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LE ESPERIENZE PRATICHE GUIDATE (E.P.G.) DELLA FACOLTA’ DI PSICOLOGIA COME META-CONTESTO COMUNICATIVO di Barbara Bertagni e Fernando Salvetti. “Noi siamo un colloquio” (Hölderlin)
1. I contesti del colloquio psicologico. Le Esperienze Pratiche Guidate si propongono come specifici contesti formativi finalizzati alla riflessione attiva sul binomio teoria-prassi, come spazio privilegiato di sperimentazione e analisi della circolarità di teorie, metodi e strumenti nell’agire professionale. In particolare, il mandato formativo conferitoci dalla prof. Clara Capello vede come punto nodale la riflessione sul colloquio inteso come contesto relazionale in cui lo psicologo cerca di conoscere l’altro attraverso gli attorcigliamenti e gli intrecci (anche formali) delle sue parole. Può il parlare dell’altro restituirci l’invisibile dei suoi vissuti personali? Possiamo, ascoltando le parole dell’altro, conoscere chi è (o chi crede di essere)? Spesso la richiesta, più o meno esplicita, degli studenti che partecipano alle E.P.G. è di affinare gli strumenti e le tecniche del colloquio, in modo tale da riuscire a facilitare il parlare dell’altro e raccogliere il maggior numero di informazioni. Qualcuno esplicitamente fa riferimento all’importanza di apprendere tecniche di cross-examination utilizzate in ambito giudiziario, come se il colloquio potesse essere inteso, in una dimensione confessionale, quale strumento finalizzato al raggiungimento di una presunta verità ultima, spesso ricercata attraverso l’ascolto della narrazione degli eventi della storia individuale (1). Noi pensiamo che possa essere utile affrontare il colloquio sotto un diverso punto di vista e, allora, la nostra interpretazione del mandato formativo ci porta a problematizzare, e relativizzare, la questione della conoscenza dell’altro, privilegiando soprattutto gli aspetti formali, più che quelli di contenuto, del discorso verbale. L’attenzione si sposta, quindi, dai contenuti tematici del discorso del soggetto, al contesto (linguistico e relazionale) in cui avviene il colloquio. “I contesti fanno le professioni”: come sostiene Carli (1997, p. 13), la competenza professionale si “organizza” in professione solo “se sa rispondere a specifiche problematiche del contesto”, se sa cogliere, rielaborare ed analizzare le peculiarità dei contesti in cui deve esplicarsi (1). E allora, perché non proporre una E.P.G. sui contesti del colloquio psicologico? Dopo tutto, interrogarsi sui contesti è sempre stata una nostra passione ed è una componente essenziale del nostro lavoro: Barbara è psicologa clinica, Fernando è avvocato ed epistemologo, entrambi siamo antropologi e lavoriamo come formatori e consulenti organizzativi in aziende ed enti pubblici. Con il Centro Studi in psicologia e scienze umane Logos di Torino, in collaborazione con il Consorzio U.SA.S. della Scuola di Amministrazione Aziendale dell’Università di Torino ed Elea S.p.A. Italia, ci occupiamo di comunicazione interpersonale e lavoro di gruppo, gestione delle risorse umane e negoziazione; nel Master in business administration della stessa Scuola di Amministrazione Aziendale, coordiniamo il seminario sul pensiero creativo. Nelle aule di formazione lavoriamo in team, coniugando le competenze psicologiche e quelle epistemologiche con l’obiettivo di avvicinare “l’indicibile”, ovvero di provare ad esplicitare e analizzare i fattori costitutivi (e, quindi, le possibilità ed i vincoli) dei diversi
