Sergio tisselli tribù native americane indiani delle foreste

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Del presente portfolio, contenente 5 tavole firmate dall’artista, sono stati realizzati 99 esempleri numerati. 10 esemplari della tiratura di testa, numerati in cifre romane, contengono un acquerello originale di Sergio Tisselli. La riproduzione delle opere è stata realizzata su carta Stucco Gesso da 350 grammi della Fedrigoni. Ideazione di Giuliano Arniani Ricerca storica Sergio Susani e Livio Pierallini Testi di Livio Pierallini Progetto grafico di Santo Alligo

EDIZIONI D’ARTE


➳ I Cheyenne si autodefinivano con il nome di Tsis’tsistas, “Il nostro popolo”. Noi li conosciamo con il termine Cheyenne perché i Sioux Dakota li chiamavano Shayena, vale a dire coloro che parlano una lingua sconosciuta; ma s’ipotizza pure che l’appellativo derivi dal francese Chien. Avevano un Governo centrale chiamato “Consiglio dei Quarantaquattro” e, come i Piedi Neri, i Moicani, gli Arapaho e altri, parlavano una lingua algonchina dall’incredibile nome di Tséhesenéstsestotse. Erano coraggiosi guerrieri e cacciatori di bisonti. I loro villaggi erano costituiti dalle classiche tende, i tepee, in genere dipinte di bianco; le fabbricavano con pelli di bisonte e grande abilità, tanto che ne facevano oggetto di scambio con altre tribù. Erano bravi artigiani e decoratori, arti che esprimevano su pipe, tende, capi d’abbigliamento, pali totemici, maschere, ecc. I Cheyenne, fra la fine dei 1600 e gli inizi del ‘700, avuti i cavalli, cambiarono radicalmente vita, si trasferirono nelle Grandi Pianure e divennero nomadi e, con i Comance, fra i più abili cavalieri del mondo. Intorno al 1830 si divisero in due gruppi, gli S ’taa’e e gli Tsé-tsêhéstâhese; uno rimase nel luogo d’origine, nello Yellowstone settentrionale, l’altro si trasferì più a meridione, vicino al fiume Republican, dove poteva meglio commerciare con i bianchi. La loro religione era di tipo animista e politeista, con il culto della Terra Madre, dalla quale facevano discendere la creazione e la fertilità (d’altronde, fra loro vigeva il sistema della matrilinearità). Il Dio più importante era “Il Saggio che tutto vede”; un altro viveva sotto terra ed era senza nome. L’universo dei Cheyenne, lo Hestanov, era suddiviso in sette livelli (vi ricorda qualcosa della nostrana “Divina Commedia”?), e fu creato da Ma’heo’o. A servizio di Hestanov c’erano spiriti sacri aventi stretti rapporti con la natura e gli esseri viventi. Il rito religioso principale dei Cheyenne era la Danza del Sole, con i ballerini che fissavano l’astro fino a cadere in trance, credendo, così, di ottenere poteri magici legati all’equilibrio cosmico. Praticavano anche la Danza degli Animali, al fine di propiziare una buona caccia e, a tale scopo, celebravano pure la cerimonia delle Frecce Sacre. Si erano anche creati eroi mitici, credenze sull’oltretomba, sui bimbi prodigio e sul saggio profeta che fornisce indicazioni religiose e di comporta-

I Cheyenne ➳

mento. Bellissima la leggenda della bambina “Nuvola Fresca”; la piccola aveva gli incubi e li confidò alla mamma, “Ultimo Sospiro della Sera” (e questi erano i “selvaggi”?), la quale, per pescare i sogni nel lago della notte, inventò una rete tonda e le fornì il potere di distinguere quelli buoni dai cattivi. Al centro della rete mise un sasso, circondato da un filo d’argento per rappresentare il tempo lunare, un turchese con il significato di desiderio e il dente di un animale potente a garanzia di protezione; dal cerchio fece penzolare code di animali, fili di perline (le forze della natura) e piume d’uccelli (per far volar via gli incubi). La brava mamma fece gli ’“Acchiappa sogni” per sua figlia e per tutti i bimbi del villaggio, facendoli appendere sopra le culle; ecco perché ogni Cheyenne conserva per tutta la vita questo amuleto sacro. Molte caratteristiche dei Cheyenne si conoscono grazie ai disegni di Hòneoline Stoohe (Lupo che Ulula), un capo di guerra che morì nel 1927 a ottantasette anni, in epoca moderna… tanto moderna da porre fine alla sua vita in un incidente stradale. Nel 1865 e nel 1867 Lupo che Ulula combatté, insieme ai Sioux Lakota, contro la spedizione Connor e, negli anni 1874/75, contro il Colonnello Miles. Quando i Cheyenne meridionali si arresero, fu imprigionato nel terribile carcere di Fort Marion, in Florida, dove fece i disegni con i quali illustrò l’epopea della sua gente. Emigranti e profughi, che fuggivano dalle zone dove imperversava la guerra civile, avevano già iniziato a invadere i territori di caccia degli indiani, ma il contrasto fra i due popoli si accentuò dopo il 1865, quando altre migliaia e migliaia di persone cercarono fortuna dirigendosi verso le terre del lontano Ovest, il “Far West”, appunto. Le maggiori battaglie che videro coinvolti bianchi e Cheyenne si concentrarono in una manciata di anni. Abbiamo trovato testimonianza di tanti scontri, nei quali li vediamo combattere da soli o alleati con altre tribù. Facciamo un breve riassunto degli episodi più importanti, così da capire il dramma vissuto anche da questo popolo. Cominciamo dalla storia di Caldaia Nera e dei suoi. Caldaia Nera fu un grande e sfortunato capo Cheyenne; commerciava con i bianchi e, con la sua tribù, si era trasferito vicino a Santa Fé fino dal 1832. Non voleva combattere contro i nuovi venuti

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e, addirittura, nel 1864 trasse in salvo un reparto del Reggimento Volontari di Cavalleria del Colorado, in procinto d’essere distrutto – meritatamente – dai confratelli Cheyenne di Orso Magro, attaccati dai soldati senza ragione. Alla fine d’agosto del 1864, con altri capi tribù, si recò a Denver per trattare la cessazione delle ostilità fra gli altri indiani e i soldati; parlarono con il Governatore del Colorado, Evans, e il comandante delle truppe, John Chivington. Ciò nonostante, il 29 novembre, i soldati assalirono il villaggio di Caldaia Nera, a Sand Creek, distruggendolo e massacrandone gli abitanti. Caldaia Nera riuscì a fuggire e a porre in salvo la moglie, ferita in modo grave, e con i pochi superstiti andò lontano, fino al sud dell’Arkansas. Il massacro di Sand Creek comportò una feroce reazione da parte dei Cheyenne; per vendicare i morti, Coda Maculata, alleato dei Cheyenne, fra il 6 e il 7 gennaio 1865 attaccò la cittadina di Julesburg, nel Colorado. Uno dei più tenaci rivoltosi fu Toro Alto, dei “Soldati del Cane”. Nel 1867 era uno dei capi che incontrarono il Generale Winfield Hancock, il quale, dopo l’interruzione della trattativa, fece bruciare il villaggio di Pawnee Fork. L’ira di Toro Alto e dei suoi si scatenò contro tutti gli insediamenti che trovavano sulla sua strada, ma il Capo volle dare ancora una possibilità ai bianchi, firmando il trattato di Medicine Lodge del 1867, poi tradito dai Governanti statunitensi (che si meritarono l’appellativo di “Lingua doppia”), poiché orde di emigranti e cacciatori di bisonti continuarono a invadere i territori di caccia Cheyenne sul Canadian. Torniamo al povero Caldaia Nera; lui e i suoi non ebbero pace e, ancora una volta, dovettero subire la cieca violenza dei militari di George A. Custer che, nel novembre del 1868, assaltarono il loro accampamento, vicino a fiume Washita, e lo distrussero, uccidendo lo stesso Caldaia Nera e un centinaio di persone, fra donne, vecchi e bambini, e catturando gli altri. Il periodo 1867–1876 fu un susseguirsi di scontri feroci fra i Cheyenne e i Wasichun, nomignolo dispregiativo affibbiato ai bianchi (i Cheyenne li chiamavano anche Vé Ho’e, “Uomini Ragno”). Nel 1867 fu attuata una dura campagna contro i Cheyenne da parte del Generale Hancock che, però, dimostrò una notevole incompetenza, scatenando un’inutile guerra. Veniamo all’episodio di Pawnee Fork


