano chiunque, anche se non mortalmente colpito; le ferite erano dolorose, pro-
1. Apache / Saguaro National Monument / Arizona
vocavano forti emorragie ed erano soggette a infettarsi facilmente. Gli Apache miravano sempre all’ombelico e i messicani, che avevano ben imparato la lezione, si proteggevano il ventre con pezze di stoffa ripiegate più volte. Si dice che gli Apache della prateria avvelenassero la punta delle loro frecce con il veleno dei serpenti a sonagli, talvolta mischiato all’estratto di cistifellea di daino. Gli Apache furono gli ultimi ad arrendersi e cessare le ostilità contro i bianchi. I giovani intorno ai quindici anni erano addestrati alla guerra e a resistere a ogni avversità e fatica fisica. Divenivano guerrieri dopo essere stati capaci di sopravvivere, da soli e per un determinato periodo, lontano dall’accampamento; dovevano affrontare la natura, il dolore, immergersi nell’acqua fredda o sopravvivere nei deserti, restare svegli per lunghi periodi. Potevano percorrere centinaia di chilometri ogni giornata, e questo per più giorni, pertanto divenivano inafferrabili. Il loro addestramento terminava solamente dopo aver preso parte a scorrerie e combattimenti. Le loro armi erano quelle normali dei pellirosse: coltelli, lance, lunghe fino a quattro metri e usate a cavallo tenendole con ambo le mani, arco e frecce, che potevano essere scagliate fino a centocinquanta metri. Gli Apache prediligevano l’imboscata e l’attacco rapidissimo, erano abilissimi negli scontri individuali e difficilmente combattevano in massa e in campo aperto. Per comunicare usavano i segnali di fumo, oppure simboli convenzionali, lasciati a terra e realizzati con pietre, bastoncini e perfino con gli escrementi dei cavalli. A proposito dei segnali di fumo, che sempre vediamo nei fumetti e c’incuriosiscono; ovviamente non trasmettevano frasi compiute, ma informazioni basilari: un breve sbuffo la presenza di un gruppo di persone, più sbuffi un nemico numeroso e armato, una colonna costante di fumo indicava che i gruppi dovevano riunirsi nel luogo concordato. Gli Apache, abitualmente, non prendevano lo scalpo alle vittime, salvo in caso di vendetta, poiché l’atto rappresentava …il peggior castigo per i tuoi nemici. Dal 1835 l’uso di scalpare fu introdotto dagli americani e dai messicani, per dimostrare di aver ucciso un indiano e ottenere la ricompensa. Inizialmente, inoltre, usavano la tortura solamente a scopo rituale e per provare il valore del nemico, poi l’atto
divenne una loro costante per vendicare la decapitazione di Mangas Coloradas (il taglio della testa obbligava lo spirito a vagare eternamente nell’aldilà) e svilupparono altre forme di tortura, come appendere la vittima a testa in giù e accendergli sotto un fuoco, oppure legare i prigionieri delle carovane alle ruote dei carri e poi incendiarli o, ancora legare una cinghia di cuoio bagnato intorno alla testa così che, contraendosi nell’asciugarsi, questa spezzava le ossa del cranio, infine legare i prigionieri vicino ai formicai. Le donne, in specie le vedove, erano torturatrici peggiori degli uomini ed erano loro consegnati tre o quattro nemici per ogni guerriero morto. L’odio e il rancore avevano radici lontane ed erano fomentati di continuo da comportamenti bestiali. Il cacciatore di scalpi irlandese James Kirker, soprannominato “Don Santiago”, ad esempio, fu chiamato dal Governatore dello Stato di Chihuahua per costituire una milizia destinata a sterminare gli Apache, offrendogli centomila pesos subito e duecento pesos per ciascuno scalpo. La religione degli Apache era magico–sciamanica. Chiunque poteva divenire sciamano o stregone; lo stregone poteva lanciare incantesimi, mentre lo sciamano doveva dimostrare di aver avuto visioni, s’isolava, digiunava, doveva essere capace d’interpretare i sogni o i fenomeni naturali, far piovere, curare le malattie, consultare gli spiriti e dare consigli o fare profezie. Gli Apache erano molto religiosi, superstiziosi e avevano un forte senso del sovrannaturale; come accade per quasi tutti i nativi americani, credevano non ci fossero separazioni fra i vari comportamenti umani, ma tutto fosse correlato: religione, arte, scienza, rapporti con gli altri e con la natura. I miti erano riferiti alla creazione, alla nascita della conoscenza, ai fenomeni naturali, alla morte e all’aldilà. Il dualismo che c’è in ciascuno di noi, la lotta fra il bene e il male, erano stati ben intuiti dagli Apache; si evince da questo breve racconto. Un anziano Apache insegnava la vita ai suoi nipotini e disse loro: Dentro di me infuria una lotta terribile fra due lupi. Un lupo rappresenta la paura, la rabbia, l’invidia, il dolore, il rimorso, l’avidità, l’arroganza, l’autocommiserazione, il senso di colpa, il rancore, la vanagloria, la rivalità, la superbia e l’egoismo. L’altro lupo rappresenta la gioia, la pace, l’amore, la speranza, la solidarietà, la serenità, l’umiltà, la gentilezza, l’amicizia, la compassione, la generosità, la sincerità e la fiducia. La stessa lotta si sta svolgendo dentro di voi e anche dentro ogni altra persona. I nipoti rifletterono sul racconto del nonno, poi gli chiesero: Quale dei due lupi vincerà? E il saggio Apache rispose Quello che nutri. Fra i grandi capi, sciamani o guerrieri Apache ancor oggi ricordati per le loro gesta, c’è l’imbarazzo nella scelta. Forse il più celebre e conosciuto è Geronimo; su di lui sono stati scritti numerosi
libri, romanzi e fatti film. Era, a ragione se si considerano i torti che subì, un combattente che non demordeva e colpiva con spietata brutalità. I bianchi non li aveva mai visti fino al 1851, quando i soldati messicani, a Janos, gli uccisero la moglie e tre figli. Da quel giorno nessun messicano si salvò se ebbe la sfortuna di capitargli fra le mani e da allora fu conosciuto come Geronimo, soprannome che gli fu attribuito dai messicani e che, probabilmente, deriva dall’invocazione che rivolgevano a San Gerolamo quando lo vedevano arrivare. Il suo vero nome era Goyathklay (o Goyanhkla, vale a dire “Colui che sbadiglia”). Era convinto d’essere invulnerabile; in ogni caso qualcosa di particolare l’aveva, poiché, nel tempo, era stato colpito da otto proiettili e se l’era cavata sempre con le sole cicatrici (peraltro esibite orgogliosamente). Geronimo fu più volte imprigionato nella Riserva di San Carlos, dalla quale fuggiva regolarmente rifugiandosi nella Sierra Madre e continuando a perseguitare messicani o statunitensi con alcuni altri capi Apache, fra i quali Juh, Ponce, Mangas Coloradas e Victorio. Dopo la morte di quest’ultimo, tornò a San Carlos per liberare il capo dei Mimbres, Loco, e i suoi guerrieri. Per Geronimo, dal 1880 al 1890, fu tutto un’entrare e un’uscire dalle Riserve di San Carlos e di Fort Apache; nel 1881, vicino a Tombstone, fu persino inseguito dal Wyatt Earp e dai suoi fratelli (proprio quelli dell’OK Corral). Nel 1883 il Generale Crook si recò in Messico con duecento Apache per incontrare Geronimo, convincendolo a tornare a San Carlos. Crook, però, si trovò contro la stampa che montò l’opinione pubblica fino al punto di minacciare di morte Geronimo, costringendolo, nel 1885, a rifugiarsi di nuovo in Messico. Nel 1886 il Generale Miles, che aveva sostituito Crook, condusse una campagna di guerra contro Geronimo e i suoi ventiquattro seguaci utilizzando cinquemila soldati, cinquecento esploratori Apache e cento Navajo, oltre a migliaia di volontari civili raccolti in milizie. A settembre Geronimo fu battuto e si fece convincere a consegnarsi. Lui e i suoi Chiricahua furono dichiarati da Miles prigionieri di guerra e sbattuti a Fort Marion, in Florida, dove molti Apache morirono. Molti di loro, poi, furono trasferiti in Alabama e, infine, in Oklahoma, a Fort Sill. Qui, il 17 febbraio del 1909, il povero Geronimo, debilitato, morì di polmonite, dopo aver implorato, fino all’ultimo momento, il Presidente Theodore Roosevelt di riportare lui e gli altri Apache nella terra che “era sua per diritto divino”, affermando: Io morirei in pace pensando che la mia gente, vivendo nella loro Patria, potrebbe crescere sempre di più. Le vicissitudini di Geronimo sono esemplificative di quanto accadde anche ad altri grandi guerrieri, la cui ferocia e brutalità derivarono dalle ingiustizie subite, come l’impiccagione dei congiunti di Cochise, la brutale uccisione di Mangas Coloradas (Manica Colo-
rata), ecc. Ma gli Apache volevano solo vivere in pace nelle loro terre. Sentiamo cosa affermò Cochise nel 1871, in un suo discorso che fu stenografato: Io parlo chiaro, non voglio ingannare, né essere ingannato. Desidero una buona pace, forte e duratura. Quando Usen creò il mondo, ne diede una parte agli Apache e una agli uomini bianchi. Perché si sono incontrati? Quando ero ragazzo ho percorso tutta questa regione e non ho visto altra gente che gli Apache. Dopo molte estati l’ho percorsa ancora una volta e ho scoperto che era arrivata gente di un’altra razza per impadronirsene. Gli Apache un tempo erano una grande Nazione, ma oggi sono rimasti in pochi… molti sono stati uccisi in battaglia. Tu devi parlare chiaro… Se la Vergine Maria ha camminato percorrendo tutta la terra, perché non è mai entrata nella capanna di un Apache? ...Voglio vivere tra queste montagne e non voglio andare a Tularosa. È molto lontano. Le mosche di quella montagna mangiano gli occhi dei cavalli. Il luogo è abitato dai cattivi spiriti… I decenni intorno alla metà dell’ottocento furono tempi orribili per i nativi americani. Le cosiddette “Guerre Apache” vennero fomentate dalla stampa, sovvenzionata da speculatori che volevano appropriarsi delle risorse presenti nelle zone abitate dagli indiani. Gli Apache, benché di numero inferiore ai bianchi – nord americani o messicani – resistettero a lungo contro gli eserciti degli invasori, anche se alcuni gruppi accettarono di collaborare e di prestare servizio come scout. In un’avventura contro i guerrieri Apache furono pure coinvolti soldati statunitensi d’origine africana, chiamati “Buffalo Soldiers” per i loro capelli arricciati. Accadde nel 1881, quando il Tenente W. Smith, del 10° Cavalleria, e una ventina di loro si misero all’inseguimento di Nana, partendo da Fort Cummings. Al gruppo di soldati si unirono anche molti cow boy del vicino ranch di McEver. Seguirono la pista degli Apache fino al Gavilan Canyon, un buon posto per le imboscate, cosicché Smith fermò la truppa, mentre i cow boy entrarono nella stretta gola. Non avendo notato nulla d’anormale, anche i militari decisero di avanzare e, allora, si scatenò un inferno di fucilate, al quale risposero solo i coraggiosi soldati di colore, poiché i cow boy girarono i cavalli e corsero via, letteralmente “a spron battuto”. Morirono il capo dei cow boy, George Daly, e il tenente Smith, mentre i Buffalo Soldiers riuscirono a resistere fino all’arrivo dei rinforzi. Chiudiamo con una benedizione Apache: Che il sole ti porti nuova energia durante il giorno, che la luna dolcemente ti rigeneri di notte, che la pioggia ti lavi via le preoccupazioni, che il vento soffi nuova forza nel tuo essere, che tu possa camminare per il mondo e conoscere la sua bellezza tutti i giorni della tua vita.