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contesti professionali. Perché, dunque, non far confluire in una E.P.G. per futuri psicologi le nostre esperienze e le nostre metodologie formative? Nella nostra E.P.G. cerchiamo, allora, di esplorare sempre più a fondo le molteplici dimensioni significative di quel poliedro dalle mille sfaccettature che è il contesto: in primo luogo la dimensione linguistica verbale e paralinguistica-metacomunicativa (gestuale, mimica, tonale, etc.), poi la dimensione personale “interna” (cognitiva, emotiva, esperienziale, etc.) nonché quella sociale “esterna” (ambientale, situazionale, culturale, storica, etc.) in cui ognuno di noi è immerso. Come? Con moduli formativi di quattro ore consecutive, finalizzati - dopo una presentazione concernente il tema specifico oggetto della discussione (il linguaggio figurale, le tecniche narratologiche, la trascrizione del colloquio...) - a ricreare situazioni e simulazioni realistiche di “vita vissuta” nelle comunità terapeutiche e nelle aule di giustizia, nelle organizzazioni lavorative, negli ambulatori pubblici e negli studi privati. Presentazione, simulazione e, poi, analisi delle modalità comunicative verbali e non verbali, degli stili e delle strategie comunicative, dei turni discorsivi, dei silenzi, dei marcatori discorsivi (congiunzioni, interiezioni, forme verbali e avverbi), delle modalità relazionali, delle interazioni e delle dinamiche di ruolo (dominanza, subalternità, alleanze, conflitti...), considerando con particolare attenzione i condizionamenti derivanti dal contesto (Capranico, 1997, p. 100). Dopo un’analisi sommaria, per così dire “a prima lettura”, i partecipanti elaborano un commento della situazione osservata (o, a seconda dei casi, agita) con l’ausilio di una griglia di osservazione e di una scheda di analisi semistrutturata in modo tale da consentire loro la successiva narrazione, in aula, di un’esperienza personale per qualche verso analoga. Terminato il confronto esperienziale tra i partecipanti, nel corso del quale la nostra funzione di conduttori è finalizzata alla facilitazione e stimolazione del contributo di ciascuno alla discussione del gruppo di formazione, vengono percorsi alcuni sentieri di approfondimento con l’ausilio di lucidi esplicativi, filmati, trascrizioni sbobinate di colloqui, brani letterari e filosofici, musica e, soprattutto, opere d’arte. In particolare, la ricchezza di significati e il potenziale allusivo delle immagini d’arte, astratte e figurative, consente una condivisione degli orizzonti concettuali e un’analisi delle valenze emozionali delle situazioni affrontate difficilmente raggiungibile altrimenti; inoltre, l’arte facilita la partecipazione attiva e propositiva della maggior parte dei partecipanti all’elaborazione di un lógos condiviso, cioè di un “racconto esplicativo” della simulazione agita e osservata in cui l’analisi linguistica viene integrata con la considerazione - in prospettiva etnografica - della situazione nella quale avviene l’interazione discorsiva (Gumperz, 1982; Gumperz e Hymes, 1972, pp. 35-71; Schegloff, 1992, pp. 101-134). Considerazione etnografica: dunque, attenzione al punto di vista ed alla percezione soggettiva dei singoli partecipanti che, con i loro occhi (e gli altri organi di senso), attribuiscono un significato alla situazione vissuta ed osservata e divengono, al contempo, consapevoli della “costruzione” discorsiva e relazionale (in senso ampio, contestuale) dei loro atteggiamenti e delle loro identità (Gergen K.J., 1994; Gergen K.J. e Gergen M., 1983). Ecco il perché di una serie di esercizi concernenti la percezione di quadri, musiche e testi letterari con i cinque sensi, oltre ai giochi di percezione e “proiezione” individuale a partire da stimoli ambigui (come l’immagine di una porta sagomata nel mezzo, attraversata - a seconda degli sguardi e delle proiezioni - da fantasmi, delinquenti, topolini e personaggi da cartoons). Un’occasione, per l’io, di perdere la sicurezza d’essere un sovrano che governa saldamente sul suo mondo, e di imparare a “comprendere il suo divenire conforme alle leggi, l’influsso del suo ambiente, la varietà della sua costituzione” (Musil, 1957, vol. I, p. 551).