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prima citato, luogo dove gli indiani avevano eretto un villaggio, nel quale c’erano pure i “Soldati del Cane”. Qui Hancock compì il primo errore, assediandolo. I Cheyenne, nottetempo, abbandonarono le tende e i militari si appropriarono di ogni loro avere, compreso il cibo. I pellirosse, naturalmente, si vendicarono con tutti quelli che incontrarono, dalle diligenze alle stazioni postali. Hancock, allora, fece la stupidaggine d’incendiare il villaggio, dando il via alle rappresaglie sia contro i soldati, sia nei confronti delle carovane che percorrevano la strada delle Smoky Hill, facendo centinaia di vittime. Con Hancock c’era Custer, ma neppure lui riuscì a sbloccare la situazione, anzi, arrivato a Fort Mc Pherson per rifornirsi e ricevuto l’ordine di recarsi a Fort Sedwick, non obbedì e cercò di raggiungere sua moglie, a Fort Riley. Il Comando inviò subito un ufficiale, il tenente Kidder, per riportare Custer all’ordine, ma Kidder finì in un’imboscata e fu ucciso, mentre Custer si recò a perlustrare l’alto Republican, in un territorio molto accidentato nel quale, in poco tempo, i suoi persero i cavalli e molti disertarono, nonostante Custer facesse sparare loro addosso. Il nostro “Capigliatura Gialla” continuò per Fort Wallace e proseguì poi per Fort Riley, dove finalmente raggiunse sua moglie; fu arrestato, ma la Corte Marziale lo sospese dal servizio solo per un anno. Il 1868 fu un altro anno di combattimenti e tragedie. Una battaglia famosa fu quella conosciuta con il nome di Beecher Island; accadde nella seconda metà dell’anno, dopo che il Generale Sheridan fece arruolare cinquanta esploratori per proteggere i lavori di costruzione della ferrovia Union Pacific. Gli scout erano agli ordini del Colonnello George A. Forsyth e si erano accampati sulle sponde del fiume Arikaree; qui, a metà novembre, avvenne una grossa battaglia, giacché furono assaliti da circa seicento Cheyenne, più un contingente di Sioux Oglala, guidati da Toro Alto, Cavallo Bianco, Pawnee Killer e da Woquini (Naso Romano). Gli scout si rifugiarono in un’isoletta in mezzo al fiume, vanificando gli attacchi a cavallo, le bestie rallentate dall’acqua, alta circa un metro. Dopo due tentativi andati a vuoto, intervenne direttamente Naso Romano con i migliori guerrieri delle tribù delle pianure, i “Soldati del Cane”, guidando un assalto in massa verso i bianchi che, intanto, si erano riparati dietro mucchi di sabbia e tronchi d’albero. Naso Romano e suoi, però, non sapevano che gli scout erano armati con le carabine Spencer, a sette colpi calibro .50rf, con i quali fecero piovere una tempesta di colpi sugli assalitori, che avanzavano con i cavalli appiccicati uno all’altro. I Cheyenne provarono a cavalcare intorno all’isoletta, ma gli scout si erano appostati anche fra l’erba alta e non consentivano loro d’avvicinarsi più di tanto. In questa fase Naso Romano fu colpito alla schiena e cadde da cavallo; uno dei suoi guer-

rieri, con abilissima manovra, lo portò lontano, però Woquini morì. L’assalto fu interrotto, ma l’assedio proseguì per otto giorni, finché due coraggiosi scout, Fred Trudeau e Jack Stillwell, riuscirono a varcare le maglie degli accerchianti e raggiungere Fort Wallace, dal quale tornarono con bel po’ di cavalleggeri, liberando i superstiti. I morti fra gli scout furono cinque, il più alto in grado dei quali era Frederik Beecher, e da lui il luogo dello scontro prese il nome di Beecher Island. Un capo Cheyenne che sopravvisse a tutte le tragedie ottocentesche fu Achekankcoani (Scudo Bianco), morto nel 1918. Si sa che era figlio di Donna del Vento e di Lupo Pezzato. Partecipò alla famosa “Battaglia di Adobe Walls”, avvenuta nel giugno 1874 e che vale la pena raccontare. Gli indiani potevano cacciare liberamente nel Panhandle, in Texas, ma, nonostante il Trattato di Medicine Lodge, l’Esercito incoraggiò l’invasione del loro territorio da parte di centinaia di cacciatori, con l’obiettivo di sterminare tutti i bisonti e ridurre i nativi alla fame. I Cheyenne, insieme ai Kiowa, ai Comance e agli Arapaho, all’alba del 27 giugno assalirono circa trenta bracconieri, fra i quali c’erano anche Bill Dixon e Bat Masterson, asserragliati nella loro base di Adobe Walls e difesi dalle solide costruzioni di mattoni di fango essiccato. Gli abili cacciatori, armati con i fucili da bisonti, carabine a ripetizione e rivoltelle, fecero strage fra gli attaccanti che, oltretutto, compirono l’errore di non scendere mai da cavallo, gettandosi perfino con le bestie contro le porte, per cercare di sfondarle. La battaglia durò tutto il giorno e le cerimonie del profeta Comance Isatai, che aveva garantito ai guerrieri l’immunità, si rivelarono quanto mai inutili contro le armi da fuoco. Per rendere più drammatico e straniante l’evento, un cavalleggero di colore suonò ininterrottamente la tromba, poi fu ucciso dagli indiani con una fucilata. Scudo Bianco e i suoi, dopo la battaglia, tornarono dai Cheyenne Settentrionali, poi, nel giugno del 1876, lo troviamo a combattere a Rosebud, quando il Generale Crook e una colonna di soldati, partendo da Fort Fetterman e diretti al fiume Power, si diressero contro Toro Seduto; c’erano altre due colonne, comandate dai Generali John Gibbon e Alfred Terry con il Reggimento di Custer. In totale erano circa mille cavalleggeri, seguiti da centosei carri di rifornimenti e duecentocinquanta animali carichi di salmerie. L’undici giugno le colonne furono avvistate da un gruppo di cacciatori Cheyenne, che avvertirono i capi del villaggio, rizzato vicino al Rosebud e nel quale c’erano più di ottocento guerrieri indiani, fra Sioux e Cheyenne. Con i Sioux c’erano anche Toro Seduto e Cavallo Pazzo, mentre i Cheyenne erano guidati da Uomo Bianco Zoppo. Gli indiani si divisero e circondarono Crook e i suoi, che si spostarono vicino al fiume, in una posi-

zione meglio difendibile. All’alba del 17 giugno gli indiani attaccarono, colpendo per primo il contingente avanzato di scout, che si ritirarono verso il campo principale dei militari. Gli indiani strinsero l’assedio, cavalcando continuamente e caricando le “Giacche Azzurre”, sbattendoli giù dal cavallo con le lance e i coltelli. Mentre la battaglia infuriava dappertutto, il cavallo del capo Cheyenne “Arriva in Vista” finì a terra, in mezzo agli esploratori Corvi e Shoshoni, che circondarono il guerriero per ucciderlo; a quel punto accadde una cosa abbastanza inconsueta, poiché arrivò come una furia sua sorella, “Donna della Pista del Bisonte” che, incurante della sparatoria, lanciò il cavallo in mezzo alla mischia e riuscì a salvare Arriva in Vista, meritandosi, così, il nome di Kse e sewo istaniwe i tatane (Dove la ragazza salvò suo fratello). Per i militari fu una clamorosa sconfitta e la mancata distruzione dei villaggi indiani del Power e del Tongue fu la premessa per la clamorosa debacle di Little Bighorn, avvenuta pochi giorni dopo, il 25 giugno 1876. Restiamo nel 1876 con un ultimo episodio. Hayiowei, significa “Capelli Gialli” ed era il vero nome del famoso capo di guerra conosciuto dagli appassionati di storie western come “Mano Gialla”, ucciso in uno scontro che ebbe nientemeno con Buffalo Bill. Capelli Gialli si guadagnò tale appellativo perché esibiva lo scalpo di un uomo biondo ma, per i bianchi, divenne Mano Gialla per un errore di traduzione e la sua fama si deve allo stesso William Bill Cody, alias Buffalo Bill, che fece della vittoria ai danni del capo Cheyenne uno dei numeri principali del suo circo. Vediamo come avvenne la morte di Hayiowei. I fatti accaddero il 17 luglio 1876; Capelli Gialli e i suoi erano in viaggio dal territorio di Nuvola Rossa verso il Powder, quando s’imbatterono nel 5° Cavalleria del Colonnello Wesley Merrit, guidato dagli scout comandati da Buffalo Bill. Ci fu un primo scambio di fucilate; Buffalo Bill prese di mira Capelli Gialli e riuscì a colpirlo a una gamba e a uccidergli il cavallo; anche Hayiowei sparò un colpo contro lo scout, però andato a vuoto. Capelli Gialli fece un ruzzolone, e altrettanto Buffalo Bill, poiché il suo cavallo mise la zampa nella buca di un cane della prateria e cadde. Buffalo Bill si rialzò in un attimo, giusto in tempo per schivare un’altra fucilata sparatagli da Capelli Gialli e rispondere al fuoco, colpendo l’indiano in pieno petto. È da immaginare la scena, i due contendenti a brevissima distanza, i cavalli a terra, nell’erba della prateria, attorno gli altri esploratori e i Mila Hanska (Lunghi Coltelli) in feroci corpo a corpo con i pellirosse, frecce e pallottole saettanti per l’aria. In quest’atmosfera Buffalo Bill, freddamente, scalpò Capelli Gialli e mostrò il trofeo ai guerrieri Cheyenne che, perso il loro capo, fecero dietrofront e lasciarono il campo di battaglia.