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COMANCE Le Grandi Pianure erano la patria di numerose tribù nomadi; erano coperte di erba, che le rendevano simili a un mare; di questo dava pure l’illusione, con le onde che si spostavano a perdita d’occhio quando tirava il vento. La ricchezza d’erba assicurava il cibo a molti animali, in particolare al bisonte, fonte di vita per gli indiani che, da esso, traevano tutto, dal nutrimento agli utensili all’abbigliamento e alle tende. Il termine “Grandi Pianure” non è un’esagerazione immaginifica, ma identifica la realtà, poiché vanno da Nord a Sud degli Stati Uniti per circa tremila chilometri, iniziando dal Saskathewan River, in territorio canadese, per finire quasi al Rio Grande del Messico; mentre in larghezza coprono un’estensione di oltre un migliaio di chilometri, dal Mississippi – Missouri fino alle Montagne Rocciose. I Comance, con i Cheyenne, i Blakfeet, i Kiowa, i Pawnee e i Sioux ne erano i dominatori, anche se ci vivevano altre popolazioni d’indiani. I temibili e grintosi Comance; vediamo di conoscerli. Erano parenti stretti degli Shoshoni, con i quali, prima di separarsi e dirigersi verso le pianure, vivevano vicino alle sorgenti del Platte, nel Wyoming. Chiamavano se stessi Nermernuh, o Numunuu (Il Popolo), ma sono conosciuti come Comance perché gli indiani Tue li chiamavano Kohmahts, o Kimantsi, che significa Colui che Vuole Sempre Combattermi, in pratica Nemico. Parlavano un linguaggio Numic della famiglia uto–azteca e vivevano in un vastissimo territorio, soprannominato con il termine castigliano di “Comancheria”. Alla fine del 1600, scoperto il cavallo, si spostarono verso le Grandi Pianure; vivevano di caccia, solo un loro gruppo, gli Yamparika, mantenne rapporti con gli Shoshoni e continuò a cibarsi come un tempo di radici vegetali. I Comance erano piuttosto numerosi, grazie anche al sistematico rapimento di donne e bambini spagnoli, messicani o americani; però non formarono mai un’unica “Nazione”, come altre tribù, ma restarono suddivisi in tredici gruppi autonomi, talvolta perfino in guerra fra loro, quali gli Yamparika, gli Jupes, i Kotsoteka, i Tenawa, i Tanima, i Kwahadi, i Nokoni e altri; nomi designanti abitudini alimentari, di comportamento, luoghi dove vivevano, ecc. Non avevano un capo tribù, ma un Consiglio, all’interno del quale erano riconosciuti il “Capo di Guerra” e il “Capo di Pace”. Era il Consiglio che
prendeva le decisioni concernenti la caccia, le azioni di guerra, ecc. Erano guerrieri irriducibili, combatterono contro altri indiani, gli spagnoli, i messicani e, infine, i “frontiermens”. Erano cavalieri abilissimi e furono loro a far conoscere i cavalli alle altre tribù e a usarli come merce di baratto sia con gli altri nativi, sia con commercianti, emigranti, coloni, cercatori d’oro d’ogni nazionalità e provenienza. I Comance tenevano molto ai loro capelli, portati molto lunghi, divisi nel mezzo e fermati con aghi di porcospino. Maschi e femmine avevano l’abitudine di forarsi le orecchie e ornarle con orecchini fatti di conchiglie, rame o argento; gli uomini si tatuavano con disegni geometrici e li tracciavano sulla faccia e sul corpo utilizzando succo di bacche selvatiche. Il nero era il colore della guerra, gli altri colori, invece, erano usati a piacere del guerriero; anche la distribuzione sulle parti del corpo era soggettiva e individuale. Sulle tende dipingevano motivi simbolici per proteggersi da malattie e sventure. I Comance non avevano un solo “Grande Spirito”, ma molti dei, ciascuno dei quali rappresentava un’azione. Ad esempio, per ottenere maggiore agilità invocavano lo spirito del cervo, per impetrare una buona caccia si rivolgevano allo spirito del bisonte, e così via. Come tutti i popoli del mondo, avevano pure leggende e miti, nati dall’umano bisogno di darsi una risposta ai difficili perché di ciò che ci circonda, oppure aventi scopi educativi C’era il mito, molto complesso, concernente la creazione dei loro luoghi di caccia, nel quale si descriveva “La Sorgente di Manitù”; altri erano legati ai rapporti fra i coniugi. Oppure narravano leggende come questa, che ricordava un tempo lontano, nel quale la pioggia non cadde nella prateria e non si trovarono più animali da cacciare. I Comance morivano di fame e una bambina, di nome Muy–Sola, restò orfana. Suo padre le aveva fatto un bellissimo ornamento e la ragazzina ne andava fiera; un giorno il sacerdote della tribù disse che gli spiriti pretendevano un tributo e chiese a ognuno di sacrificare quello che avevano di maggior valore. Uomini e donne esitarono a consegnare i loro beni e se ne andarono a dormire, ma Muy–Sola si recò al luogo sacro per offrire il suo prezioso oggetto. Posta sull’ara la decorazione, questa s’incendiò e la piccola sparse le ceneri ai quattro venti, poi si addormentò. Quando si svegliò tutto il terreno intorno era coperto di fiori azzurri e
2. Comance / Santa Elena Canyon 0 / Arizona
il popolo Comance, uscito dalle tende, si pentì del proprio egoismo e capì che il miracolo significava il perdono del Grande Spirito. Poi cominciò a piovere e il suolo rinsecchito riprese vita. I Comance si resero conto che Muy–Sola li aveva salvati dall’estinzione e la ribattezzarono La–Que–Ama–Mucho–A Su–Pueblo. Nel 1758 è documentato che circa duemila fra Comance e loro alleati di altre tribù assalirono le missioni spagnole del San Saba River; Santa Cruz fu saccheggiata e incendiata e otto dei suoi abitanti furono uccisi. L’anno successivo gli spagnoli organizzarono una spedizione punitiva, guidata dal Colonnello Diego Ortiz Parrilla, che batté gli indiani in un combattimento durato un’intera giornata, vicino al Red River. Nel 1762 gli spagnoli negoziarono un trattato con i Comance e altri accordi furono sottoscritti in seguito, ma la disaggregazione fra le bande era tale da non renderli vincolanti per tutti e le violenze continuarono e si accentuarono fino al 1785, quando l’accordo funzionò e fu rispettato fino agli inizi dell’ottocento, allorché la potenza spagnola cominciò ad affievolirsi e iniziarono a farsi avanti i trafficoni americani; cosicché gli scontri ripresero. Nel 1820 ci fu un momento di tregua, garantito dai capi Comance Parauaquibitse, Yncoroy e Yzazona. Morti loro, negli anni ’30, ecco di nuovo scorrerie e contrasti e, nel 1835, lo Stato messicano di Sonora ripristinò la caccia agli scalpi. Con le tribù Comance, peraltro, c’era chi commerciava di tutto, infischiandosene delle conseguenze; erano i “Comancero”, per la maggior parte originari del Messico e che non avevano remore a scambiare armi e whiskey con animali rubati e prigionieri catturati durante le incursioni. Nel 1840 i texani compirono uno stupido massacro in occasione di una trattativa con dodici capi Comance; avevano chiesto loro di liberare alcuni prigionieri, ottenendone un rifiuto, anziché tentare un accordo, fecero entrare nella stanza i soldati che uccisero tutti i capi e i loro accompagnatori. Il 1840, peraltro, fu anche l’anno della formazione della banda Comance “Casa del Sole”, guidata da Tave Tuk (Sotto il Sole); questi era coraggiosissimo e compiva continuamente razzie, anche se prediligeva combattere i Rangers del Texas. Nel 1852 la banda raggiunse il massimo della potenza, ma la loro avventura finì nel 1854, il 13 febbraio, quando il Colonnello Narbona, con cinquecento soldati, circondò Sotto il Sole