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2. Parlare la relazione. Uno dei principali argomenti affrontati nel corso della E.P.G. è quello del linguaggio verbale, delle parole di cui è intessuto ogni nostro discorso. Ogni parola è un segno che vive in significati che possono sfumare, perdersi e disperdersi in molteplici rivoli di senso, oppure dar vita a nuove costellazioni di significati condivisi; le parole possono costituire terreno di comunicazione e dialogo, oppure di incomprensione o di scontro, evocare esperienze ed emozioni, esprimere valori e spingere all’azione. Le parole non sono solo qualcosa che impariamo a scuola o inventiamo, che sappiamo dire e dominare pienamente in ogni momento: le parole, suggerisce Hillman, “come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile”. Le parole sono “persone” con una vita autonoma e possono rivelare più di quanto vogliamo dire, sono “presenze” che incarnano intere mitologie concernenti i generi e le genealogie delle cose che abitano i nostri mondi immaginali e materiali (Hillman, 1983, p. 43). Le parole, dunque, parlano: bisogna saperle ascoltare: il lavoro dello psicologo è intriso di parole, si svolge “in uno scambio di parole e su uno scambio di parole”. Il colloquio psicologico, in particolare, è un fenomeno complesso intessuto di pensieri, parole, relazioni e transazioni tra due (o più) persone che si pongono reciprocamente quali soggetti di parola. Sulla scena del colloquio, le parole divengono mezzo di comunicazione e relazione tra persone che interagiscono con una molteplicità di codici, verbali e non (Capello, 1995, p. 216). Nella relazione che si articola, disarticola e riconfigura nel corso del colloquio, tutto è segno: le parole, le pause, i silenzi e i non-detti, le espressioni del volto e le posture del corpo, i gesti, l’abbigliamento, i toni della voce ed il ritmo del respiro, le modalità narrative, gli stili argomentativi, le discontinuità tematiche, i lapsus e le sgrammaticature. E le parole, segni per eccellenza, possono trascendere se stesse e divenire simboli dalle molteplici connotazioni di senso, aperti ad una pluralità di letture e, quindi, al rischio della semiosi illimitata: ogni dizionario contiene l’infinito, il rischio è attribuirlo ad ogni segno. In una situazione paradigmatica di double hermeneutic qual è il colloquio, infatti, ove i “contenuti” da esplorare ed a cui attribuire qualche significato sono già, a loro volta, delle interpretazioni frutto dei fantasmi e delle credenze, dei racconti e dei resoconti dei soggetti del discorso, è sempre presente il rischio della Vorverständnis, cioè della precomprensione che si tramuta in un’incomprensione radicale. “Come dinanzi a un testo da interpretare non possiamo mai sentirci in un atteggiamento di oggettivante estraneità” - scrive Gadamer - “perché noi stessi siamo coinvolti e allora il testo da interpretare mette in gioco anche la nostra comprensione di noi stessi, a maggior ragione ciò vale per l’interpretazione dell’altra persona” (Gadamer, 1974, p. 388). Il colloquio psicologico, insomma, è uno spazio di coesistenza in cui si mette l’oggettività tra parentesi (Telfener, 1995, p. 355), un luogo di intuizione e interpretazione, a volte di incontro e comprensione, ove i suoni emessi dalla voce creano e modellano la situazione in cui un io si rivolge ad un tu, in un qui ed ora. E nel colloquio - inteso quale “struttura interpersonale” (Giovannini, 1998, p. 14) e, quindi, sistema di segni e interpretazioni: ovvero, processo di interazione e comunicazione - prende forma la relazione tra i soggetti di parola. 3. L’E.P.G. come meta-contesto comunicativo. Ogni parola ha “l’aroma” dei contesti nei quali vive (2), dei dialoghi a cui ha partecipato, delle persone che ha frequentato, delle relazioni in cui è stata adoperata e