➳ I Kiowa ebbero, nel tempo, diversi nomi; l’attuale proviene da Kâ’i’gwû (Popolo Principale); il loro antico appellativo era Kútjàu, o Kwu–da, ma si definivano anche Tep–da, voce derivante da un antico mito. In origine abitavano il bacino settentrionale del Missouri, dove sembra presero il loro nome dal gruppo montagnoso Kaui–Kope, così chiamato dai Piedi Neri perché popolato di orsi grizzly, nella loro lingua Kgyi–yo. Come si vede, il definitivo termine Kiowa, peraltro utilizzato dai bianchi, ha avuto precedenti complicati, tanto più che, prima di stabilirsi nelle pianure, lo cambiarono ancora una volta e, riferendosi chissà perché alle falde delle loro tende, si definirono Kom–pa–bianta. La lingua dei Kiowa apparteneva al ceppo Tanoan, parlato da alcuni gruppi Pueblos. Intorno al 1650 i Kiowa migrarono a sud, verso le Black Hills, nel territorio dei Corvi, poiché pressati dall’invasione dei Cheyenne e dei Sioux, a loro volta forzati a spostarsi dall’occupazione delle loro terre da parte dei bianchi; ma non fu sufficiente e dovettero emigrare ancora più a meridione, fra i fiumi Platte e Arkansas, dove vivevano i Comance, con i quali furono in conflitto fino a quando, nel 1790, si misero d’accordo per spartirsi il territorio, cacciare e fare le guerre insieme. I Kiowa e i Comance controllavano un territorio vastissimo, fra i fiumi Arkansas e Brazos, ed entravano di frequente in conflitto con le tribù degli Osage, Cheyenne, Pawnee, Arapaho, Sac–Fox, Kickapoo, Kaw, Navajos, Ute, Caddo, Tonkawa e Apache delle tribù Lipan e Mescalero; per non farsi mancare niente, a questi aggiunsero messicani e statunitensi. Erano un popolo bellicoso e sono famosi per i loro raid a lunghissima distanza, fino nel Canada o in Messico. Erano suddivisi in due gruppi principali, i To–kinah– yup, vale a dire i Kiowa settentrionali, o “Uomini del freddo”, dislocati nei pressi del fiume Arkansas e del confine con il Kansas, e i Gwa–kelega, o G hàl cáig , nome che, pressappoco, significa “Popolo dei cavalli selvaggi”, risiedenti nel Llano Estacado. Nelle pianure le abitudini di vita dei Kiowa divennero quelle degli altri indiani: nomadismo e villaggi di tende facilmente trasportabili, caccia alle antilopi, ai cervi e, la più importante, al bisonte, animale del quale utilizzavano tutto, sia per alimentarsi, sia per utilizzarne

I Kiowa

la pelle e farci tepee, coperte e capi d’abbigliamento. L’alimentazione dei Kiowa era integrata dalla raccolta, fatta dalle donne, di radici, vegetali e frutta. Non mangiavano pesci, uccelli o rettili, che ritenevano animali immondi. Il cavallo fece cambiare il loro sistema di vita; era una preda ambita e rendeva veloci gli spostamenti, agevolava la caccia e i combattimenti, consentiva di trasportare tutto facilmente. In precedenza, i Kiowa spostavano le loro cose utilizzando i cani e, poiché il cavallo apparve ai loro occhi come un gigantesco cane, lo chiamarono “Cane Sacro”. I cavalli erano il principale obiettivo dei Kiowa nelle razzie e impadronirsene era uno dei riti di passaggio per i giovani guerrieri; il pittore George Catlin ne immortalò alcuni, con il loro tipico taglio orizzontale dei capelli, rasati dall’occhio a dietro l’orecchio perché non dessero fastidio tirando le frecce. La famiglia era matriarcale ed erano gli uomini a trasferirsi nella tenda dove abitavano i parenti della moglie. Più gruppi familiari costituivano le bande e sceglievano un capo, chiamato Topadok’i. Le bande erano quelle degli Arikara, (i Kâtá), ed erano i più numerosi, poi i Kogui, i Kaigwa, i Khe–ate, Soy–hai–talpupé o Pahy–dome–gaw, e, infine gli alleati Kiowa– Apache Semat. Nell’accampamento di tende, gli uomini si occupavano di educare i ragazzi, costruivano i finimenti per i cavalli o altri oggetti necessari, le donne montavano l’accampamento, realizzavano vesti, mocassini, preparavano il cibo, anche quello per l’inverno, si occupavano dei bimbi più piccoli e di dar mangiare ai cani. Anche i nonni avevano il ruolo classico nei confronti dei nipoti, raccontando storie, fiabe, miti, credenze religiose; non li attendeva, però, una bella fine, giacché era costume dei Kiowa abbandonare i vecchi e gli inabili, affinché la loro morte avvenisse lontano dall’accampamento, in un posto isolato. L’accampamento poteva essere montato o smontato in pochissimo tempo e i pali di sostegno, se c’era da spostarsi, erano utilizzati per formare i travois, sui quali caricare tutti gli averi. Le pelli delle tende erano sovente decorate da realistiche pitture; i tradizionali disegni erano diversi per ciascuna famiglia e rappresentavano le gesta dei proprietari. Sui tepee degli appartenenti alle Società Guerriere o agli Uomini della

2. Kiowa / Black Hills / South Dakota

Medicina, era talvolta dipinto lo scudo simboleggiante la Danza del Sole. I Kiowa erano ben organizzati e avevano un sistema di governo democratico; eleggevano un capo, considerato come guida simbolica di tutto il popolo, basandosi sulla sua intelligenza, esperienza, generosità, abilità e coraggio durante le battaglie. Gli ideali e le regole della tribù erano rispettati e i giovani aspiravano a divenire grandi guerrieri; almeno il venti per cento di loro, peraltro, erano di razza bianca, cresciuti nella tribù dopo essere stati rapiti. I guerrieri Kiowa, come altri popoli indiani, usavano dividersi in Società Guerriere; ce n’erano sei, una per i ragazzi e cinque per gli adulti, quella dei ragazzi era la Società del Coniglio, finalizzata alla loro educazione e non prevedeva attività violente. Le armi dei Kiowa erano sia quelle tradizionali, quali arco e frecce, lance, scuri di guerra, coltelli e mazze, scudi di legno rivestiti con pelle di bisonte, sia quelle moderne, catturate o ottenute con scambi dai bianchi. I Kiowa credevano che i primi esseri del loro popolo fossero scaturiti dal ceppo di un albero; il Creatore dette loro il sole, la religione e insegnò a cacciare, distruggendo i mostri che popolavano in precedenza il mondo, così da renderlo un buon posto dove vivere, mentre Il suo eroico gemello “Half Boy” donò ai Kiowa le dieci icone sacre per la tribù. Il dio Tai–me dette loro la guida spirituale e infuse la santità, mentre il dio Saynday fornì capacità caratteriali e senso dell’umorismo. C’era pure la Donna Ragno e molti altri esseri soprannaturali. Secondo il mito dei Kiowa il “Padrone della Vita” fece discendere dall’albero il primo uomo e la prima donna (Adamo ed Eva oltre oceanici), ai quali disse: Questo è il bisonte, da esso trarrete nutrimento e vestiti. Sappiate che con la sua fine arriverà la vostra fine. Rapidamente! Ogni anno, nel periodo del solstizio d’estate, praticavano la Danza del Sole, compiuta fino al 1887, quando il Governo statunitense la vietò. Oltre al sole, i Kiowa adoravano le costellazioni celesti (in particolare le Pleiadi) e le forze naturali come il ciclone. Durante la stagione estiva compievano altre danze rituali; le facevano pure le Società Guerriere, come, ad esempio “La Danza degli Scalpi” al ritorno dalle battaglie. Gli “Uomini della Medicina” curavano le malattie o


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le ferite. Alcune vecchie donne erano apprezzate per la loro capacità di preparare rimedi con le erbe, o per la loro esperienza nell’assistere le partorienti. Per purificarsi o curarsi, i Kiowa usavano compiere bagni. Malattia o sfortuna erano attribuite al soprannaturale, o alla violazione dei tabù tribali; credevano pure che gli animali avessero poteri trascendenti. La storia più recente dei Kiowa è conosciuta anche grazie alle loro pittografie, simili agli odierni fumetti. Avevano un loro calendario, che prese il nome dal capo Dohäsan e vi erano dipinti, a spirale, i più importanti eventi annuali. Dohäsan, o Teh’Too’Sah (“Piccola Collina”, o “Cima della Montagna”), come lo chiamò il pittore Catlin quando lo ritrasse, nacque nel 1805 e il suo nome fu variato in To’Ho’Sa sul Trattato di Fort Gibson del 1837. Firmò anche il Trattato di Fort Atkinson del 1853 e quello di Little Arkansas del 1865, ma restò sempre nemico degli statunitensi e morì nel 1866, nella battaglia del Cimarron River. Dopo la sua morte i Kiowa si divisero in due fazioni, una disposta alla pace con i bianchi, dislocata presso Fort Sill, l’altra decisa a continuare la resistenza contro gli invasori. Oltre a Dohäsan, altri celebri capi Kiowa furono: Setangya (Satank, “Orso Seduto”), Tené Angopte, (Uccello che Scalcia), Over–Hanging Butte, Manyi–ten, Mamanti, Tsen–tainte, G ipä’go (Lupo Solitario), Napawat, Satanta, Adoette (Grande Albero), Zepko–ete (Grande Arco), A’peah’tone (Lancia Piumata), Set– Imkia (Orso che Cade), Satanta (Orso Bianco). Parliamo un poco di quest’ultimo; fu un grande capo Kiowa, nato circa nel 1830 e morto nel 1878. Il vero nome di Satanta era Sattainte, vale a dire “Orso Bianco”, e fu un grande guerriero, tanto da divenire capo a soli vent’anni. All’inizio della Guerra di Secessione conobbe Black Horse e, insieme, compirono numerosi raid lungo la Pista di Santa Fé. Nel 1866, alla morte di Dohäsan, Satanta si propose come guida della fazione guerriera della tribù, in contrasto con “Uccello che Scalcia”, sostenitore della pace con i bianchi; fu fatta una scelta di compromesso e venne preferito “Volpe Solitaria”. Satanta proseguì nelle sue razzie e assalti nel Texas, ma non era solamente un combattente, era pure molto abile nei rapporti con altre tribù e con i bianchi, affascinante comunicatore e dotato di senso dell’umorismo (lo chiamavano “L’Oratore delle Pianure”). Firmò il Trattato di Little Arkansas River nel 1865 e quello di Medicine Lodge del 1867, con i quali i Kiowa accettarono di cedere le loro terre nella valle dei fiumi Canadian e Arkansas e andare a vivere in una Riserva, nel cosiddetto “Territorio Indiano”; ma non ci si recarono