e i suoi guerrieri della Casa del Sole e li distrusse. Nel 1863, Arapaho, Kiowa, Sioux e Comance reagirono agli abusi dei coloni e bloccarono il flusso migratorio verso ovest, interrompendo le piste che portavano a Denver e a Santa Fé. Allora iniziarono le rappresaglie militari, con la spedizione di J. M. Chivington, la strage di Sand Creek e le ritorsioni. Il massacro di Sand Creek fu descritto da George Catlin, fotografo e biografo degli indiani, il quale raccontò che “Il Colonnello Chivington aveva celebrato ovunque la sua vittoria e annunciato di aver ucciso cinquecento guerrieri indiani. Sperava, per questa impresa, di ricevere le stelle di generale. Fu destituito dopo una minuziosa e solenne inchiesta…”. Catlin descrisse i Comance dicendo che “…da un’andatura sgraziata e goffa a piedi, passano rapidamente all’incredibile eleganza della loro postura a cavallo”, e riferì anche un trucco che i guerrieri adottavano quando erano in battaglia: armati di tutto punto con arco, frecce, scudo e lancia, si lasciavano andare di fianco al cavallo, apparentemente reggendosi solo con il tallone; in realtà “…una corta cavezza di crine era fatta passare intorno al collo del cavallo e le due estremità erano strettamente annodate alla criniera, sopra il garrese, lasciando che un cappio pendesse sotto il collo, davanti al petto dell’animale. La corda formava così un’imbracatura sulla quale appoggiare il gomito per sostenere il peso del corpo…il cavaliere appoggiava il tallone sulla groppa del cavallo per tenersi ben fisso e anche per prendere fiato riguadagnando la posizione verticale. Un personaggio particolare fu Pohebits Quasho (Camicia di Ferro), della tribù dei Kotsoteka, dei quali era guida e capo religioso. Lo credevano invulnerabile alle pallottole e alle frecce, e lo era davvero, giacché indossava un’antica cotta di maglia dei conquistadores spagnoli. In realtà gli servì a ben poco, poiché, nel 1858, i Texas Ranger lo uccisero durante la battaglia di Antelope Hill, nei pressi del fiume South Canadian. Il più celebre e inconsueto capo indiano fu Quanah Parker. Era un Comance Kwahadi (Antilopi), nato dall’unione fra la prigioniera Cynthia Ann Parker e il capo Peta Nacona, il quale dette al figlio il nome di Tseeta (Aquila). Da giovane anche Quanah partecipò alle razzie durante la “Luna Comance”, notti di luna piena che terrorizzavano i texani e i messicani, ed era insieme ai Kiowa nelle incursioni nel Chihuahua e nella battaglia successiva alle razzie di cavalli a danno dei ranch di Gainsville, quando dovettero battersi contro i soldati di Fort Richardson. Nel 1874, anche Parker Quanah era fra coloro che assalirono i cacciatori di bisonti nella loro base di “Adobe Walls”. Non potendo evitare la distruzione dei bisonti, peraltro, le bande indiane si sfaldarono e molti dovettero arrendersi e andare a
vivere nelle riserve. Gli scontri, tuttavia, continuarono senza soste e, dopo essere stati sconfitti a Lake Quemado da uno squadrone del 10° Cavalleria (composto dai “Buffalo Soldiers), nel giugno del 1875 anche Quanah e i suoi dovettero consegnarsi ai soldati di Fort Sill, in Oklahoma. L’anno dopo quasi duecento guerrieri Comance, guidati da Vecchio Cavallo Nero, fuggirono dalla Riserva di Fort Sill e iniziarono subito a perseguitare i cacciatori di bisonti. Non ebbero grande successo, però, poiché non avevano armi adeguate per combatterli. Quanah, nel luglio del 1877, fu mandato a convincerli di rientrare nella Riserva, ma non fece in tempo a fermarli; a Yellow House Canyon assalirono un altro gruppo di “Buffalo’s Hunter” e i soldati del 10° Cavalleria, pochi giorni dopo, li raggiunsero nelle “Staked Plains” (il Llano Estacado) e li sconfissero. Quanah Parker, intanto, si rese conto che il mondo degli indiani era finito per sempre e aiutò i suoi in ogni maniera ad assimilare la cultura dei bianchi, pur essendo uno dei promotori del “Movimento del Peyote” e della Chiesa dei Nativi Americani. Ora una bella testimonianza. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere Carlos Fairbanks, un americano discendente dai “Padri Pellegrini” e amante dell’Italia come la sua antenata Katherine Putnam, che scrisse vari libri sul nostro Paese, il più famoso dei quali fu “Viandanti d’Italia”, edito nel 1902. Il padre di Katherine e trisavolo di Carlos si chiamava Samuel Osgood Putnam, ed è di lui che raccontiamo un fatto molto evocativo, se si riesce a immedesimarsi nel tempo, nella situazione, a rivivere con Samuel le paure, la fatica, i disagi, a sentire con lui gli odori della natura, delle erbe, della terra riarsa. Ecco, in breve, la storia: Samuel, nel 1849, lasciò la moglie e la figlioletta Katherine per partecipare alla corsa all’oro. Non dovette andargli molto bene, poiché tornò indietro su un “Conestoga”, il famoso carro coperto che tutti siamo abituati a vedere nei film western. Giunto alle Rocky Mountains, Samuel le oltrepassò a cavallo (ve lo immaginate?), poi la bestia gli fu rubata dagli indiani, ma lui non si perse d’animo e continuò il viaggio a piedi, mangiando quel che gli capitava e con la fortuna di trovare sempre l’acqua, fino a tornare a casa sano e salvo. Siamo stati abituati a immaginare gli indiani capaci d’esprimersi solamente a gesti, o con poche parole, o con i classici Haugh e Woah. Ecco, invece, un estratto di ciò che disse, nell’incontro per il trattato di Medicine Lodge, Parra wa Jemen (Dieci Orsi), capo dei Comance Yamparika. Era un uomo sensibile e disponibile, ma le sue doti non devono aver avuto molti apprezzamenti, stando al sunto della sua orazione. Ricordiamoci che quello che leggiamo non è folclore, ma le parole di un uomo, un capo, uno sposo e un padre: “Il
mio cuore è pieno di gioia nel vedervi qui…La mia mano non ha mai per prima teso l’arco o sparato un colpo di fucile contro i bianchi. Ci sono stati disordini sul confine…ma non abbiamo incominciato noi. Siete stati voi a mandare avanti il primo soldato…Due anni fa sono venuto da queste parti seguendo i bisonti, per procurare cibo per le donne e i bambini…ma i soldati spararono su di noi e, da allora, è stato un fracasso simile a quello di un temporale e non abbiamo saputo dove andare. E lo stesso è accaduto al fiume Canadian. E non abbiamo avuto da piangere una volta sola. I soldati blu e gli Ute vennero di notte quando era ancora buio e dormivamo tranquilli, e usarono le nostre tende come fuochi da campo. Invece di cacciare la selvaggina essi uccisero i miei guerrieri…Questo accadde in Texas. Portarono dolore nei nostri campi e noi balzammo fuori come i bisonti maschi quando le mandrie vengono attaccate. Quando li trovammo li uccidemmo e i loro scalpi pendono ora nelle nostre tende…. Ci sono cose che mi hai detto, che non mi piacciono…Affermi che vuoi portarci in una riserva, costruire delle case e delle capanne per la religione. Io non voglio queste cose. Sono nato nella prateria, dove il vento soffia libero e nulla nasconde la luce del sole. Sono nato dove non c’erano mura e ogni cosa respirava liberamente. Voglio morire lì e non chiuso fra quattro mura… . Quando sono stato a Washington il Grande Padre mi ha detto che tutta la terra Comance era nostra e che nessuno ci avrebbe disturbato venendo a stabilirvisi; allora, perché adesso ci chiedete di lasciare i fiumi, il sole e il vento per le case? Non chiedeteci di cambiare i bisonti per le pecore. Se i texani fossero rimasti fuori dalla nostra terra ci sarebbe stata la pace… si sono presi i luoghi dove l’erba cresce più fitta e i boschi sono migliori…”. Nel 1868 fu eletto presidente degli Stati Uniti Ulysses Simpson Grant, il quale, pur sapendo di mettersi in urto con taluni ambienti militari, tentò una politica di pace con i nativi. Nonostante i numerosi incontri che Grant ebbe con i capi delle Nazioni Indiane, la sua politica conciliatrice fallì, anche perché i militari continuavano bellamente a massacrare gli “ostili”, fuori e dentro le riserve, e i coloni a entrare a forza, a migliaia, nei territori indiani. Il perdurare delle tensioni e gli scontri fecero recedere Grant dalle sue decisioni, perciò dette via libera ai militari, con il conseguente annientamento, in pochi anni, sia delle secolari culture native, sia a oltre la metà delle popolazioni indiane. Gli ultimi ad arrendersi furono piccoli gruppi di Comance, unitisi agli Apache Lipan e Mescalero. Nel 1892, infine, con il “Jerome Agreement” di Fort Sill, furono assegnati centosessanta acri di terra alle tribù dei firmatari Comance, Kiowa e Apache, che si trasformarono in contadini.