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che ha contribuito ad edificare. Facciamo parte di un contesto discorsivo che condiziona e contribuisce a dar forma alla nostra stessa identità. Fare psicologia significa anche tener conto dei significati e delle relazioni in cui si trova immerso il soggetto. Ogni voce individuale è come se fosse tratta da un dialogo: in questa prospettiva, “essere” per l’uomo significa soprattutto dialogare con gli altri e con se stesso (3). Siamo un fenomeno di confine tra l’individuale e il collettivo: le nostre condotte ed i nostri processi mentali sono “ancorati e vincolati” dai contesti conversazionali e dagli orizzonti di senso in cui siamo immersi (4). L’individuo isolato non è che un’astrazione: il soggetto è (anche) parte di un Noi, cioè di un sistema di significati collettivamente condivisi. Siamo un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità di voci. Parliamo e, al contempo, siamo “parlati” dalla lingua che usiamo e che è già sempre una lingua altrui, elaborata, ascoltata e ricevuta da altri (5). La lingua, le strutture della famiglia e della parentela, le istituzioni sociali e politiche, i rituali, le forme culturali ed artistiche influenzano profondamente la “costruzione” (e la costrizione) del mentale (6). Queste le premesse teoriche e, quindi, lo scenario di una E.P.G. finalizzata a rendere i partecipanti attori e sperimentatori della complessità dei processi di comunicazione interpersonale e delle relative dinamiche di ruolo nel corso dei colloqui, oltre che dei condizionamenti, delle difficoltà, dei rischi d’incomprensione, delle asimmetrie e dei vincoli che caratterizzano i contesti dell’agire professionale dello psicologo. Una E.P.G. volta a “problematizzare l’ovvio e sensibilizzare all’ascolto dei diversi livelli di un discorso (comunicativo, relazionale, affettivo...)”, per cercare di aumentare nei partecipanti la consapevolezza del loro stile personale di vedere (e costruire) il mondo, di entrare in relazione e di comunicare con un altro (7). Sulla ribalta del palco-segnico, simulazioni e role-playing quale spazio virtuale per divenire interpreti - al contempo attivi e riflessivi - di ruoli e situazioni professionali: colloqui finalizzati alla redazione di una perizia psicologica, colloqui di counseling, di selezione del personale e così via. Un’occasione per discutere, analizzare e rielaborare immagini e fantasmi dello psicologo all’opera in diversi contesti professionali; forse, uno spazio di sperimentazione un po’ brechtiano, dove l’attore “non permette a se stesso di trasformarsi completamente sulla scena nel personaggio che sta rappresentando” (Brecht, 1964, p. 137). Una E.P.G. intesa come l’occasione per costruire, con i partecipanti, un laboratorio e un meta-contesto entro cui sperimentare possibilità e limiti dell’agire comunicativo in situazioni di colloquio: un approccio orientato all’analisi delle forme e dei rituali del parlare-in-interazione, in contesti sia istituzionali che informali (ambulatori, consultori, aule di giustizia, prigioni, aziende, studi privati, famiglie, piazze...), attento all’incidenza ed all’influenza del contesto nell’enunciato discorsivo, al linguaggio quale pratica situata in un qui ed ora (8). Un metacontesto, inoltre, in cui osservare con attenzione le parole, in quanto strumenti comunicativi che rinviano a dimensioni sovente indicibili dal soggetto che parla. Dimensioni che le parole cercano di cogliere facendosi immagine o metafora e, quindi, ponte gettato tra il processo primario e quello secondario del nostro pensiero ed occasione per andare al di là della “dispotica dicotomia” tra cognitivo ed emotivo (Goodman, 1976, p. 208)(9). Quando muta il nostro stato d’animo, cambia anche la fisionomia del mondo: come dice Borgna, “cambiano i modi con cui il mondo ci chiama e ci parla”. Per inseguire e definire le modificazioni della vita emozionale, cercando di renderle concrete e comprensibili, il nostro linguaggio tende a farsi “allusivo e friabile, discontinuo e sconfinante nell’indicibile” (Borgna, 1995, pp. 62 e 194). Un linguaggio sovente iconico ed onirico, insieme di messaggi espressi in una molteplicità di codici che richiedono, per essere compresi, un allenamento all’ascolto (non solo uditivo) di se stessi e dell’altro. Ascolto