subito, furono costretti ad andarci dopo che Custer prese come ostaggio Satanta e Lupo Solitario. Satanta, negli incontri con i rappresentanti del Governo, disse a uno di loro: Amo questa terra e non voglio separarmene. Voglio che tu capisca bene ciò che dico, scrivilo sulla carta! Ho ascoltato una quantità di buone parole dai signori che il Grande Padre ci manda, ma essi non fanno mai ciò che dicono. … Ho sentito che tu intendi stabilirci in una Riserva presso le montagne. Io non voglio fermarmi. Amo scorazzare per le praterie. ... Ho posato la mia lancia, l’arco e lo scudo, eppure mi sento sicuro in tua presenza. Ti ho detto la verità,… ma non so se i tuoi commissari fanno altrettanto. Sono sinceri con me? Molto tempo fa queste terre appartenevano ai nostri padri, ma quando vado al fiume, vedo campi di soldati sulle sue rive. I soldati tagliano il bosco, uccidono i miei bisonti e, vedendo questo, il mio cuore si gonfia di dolore. Così ho detto. Parole di una persona nobile, che chiedeva solo rispetto per quello che era suo e della sua gente; ma servirono a ben poco. Il capo Kiowa, esacerbato, il 18 maggio 1871, insieme a Setangya (Satank) e a Big Tree (Grande Albero), alla guida di circa centocinquanta guerrieri, fra Kiowa e Comance, a Salt Creek attaccarono e distrussero una carovana governativa composta di dieci carri. Il Generale Ronald Sildell MacKenzie dette la caccia gli indiani e, venuto a sapere che erano in cerca di cibo, propose ai guerrieri Kiowa d’incontrarsi con il Generale Sherman, il quale arrestò Satanta e gli altri capi, inviandoli a Jacksboro, nel Texas, per subire il processo. Setangya tentò di fuggire, cantò il suo canto di morte, si sfilò i ferri che lo incatenavano strappandosi la carne, poi si gettò contro i soldati, che lo crivellarono di fucilate. Satanta e Grande Albero furono condannati all’impiccagione, pena poi trasformata in ergastolo, interrotto nel 1873 grazie al loro buon comportamento. Al comando di Quanah Parker, peraltro, Kiowa, Comance, Cheyenne e Arapaho continuarono a compiere razzie contro i coloni; Satanta sostenne di non aver partecipato alle incursioni e Grande Albero prese contatto con l’Agenzia Cheyenne di Darlington, comunicando che Satanta era disposto a consegnarsi pacificamente, cosa che egli fece un mese dopo; ma i militari lo imprigionarono a Huntsville, nel Texas. Nel 1878 Satanta, ammalato e disperato perché riteneva di non poter più tornare libero, cantò il suo canto di morte e si uccise, gettandosi da una finestra dell’ospedale di Huntsville nel quale era ricoverato. Chi crede ai fantasmi, non vada nel Cimitero texano di Peckerwood, dove il nostro nobile e fiero capo fu sepolto; si dice che vi risieda ancora il suo spirito.

Dobbiamo ricordare, peraltro, che nel periodo nel quale vissero Satanta e Satank il Presidente Ulysses S. Grant tentò una politica di pace con gli indiani, ma senza ottenere risultati apprezzabili. Ordinò, quindi, all’Esercito di risolvere il problema, nonostante buona parte di esso fosse dovuta al mancato rispetto degli impegni presi con i vari trattati. Nel giugno del 1874 ci fu l’attacco ai cacciatori che si erano rifugiati ad Adobe Walls e, per ritorsione, il Generale Philip Sheridan ordinò fossero aggrediti i villaggi indiani lungo il Llano Estacado, nel Texas. La campagna, chiamata dagli indiani “La Guerra dei Bisonti” e dai bianchi “La Battaglia del Red River”, fu condotta dal Colonnello Nelson Miles e dal Colonnello Ranald MacKenzie, con truppe armate pure con cannoni e mitragliatrici Gatling. I soldati riuscirono a ridurre gli indiani alla fame e al freddo e, in pochissimo tempo, i Kiowa – insieme ai Cheyenne e ai Comance, dovettero arrendersi e accettare di finire nelle Riserve; però pure questo territorio fece gola agli statunitensi, che se ne impadronirono nel 1901 lasciandone le briciole agli indiani.


➳ I Salish (Séliš) erano un gruppo di tribù abitanti nel nord dell’America Occidentale che parlavano vari dialetti dello stesso linguaggio. Il loro antico territorio andava dal Canada fino all’Oregon, fra le Montagne Rocciose e le colline costiere, ma non avevano un’istituzione politica formale che unisse i vari gruppi. Una loro parte erano conosciuti pure come Flathead, anche se, in realtà, la quasi totalità non aveva mai praticato l’appiattimento del cranio e furono così chiamati perché la loro fronte, di normale fattura, era “piatta” in confronto a quella dei vicini gruppi del fiume Columbia. I Salish erano divisi fra le tribù dell’interno, le principali delle quali erano i Lillooet, i Ntlakypamuk, i Shuswap, gli Okanagan, i Sälst (“Gente”, in altre parole i Salish più conosciuti), i Ql’ispé, o Kalispel (noti con l’appellativo francese di “Pend d’Oreille”, derivante dall’abitudine che avevano, ambo i sessi, di appendersi conchiglie rotonde alle orecchie) e i Cœur d’Alène. Pur appartenendo allo stesso popolo, fra le tribù della costa e quelle dell’interno c’erano differenze culturali abbastanza marcate, dovute alle diverse abitudini di vita e agli influssi delle vicine, altre, tribù di nativi. I Salish parlavano il dialetto Spokane (npoqìnišcn), mentre quello Kalispel, o Pend d’Oreille che dir si voglia, era parlato da questi e dai Salish Bitterroot. L’area nella quale vivevano i Salish era essenzialmente in pianura e caratterizzata da zone semiaride, percorse da una miriade di corsi d’acqua, ricchi di pesci di vario tipo, con abbondante presenza di salmone. In genere i Salish erano divisi in gruppi di famiglie o piccole bande multifamiliari, ciascuna con un proprio territorio e un proprio capo. Alcuni gruppi d’inverno vivevano lungo i fiumi e d’estate si spostavano in cerca di cibo; erano molto abili a curare le malattie con le erbe, ma non conoscevano l’agricoltura. I Salish non erano aggressivi e le loro battaglie erano principalmente difensive; i nemici tradizionali dei Salish della Costa furono i Lekwiltok che, talvolta in combutta con i Haida, i Tongass e i Tsimshian, compivano razzie per procurarsi schiavi e bottino, ricambiati con determinazione. I Salish dell’interno avevano, con il tempo e la comparsa del cavallo, sviluppato diversi sistemi di caccia, ma erano più primitivi rispetto ai loro fratelli della costa; anche le loro abitazioni erano differenti, funzionali al territorio nel quale abitavano

I Salish ➳

e al materiale a disposizione. Salvo, infatti, l’uso tardivo delle tende, i tepee, limitato alla sola estate, i Salish dell’interno vivevano in capanne coniche, con il pavimento infossato e i pali ricoperti di zolle di terra, mentre quelli del Pacifico costruivano grandi capanne rettangolari, con travi e colonne ricavate da tronchi di cedro, nelle quali abitavano più famiglie fra loro imparentate. Ogni capanna poteva contenere fino a quaranta persone, c’erano i magazzini per gli arnesi e possedeva una zona di pesca riservata. I letti erano intorno al focolare della singola famiglia, su piattaforme accosto alle pareti, con materassi, cuscini colorati e coperte ricavati da pelli d’animali. Le capanne erano personalizzate per gruppi familiari, con intagli e pitture che rappresentavano gli spiriti protettori. Erano raggruppate in villaggi, costruiti vicino alle rive in modo da poter mettere con facilità le imbarcazioni in acqua. I Salish che cacciavano la balena compivano imprese eccezionali, perché lo facevano con semplici canoe, lunghe dai dieci ai quindici metri, ricavate scavando l’interno di enormi tronchi di cedro. Il primo incontro dei Salish con gli europei avvenne nel 1592, con lo spagnolo Juan de Fuca, poi, nel 1792, furono avvicinati dai membri della spedizione di Vancouver. Nel 1808 s’imbatterono con Lewis e Clark e poi furono raggiunti dalla Compagnia del Nord Ovest, così Il commercio di pellicce si estese su tutta la costa. Nel 1846 il trattato di Washington divise il popolo Salish fra Stati Uniti e Canada ma, mentre gli inglesi costituirono una riserva in ogni villaggio, gli statunitensi li confinarono nelle Riserve. Nel 1885 la cultura e le tradizioni dei Salish ebbero il colpo di grazia, poiché l’“Indian Act” proibì riunioni e cerimonie, distruggendo definitivamente parte dei loro antichi modi di vivere. Storia, cultura e abitudini di questa gente non sono molto conosciute; se, però, citiamo il nome Métis, forse le cose cambiano, poiché i meticci, i figli di bianchi e donne Salish, erano un vero e proprio popolo, con una sua lingua, il “Michif”, e compirono gesta di non poco conto per resistere sia alle prepotenze della Hudson’s Bay Company, sia, dopo il 1869, con la cessione delle terre al Canada, alle nuove leggi e alle “Giubbe Rosse”.