2
IL POPOLO DEI CORVI I Crows, i Corvi, quando entrarono in contatto con i primi esploratori europei, vivevano nelle Grandi Pianure, in quelli che oggi sono gli Stati del Montana e del Sud Dakota. Inizialmente erano coltivatori e seminavano prevalentemente il mais, pertanto in conflitto con il modo di vivere nomade dei Sioux, al gruppo linguistico dei quali, peraltro, appartenevano. Nel tempo dovettero adattarsi a condizioni di vita contrastanti, ma erano molto disponibili per le novità, tant’è che furono i primi a usare le armi da fuoco portate dai bianchi. Di questi, forse, intuirono la pericolosità, così si allearono con il Governo degli Stati Uniti durante le “Guerre Indiane”, mettendo a disposizione uomini capaci, arruolati come esploratori. L’antropologo Robert Lowie, molti anni fa, intervistò l’anziano Crow Yellow Brow (Fronte Gialla) facendosi raccontare la storia della sua tribù. Yellow Brow riferì la leggenda della nascita dei Crows, narratagli tanti anni prima da suo nonno e secondo la quale un tempo c’era “Old Man Coyote”, solo e circondato dal mare; questi guardava oltre l’acqua e pensava che la solitudine non fosse un bene. Mentre si sforzava di vedere cosa c’era oltre l’orizzonte, Coyote notò due anatre dagli occhi rossi che si avvicinavano a lui, così chiese loro se avevano visto qualcosa durante il viaggio. Le anatre gli risposero che non avevano visto niente e che si meravigliavano di trovarlo lì; allora Coyote chiese se potevano dare uno sguardo sott’acqua dove, forse, avrebbero trovato qualcosa, per poi portargliela a vedere. Un’anatra, allora si tuffò in mare e, dopo un lunghissimo tempo, tornò in superficie con qualcosa nel becco; Coyote e l’altra anatra le corsero incontro per guardare che cosa aveva portato e, mentre l’esploratrice riferiva che sott’acqua aveva notato cose stupefacenti, videro che l’oggetto era parte di un albero, un pezzo di radice o di un ramo, confermando che le sensazioni di Coyote erano giuste. Coyote, allora, chiese all’anatra di tuffarsi di nuovo e cercare qualcosa di morbido; l’animale non si fece pregare e scomparve ancora una volta in mare, poi apparve con un mucchietto di fango nel becco. Coyote lo prese e, mentre i due animali lo guardavano perplessi, iniziò a mescolarlo; magicamente il fango cominciò a espandersi in ogni direzione, a crescere e consolidarsi, fino a divenire – in pochi minuti – una grande isola. Le anatre erano stupefatte e gli chiesero se poteva ingrandirla,
così Coyote si mise di nuovo a rimestare la terra e questa, quasi subito, divenne il mondo nel quale viviamo. A quella vista uno degli animali osservò che sarebbe stato bello se la terra non fosse stata vuota; Coyote raccolse la radice e da essa fece nascere l’erba, gli alberi e tutte le altre piante. I tre guardarono ammirati il risultato, però l’altra anatra fece notare che il tutto era troppo piatto e che se ci fossero stati dei fiumi, questi avrebbero scavato valli e burroni; Coyote si grattò il mento brizzolato e piegò la testa: “Hai ragione”, disse, e davanti alle attonite anatre pigiò il suolo facendo apparire i fiumi. Le anatre dissero che era perfetto e gli chiesero se pensava di realizzare qualcos’altro; Coyote assentì: tutto era meraviglioso, ma non si sentiva soddisfatto perché era ancora solo e annoiato. Aveva bisogno di compagnia, perciò raccolse un po’ di fango e formò un uomo. Le anatre erano affascinate e gli chiesero se intendeva creare altri esseri viventi; Coyote modellò anatre di tutti i tipi, poi guardò soddisfatto la sua opera, ma pensò di aver tralasciato qualcosa. Se ci fossero femmine, l’uomo sarebbe contento e potrebbe moltiplicarsi e crescere forte. Se ci fossero femmine d’anatra, pure i loro maschi sarebbero felici; così raccolse un po’ di sporcizia e creò le donne e le femmine d’anatra. La terra era bella e l’uomo felice. Un giorno Old Man Coyote chiamò un coyote, il quale gli chiese chi fosse; il nostro gli disse come si chiamava e che era suo fratello, poi gli propose di accompagnarlo in giro per il mondo. Quando tornarono, il coyote chiese a Old Man Coyote se c’erano altre creature oltre a quelle che gli aveva mostrato e se poteva farne di nuove, ricevendo risposta affermativa. Il racconto di Yellow Brow al professor Lowie continuò, descrivendo le nuove creature nate da Old Man Coyote. A noi non resta che riflettere su quante similitudini ci sono fra il mito Crow e la Creazione Biblica, compreso il maschilismo e la pretesa inferiorità del genere femminile, creato con “lo sporco” da un Essere ovviamente di genere maschile (delle nostre compagne, almeno, fu scritto che vennero ricavate da una costola). Non dobbiamo dimenticare, peraltro, che gli “indiani” popolarono l’America provenendo dall’Asia, attraverso lo Stretto di Bering ghiacciato, portando con loro miti, credi religiosi e leggende, poi sviluppati anche nei luoghi che avevano lasciato.
3. Crow / Wind River Range / Wyoming
I Crows, e si capisce dal loro mito d’origine, erano soddisfatti dei luoghi dove stavano. Un loro grande Capo, Eelapuasch, agli inizi del novecento affermò che i loro territori erano buoni, perché il Grande Spirito li aveva collocati al posto giusto. Vivevano, infatti, in una zona stupenda, vicino alle Bighorn Mountains. Gli antenati dei Crows, gli Awatixa, una delle tre parti del popolo Hidatsa, inizialmente abitavano nel nord del continente americano, in grandi villaggi di capanne; erano coltivatori e integravano l’alimentazione con la cacciagione, procurata da compagnie di uomini armati di archi. Durante il sedicesimo secolo alcuni gruppi giunsero dal fiume Missouri fino alle pianure e iniziarono a esplorarle, poi vi si trasferirono e adattarono il loro sistema di vita al nuovo ambiente, spostandosi piano piano fino alle Bighorn Mountains. Con il tempo, gli Awatixa non pensarono più a se stessi come parte degli Hidatsa. In quegli anni gli spagnoli si erano appropriati dell’America Centrale e avevano introdotto i cavalli. I primi indiani ad allevarli furono i Pueblo, seguiti dagli Shoshoni, che iniziarono a scambiarli con i nativi delle altre tribù. Quando i Crows conobbero i cavalli e ne videro la potenzialità per gli spostamenti e la caccia, li adottarono immediatamente e una loro parte decise di abbandonare le coltivazioni e le abitudini di vita stanziali, in favore del nomadismo, diventando abilissimi cacciatori di bisonti. In ogni caso i Crows non disdegnavano le razzie nei villaggi dei Blackfoot e dei Sioux, prediligendo il furto degli equini. Fra il 1600 e il ‘700, i Crows ebbero un brutto contrasto interno e si divisero in due tribù, stanziate in luoghi diversi e denominate River Crow e Mountain Crow. La separazione definitiva si completò intorno al 1750. I nativi, nel frattempo, avevano cominciato ad appellarsi “Absaroka”, nome che davano a un grande uccello che i primi esploratori scambiarono per un corvo, così furono ribattezzati. Non si sa, in realtà, quale fosse l’animale al quale i Crows si riferivano, però ancora oggi i membri della tribù si dicono “Figli dell’uccello dal lungo becco”. Il capo dei Crows era chiamato Bacheeitche (uomo buono), perché rispondeva agli ideali della tribù: bravura, generosità e lealtà. Se veniva meno a tali requisiti, era immediatamente rimosso (che strana gente). Nella mente dei Crows il Creatore era sempre vicino,
costantemente presente dove vivevano, ed erano frequenti le cerimonie per mettersi in contatto con Lui. La più comune vedeva un giovane appartarsi in un luogo isolato per pregare fino a quando non otteneva un sogno o una visione, da interpretare e utilizzare nelle imprese che l’uomo intendeva intraprendere. Presso i Crow era importante la “Società del Tabacco”, un’organizzazione rituale, con membri d’ambo i sessi; aveva il compito di coltivare il tabacco sacro ed era chiamata “Capitolo del Ghiottone” (un animale dalla folta pelliccia marrone, colore del tabacco essiccato). I primi, veri, rapporti con i bianchi i Crows li ebbero dopo il 1825, quando fu sottoscritto un trattato con il Governo degli Stati Uniti (firmato dal nostro Eelapuash), anche se fin dagli anni 1807/1808, i nostri Corvi erano già ben conosciuti e apprezzati, tanto è vero che, per commerciare con loro, John Colter e Manuel Lisa ripercorsero la via della spedizione di Meriwether Lewis e William Clark e costruirono una baracca alla foce del fiume Bighorn, scambiando pellicce con oggetti d’uso quotidiano, armi, utensili (molto apprezzate le asce), oltre a ornamenti, utilizzati per decorare abiti, accessori o finimenti dei cavalli, sui quali le donne realizzavano bellissimi disegni. Piano piano, però, anche le aree abitate dai Crows furono invase dai bianchi, favoriti dalla navigazione sul Missouri e dall’apertura della “Oregon Trail”; per di più ci fu la corsa all’oro della California. Migliaia di stranieri occuparono le pianure, scacciandone gli abitanti nativi, in particolare i Sioux e i Cheyenne, con una pressione aggiuntiva sui territori dei Crows e guerre fra tribù, che coinvolsero anche i Blackfoot. Lo stato di conflitto disturbava la migrazione (l’incursione) dei bianchi attraverso le pianure, perciò, nell’estate del 1851, ci fu la famosa Conferenza di Forte Laramie, sul fiume Platter, fra i rappresentanti del Governo degli Stati Uniti e i capi delle tribù Crow, Sioux, Blackfoot, Shoshoni, Cheyenne e altre minori; in quell’occasione furono disegnate mappe che definivano i territori assegnati alle varie tribù nel tentativo di garantire la pace. Naturalmente, come tutti sappiamo, il trattato del 1851 non fu rispettato dagli invasori bianchi e i territori dei nativi americani non solo furono sempre più ridotti, ma si giunse perfino, in taluni casi, alla deportazione in massa di alcune tribù. Ciò, per loro fortuna, non accadde ai Crows, i quali, peraltro, videro diminuire i loro spazi e, di conseguenza, la possibilità di caccia e indipendenza. Un accordo di collaborazione con il Governo degli Stati Uniti fu firmato nel 1868 e i Crows si misero a disposizione, dietro la promessa sia di un congruo pagamento, per consentire l’attraversamento del loro territorio alla Northern Pacific Railroad, sia per realizzare infrastrutture e servizi e costruire scuole.