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attivo delle parole, dei silenzi, degli stili e delle modalità comunicative, finalizzato a comprendere come ciascun interlocutore costruisce il suo mondo e se stesso, come stanno le cose dal suo punto di vista. Un’attenzione costante ai linguaggi del corpo e della mente, quindi, come tentativo di comprensione di se stessi e dell’altro: un ascolto che apra alla possibilità di acquisire maggiore consapevolezza del proprio modo di guardare al mondo e consenta di poter “uscire da sé” quel tanto che necessita per scorgere l’altro. 4. Parole e pensieri. Ogni nostra parola è “altrui” perché conserva le tracce degli altri, di chi l’ha già usata e del Noi di cui siamo parte, ed è rivolta ad un tu (non importa se interiore). Il nostro vivere dipende da significati e da concetti condivisi in un certo contesto (10): il nostro vedere ed il nostro pensare sono il prodotto di una “prassi discorsiva più originaria”, della quale non siamo (quasi) mai consapevoli. Ogni grammatica ed ogni sintassi implicano una particolare visione del mondo, non del tutto conoscibile da chi vi è immerso: l’io parla dal luogo in cui è situato. Figli della comunicazione verbale, siamo partecipi di un reticolo di sistemi segnici che sono connessi con la possibilità di pensare, parlare e agire: le realtà in cui vivamo e che conosciamo sono il frutto, in buona parte inconscio, delle abitudini linguistiche che pratichiamo, poiché le categorie del pensiero postulano una logica ed una grammatica concettuale espressione del modo di vedere il mondo tipica di ogni sistema linguistico. Conosciamo in modo soggettivo e il linguaggio tende a costituire l’orizzonte ed il limite entro cui si esplica il nostro pensiero e la nostra percezione del mondo. Ciò che a causa di una “illusione empiristica” sembra presentarsi in modo “spontaneo”, come mero “dato”, come “ovvio” o “naturale”, è in effetti il risultato di un processo di astrazione che attuiamo continuamente con l’uso del linguaggio e che abbiamo sviluppato apprendendo a parlare (11). La lingua che parliamo, i sistemi concettuali e normativi che condividiamo (o in cui, comunque, siamo immersi) ci trascendono e, al contempo, ci abitano e “ci parlano”, costituendo l’orizzonte e il limite del nostro pensiero. Non possiamo pensare, dunque, senza una infrastruttura sociale che, a sua volta, contribuisce a costituire l’orizzonte e il limite di ciò che pensiamo: siamo opere incompiute, animali carenti che si completano e si definiscono per mezzo della cultura (Hayek, 1986, p. 533). Il pensiero, le emozioni e i sentimenti sono costruiti socioculturalmente in quanto si strutturano sulla base di significati, credenze, valori e rapporti sociali tipici delle comunità a cui apparteniamo. In tale prospettiva, il soggetto è tutt’altro che un’entità isolata ed autosufficente rispetto al contesto sociale (pur senza esserne il mero riflesso): l’uomo si definisce nell’alterità ed è, in primo luogo, un essere “imprevedibile anche a se stesso” (Girard, 1995, p. 205). Le parole sono veicoli di senso e, soprattutto, simboli che ci consentono di attribuire un significato alla molteplicità magmatica ed indistinta degli eventi e di noi stessi (Bruner, 1992, p. 20)(12). In quanto uomini organizziamo le esperienze ed i ricordi principalmente sotto forma di racconti, individuali e collettivi: storie, giustificazioni, miti, argomentazioni per fare e per credere. La ricerca di senso e significato nel mondo delle cose umane, infatti, “quasi inevitabilmente prende la forma di una narrazione, di una storia”, cioè di un’interpretazione - a sua volta suscettibile di interpretazione - degli eventi della vita e del “chi siamo” (Bruner, 1991, p. 21). Imprevedibili anche a noi stessi, siamo la mutevole sintesi delle relazioni e dei contesti (conversazionali e non) in cui siamo radicati: nei nostri racconti, gli stati e gli eventi psichici divengono complesse costruzioni semantiche, aperte a molteplici interpretazioni e decodificazioni (Bruner, 1990, p. 10).