3. Salish / Puget Sound / Washington

I Salish che popolavano la costa del Pacifico erano divisi in tre distinte zone geografiche, in un’area che andava dal Canada agli Stati Uniti. L’ambiente nel quale vivevano, in genere, aveva il clima temperato. Le loro credenze prevedevano uno stretto rapporto con gli spiriti della terra, degli antenati e degli animali. Molte leggende dei Salish, ad esempio, riguardano i salmoni, fino a prevedere apposite cerimonie dedicate a questo pesce. I Salish della Costa erano maestri nell’intagliare il legno e nel dipingere animali, uccelli, pesci, figure umane o mitiche, spiriti protettivi; inoltre scolpivano e decoravano ogni tipo di materiale per ricavarne oggetti rituali, maschere o totem, piatti e ciotole. Le decorazioni erano funzionali anche a trasmettere idee o messaggi. Una maschera era chiamata Sxwaywey e utilizzata in occasione di momenti particolari, vissuti dalla persona in favore della quale era indossata; aveva gli occhi sporgenti, con il significato di doppia visione, a significare la fluidità dei confini fra due entità. Lo sciamano stesso era la rappresentazione vivente di questa credenza. Le donne Salish realizzavano e decoravano gioielli, canestri di vimini, vasi di terracotta e tessevano al telaio, usando fili colorati ottenuti con il pelo delle capre o dei cani bianchi. Pur non conoscendo la scrittura, possedevano una cultura avanzata, sia sotto l’aspetto religioso, sia artistico. I ricordi degli avvenimenti, leggende e miti erano trasmessi oralmente ed erano pure parte integrale dei festeggiamenti. Nella loro società c’era una sorta di parità fra uomini e donne, pur nella divisione dei ruoli, con forti legami familiari e parentali. Non vi erano distinzioni sociali ma avevano un capo riconosciuto, con poteri organizzativi, al quale spettavano le decisioni più importanti e la cui posizione non derivava dalle capacità guerriere, ma dalla ricchezza, esibita in grandi feste. I Salish erano religiosi e credevano nello “Spirito Guardiano”; la danza invernale a suo favore era il rituale più importante. Un’altra loro cerimonia sacra era chiamata “Per lo Spirito della Canoa” ed era finalizzata a curare le malattie. I Salish dell’interno credevano anche in un dio che stava in cielo, il “Vecchio”, mentre la terra era la “Madre”; però, similmente alle credenze religiose di altri popoli indiani, attribuivano la Creazione al “Coyote”, capace di trasformare le cose. Credevano nella trasmutazione


3. Salish / Puget Sound / Washington


delle anime fra umani e animali e nel collegamento fra l’anima umana e quella delle cose. I Pend d’Oreille, o Kalispel, chiamavano il loro maggiore dio Amotken, un ragazzo che viveva solo nel cielo e che creò cinque donne da cinque suoi capelli, chiedendo loro cosa volessero essere. Ciascuna dette una diversa risposta: acqua, fuoco, madre della terra, cattiveria e bontà; Amotken ascoltò le loro decisioni e poi dispose che la cattiveria avrebbe regolato la terra, ma alla fine avrebbe vinto la bontà (c’è da imparare…). I Salish utilizzavano storie e miti quali veicolo d’insegnamento, criterio validissimo in una società nella quale i racconti e le memorie erano tutte orali. Non consideravano i loro miti tradizionali quali narrazioni, frutto della creatività umana, ma conoscenze reali vissute dagli antenati. Vediamo, ora, le abitudini di alcune tribù SaIish, iniziando dai Kalispel–Pend d’Oreille. D’estate abitavano nei tepee e d’inverno nelle capanne. Appartenevano ai gruppi culturali che vivevano negli altopiani e il loro nome Ql’ispé era quello di una radice della quale si nutrivano. Scambiavano pelli di bisonte con cavalli o oggetti loro necessari. Armi e utensili erano fatti di pietra e si vestivano con tessuti, pelli di coniglio o di capra; il loro abbigliamento era abbellito con pitture, aghi di porcospino e perline. Per conoscerli meglio basta questa loro dichiarazione: la nostra storia insegna che abbiamo sempre operato per giungere a un tempo nel quale non ci saranno segregazione e razzismo, quando tutto sarà pulito e bello per gli occhi. Un tempo nel quale lo spirito, la mente e i valori dell’umanità saranno interconnessi e formeranno un circolo completo. Nel 1780 si sa che, a causa della caccia effettuata nel medesimo territorio, i Salish iniziarono a scontrarsi con i Piedi Neri i quali, però, erano muniti d’armi da fuoco fornite dalla Hudson’s Bay Company. Gli scontri finirono del tutto nel 1841, grazie all’intervento del missionario gesuita Pierre Jean De Smet, ma i Salish dovettero spostare i campi invernali più a ovest, pur continuando a cacciare negli abituali territori. Un’altra notevole tribù Salish fu quella dei Bitterroot, appartenenti alla Confederazione Salish e Kootenai della nazione Flathead, nel Montana. Nel 1855 firmarono l’ingannevole trattato di Hellgate; gli indiani, infatti, furono indotti a credere che i bianchi volessero compiere un’amichevole esplorazione dei loro territori, non che se ne volessero appropriare. Il nuovo governatore, Isaac Stevens, ne aveva intuite le grandi potenzialità agricole e, per superare le resistenze del Capo Vittorio (Molti Cavalli), inserì nel trattato una formulazione ingannevole, che indusse i Salish a credere di poter restare nella Bitterrooot Valley quale loro Riserva. Per nove anni i Salish furono lasciati in pace, tanto

da illudersi di poter vivere per sempre nelle loro terre; dopo il 1864, però, la corsa all’oro del Montana portò all’invasione incontrollata della regione e la pressione dei bianchi aumentò sempre di più. Nel 1870 Capo Vittorio morì e gli successe il figlio Capo Charlo (Claw, dei “Piccoli Grizzly”) che, come il padre, oppose una resistenza non violenta. Non ebbe alcun successo, poiché gli affaristi prevalsero e il Presidente Ulysses S. Grant fece trasferire gli indiani nella Riserva Flathead di Jocko. Si trattò di un’altra delle tante rapine compiute nei confronti dei nativi e che fruttò agli statunitensi ben 81.000 chilometri quadrati di terre indiane, lasciando ai Salish gli appena 5.300 chilometri quadri della Riserva. Nel 1880, poi, senza chiedere il permesso e senza alcun indennizzo, attraverso la loro regione fu costruita la Missoula e Bitterroot Valley Railroad; Capo Charlo dovette subire lo sgombero forzato, completato nel 1891, quando un contingente di truppe di Fort Missoula obbligò gli ultimi residenti a marciare forzatamente per un centinaio di chilometri, fino alla Riserva di Jocko. Si ha la testimonianza scritta di uno sfogo di Capo Charlo nei confronti dei bianchi, pubblicato su un periodico del 1876; ne riportiamo uno stralcio: Da quando i nostri antenati li videro essi hanno riempito le tombe con le nostre ossa … Rovinano ciò che ha reso questi luoghi belli e puliti. Ma non gli basta. … Chi sono? Chi li ha mandati qui? Noi fummo felici di vederli la prima volta. Prendere e mentire divampa nella loro fronte, come bruciano i fianchi dei miei cavalli con i loro nomi; il Capo del cielo li ha marchiati e penso li abbia rifiutati. Noi non li rifiutiamo per la loro debolezza. Nella loro povertà li nutrimmo e li curammo, ci prendemmo cura di loro e mostrammo ogni parte della nostra terra. Non ci devono niente. … Tu sai che vennero da molto lontano e si appropriarono di tutto, lasciando solamente sporcizia. No, no; il loro comportamento è la distruzione e il saccheggio di ciò che lo Spirito, facendoci dono di questo Paese, aveva fatto bello e pulito. Pochi giorni dopo la sua morte, nel 1910, il Governo statunitense dispose, con un decreto firmato dal Presidente William Taft, la confisca di quasi l’ottanta per cento della Riserva nella quale erano stati confinati i Salish. Facciamoci trasportare in questi ambienti, che la nostra fantasia rende magici, dalla sinfonia “Dal Nuovo Mondo”, di Antonín Dv rách, accompagnati dagli spiriti dei boschi, della terra e delle acque, sulle ali lievi delle brezze o scossi dai venti, nell’aria limpida o tempestosa delle terre abitate dai Salish, fino a raggiungere il Pacifico, godendone il profumo salmastro, nelle orecchie le stupende note che a tratti ci fanno essere lungo calmi fiumi, poi fra acque scor-

renti rapide o sballottati dalle onde dell’oceano, nell’aria tranquilla e dolce della primavera o fra i colori e l’intensa nostalgia dell’autunno, nell’allegro calore e nei colori dell’estate fino alla fredda quiete e al silenzio dei gelidi inverni. La musica di Dv rách ha questo potere e, se ci si lascia andare, ci troveremo anche noi insieme ai Salish, con i capelli scompagnati da refoli di vento, a rifugiarsi nella penombra delle baracche di cedro per ripararsi dai temporali, ad attraversare fiumi tumultuosi, a godersi la serena dolcezza della melodia una volta tornata la quiete.