L’idea era di “civilizzare” i Crows, ma molti di loro continuarono l’antico sistema di vita e, nel 1876, alcuni collaborarono con i Sioux all’annientamento di Custer e i suoi. Sulla conferenza del 1868 (o “pow-wow”, che nel linguaggio indiano vuol dire “parola – consiglio”) c’è la testimonianza del pittore e scrittore George Catlin; egli descrive i Corvi come “…i più fieri tra gli Indiani delle Praterie, almeno tra quelli del Nord. Tratti molto marcati, grandi proporzioni, statura gigantesca, forme atletiche. I loro volti maestosi ricordano i Cesari romani che si vedono sulle monete dell’antichità”. Fu cordialmente ricevuto nel campo, formato da una ventina di tende dov’erano le famiglie, e fumò il calumet con i sedici capi. Catlin racconta che “Erano appena vestiti: questo con una coperta di lana, quello con una pelle di bisonte o un’uniforme incompleta da ufficiale; altri erano a torso nudo. Molti portavano collane e orecchini di conchiglie o di zanne. Uno aveva al collo una medaglia d’argento con l’effige di un Presidente degli Stati Uniti (Pierce)”. I Crows, peraltro, si recarono alla conferenza indossando gli abiti migliori, attraversando, a cavallo o a piedi, il fiume Laramie, mentre le donne e i bambini passavano sul ponte. Gli indiani portavano numerosi ornamenti, alcuni costituiti da rondelle d’argento ottenute martellando le monete. Il Capo era Piede Nero e accanto aveva Picchetto di Capanna, L’Uomo-Che-Aveva-Ricevuto-Una-Fucilata-In-Faccia e Uccello-Nel-Suo-Nido. La maggior parte di loro si era dipinto il volto di rosso, vermiglio scuro, giallo e blu. Prima dell’inizio della cerimonia i Sachem cantarono l’Inno della loro Nazione. Catlin riferisce che la conferenza si svolse in una grande baracca di legno, munita di panche e sedie; vi erano riuniti i Crows, gli interpreti, gli agenti, lo stenografo, il Segretario, i giornalisti. Le donne Crow più vecchie, Acqua-Che-Corre, Giumenta Gialla, Donna-Che-Ha-Ucciso-L’Orso, erano sedute insieme ai capi. L’Agente Indiano si chiamava Matthews e rappresentavano gli Stati Uniti i Commissari Taylor e Harney e i generali Augur, Terry e Sanborn. Fu l’ultima conferenza che la Commissione tenne con gli indiani. Non si erano presentati né i Sioux, né i Cheyenne del Nord. Il sistema di vita dei Crows, intanto, cambiava rapidamente, molti si stabilirono intorno all’Agenzia Indiana e altri divennero di nuovo agricoltori; nel 1884 un centinaio di Crows fu trasferito forzatamente da Stillwater alla valle del Little Big Horn e furono obbligati a coltivare la terra. Non mancarono neanche i missionari cristiani, nelle vesti di due italiani e i loro seguaci dell’Ordine dei Gesuiti, i quali restarono insieme ai Crows per venticinque anni, fondando la Missione di St. Xavier. Furono ben accetti dai nativi perché onesti e rispettosi, impararono la lingua Crow e insegnarono loro a scriverla. Nell’estate del 1887 un giovane Crow, il ventiquattrenne
Wraps-Up-His-Tail, si ribellò al repentino cambiamento di tradizioni, vita e abitudini. Insieme con altri ragazzi, fra i quali He-Knows-HisCup, figlio di Crazy Head (un grande guerriero che si era distinto negli scontri contro i Blackfoot e i Sioux), accettò l’invito di un gruppo di Cheyenne del Nord, della confinante Riserva del Tongue River, di partecipare all’annuale Danza del Sole, cerimonia proibita anche perché prevedeva riti cruenti, fra i quali l’auto tortura e l’offerta di parti del proprio corpo al Creatore. Il comportamento di Wraps-Up-His-Tail alla cerimonia fu molto apprezzato dai Cheyenne, che ribattezzarono il giovane Corvo Sword Bearer. Alcune angherie subite dagli anziani Crows, fra questi Crazy Head e Deaf Bull, e il mancato rispetto delle promesse, fornirono ai giovani ribelli la giustificazione per rubare cavalli alle altre tribù e fare scorrerie nelle pianure. A fine settembre la banda tornò all’Agenzia Indiana, guidando i cavalli rubati, cantando e sparando in aria per festeggiare la vittoria; Sword Bearer e alcuni seguaci corsero anche loro attraverso Crow Agency ma, anziché sparare in aria, tirarono verso la casa dell’Agente Indiano e il magazzino delle merci. I giovani ribelli, poi, se ne andarono, ma l’Agente Indiano telegrafò a Washington e al comandante del vicino Forte Custer, raccontando l’accaduto e chiedendo l’intervento dell’Esercito. L’incidente fu montato dalla stampa e dall’opinione pubblica, definendolo come l’inizio di una nuova Guerra Indiana, così la tensione crebbe e i soldati intervennero. Per evitare guai, peraltro, memori delle stragi compiute dalle “Giacche Blu”, molte famiglie Crow ritennero opportuno spostare le loro tende vicino all’Agenzia Indiana, così da mostrare la loro neutralità. Il 5 novembre 1887 l’Esercito ordinò l’arresto di Sword Bearer e dei suoi seguaci; ne seguì un breve combattimento nel quale Sword Bearer e sette dei suoi furono uccisi. Le conseguenze della piccola rivolta furono drammatiche per tutti i Crows, poiché confinati in una riserva che comprendeva solo una piccola parte del territorio in precedenza assegnato alla tribù, con l’obbligo di non uscirne.
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PAWNEE I Pawnee furono scoperti e descritti nel 1500 da Francisco Vasquez de Coronado e vivevano lungo il fiume Platte, nel Nebraska, dove ricerche archeologiche hanno attestato la loro presenza fino dal 1250. Erano una popolazione di lingua caddoan ed erano divisi in quattro gruppi, spesso in lotta fra loro per la supremazia: i Chaui, o Xau-i, chiamati anche “Grand Pawnee”, i Pit-a-hav-e-rat (“Noisy Pawnee”), i Kit-ke-ha-ki (“Republican Pawnee”) e gli Ski-di, che nella loro lingua significa “Volpe”. Singolare la maniera caratteristica con la quale i Pawnee si acconciavano la capigliatura, rendendola simile a un corno; ne dovevano andare fieri, giacché il loro emblema era una ciocca di capelli. Nella loro lingua si attribuirono l’appellativo di Pariki, ma il nome con il quale li conosciamo è l’anglicizzazione del termine Panis, utilizzato dai colonizzatori francesi per designare gli schiavi indiani. I nostri “Uomini Rossi” erano sedentari e coltivatori ma, due volte l’anno, si allontanavano dal villaggio per cacciare gli animali migratori. Abitavano, in genere, in capanne coperte di terra, edificate su rialzi nelle vicinanze dei fiumi. I Pawnee erano un popolo dai costumi evoluti, la linea familiare era matriarcale e le decisioni erano prese comunemente. Le attività della vita quotidiana, peraltro, vedevano le donne occuparsi della famiglia e delle coltivazioni. La caccia richiedeva spostamenti nelle pianure per centinaia di chilometri; era molto ben organizzata, con i cacciatori a cavallo che, con le frecce, uccidevano i bisonti e le donne che li scuoiavano e recuperavano carne e ossa per i diversi usi. Se capitava l’occasione, insidiavano pure orsi, alci, pantere e altro, sia per la carne, sia per le pelli, dalle quali ricavavano vesti e accessori, scarpe, borse, ecc. Finita la caccia, tornavano al villaggio, in tempo per la semina, la mietitura e la raccolta degli ortaggi. Avevano anche, come quasi tutti i popoli indiani, l’abitudine di colorarsi la faccia e le parti del corpo. Quasi tutti gli indiani praticavano la tortura, e i Pawnee non facevano eccezione. La pratica, peraltro, non era semplicemente finalizzata a far soffrire il prigioniero, ma per loro aveva una giustificazione religiosa e sociale, giacché, tramite essa, i guerrieri credevano d’impadronirsi dello spirito e del valore del nemico. I Pawnee avevano una cosmologia complessa, comune, peraltro, agli altri
indiani; vi erano compresi molti elementi della natura; adoravano Atiustirawa (“Il Padre che sta in Alto”), il Dio creatore, e a lui attribuivano l’insegnamento delle cose più importanti della vita: parlare, vestirsi, coltivare, costruire, accendere il fuoco, i riti religiosi, ecc., associandolo agli astri celesti e ai fenomeni naturali, quali il vento, la luce, la pioggia e i temporali… Sua moglie era Atira, dea della terra. Gli dei del sole e della luna erano Shacuru e Pah e il primo essere umano apparso sulla terra fu una ragazza, creata dalla Stella del Mattino (Marte) e da quella della sera (Venere), mentre l’uomo era figlio dell’unione della Luna con il Sole. Nella tradizione religiosa dei Pawnee il Dio Supremo Atiustirawa conferiva poteri particolari ad alcuni animali, i Nahurac, suoi messaggeri e servitori, che vivevano in cinque dimore sparse per il loro territorio, nel Nebraska e nel Kansas, chiamate Pahuk, Lalawakohtitoo, Kitzawitzuk, Ahkawitakol e Pahur; questo fa capire perché la devastante invasione dei coloni e dei minatori era così duramente contrastata. I Pawnee avevano una tradizione sanguinaria, che prevedeva il sacrificio rituale di una giovane alla Stella del Mattino. La cruenta cerimonia avveniva di primavera ed era connessa alla storia della creazione, in onore, appunto, alla credenza che l’unione di Marte e Venere avesse generato una ragazza. Il rito, peraltro, non avveniva tutti gli anni, ma solamente quando un uomo del villaggio sognava che la Stella del Mattino veniva da lui; allora si rivolgeva al sacerdote di Marte per decidere se fare solamente una funzione simbolica, oppure un vero e proprio sacrificio umano. In quest’ultimo caso un piccolo gruppo di guerrieri rapiva una ragazza di un’altra tribù. La ragazza era tenuta prigioniera e isolata, ma trattata con ogni rispetto finché, vestita a festa, il volto dipinto di bianco e accompagnata da canti e suoni, era portata verso una piattaforma appositamente eretta. All’apparire di Marte all’orizzonte la ragazza era uccisa e il sacrificio, secondo i Pawnee, trasformava la ragazza da essere umano in un corpo celeste. Questa loro consuetudine entrò nel mito per un fatto storicamente accertato, compiuto dal valoroso guerriero Petalesharo, dei Pawnee Skidi, che riuscì a far abolire quasi del tutto l’abominevole rito. In occasione di un ennesimo sacrificio, infatti, nel 1818 o 1819, stava per essere uccisa una giovane Comanche ma Petalesharo ta-
4. Pawnee / Green Mountains / Vermont