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La dimensione linguistica è il luogo, per più versi metaforico, ove prendono forma, si materializzano e smaterializzano le immagini, le emozioni, le idee, le relazioni, i conflitti ed i desideri... Il discorso interiore diviene parola e, al contempo, “compromesso” tra ciò che il soggetto confessa a se stesso senza dire e ciò che può “tradurre all’esterno” (Olievenstein, 1990, p. 44)(13); e il linguaggio, così, diviene un universo pluralistico ove cercano di coesistere, celandosi e svelandosi, gli opposti che dibattono e combattono in noi. E’ il momento in cui le parole trascendono se stesse e divengono simboli dalle molteplici connotazioni, aperte ad una pluralità di interpretazioni: la dimensione simbolica è quella in cui le nostre parole inseguono la profonda inafferrabilità della vita interiore, aprendoci all’alterità ad alla polifonia che ci abita. La metafora sembra essere tra le poche vie d’accesso discorsivo al simbolico, pur essendo impensabile la riduzione ed assimilazione totale del simbolo alla metafora: come diceva Amleto, “ci sono più cose nella psiche umana di quanto la vostra psicologia possa parlare”, perché i margini del non-detto e dell’indicibile sono comunque infiniti (14). 5. Il racconto e la costruzione discorsiva di sé. Rispondere alla domanda “chi?” vuol dire raccontare la storia di una vita e richiede un coraggio simile a quello necessario per cominciare un romanzo: nessun io, nemmeno “il più ingenuo”, è un’unità monolitica; la polifonia delle voci che ci abitano (senza quasi mai raggiungere le soglie della coscienza) crea, quindi, uno “spazio poetico e letterario” dentro di noi, che ci apre “alla molteplicità e al probabile” (Ricoeur, 1986, vol. III, p. 375)(15). L’identità del “chi?” è un fluire di racconti e di rappresentazioni: un’identità narrativa alla ricerca di una sintesi, seppur mutevole ed a volte imprevedibile - così come le nostre parole, che a volte sorprendono noi stessi e ci “insegnano” il nostro pensiero. “Chi si racconta?” Ancora una volta, dice Ricoeur, “la domanda chi? apre la via ad una ipotesi più che ad una ipostasi”. L’idem, cioè il medesimo sempre identico, cede all’ipse, mutevole nel tempo, che si ritrova rispecchiandosi negli occhi dell’altro: “L’altro cui debbo la risposta nel mantenermi lo stesso, l’altro da cui dipendo perché mi costituisce, l’altro dunque in me come il mio mondo, il mio partner, la tradizione che mi accoglie”. il contesto in cui sono radicato (Ricoeur, 1993, p. 55)(16). Se si guarda all’identità personale come risultante di un processo interpersonale di (mutuo) riconoscimento, delimitazione e collocazione sociale, la si può concepire sotto forma di narrazione autobiografica più o meno variabile, polifonica e discontinua nel tempo in funzione del contesto e degli atteggiamenti degli altri: siamo e diventiamo la mutevole narrazione che raccontiamo, a noi e agli altri, con le nostre parole e le nostre azioni (Sparti, 1996, p. 126). “Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni?” (Calvino, 1992, p. 120). Siamo i nostri ricordi e i nostri desideri, i nostri sogni, bisogni e progetti, siamo l’immagine che il mondo restituisce di noi e il significato che attribuiamo alle nostre condotte: la nostra identità è una storia risultante “dall’intreccio di mille storie”, per cui si può dire che siamo (anche) il racconto del nostro presente e del nostro passato - che è il presente della memoria (17). Il nostro parlare e narrare, soprattutto quello metaforico e figurale, non è soltanto un modo di dire ma è, anzitutto, “un modo di percepire, classificare e valutare” le cose e le persone (Mantovani, 1998, p. 71). Sviluppare l’attenzione per il significato-nonimmediato delle parole, cioè per la dimensione simbolica del linguaggio, ci consente di provare a capire lo stato d’animo, il modo di pensare e di essere degli altri e di noi stessi. Raccontando e ascoltando storie e narrazioni possiamo meglio comprendere come costruiamo il mondo e noi stessi, da quale punto di vista guardiamo alle “cose”. Un’E.P.G. sul contesto e sul linguaggio, ovvero sulla costruzione discorsiva della realtà e di sé, significa, allora, tener conto che non ci sono verità ultime da scoprire, bensì ipotesi
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da costruire, punti di vista da far emergere. Ogni incontro è un’occasione per dialogare, per conversare, per scambiarsi punti di vista, un allenamento a prestare attenzione a quel margine di non dicibile che “parla” ciascuno di noi. Per concludere, “qualunque storia si possa raccontare di qualcosa, la si comprende meglio considerando altri modi in cui sarebbe possibile raccontarla” (Bruner, 1987, p. 32).