➳ I famosi Seminole erano un popolo formato dai nativi americani e da schiavi fuggiaschi. La formazione di questo nuovo gruppo ebbe inizio ai primi del 1700, quando gli indiani stanziati nel sud della Georgia e nel nord della Florida si spostarono verso l’interno, disabitato dopo lo sterminio compiuto dagli spagnoli delle tribù locali. Fu in quegli anni che nacque il nome con il quale conosciamo questi nativi; poiché erano emigrati dal nord, gli spagnoli li chiamarono “Cimarrone” e, nel 1771, scrivendo la parola com’era pronunciata, l’Agente Indiano John Stuart fece nascere l’appellativo “Seminole”, inizialmente dato agli indiani di Alachua e poi esteso indistintamente ai nuovi abitanti della Florida i quali, invece, stavano riferendosi a se stessi con il termine Ikaniùksalgi (pressappoco, “Il Popolo della Penisola”). Quando, nel 1763, gli spagnoli ottennero l’Havana in cambio della Florida, molti ex schiavi seguirono gli iberici nell’isola di Cuba, mentre gli altri strinsero ancor di più i rapporti con i Seminole, ai quali, peraltro, furono utilissimi, giacché portarono le conoscenze assimilate nel periodo di schiavitù con i bianchi; qualcuno di loro divenne persino un capo. I rapporti conflittuali con gli americani unirono maggiormente i membri della nuova Nazione Seminole e, alla fine del ‘700, il contrasto fu sfruttato dagli inglesi, ancora presenti in Florida. Il desiderio di cacciare sia loro, sia gli spagnoli, e d’impossessarsi delle terre Seminole, spinse gli statunitensi a invadere la regione. Nel 1810 il Presidente James Madison incaricò il Governatore di Orléans, William C. Claiborne, di occupare la zona occidentale della Florida, dal fiume Mississippi al fiume Perdido, un’area, secondo gli americani, compresa nel prezzo della Louisiana; nella conquista, coinvolsero, con la promessa di terre, anche i coloni emigrati dall’Europa. Ebbero inizio, così, le tre cosiddette “Guerre Seminole”. Nel 1823 l’alta valle del Mississippi era abitata dai Seminole e i coloni continuavano a vivere solo sulle coste; però fu anche l’anno nel quale, con l’ingannevole trattato di Camp Mountrie, ci fu la prima cessione di terreni da parte di alcuni capi Seminole, i quali vendettero per pochi spiccioli quasi tutto il nord della Florida. Seguì il trattato di Payne’s Landing del 1832, con il quale un altro gruppo d’ingenui capi cedette un’ulteriore enorme porzione di terreno, accettando anche

I Seminole ➳

la clausola che prevedeva la consegna dei “Seminole Neri”, figli compresi, ai “legittimi proprietari”. D’altronde gli indiani che avevano frequentato i bianchi ne avevano acquisite pure le abitudini, comprese l’avidità e la menzogna. Conosciamo meglio i Seminole. Erano d’indole pacifica e le donne avevano una posizione rilevante nella società, al punto che la linea parentale era matrilineare e gli uomini vivevano con la famiglia della moglie. I capi erano ereditari, però scelti fra il fratello o il figlio della sorella. I gruppi erano divisi in clan, con nomi evocativi, quali “Vento”, “Orso”, “Alligatore”, ecc. Una volta l’anno, d’estate, si riunivano tutti per celebrare la “Danza del grano verde”, durante la quale, muovendosi ritmicamente intorno a un falò, celebravano il nuovo anno e rappresentavano fatti avvenuti, comportamenti da adottare e modi di vivere; un rito che festeggiava anche il rinascere del mondo, della natura e delle persone. Come tutti i popoli indiani, avevano moltissimi miti e leggende, alcune di queste rivolte ai bambini, per educarli a rispettare e vivere in armonia con il creato. Per quanto attiene la Creazione, anche i Seminole chiamavano in causa il Grande Padre che, dopo aver fatto emergere la terra dalle acque, decise di popolarla d’ogni tipo di essere vivente. Il suo animale preferito era la Coo– wah–chobee, la pantera, la prima a poter scendere sul suolo; ad altri animali trasmise la capacità di guarire le malattie. Quando la terra fu pronta a ricevere gli esseri viventi, li pose in una grande conchiglia che collocò sulla più alta cima di una catena montuosa in modo che, una volta rotta, ne uscissero e la popolassero. Fu il Vento a frantumarla e, ricordandosi che il Creatore aveva deciso che per prima uscisse la pantera, la aiutò e le fece gli auguri del Grande Padre. Dopo di lei uscirono gli uccelli, in seguito gli altri animali, occupando ciascuno il proprio ambiente. Sono molte le figure e gli avvenimenti che hanno reso celebre il popolo Seminole; i capi più conosciuti furono Coacoochee (“Gatto Selvaggio”, o “Lince”), Halpatter Tustenugge (“Alligatore”), Holata Micco (“Capo che Governa”, famoso anche con il nome di “Billy Bowlegs”), Micanopy (nella lingua Muskogee significa re), Osceola. Ri-

4. Seminole / Cypress Dome / Florida

cordiamo due di loro e alcuni degli episodi più significativi, iniziando dal grande capo Osceola, vissuto fra il 1803 circa e il 1838. Era figlio di una Creek e di un sanguemisto, un fatto che Osceola si rifiutò ostinatamente di accettare, dichiarando Nelle mie vene non scorre sangue straniero. Io sono un purosangue Muskogee. Fu ritratto dai pittori George Catlin e Robert J. Curtis e negli Stati Uniti molti luoghi portano il suo nome. Si rifiutò di firmare i trattati del 1832 e 1833 e di trasferirsi nel Territorio Indiano; sembra fu quando gli proposero di sottoscrivere il trattato di Payne’s Landing che, con il suo coltello, Osceola inchiodò al muro i fogli che avrebbe dovuto firmare, per poi combattere gli americani con accanimento. Oscelola era un abile stratega e sapeva come affrontare i bianchi, dei quali aveva osservato le abitudini; era tanto abile che i soldati ritenevano avesse frequentato l’Accademia Militare di West Point. Gli statunitensi, d’altronde, gli facilitavano le cose, muovendosi lentamente e raggruppati, facili bersagli per chi conosceva il territorio e praticava la guerriglia. Alla fine del 1835, scatenò la seconda guerra Seminole; assalì le piantagioni dei coloni e poi Fort King, lo saccheggiò e uccise sei persone, oltre all’Agente Indiano Wiley Thompson, che aveva rimosso lui, Micanopy e altri tre dalla carica di capi. Da quell’anno fu tutto un susseguirsi di scontri, razzie e agguati e la guerriglia condotta da Osceola creò non pochi problemi agli americani, che non riuscivano mai a catturarlo; lo fecero solo nel 1837, con l’inganno e con la scusa di trattare la pace. Con altri capi e 108 guerrieri fu imprigionato, nonostante si fossero presentati con la bandiera bianca, e portato a Fort Marion, dove si ammalò, poi a Fort Moultrie ma, il 30 gennaio 1838, morì. Il medico militare Frederick Weedon persuase i Seminole a concedergli di fargli la maschera mortuaria; dopo, però, gli tagliò la testa e la imbalsamò. La reliquia finì nella collezione del Surgical and Phatological Museum di New York e, forse, il Grande Spirito non volle che Osceola fosse così vilipeso; nel 1866, infatti, il Museo prese fuoco e anche il cimelio finì in cenere. Un altro personaggio da citare è Coacoochee, “Gatto Selvaggio”, vissuto dal 1810 al 1857. Combatté giovanissimo nella seconda guerra Seminole. Gatto Selvaggio fu catturato e portato a Fort Marion. Il nostro, però, insieme a molti guerrieri, riuscì a fuggire,


4. Seminole / Cypress Dome / Florida


riprendendo a combattere gli statunitensi. Era a Okeechobee nel Natale del 1837, quando cinquecento Seminole sconfissero mille soldati del Generale Zachary Taylor; a Leuy’s Praire, nel maggio del ’40, Coacoochee e ottanta guerrieri sgominarono un reparto del 7° Fanteria. Le tribolazioni, i disagi e la mancanza di munizioni, però, costrinsero molti suoi seguaci ad arrendersi, mentre i suoi genitori furono catturati e suo padre morì durante il viaggio verso il Territorio Indiano. Anche Gatto Selvaggio, pertanto, depose le armi e nel marzo del 1841 si arrese recandosi, con altri duecento Seminole, a Fort Cummings. In occasione della resa fece una dichiarazione e, per fortuna, le sue parole furono stenografate; ne riportiamo alcuni passi: Ero un ragazzo, una volta, poi vidi l’uomo bianco da lontano ... Vidi l’uomo bianco e mi fu detto che era mio nemico. Non potevo sparargli come al lupo o all’orso, ma come loro egli piombava su di me; cavalli, bestiame e campi, egli mi prese tutto. Mi disse che era mio amico, ma maltrattava le nostre donne e i bambini e ci diceva di andarcene dalle nostre terre. Comunque mi dette la mano in amicizia, noi la stringemmo, ma mentre ne tenevamo una, egli aveva un serpente nell’altra e la sua lingua era biforcuta: egli mentiva e ci morse. Non chiesi altro che una piccola parte di queste terre, sufficiente per accamparci e viverci, nel lontano Sud, un angolo dove potessi collocare le ceneri dei miei congiunti … Ciò non mi fu concesso. Mi misero in prigione: scappai. Sono stato preso di nuovo, … ora sono qui, sento le catene nel mio cuore. … Voi dite che devo porre fine alla guerra! Ma guardate queste catene! Posso andare dai miei guerrieri? Coacoochee incatenato! No, non mi chiedete d’incontrarli. Non desidererò mai di calpestare le mie terre fino a che non sarò libero. … Se Coacoochee deve morire, che muoia come un uomo … Poi, ai suoi: La giornata è chiara, fate che i vostri cuori lo siano altrettanto; il Grande Spirito vi guiderà ... Stanotte, … sentirete le voci di coloro che sono andati al Grande Spirito; essi vi daranno un cuore e una testa salda per recare la parola di Coacoochee. Dite alla mia tribù che i miei piedi sono incatenati. … Po–Car–Ger (il “Grande Capo Bianco”) sarà gentile con noi. Egli dice che quando arriverà la mia tribù io sarò di nuovo libero di camminare sulle mie terre, con i miei compagni intorno a me. Egli vi ha concesso quaranta giorni per sistemare questa questione … rispettate questo termine ... dite al mio popolo che altrimenti, con il tramonto del sole, Coacoochee sarà impiccato come un cane... Andate, dunque, arrivate rapidi come le stelle, come io vi ho condotto in battaglia! Andate con la voce di Coacoochee che vi parla! Immaginate la scena, con “Gatto Selvaggio” che pronuncia queste parole, circondato da per-