gliò le corde che la legavano, la mise su un cavallo carico di provviste e la rispedì al suo villaggio. Petalesharo era talmente rispettato che la sua decisione non solo fu accettata senza discutere, ma, come abbiamo detto, provocò fra i suoi l’immediata cessazione dei sacrifici. Qualche gruppo, però, continuò la pratica, giacché, in realtà, si ha notizia che l’ultima immolazione avvenne il 22 aprile 1838. Tornando a Petalesharo e alla liberazione della giovane Comance, l’episodio fu risaputo nel resto degli Stati Uniti e, nel 1821, quando si recò nelle grandi città dell’Est, le ragazze di un collegio femminile gli regalarono una medaglia a ricordo del gesto. Petalesharo, Capo Collerico Junior, altri quindici Pawnee e alcuni indiani d’altre tribù furono ricevuti alla Casa Bianca; in tale occasione Petalesharo si esibì in una danza rituale davanti al Presidente James Monroe. Conosciamo le fattezze di Petalesharo perché alla danza era presente pure la signora Hyde de Neuville, moglie dell’ambasciatore di Francia negli Stati Uniti e abile disegnatrice; colpita dall’aspetto dell’orgoglioso guerriero, lo ritrasse con sopra la testa un casco ornato di moltissime penne d’aquila e con appesa al collo la medaglia di pace di James Madison. Petalesharo fu pure immortalato dal pittore Charles Bird King. Morì nel 1832, ucciso, insieme a migliaia di altri indiani, dal vaiolo deliberatamente diffuso dai mercanti di Santa Fé. Un altro personaggio importante fu Capo Collerico senior, nella sua lingua Sharitarish. Era originario della tribù dei Chaui “Grandi Pawnee” ed era conosciuto anche con il nome di “Lupo Bianco”, appellativo che indicava un alto grado guerriero nella tribù, giacché il lupo bianco era simbolo della guerra. Alla fine del ‘700 Capo Collerico assunse il potere deponendo Iskatappe (Uomo Ricco). La storia di Capo Collerico/Sharitarish la conosciamo perché, nel 1806, incontrò Zebulon Pike, un ufficiale dell’Esercito americano che compì vari viaggi esplorativi nei territori appena acquisiti della Louisiana. Nel 1806, infatti, una sua spedizione, su alcuni barconi, risalì il Missouri esplorando il sud ovest, nei territori dei fiumi Arkansas e Red River, per verificare se c’erano spagnoli. Discesero il Missouri ed entrarono in contatto con i Pawnee e gli Osage. In occasione dell’incontro con Zebulon Pike, sappiamo che Capo Collerico aveva al collo due medaglie; una americana, con l’effige di Giorgio Washin-
gton, l’altra spagnola. Nel 1809 Capo Collerico Senior si scontrò con i Kanza e fu sconfitto, perciò dovette abbandonare il villaggio sul fiume Republican e trasferirsi sul Platte. All’interno delle tribù, intanto, erano aumentate le controversie per il potere e si ebbero anche scontri fra Capo Collerico e il suo avversario Tarcawawaho (“Capelli Lunghi”); Capo Collerico ebbe la meglio, divenne Capo Supremo e, nel 1812, cercò la rivalsa contro i Kanza, assalendo il loro villaggio alla foce del fiume Big Blue. L’attacco fallì e i Pawnee dovettero ritirarsi, lasciando ottanta morti sul terreno, fra i quali Capo Collerico, cosicché il comando supremo passò a Capelli Lunghi. Il figlio di Capo Collerico aveva lo stesso nome Sharitarish e divenne a sua volta capo dei Pawnee Chaui, proseguendo la controversia con Capelli Lunghi. Nel 1819, incontrò la spedizione del Maggiore Stephen H. Long e gli riconsegnò merci e prigionieri catturati durante alcune razzie; in seguito fu convinto, con altri capi Pawnee, a recarsi in alcune delle principali città statunitensi. Tarcawawaho, invece, rifiutò, asserendo che i Pawnee erano il più grande popolo del mondo e che lui era il più importante capo; affermò che voleva vivere in pace con gli americani e di essere disposto a scambiare atti di cortesia, ma che il Presidente James Monroe non avrebbe potuto portare tanti uomini in campo come, invece, era possibile fare a lui, né poteva avere tanti cavalli o tante mogli e che non si era distinto come un prode, giacché non poteva esibire molti scalpi presi in battaglia. In ogni caso, infine, non gli riconosceva il titolo di “Grande Padre”. Nella delegazione che incontrò Monroe nel 1821 c’erano, quindi, Sharitarish Junior e Petalesharo. Li accompagnava l’Agente Indiano O’Fallon e furono condotti a Filadelfia, Baltimora, New York e Washington. In quest’ultima città, Sharitarish Junior fece un discorso commovente, riportato dai cronisti, con il quale manifestò il suo stupore per quanto aveva visto (città, navi, mezzi di trasporto, ecc.) e…tante altre cose molto oltre la mia comprensione, che sembrano essere state create dal Grande Spirito…al quale sono grato…Il Grande Spirito ci ha creati tutti, ha fatto la mia pelle rossa e la tua bianca…Poi proseguì mettendo in risalto la diversità del genere di vita fra i due popoli e pronunciò parole d’amore per la sua terra, che vedeva cambiare e alterare dalla sempre più massiccia presenza dei bianchi, che non solo distruggevano flora e fauna ma, anche, le loro tradizioni e i loro valori…C’era un tempo in cui non conoscevamo i bianchi e i nostri bisogni erano minori di quelli che sono ora. Essi erano sempre sotto il nostro controllo e non avevamo visto nulla che non potevamo ottenere. I Pawnee non avevano solamente il problema dei bianchi, poiché erano perennemente in lotta con molte tribù confinanti e non si peritavano di compiere sanguinosi raid. Fra il 1840 e il 1841, ad esempio, uccisero cinque fratelli di Wakinyan Cica (Piccolo Tuono), capo dei Lakota Sicangu, loro atavici nemici. Il 27 giugno 1843 i La-
kota si vendicarono e i Pawnee furono sconfitti in uno scontro avvenuto nella zona di Loup Fork, del fiume Platte. Erano acerrimi avversari anche dei Cheyenne; si ricorda la battaglia dell’agosto 1863 contro l’aggressore Cheyenne J’ Kioma (“Piccolo Manto di Pelliccia”), finita male per quest’ultimo e i suoi. Fra i guerrieri Pawnee si deve annoverare anche un’amazzone: Old-Lady-Grieves-The-Enemy; si guadagnò questo nome dopo aver costituito un gruppo di guerra e attaccato i nemici Ponca e Sioux, che avevano assalito il suo villaggio e fatto vergognosamente fuggire gli uomini. Furono tanti i Pawnee arruolati nell’Esercito degli Stati Uniti – due battaglioni, per circa ottocento uomini – e, poiché erano avversari dei Kiowa, Arapaho, Comance, Sioux e Cheyenne, ai militari furono molto utili per combattere queste tribù, specialmente nel periodo 1864 – 1877. Fra i tanti loro scontri si ricordano quelli contro i Lakota, i Cheyenne e gli Arapaho nella battaglia del fiume Tongue, avvenuta durante la spedizione sul fiume Power del 1865. Oltre a Petalesharo e a Capo Collerico padre e figlio, un altro Pawnee restato celebre fu Grande Cavallo Pezzato (“Big Spot Horse”), nome del capo di guerra Uh’sah’wuck’oo’ee’hoor, membro della tribù dei Kitkehahki. Grande Cavallo Pezzato nacque nel 1837 e, a soli sedici anni, uccise con una freccia il grande capo Cheyenne Alights-on-the-Cloud (“Quello-Che-Si-Posa-Sulle-Nuvole”), al quale non servì la sua famosa e poco comune abitudine di proteggersi con una corazza di dischi metallici presa agli spagnoli. Le cose andarono così: i Pawnee erano a caccia di bisonti e furono assaliti da una banda di Cheyenne, uno di questi, appunto Alights-on-the-Cloud, guerriero ben conosciuto dai Pawnee, lanciò il suo cavallo contro il giovanissimo Grande Cavallo Pezzato per “contare il colpo”, vale a dire toccarlo senza ucciderlo (magari si riservava di farlo dopo). Alights-on-the-Cloud si avvicinò a Grande Cavallo Pezzato dalla parte destra, poiché il guerriero Pawnee era armato di arco e questo s’impugna generalmente con la mano dritta e la freccia è lanciata davanti o a sinistra. Il Cheyenne, però, “cascò male”, giacché Grande Cavallo Pezzato era mancino e gli piantò la freccia in un occhio. Grande Cavallo Pezzato, crescendo, divenne un guerriero molto rispettato; nell’inverno del 1869 si fece di nuovo onore introducendosi, insieme a pochi compagni, in un villaggio Cheyenne rizzato vicino al fiume Arkansas e rubando seicento cavalli. Un po’ tanti per non sollevare un vespaio, pertanto il nostro “Big Spotted Horse” fu chiamato dall’Agente Indiano Jacob M. Troth e invitato a restituirli. Il Pawnee si rifiutò e fu imprigionato a Fort Omaha per cinque mesi; quando uscì, trovò che la mandria da lui razziata (ma era una “cortesia” che le tribù si scambiavano spesso) si era ridotta a poco meno di quaranta animali; perciò mollò il suo villaggio e se ne andò dagli amici Wichita, sul Red River, in Oklahoma. Nel 1870 divenne scout
dell’Esercito americano e combatté contro i Kiowa, i Lakota e i Cheyenne. Nel 1872/73 tornò al suo villaggio per proporre il trasferimento dei Pawnee presso i Wichita, ma i capi della sua tribù si rifiutarono. Nel 1874, comunque, Grande Cavallo Pezzato e circa trecento suoi seguaci si trasferirono, seguiti l’anno successivo dal resto della tribù. Grande Cavallo Pezzato fu poi ucciso in uno scontro, non si sa se per mano di alcuni cow boy o dalle truppe americane. Il 5 agosto 1873 il capo dei Sioux Lakota Sicangu, Sinte Galeska (Coda Maculata) assalì i Pawnee che, guidati da Tirawahut Leshar (Capo Cielo), erano a caccia di bisonti nella zona del torrente Beaver. Il gruppo di cacciatori, con i quali erano donne e bambini, era piuttosto numeroso, circa quattrocento persone e tutte a cavallo. Ne facevano parte capi importanti, come Koruksa Tuapuk (Orso Battagliero) e Sukuru Leshar (Capo Sole), nipote di Petalesharo, oltre all’agente bianco John Williamson, che aveva il compito di controllare la caccia e proteggere i Pawnee dai Sioux Lakota. Stavano cacciando nelle pianure del Frenchman’s Fork, quando gli addetti allo scuoio delle carcasse di bisonte furono assaliti da un centinaio di Lakota, che uccisero e scotennarono, fra gli altri, Capo Cielo. I Pawnee si rifugiarono in una vicina gola, ma il grosso dei Lakota, circa ottocento, li assalì e distrussero il gruppo Pawnee, uccidendone un centinaio, la metà dei quali donne e bambini, facendone prigionieri una decina e portando via tutti i cavalli. Abbiamo raccontato che i Lakota scotennarono i loro nemici uccisi, ma era un’usanza che non tutte le tribù indiane seguivano. Lo scalpo era un trofeo e veniva appeso alla lancia, alla mazza, alla cintura, ai finimenti del cavallo, oppure utilizzato per cucirne frange del vestito; talvolta gli scalpi venivano appesi a un palo ed esposti fuori dal wigwam. Alcune tribù ritenevano che togliere la capigliatura rendesse impossibile all’anima del mutilato raggiungere l’aldilà. Il pittore e scrittore George Catlin riferisce che, ai suoi tempi (nella seconda metà dell’ottocento), i coltelli da scalpo erano tutti fatti dai bianchi, solo i foderi venivano realizzati dagli indiani secondo le loro usanze e stili. A quell’epoca, però, lo scalpo aveva già perso in parte il significato di valore guerriero o religioso e assunto quello economico voluto dai bianchi, che li pagavano un buon prezzo, causando la diffusione dell’usanza. Alcuni “cacciatori di scalpi”, come Ben Leaton, John Johnson, William Knight, divennero famosi. Terminiamo con una testimonianza: un viaggiatore che, nel 1867, vide alcuni Pawnee a Omaha, così li descrisse: Li si incontra per le vie drappeggiati nella coperta di lana, arco e faretra in spalla; la faretra trabocca di frecce dalla punta di acciaio, ma non avvelenata. Una collana di conterie intorno al collo, mocassini di pelle di bufalo o di daino ai piedi completano questo costume elementare, cui i capi aggiungono una penna d’aquila (o di pollo) nei capelli.