NOTE (1) Foucault (1992, pp. 37-38) ricorda come la genealogia del soggetto occidentale moderno postuli, tra l’altro, il modello cristiano dell’uomo, espressione di una società confessionale e confessante in cui “ogni persona ha il dovere di cercare di conoscere che cosa accada nel proprio intimo, di ammettere le proprie colpe, di riconoscere le tentazioni” e di individuare i propri desideri reconditi. (2) Bachtin (1997, pp. 101 e 148): il contesto sociale e culturale che alimenta il pensiero ed abbraccia la parola “crea uno sfondo dialogizzante, il cui influsso può essere grandissimo” nella formazione delle persone. (3) Come sottolinea Tagliagambe (1996, pp. 89 e 91), questa prospettiva, elaborata dal teorico della letteratura Bachtin a partire dagli anni Venti del nostro secolo, “mette radicalmente in discussione un modello della mente centralizzato o unificato e fa progressivamente emergere l’idea che ‘essere’ è, fondamentalmente, ‘comunicare’, e comunicare in forma dialogica con gli altri ma anche all’interno di se stesso, secondo una prospettiva che considera ‘l’io’ come il risultato di un ‘racconto’ di fatti, di sensazioni e di sentimenti”. Cfr. anche Bruner (1992, p. 15): “Ogni voce individuale è tratta da un dialogo, come ci insegna Bachtin”. (4) Come ha sostenuto Bateson (1976, p. 471), “il mondo mentale, la mente, il mondo dell’elaborazione dell’informazione, non è delimitato dall’epidermide”. Peraltro, il capire che molta parte della realtà umana e naturale, come sostiene Girard (1990, p. 21), “si fa e si disfa nel linguaggio, de-fonda il soggetto nel senso della sua costruzione di coscienza” ed identità, consentendogli (a volte) di intuire il suo “essere parte di un sistema discorsivo, piuttosto che possessore di pensieri, convincimenti, credenze predeterminate nella sua mente ordinante”. (5) Montani (1996, p. 178): la “situazione narrativa” dell’analisi personale, ad esempio, “esemplifica mirabilmente l’orizzonte dialogico della parola messo in luce da Bachtin: non meno della parola romanzesca, la parola analitica è da cima a fondo parola altrui e il ‘romanzo analitico’ è un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità di voci (a partire da quelle che l’inconscio ha sequestrato e congelato nella sua scena senza tempo”). Per una panoramica, breve e dettagliata, sul narrativo in psicoanalisi cfr. Albasi (1997, pp. 96ss.) e, più in generale, Martini (1998), Ammaniti e Stern (1991). (6) Ugazio ( 1998, p. 11) avanza alcune ipotesi sulla costruzione del significato, e dell’identità, nei contesti conversazionali, facendo riferimento, in particolare, al concetto di opposizione polare. “I contesti semantici, presenti in tutte le lingue, costituirebbero un ‘universale’ il cui scopo è rendere indipendenti gli individui. Ciascun partner conversazionale, ‘con-ponendosi’ rispetto alle polarità semantiche rilevanti nel suo gruppo, àncora la propria storia, e con essa la propria identità, alla trama narrativa del contesto”. (7) Capello (1995, p. 8): sviluppare “l’abitudine a sentire e a interrogarsi per capire prima di tutto se stessi e la situazione in cui ci si trova, può favorire l’esercizio della critica e la presa d’atto della relatività dei punti di vista”. Proprio per la sua formazione, lo psicologo non dovrebbe mai dimenticare quanto le impressioni siano prossime ai pregiudizi e le convinzioni simili alle razionalizzazioni, così come non dovrebbe mai dimenticare che il sapere teorico che orienta il suo operare non è assoluto ma limitato e parziale, radicato negli specifici contesti in cui egli stesso è “situato” (in proposito, si veda l’art. 8 del codice deontologico degli psicologi). (8) Un approccio, peraltro, che non postula l’idea del contesto come precostituito rispetto all’interazione discorsiva, in quanto è piuttosto quest’ultima a modellarlo e dargli forma (in proposito, cfr. Orletti, 1990, p. 70): come sottolinea Heritage (1984, p. 242), ogni espressione non solo dipende dal contesto esistente per la sua produzione e interpretazione, ma, al contempo, questa stessa espressione è un evento che contribuisce a creare un nuovo contesto per l’azione che seguirà. (9) In tema di metafora, la letteratura è amplissima: cfr. ad esempio Casonato (1994), Kopp (1995), Trevi (1986) e soprattutto Bateson (1997, pp. 46ss.) secondo cui il processo che genera le metafore sembra essere una caratteristica fondamentale dela creazione. Le metafore, infatti, non si limitano a classificare il mondo, ma comunicano le relazioni e le interconnessioni tra le idee. (10) Bruner (1995, p. 66 e 1992, p. 29): la nostra è “una vita pubblica, basata su significati pubblici e procedure condivise di interpretazione e di negoziazione” dei significati.