sonaggi che, probabilmente, lo disprezzavano pur essendogli inferiori per nobiltà d’animo. Il popolo di Coacoochee accettò la resa e furono mandati nell’arido e inospitale Territorio Indiano. Nel 1849, Coacoochee e altri capi si accordarono con i Comance per insediarsi nel Texas. Partirono a dicembre, insieme ai “Seminole Neri” e a molti Creek, e si stabilirono nella valle del Brazos; ma trafficanti e Agenti Indiani senza scrupoli pretesero d’appropriarsi degli ex schiavi per venderli ai sudisti. Coacoochee dovette andarsene pure da lì, approfittando della proposta del Governo messicano di stanziarsi in un’area dello Stato del Coahuila. I Seminole di Gatto Selvaggio erano rimasti ormai appena un migliaio e si trasferirono di là del Rio Grande; Coacoochee, però, fu colpito dal vaiolo e morì e la sua gente, priva della guida illuminata e forte, dovette tornare nell’invivibile Oklahoma. Durante le guerre Seminole furono molti gli episodi famosi e dei quali è restata memoria; citiamo l’attacco americano contro il villaggio indiano di Fowltown, la distruzione del gruppo di 108 soldati del 3° Artiglieria statunitense nel percorso fra Fort Brooke e Fort King, la fallita spedizione del Generale Clinch nelle foreste dove, con circa settecento uomini, si era recato per vendicare la strage compiuta da Osceola a Fort Brooke. Per catturare i Seminole, nelle paludi furono usati senza successo anche i feroci cani di razza Bloodhound. Chi risolse il problema fu il Colonnello William Harney che, nell’autunno del 1856, mandò nelle Everglades gruppi ridotti di soldati autosufficienti, appoggiati da piccole flotte di agili imbarcazioni armate; in tal modo i militari acquisirono la stessa mobilità degli indiani e li braccarono dappertutto. Poco più di un anno dopo i Seminole chiesero una tregua e un gruppo di guerrieri si consegnò e fu trasferito nel Territorio Indiano; un centinaio di loro, invece, non si arrese mai, in particolare gli ex schiavi con le loro famiglie, e i loro discendenti sono liberi ancora oggi, unici nativi americani a non aver mai firmato un trattato con il Governo degli Stati Uniti. Uno dei più drammatici fatti svoltisi in Florida accadde ai primi dell’ottocento e riguardò i “Seminole Neri”. Quando gli inglesi se ne andarono dalla Florida, abbandonarono il forte che avevano costruito a Prospect Bluff e vi lasciarono vario materiale, oltre a fucili e cannoni. La costruzione fu occupata dagli schiavi fuggiti dalle piantagioni della Georgia e dell’Alabama e, per tale ragione, battezzata “Forte Negro”. Gli ex schiavi presero a coltivare le fertili terre nei dintorni, mentre gli indiani Seminole, che continuavano a combattere usando la tattica della guerriglia, preferirono spostarsi nelle paludi. Gli occupanti di Forte Negro e delle terre circostanti non davano fastidio a bianchi, ma invogliavano altri a fuggire verso la libertà; il Generale

Andrew Jackson, pertanto, incaricò il Generale Edmund Pendleton Gaines di distruggere tutto. Gaines fece costruire Fort Scott, sul fiume Flint, per rifornire il quale occorreva navigare l’Apalachicola passando provocatoriamente davanti a Fort Negro. Nel luglio del 1816 quattro imbarcazioni armate di cannoni, piene di soldati e indiani Creek, partirono per Fort Scott e, di fronte a Forte Negro, si fermarono e intimarono la resa, ottenendo come risposta alcune cannonate. Anche gli americani spararono e uno dei proiettili, del tipo incandescente, sfortunatamente per i poveri “Seminole Neri” (più di trecento persone), cadde nella polveriera, facendo esplodere il Forte e provocando un eccidio; poi i militari tornarono in Georgia e “restituirono” la trentina di superstiti ai discendenti dei loro antichi padroni, lasciando in quella che era la pacifica zona di Forte Negro occupanti bianchi e fuorilegge.


➳ Circa trentamila anni fa migliaia di persone migrarono dall’Asia verso est, in una nuova terra, dando origine agli indiani d’America. Molti dei nuovi arrivati, nel corso dei secoli, si spostarono sempre più a sud, altri si adattarono alle condizioni del territorio e climatiche incontrate nel discendere il continente. Furono numerosi quelli che si fermarono nella zona nord orientale dell’America Settentrionale e, fra questi, gli Uroni che, insieme alla Confederazione degli Irochesi, dei quali condividevano la lingua, si stanziarono vicino al fiume San Lorenzo e alle rive dei Grandi Laghi, fra l’Ontario e quello che porta il loro nome, “Huron”. Nella parte del continente dove è ora il Canada, peraltro, c’erano più di cinquanta, diverse, tribù indiane con almeno undici gruppi linguistici. Nel periodo dal 1610 al 1760 molti di questi nativi dipesero sempre più dai bianchi, in particolare i francesi, con i quali commerciavano pellicce. Gli Uroni erano chiamati Huron ma, nel loro idioma, si denominavano Wendat, che significa “Il Popolo – o gli abitanti – della penisola”, nome che, dal 1652, fu cambiato in Wyandot. Ci sono due ipotesi riguardanti la nascita dell’appellativo “Urone”: o deriva dal francese Huron che, con disprezzo, significa arrogante o burbero, bifolco o tanghero, oppure, più probabilmente, da Hure, vale a dire “Testa di cinghiale”, con riferimento all’acconciatura a spazzola dei loro capelli. Gli Uroni erano agricoltori e arricchivano la loro dieta con la caccia e la pesca. Le famiglie vivevano in villaggi di capanne di legno, edificate sugli altopiani e vicino ai fiumi; le abitazioni erano normalmente trenta o quaranta e, complessivamente, vi si trovavano dalle novecento alle millecinquecento persone. Le capanne erano lunghe fino a sessanta metri e larghe dodici; non avevano muri interni e vi potevano risiedere fino a ventiquattro famiglie; non avevano finestre e i focolari all’interno erano numerosi. Lungo le pareti laterali erano eretti alti scaffali nei quali venivano riposte le masserizie, gli utensili, appese le reti dei letti e le pannocchie di granturco. I villaggi duravano dai dieci ai vent’anni, fino all’esaurimento delle risorse circostanti. Gli Uroni usavano commerciare con le tribù vicine, in particolare con i Petun, dai quali si rifornivano di tabacco. L’esploratore Champlain, dopo una prima esplorazione, tornò nella zona del fiume San Lorenzo nel 1601 e, per rifornirsi di pellicce, si accordò sia con gli Uroni, sia con Montagnais e Algonchini, ac-

Gli Uroni ➳

centuando la loro rivalità con gli Irochesi, che interferivano nel commercio a favore degli olandesi. Nel 1603 l’alleanza era già costituita, nel 1609 ci fu l’incontro con il capo urone Atironta e, poco dopo, avvenne la prima, vera battaglia di Uroni e francesi contro gli Irochesi, nel corso della quale Champlain non solo fu in prima fila, ma avvenne per sua iniziativa e lui stesso, con il suo archibugio, uccise tre capi irochesi. Prima di usare le armi da fuoco, gli Uroni si proteggevano con armature di legno e combattevano con arco e frecce dalla punta di pietra, asce e mazze. Nel 1641 i Mohawks irochesi andarono fino a Trois–Rivière e proposero al governatore della “Nuova Francia”, Montmagny, di fare pace e aprire una stazione commerciale francese nella zona dell’Iriquoia. Per far questo, però, Montmagny avrebbe dovuto abbandonare gli alleati Uroni e il commercio con loro, perciò rifiutò e gli Irochesi ripresero ad assalire i villaggi Uroni, così da impedire gli scambi con i francesi. Questi ultimi, nel 1645, convocarono tutte le tribù per cercare di metter pace nella regione; fu sottoscritto un accordo e ci fu anche uno scambio di prigionieri. In seguito all’intesa, gli Irochesi si presentarono dai francesi con ottanta canoe piene di pellicce, ma i bianchi si rifiutarono di acquistarle direttamente e dissero di venderle agli Uroni, loro intermediari. Una decisione sciocca, che offese gli Irochesi e fece riaccendere le ostilità, sia fra le tribù indiane, sia con i francesi. Nel 1648, per far passare le canoe cariche di pellicce, Uroni e Susquhannok forzarono con successo il blocco irochese causando forti perdite ai nemici; gli olandesi, però, fornirono quattrocento fucili ai Mohawks, cosicché furono un migliaio gli Irochesi che, muniti d’armi da fuoco, attraversarono le foreste e si diressero verso le terre degli Uroni, distruggendo villaggi, uccidendo guerrieri e facendo migliaia di prigionieri. Nei villaggi assaliti e distrutti c’erano anche alcuni missionari gesuiti, tutti uccisi e considerati martiri dalla Chiesa Cattolica, anche perché erano di origine francese e parte degli Uroni erano cristiani, mentre gli Irochesi erano alleati dei protestanti olandesi. Un testimone dell’epoca, Perrot, riferisce che, nella loro diaspora, gli Uroni, insieme agli Ottawa, raggiunsero le terre dei Sioux Dakota e un loro gruppo fu da questi sorpreso a cacciare e catturato, ma senza conseguenze, poiché i Sioux erano ancora muniti di armi di