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SIOUX I Sioux, complici anche cinema e letteratura, sono gli indiani che più si conoscono, non fosse altro per il mito che circonda Custer e la battaglia del Little Bighorn del 1876; ma un’altra, terribile, storia li fa ricordare: il massacro di Wounded Knee, avvenuto il 29 dicembre 1890. Vogliamo cominciare la necessariamente succinta descrizione di questo Popolo proprio da quella tragica vicenda. Wounded Knee è la traduzione inglese del nome Minneconjou Cankpe opi wakpala, “Il torrente dove il ragazzo si ferì al ginocchio”, fiumiciattolo presso il quale erano accampati i Minneconjou di Sitanka (Grosso Piede) e gli Hunkpapa fuggiti dalla loro riserva dopo l’uccisione di Toro Seduto. Nell’accampamento c’erano circa quattrocento persone, delle quali solo un centinaio erano uomini. I circa cinquecento soldati del 7° Cavalleria, comandati da James Forsyth e armati pure con quattro cannoni, di primo mattino circondarono il villaggio e imposero la consegna delle armi. Non contenti del risultato, trascinarono fuori della sua tenda Grosso Piede, ammalato di polmonite, e frugarono tutte le tende. L’“Uomo della Medicina”, Uccello Giallo, prevedendo il disastro, si mise a cantare pregando lo Spirito dell’Aquila. L’interprete conosceva poco il dialetto Hohwoju parlato dai Minneconjou, capì male il canto e affermò che era un incitamento alla resistenza. Qualche fucile, peraltro, era davvero nascosto sotto la pelliccia che ricopriva alcuni giovani Sioux; uno lo aveva Coyote Nero, fu scoperto, ma si rifiutò di consegnarlo, allora cercarono di prenderglielo con la forza e partì un colpo verso l’alto…, così iniziò il massacro. I pochi Sioux armati risposero al fuoco, poi, finite le munizioni, si gettarono contro i soldati che, fra l’altro, si sparavano persino fra sé con le carabine e i cannoni. Il 7°, dopo aver ammazzato chi era restato nel villaggio, inseguì donne e bambini in fuga e li trucidò. I pochi prigionieri furono salvati dall’intervento di guerrieri Sicangu e Oglala provenienti dalla Riserva di Pine Ridge. Il popolo dei Sioux comprendeva due grandi gruppi, i Lakota e i Dakota, di lingua siouan; un tempo si pensava che i gruppi fossero tre, comprendendovi anche i Nakota che, invece, erano parte dei Dakota. L’appellativo Sioux significa “Nemico”. Gli Algonchini, infatti, nella loro lingua li chiamavano “Meno che Serpente”, il nome, ripreso dai Chippewa, suonava Nadowe-is-iw-uh e fu trasformato dai coloni
franco–canadesi in Sioux. Dei Sioux non è certa la provenienza, sembra dal sud est nordamericano; in un primo tempo andarono verso nord per sfuggire agli Irochesi, poi risalirono il Missouri fino alle Foreste dei Grandi Laghi. Pressati dai nemici Ojibway e Chippewa, dovettero spostarsi nelle Grandi Praterie, dove le piogge garantivano un’erba rigogliosa, cibo per milioni d’animali. Solo il sottogruppo Santee restò nelle foreste del Minnesota, ma anche loro, nel 1862, furono costretti ad andarsene. In origine i Sioux erano cacciatori seminomadi, poi, necessariamente, divennero nomadi e cacciatori di bisonti, dei quali non gettavano via niente, utilizzando la carne per nutrirsi, le ossa per farne strumenti e utensili, le pelli per le tende e per coprirsi. I Sioux, peraltro, prelevavano dalla natura solo lo stretto necessario per vivere. I Lakota erano un gruppo (una “Nazione”, come si definivano), strettamente imparentati con i Dakota, con i quali formavano la Confederazione Oceti Sakowin (“I sette fuochi del Consiglio”). I due gruppi, peraltro, erano indipendenti e ciascuno faceva guerra e affari come meglio riteneva; si riunivano solo per prendere decisioni comuni e incidevano i deliberati sul tronco di un albero, convalidandoli dagli stemmi o dai simboli dei consiglieri. I Lakota furono pure chiamati Tintatonwan, che significa “Accampati nelle Pianure”, ma gli americani li appellarono con il più diffuso termine di Teton. A un certo punto si distaccarono dalla Confederazione Sioux e costituirono separatamente “I Sette Fuochi del Consiglio”. La “Nazione” Lakota era composta di sette tribù, gli Hunkpapa, i Sihasapa, i Sicangu, gli Oohenonpa, i Minikanyewozupi (i Minneconjou), gli Oglala e gli Itazipco. I consiglieri erano chiamati Wakikonza e il capo della “Nazione” Wicasa Itancan. Poteva essere capo di una tribù, peraltro, solo chi aveva compiuto attività che avevano portato sicurezza e benessere. Non c’erano classi sociali, né ereditarietà dei titoli; anzi, chi non svolgeva bene il suo ruolo era immediatamente destituito. I Lakota compirono gesta leggendarie per opporsi all’invasione dei “visi pallidi”. I Dakota chiamavano se stessi con tale nome perché significava “Alleati”, al contrario dell’appellativo “Sioux”, “Nemico”, loro affibbiato. Erano divisi in quattro tribù: i Mdewakamton, i Wahpeton, i Wahpekute e i Sisseton. I Nakota si consideravano parte dei Dakota,
5. Sioux / White Mountains / Arizona
distinguendosi solamente per il nome che si attribuivano: Wichiyena; erano anch’essi cacciatori di bisonti ed erano composti dalle tribù Yankton e Yanktonnai. I Dakota erano abilissimi cacciatori e con i loro potenti archi lanciavano frecce capaci di trapassare anche un bisonte. D’altronde, come gli altri Sioux, erano alti – lo scrittore e pittore George Catlin parla di una statura media di un metro e ottanta –, snelli e, ovviamente, molto robusti. Si pensi che fu constata più volte la loro capacità di correre per giorni, alla media di circa dieci chilometri l’ora. Nella seconda metà dell’ottocento, con la distruzione delle mandrie dei bisonti e la devastazione dei loro territori, i Sioux furono costretti a divenire sedentari, a iniziare dai Santee, obbligati ad allevare bestiame e a coltivare il granoturco, dipendendo sempre più dalle provvigioni governative e confinati nelle Riserve. Molti pellirosse, non solamente i Sioux, morirono per le carestie, le epidemie (talvolta, come il vaiolo, diffuse volontariamente per decimarli), o alcolizzati, avvelenati dal Bug Juice (“Succo di Scarafaggio”), una mistura spacciata come whiskey. I capi più importanti dei Sioux, ben conosciuti per la loro resistenza all’avanzata dei bianchi, furono Nuvola Rossa (nome preso a quindici anni, prima si chiamava “Due Trecce”), Toro Seduto (Tatanga Mani), Pioggia sulla Faccia, Coda Chiazzata, Gall (“Fiele”, ma chiamato dai suoi Pizi: “L’uomo che va nel mezzo), Cavallo Pazzo (il vero nome era Tashunka Witko, traducibile in “E’ un buon giorno per morire”), Gobba di Bisonte (Etokeah) e Cervo Zoppo. Un personaggio notevole è anche Antilope che Corre, capo dei Lakota Hunkpapa negli anni 1853/1876. E’ famoso per aver disegnato, con undici immagini, la sua autobiografia, raffigurandosi nelle maggiori azioni compiute e dettandone le didascalie allo scrittore da W. Hoffman. I capi distribuivano doni, in particolare a chi era stato più valoroso in battaglia, o abile cacciatore; per sé si riservavano poco o niente. Un esploratore italiano, Giacomo Costantino Beltrami, negli anni a cavallo fra il 1820 e il 1830, raccontò che ebbe vergogna dopo aver parlato con Wabishinhouwa, capo della Confederazione Sioux, il quale non capiva com’era possibile che i re e i potenti in Europa si tenessero le ricchezze, affermando che i bianchi erano più barbari di loro. Vediamo, ora, come i Sioux vivevano, e le loro credenze reli-