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(11) Come ha sostenuto Sapir (1948, pp. 179ss.), il “mondo reale” è costruito, in gran parte inconsciamente, sulle abitudini linguistiche del gruppo, per cui “persino atti di percezione relativamente semplici sono condizionati da quei modelli sociali chiamati parole molto più di quanto si possa mai immaginare”. Per cui si può dire, con Whorf (1956), che le categorie e i concetti che isoliamo nel flusso caleidoscopico delle impressioni e dei fenomeni con cui ci si presenta il mondo non li troviamo in una realtà esterna e indipedente dal nostro sguardo, perché siamo noi che ritagliamo la natura, la organizziamo in concetti e le attribuiamo dei significati. (12) Grazie alla nostra attitudine ad istituire connessioni tra fenomeni per ricondurli a categorie esplicative, riusciamo a rappresentare “le cose” in modo astratto, cioè simbolico, attraverso parole e concetti che ci allontanano sempre più dall’immediatezza del “dato” naturale e sensibile. (13) Sulla contrapposizione tra il “dicibile” e “l’indicibile” cfr. Ducrot (1978, pp. 726ss.). Sul non detto (delle emozioni) - quale “terra incognita che estende il suo dominio tra il rimosso e il manifesto, tra i mali che nascondiamo a noi stessi e le parole che ci nascondono agli altri” - cfr. Olievenstein (1990, pp. 7ss.) secondo cui “dire l’indicibile è il principale compito dell’arte”, alla ricerca di un “discorso udibile” per quel “soliloquio intimo di cui ognuno fa esperienza ogni giorno e grazie al quale spesso si sopportano i compromessi con l’esistenza che permettono di vivere”. (14) Per una prospettiva simile cfr. ad esempio Trevi (1986, pp. XIII-XIV). (15) Sulla poesia come ricerca e come “forma alta” di conoscenza e di interrogazione del sé cfr. Bachelard (1993). (16) In proposito cfr. Montani (1996, p. 161), secondo cui il concetto di identità narrativa in Ricoeur “si sottrae alla classica antinomia tra un soggetto inteso come un ‘medesimo’ (un idem) e un soggetto inteso come pura illusione sostanzialista (un fascio di emozioni, saperi e volizioni in equilibrio instabile) lasciando apparire il profilo di una identità ‘compresa nel senso di un se stesso (ipse)’, cioè una figura processuale che ‘può includere il cambiamento e la mutabilità’. Una tale ipseità, com’è evidente, designa un soggetto che non finisce di ricostituirsi nel rifigurare la propria vita, cioè nel comprenderla sempre di nuovo come ‘un tessuto di storie raccontate’”. (17) Ma quali sono le caratteristiche delle narrazioni con cui, nel fitto intreccio di relazioni e interazioni in cui siamo immersi, plasmiamo ed alimentiamo il flusso della nostra identità? In primo luogo le nostre narrazioni sono volte alla “ricerca di un significato” che è tale solo all’interno di un certo frame, cioè di una cornice interpretativa che consente di dare un senso ai pensieri, alle interazioni e, quindi, alle rappresentazioni di sé; un senso che implica una visione del mondo, determinati criteri di valutazione delle condotte proprie e altrui, un’immagine di chi parla (cfr. Bruner, 1992, p. 71 nonché Bateson, 1976 e Goffman, 1974). I significati che le storie veicolano, in altri termini, rinviano per la loro comprensione ad uno specifico contesto relazionale e culturale, oltre che all’universo interiore del soggetto narratore. Inoltre, tra le caratteristiche principali delle narrazioni vi sono “la sequenzialità”, nel senso che gli eventi accadono in un processo temporale ed hanno una propria durata; “la particolarità e concretezza”, in quanto i temi narrativi concernono solitamente avvenimenti e questioni specifiche riguardanti le persone; poi “l’intenzionalità”, poiché i soggetti principali delle narrazioni agiscono mossi da scopi ed ideali, manifestano opinioni e stati d’animo; infine “l’opacità referenziale”, perché la rappresentazione narrativa ha senso non tanto per i suoi riferimenti a eventi od oggetti definiti e concretamente esistenti, ma proprio in quanto narrazione (eventualmente del tutto “immaginale”, o verosimile solo nel “mondo possibile” del suo autore)(in proposito cfr. la sintesi elaborata da Smorti, 1994, pp. 58ss.).
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