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selce e apprezzarono quelle da fuoco dei nuovi venuti i quali, intelligentemente, fecero dono di coltelli, asce ad altri strumenti di buon ferro. Sembra, addirittura, che i Sioux abbiano rivolto ringraziamenti agli dei per aver mandato “… questi popoli in grado di fornire loro grande aiuto”. In ogni caso i Dakota restarono sbigottiti dalla potenza dei fucili, che associarono al tuono e al fulmine. Perrot racconta che gli Uroni si stabilirono in un’isola, chiamata “Pelee”, e i Sioux, poco tempo dopo, trovarono i cadaveri di alcuni del proprio popolo con le teste tagliate. Nel tornare al villaggio per riferire della sconcertante scoperta, incontrarono alcuni Uroni e li catturarono; i prigionieri, però, furono liberati dai capi Dakota. Sta di fatto che gli Uroni disprezzavano e si sentivano superiori ai Sioux, perciò tramarono con gli Ottawa e li attaccarono per occupare il loro territorio. I Dakota non erano certamente guerrieri che giravano le spalle e, chiesto aiuto ai compagni dei villaggi vicini, misero in fuga gli assalitori, poi scacciarono dal loro territorio tutti gli Ottawa e gli Uroni, dimostratisi degli autentici sciocchi, considerando che avevano perso le loro terre e l’opportunità di vivere in pace fra gente che si era dimostrata amica. All’epoca (sembra sia stato l’anno 1662), i Sioux non vivevano nelle Grandi Pianure, ma a nord, in una zona paludosa costellata di laghi e di strisce di terreno emergente dalle paludi, pertanto non erano facilmente attaccabili da terra e potevano essere raggiunti solo con le canoe. Gli Uroni s’intestardirono nel tentare di scacciarli e provarono di nuovo, in forze, a combatterli, finendo col vagare inutilmente negli intricati acquitrini, fino a essere scoperti dai Dakota e circondati, nonostante avessero usato anche lo strattagemma di camminare all’indietro per formare un’unica pista e far credere di essersene andati. Gli Uroni dovettero nascondersi fra l’avena selvatica e poi cercarono di svignarsela, ma non tutti ci riuscirono, giacché i Sioux che davano loro la caccia erano diverse migliaia e non lasciarono scampo a chi era catturato. Pochi degli Uroni fatti prigionieri ebbero la fortuna di essere liberati, molti furono uccisi a colpi di tomahawk o di freccia sotto gli occhi dei loro compagni che, una volta giunti a casa, riferirono cosa avevano visto e cos’era accaduto e affermarono che i Sioux erano tantissimi e non era possibile distruggerli.


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La Confederazione degli Uroni era divisa in gruppi e il più potente era quello dell’Orso, al quale apparteneva quasi la metà della popolazione. Durante l’inverno celebravano quattro diverse feste. Prima di partire per una spedizione contro i nemici, era tradizione degli Uroni fare una festa di guerra, effettuata all’interno di una “Casa Lunga”, e la sua preparazione era curata dalle donne. La cerimonia si rifaceva a un antico mito, secondo il quale un gruppo di Uroni, sulle rive di un lago, incontrò un gigante; lo salutarono, ma questi non rispose con gentilezza, perciò un urone lo ferì in fronte. Per vendicarsi, il gigante punì il popolo urone seminando la discordia e, prima di scomparire, li esortò a far guerra, a celebrare le feste di Ononharoia e a usare il grido di guerra Wiiiiii. Durante la festa, quindi, gli Uroni danzavano e urlavano minacce contro i nemici. Normalmente, andavano in battaglia nel periodo estivo, dirigendosi con preferenza verso i vicini villaggi irochesi dei Seneca. Champlain partecipò a una spedizione e narra che il tragitto verso il villaggio da aggredire fu percorso in canoa e compiuto come se gli Uroni si recassero a fare una gita in campagna: lentamente, cacciando e pescando lungo il tragitto, fino a quando non raggiunsero la riva sud del lago Ontario. Qui si nascosero e si divisero in piccoli gruppi, per attraversare la foresta a piedi, assalire il villaggio da diversi lati e catturare i nemici. Le battaglie non erano di sterminio, ma brevi scontri per dimostrare la bravura e fare prigionieri, poi gli Uroni si ritiravano rapidamente, portando con loro i catturati e i feriti. I prigionieri maschi, se non erano torturati a scopo rituale, venivano adottati da una famiglia in sostituzione di qualche congiunto morto di recente. A proposito di torture, riferiamo due testimonianze dell’epoca, sorvolando sui modi seguiti dagli Uroni per compierle, sapendo che praticavano la tortura nella maniera più crudele. Di uno di questi atti fu testimone il missionario Padre Sagard, presente in un campo Urone nel 1623; il religioso riferisce che, dopo la cattura, i guerrieri contestavano ai prigionieri le atrocità commesse contro di loro, avvertendoli che ne avrebbero subite altrettante, invitandoli a cantare la propria canzone di morte lungo il tragitto che li portava al villaggio. Una volta giunti erano sottoposti a vari tipi di sevizie e, dopo morti, mangiati dagli astanti a scopo rituale. La più potente divinità degli Uroni era Oki, il “Cielo”. Nei loro racconti i missionari cristiani erano ricordati come “gli uomini dalle grandi vesti nere”; questi portarono il cristianesimo ma, con esso, le divisioni religiose all’interno delle tribù. Gli Uroni credevano nel mito della Creazione del Mondo, secondo il quale gli Uroni–Wendat erano vissuti per tantissimo tempo dall’altra parte del cielo. Un giorno una

giovane donna incinta, di nome Aataensic, stava scavando ai piedi di un albero, intenta a raccogliere radici medicamentose per guarire il marito; per distrazione, perse l’equilibrio e cascò in un buco del cielo. Due grandi oche selvatiche videro la donna cadere e si precipitarono ad aiutarla, riuscendo a salvarla. Però le oche non sapevano cosa fare, perciò si rivolsero alla Grande Tartaruga; per trovare una soluzione, la saggia Grande Tartaruga riunì un consiglio, formato da tutti gli animali acquatici, e chiese ai più valorosi di portarle qualche granello di terra, raccolto nella profondità dell’oceano. Ci provarono la Lontra, il Topo Muschiato e il Castoro, senza riuscirci e morendo nel tentativo. Si offrì, allora, il Vecchio Rospo; restò molto tempo sott’acqua, tanto che tutti lo credevano morto ma, invece, riemerse con alcuni granelli di sabbia nella bocca. I granelli furono posti con cura sul dorso della Grande Tartaruga e, in pochissimo tempo, si formò una vasta isola verdeggiante. La giovane donna vi si stabilì e partorì un bambino; l’isola fu chiamata Wendake e divenne la terra degli Uroni–Wendat. Dopo la creazione della Grande Isola, il consiglio degli animali decise che occorreva più luce al mondo; allora incaricarono la Piccola Tartaruga di trovare una soluzione. La Piccola Tartaruga risolse subito il problema, cogliendo dalle nubi alcune enormi saette e fissandole in cielo, creando il sole. Questo, però, stava immobile e nella Grande Isola restavano zone buie, perciò il consiglio degli animali decise di farlo muovere e, alla Tartaruga delle Paludi, fu affidato l’incarico di scavare un buco attraverso la Grande Isola, in modo che il sole potesse compiere una rotazione completa e alternasse la luce alle tenebre; in questo modo nacquero il giorno e la notte. Gli Uroni che avevano abbracciato il Cristianesimo ancora oggi cantano una canzone natalizia, Iesous Ahatonnia (“Nasce Gesù”), scritta nel 1643 a Fort Sainte Marie dal missionario gesuita Jean de Brébeuf adattandola alla melodia della canzone francese cinquecentesca “Une jaune pucelle” (“Una giovane ragazza”). Dal 1689 al 1697 ci fu la prima guerra coloniale tra Francia e Inghilterra per ottenere il controllo della parte settentrionale del “Nuovo Continente”. È conosciuta sia come “Guerra di re Guglielmo”, sia come “Guerra Abenaki”, perché questo popolo combatté a fianco dei francesi contro gli inglesi e i loro alleati. Francesi e inglesi, d’altronde, erano da qualche tempo ai ferri corti per la supremazia in Europa e, nell’America del Nord, oltre al tentativo di conquista del territorio, lo scontro fu un’appendice di quanto accadeva nel Vecchio Continente. Quella combattuta nell’America Settentrionale non fu una guerra fra eserciti contrapposti, ma una guerra sporca, fatta di massacri e violenze contro gente innocente, comprese donne e bambini.

In questi combattimenti furono coinvolti, come abbiamo visto, pure gli Uroni. Con un salto temporale, giungiamo agli anni 1763 – 1766, quando avvenne la cosiddetta “Guerra di Pontiac”, dal nome del famoso capo Ottawa che la guidò, e alla quale parteciparono anche gli Uroni. Pontiac era restato impressionato dal comportamento degli inglesi e, per batterli, nel 1762 convocò una riunione di Uroni, Ojbwa, Potawastomi, Shawnee e Delaware. Il conflitto ebbe inizio nel maggio del 1763 e un migliaio d’indiani batterono gli inglesi e assediarono Detroit. I francesi, però, firmarono la pace con l’Inghilterra e, pur avendo promesso aiuti alla coalizione indiana, non mantennero la parola e lasciarono i nativi al loro destino. Finiamo citando un ultimo episodio della storia urone. Shatey Yaronyah (Due Nuvole), era un loro capo, nato nel 1732 e morto nel 1810, conosciuto dai coloni con l’appellativo di “Labbra di cuoio”. Era un sincero alleato degli americani, perciò, il 3 agosto 1795 firmò il trattato di Greenville, come il solito penalizzante per i nativi, giacché prevedeva la cessione della maggior parte dei territori dell’Ohio dove gli indiani vivevano. La sottoscrizione dell’accordo decretò la fine di Due Nuvole; il famoso capo Shawnee Tecumseh, infatti, lo condannò a morte, incaricando dell’esecuzione il capo urone Stayeghta (Testa Rotonda). La notizia fu data a Shatey Yaronyah tramite un’ascia infissa nel tronco di una betulla e, nonostante l’intervento di alcuni suoi amici bianchi, la sentenza fu eseguita nei pressi del fiume Scioto e il capo urone, mentre cantava la sua canzone di morte, fu ucciso da Stayeghta con un colpo d’accetta.


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