giose. Il tepee era la loro tenda tipica; era fabbricata dalle donne e, di norma, aveva un diametro di quattro o cinque metri. Era composta di numerose pertiche di legno, coperte da pelli di bisonte e con un contro telo per proteggere l’interno dall’umidità. L’esterno era disegnato con motivi simbolici che garantivano a chi vi abitava protezione contro le malattie e le disgrazie. La pipa era l’oggetto più sacro per i Sioux (come, d’altronde, per gli altri indiani delle pianure), ed era considerata uno strumento di preghiera; credevano, infatti, fosse stata donata agli uomini da Whopi, la “Donna Bisonte Bianco”. I Lakota chiamavano la pipa Chanupa (il “Calumet” è il nome dei bianchi). Il cannello era di legno d’acero e il fornello veniva ricavato dalla Catlinite, una pietra rossa reperibile solamente a Pipestone (il nome dice tutto), nel Minnesota, e così denominata in onore di George Catlin. La zona era sacra per i Sioux ed era un’area franca, nella quale era vietata la guerra. Quando la pipa non era utilizzata, le due parti dovevano restare separate, altrimenti si commetteva un sacrilegio, giacché la loro unione simboleggiava quella fra il cielo e la terra. Vi veniva fumata la corteccia di salice rosso, chiamata Cansasa, mischiata con erbe o con il Canli (tabacco) Icahiye. Fumare particolari tipi di cortecce o d’erbe portava ad avere allucinazioni o visioni, considerati una forma di contatto con gli Spiriti. La pipa era ritenuta pure uno strumento di pace, ed era un atto gravissimo giurare il falso con la pipa accesa in mano; il fumo della pipa, infatti, un po’ come l’incenso nei riti cristiani, era offerto alla divinità. Un simbolo importante per i Sioux era il cerchio, giacché il cielo, le stelle, la terra, i venti, gli alberi, i nidi… tutto era circolare; pertanto erano circolari pure il villaggio, i tepee, e in circolo si sedevano gli anziani. Il centro del cerchio era il luogo del Grande Spirito e nei riti ci si rivolgeva ai quattro punti cardinali. Il Wakan era il soprannaturale, presente in tutte le cose dell’Universo, ed era chiamato pure Ateyabi, vale a dire “Dio Padre”; Wakan Tanka ne era l’incarnazione. Con il credo religioso cristiano ci sono similitudini scioccanti, giacché Wakan Tanka, come affermavano i Sioux, Era, è e sempre sarà. Egli è il Grande Mistero. È uno e molti. È il Signore di tutte le cose, il Grande Spirito, il Creatore, Colui che dirige e regge l’Universo. C’erano, poi, i quattro Spiriti Superiori, responsabili dell’equilibrio dell’Universo: Skan, il Cielo, con i discendenti Anoy Ite’ (il Sole), Maka (la Terra) e Inyan (la Pietra); seguivano gli Spiriti Associati Tate (il Vento), Hanwiyanpa” (la Luna), Wohpe (Figlia del Sole e della Luna) e Wakinyan (il Tuono). In ultimo troviamo gli Spiriti Imparentati: il Bisonte, l’Orso, i Quattro Venti e il Turbine. I Sioux avevano diversi sistemi di sepoltura; chi moriva “in casa” era vestito con gli abiti migliori, gli venivano messi vicino gli oggetti personali e le armi e dipinto il volto. Poi o erano inumati in terra, circon-
dati da una staccionata avvolta da rovi, oppure collocati su un albero o sopra una piattaforma sostenuta da quattro pali, lo “Scaffold”. Se, invece, la morte avveniva in battaglia, erano sepolti nel luogo dov’erano stati uccisi. Avevano riti, cerimonie e danze tradizionali, fra le quali la Wiwanyankwacipi, la Danza del Sole, poi proibiti dal Governo statunitense. Per i Sioux la guerra era, in parte, un gioco con il quale mostrare coraggio e valore, tanto è vero che, sovente, bastava toccare l’avversario col bastone per simularne l’uccisione e il valore del “colpo” era simboleggiato da una penna d’aquila inserita nei capelli. Era un popolo fiero e si opposero con grande tenacia all’invasione dei bianchi, in difesa delle proprie tradizioni e per la stessa sopravvivenza. Sono numerosi gli scontri che ebbero con le “Giacche Blu”, dal più celebre, quello di Little Bighorn, a quelli meno conosciuti ma che tanto hanno dato da fare agli statunitensi. Diamo cenno di alcune “battaglie”, cominciando dal primo combattimento con i bianchi che conosciamo, avvenuto il 19 agosto 1854, quando una mucca entrò in un campo Lakota e fu uccisa. Il proprietario si recò a Fort Laramie protestando e il capo dei Lakota Sicangu, Orso che Conquista, per appianare la questione offrì in cambio alcuni cavalli. Ebbe, però, la sfortuna di trovarsi di fronte il tenente Fleming, ubriaco, che inviò all’attendamento indiano il tenente John L. Grattan, con ventisette uomini e un cannone per catturare il responsabile dell’uccisione della mucca. Il comandante e un esploratore si comportarono nella maniera più stupida, prima insultando e poi uccidendo Orso che Conquista, con il risultato d’esser spazzati via dagli inferociti Sicangu. L’anno successivo, il 2 settembre, ne seguì la “Battaglia di Ash Hollow”. Contro la tribù Sicangu, infatti, fu inviata da Fort Leavenworth una spedizione punitiva guidata dal generale William Harney. La colonna, composta di circa settecento uomini, attaccò il villaggio indiano di Piccolo Tuono uccidendo per la maggior parte donne e bambini. Il massacro del villaggio di Piccolo Tuono fece considerare i bianchi il pericolo maggiore per i Lakota che, peraltro, stante l’incolmabile diversità, non consideravano i “visi pallidi” come esseri umani, né ritenevano onorevole combatterli. Per poterli uccidere con onore dovettero fare apposite cerimonie nelle quali ai bianchi fu attribuita la definizione di Tokai, vale a dire nemici. Nel 1862 ci fu un’insurrezione dei Dakota guidati da Piccolo Corvo, causata dal mancato rispetto delle promesse governative e avverso l’“Homestead Act”, con il quale furono concessi ai pionieri grandi appezzamenti nel West, a danno degli indiani. Piccolo Corvo ebbe a dire …gli uomini bianchi sono come le locuste quando volano così fitte che l’intero cielo è una tempesta. I Dakota, dopo aver sac-
cheggiato alcune fattorie, assalirono la città di New Ulm. Il colonnello Henry H. Sibley, di Fort Ridgely, ordinò di risalire il corso del Minnesota per soccorrere i sopravvissuti alla rivolta; i soldati erano comandati dal maggiore Joseph R. Browne e, dopo aver sepolto cinquantaquattro persone, al tramonto si fermarono a Birch Coulee senza particolari precauzioni. Circa duecento indiani, però, comandati da Mankato, Uccello Grigio, Grande Aquila e Gambe Rosse, li avevano seguiti senza farsi scorgere e si erano appostati alle pendici della gola, dove era stato eretto l’accampamento. All’alba del giorno dopo i pellirosse assalirono i militari, colpendone nel sonno almeno trenta e uccidendo molti cavalli, dietro le carcasse dei quali si ripararono i superstiti, riuscendo a bloccare l’attacco. Da Fort Ridgely partì una colonna di soccorso, armata anche con due cannoncini e comandata dal colonnello McPhail. Prima di raggiungere gli assediati, però, dovettero chiudersi in quadrato perché circondati dagli indiani, peraltro tenuti lontani a cannonate. Un ufficiale riuscì a rompere l’accerchiamento e a tornare al Forte, dal quale partì Sibley con altri uomini e, a mezzanotte, riuscì a liberare McPhail e i suoi. All’alba del tre settembre si diressero tutti verso Birch Coulee e, grazie all’artiglieria, tolsero dai guai Browne e gli altri. Un’altra battaglia restata famosa fu quella di Fetterman, dal nome del comandante il drappello che il 21 dicembre 1866 affrontò i Lakota. Lo scontro portò alla morte di un centinaio di soldati e, in opposto al nome di “La battaglia dei cento uccisi”, datogli dagli indiani, è ricordato dagli americani come “Fetterman Massacre”. Dal luglio gli indiani avevano reso intransitabile la Pista Bozeman, uccidendo circa centocinquanta persone, fra soldati e civili. William Fetterman si vantava di poter sconfiggere i Sioux con appena ottanta soldati, ma riuscì a dimostrare drammaticamente di aver torto, giacché, inviato a soccorrere la corvée incaricata di prendere legna da ardere per rifornire Fort Kearny, cascò in una trappola ben organizzata da Cavallo Pazzo, il quale fece da esca insieme a pochi seguaci Lakota, Cheyenne e Arapaho, mentre il grosso, un centinaio di pellirosse Oglala, Minneconjou, Cheyenne e appartenenti ad altre tribù si erano nascosti nei boschi e sulle colline circostanti. Cavallo Pazzo attaccò i legnaioli, che si rifugiarono dietro i carri e inviarono segnali al Forte con l’eliografo. Il comandante Carrington inviò una spedizione di soccorso, comandata da Fetterman e composta di ottantun uomini. Nonostante Carrington avesse raccomandato a Fetterman di non inseguire gli indiani, questi fece di testa sua e i Sioux, con una serie di abili manovre, lo portarono dentro la trappola, dividendo il contingente dei soldati, coprendoli con una pioggia di frecce e caricandoli in massa combattendo corpo a corpo con mazze e lance. In
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