Self-Empowerment. Per non morire di lavoro

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Self-empowerment: per non morire di lavoro di Barbara Bertagni

1. Sii performante! Viviamo in una società dove sviluppo è diventata la parola chiave, sviluppo a tutti i costi, crescita continua, crescita economica, crescita professionale, crescita nel potenziale d’acquisto. Riviste, rubriche, libri e manualistica - non solo da autogrill - sono sempre più orientati a definire il manager di successo come “uomo skillato”, elegante, in perfetta forma fisica, sempre in movimento e performante in ogni situazione: almeno 14 ore al giorno tra meetings, viaggi di lavoro, colloqui, telefonate, attività d’ufficio; 20 giorni di vacanza all’anno in località appealing dove, recitano le pubblicità, “divertirsi, rilassarsi e nel contempo rimettersi in forma”, pochi giorni l’anno dedicati alla propria formazione1. La funzione del manager all’interno delle organizzazioni appare sempre più complessa: operando in organizzazioni dove l’incertezza domina, dove la flessibilità è diventata una parola d’ordine, dove tutto è altamente instabile e turbolento, la leadership del manager viene spesso proposta come unica ricetta per gestire il caos. Dal manager ci si aspetta che sappia costruire attivamente il proprio ruolo modellandolo e adeguandolo giorno dopo giorno alle esigenze della propria organizzazione e alle turbolenze del mercato. Il tutto all’interno di realtà organizzative che lasciano poco spazio alle scelte personali, con un’agenda di impegni quotidiani che viene organizzata in gran parte da altri, con obiettivi da raggiungere non sempre comprensibili o condivisibili, con una serie di riti organizzativi che, pur contenendo le ansie, costringono ad un gioco delle parti spesso pesante da gestire. Parole d’ordine? Azione, velocità, piacere, successo, benessere, self-control. Contenimento delle ansie, annullamento di ogni spazio di domanda, perché il quotidiano si nutre di ricerca di risposte ad esigenze immediate dove l’interrogarsi sul senso della domanda aprirebbe al traballamento e all’angoscia. Non c’è spazio per coltivare sogni, affetti e progetti che non siano allineati con le esigenze ed i ritmi dell’organizzazione. Non c’è tempo per proteggere la lentezza del profondo, né per nutrirsi della propria fragilità. Bisogna correre inseguendo la promozione, il successo di un progetto, l’acquisizione di una concorrente, l’acquisto della barca, l’accrescimento dei benefits. Nel frattempo il tempo scorre, “i mercati” cambiano, anche solo per restare nello stesso posto si deve correre più velocemente che si può, ma nel frattempo si inizia ad invecchiare e, in alcuni casi, l’irrompere di un’esperienza forte nella propria vita (nascita, lutto, separazione, innamoramento…) apre uno spiraglio di riflessione che fa intravedere come si sia diventati sempre più estranei a sé fino al punto di non conoscere/riconoscere se stessi. Il successo portato avanti in questi termini assume una dimensione di alienazione nella quale crescita professionale non corrisponde a crescita personale, anzi, spesso nei racconti dei manager arrivati ai vertici si ritrova l’impressione – o la consapevolezza – di aver vissuto una vita non scelta, di essere arrivati al successo con il pilota automatico, senza darsi reale spazio di scelta, presi dal vortice ascendente della carriera alla quale “come si può dire di no?”. 1

Formazione che ben difficilmente rinvia alle antropologie e alle poetiche della Bildung, intesa come formazione nel senso più profondo di costruzione e trasformazione/arricchimento umano (in proposito cfr. ad esempio Gennari, 2001), mentre per molti versi viene in mente l’attore ridotto a supermarionetta del teatro di Gordon Craig (1908, p. 5).


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2. I rischi dell’empowerment Il manager, come soggetto post-moderno, si trova coinvolto in un tessuto di relazioni “ più complesse e mobili che mai”2 ed immerso nel teatro del quotidiano tematizzato da Goffman3 dove i confini tra realtà e finzione, tra sincerità e cinismo sono estremamente labili e la propria identità è frutto di una continua rappresentazione sul palcoscenico della vita. Persona e ruolo si confondono, l’uomo si riduce al ruolo che ricopre, alimentandosi dei riti e dei miti delle organizzazioni nelle quali è inserito. Il soggetto di disagia nella simulazione”4, stando al gioco che i ruoli impongono e restandone immerso fino a “farsi giocare” vivendo costantemente in bilico con il rischio di essere travolto dallo stesso gioco che gli consente di esistere e rappresentarsi. E’ come se il manager recitasse la poesia di Laing: “Stanno giocando ad un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco”5. Arrivare al successo sembra, dunque, implicare che ci si rappresenti come persone di successo, in modo che lo sguardo altrui possa restituire il senso del proprio successo e questo possa generare la sensazione di essere davvero persone di successo. Proprio all’interno di una tale logica spesso viene richiesto un intervento di self-empowerment e molto spesso, all’interno della stessa logica, il consulente propone la propria azione e risponde alla richiesta. Ecco allora spuntare il consulente di direzione, il change agent, il coach, il tutor, il mentore, il counsellor impegnati nell’aiutare il manager a definire obiettivi ed azioni strategiche, a trovare soluzione ai suoi problemi, a potenziare le sue competenze. Troppo spesso, però, le logiche di azione di questi consulenti seguono la stessa logica di “sviluppo e crescita a tutti i costi” che dilaga in ogni settore della nostra società moderna. Percorsi brevissimi (perché il tempo è poco, si sa), spesso gestiti esclusivamente al telefono (perché non ha senso far lievitare costi e tempi per gli spostamenti) da professionisti “certificati” da una miriade di nuove associazioni, che verificano che lo schema di gestione dell’interazione comunicativa venga applicato e che non vengano violate le principali regole deontologiche caratteristiche di ogni relazione di aiuto. Competenze psicologiche? No, perché non è della psiche che si deve trattare. Competenze filosofiche? No, perché l’approccio è assolutamente concreto e operativo e non è il caso di perdere tempo in chiacchiere filosofiche. Non credo questo sia un approccio serio. Per il manager moderno molto spesso il tempo dedicato a sé è tempo di potenziamento di specifiche skills, di attività fisica, di ristoro edonistico dei sensi, quasi mai è tempo di riflessione. Quando il consulente collude con questa richiesta, senza aprire uno spazio di analisi della domanda, ma semplicemente lavorando sull’obiettivo dato per fornire una risposta consolatoria, siamo all’interno della stessa logica alienante e disciplinante che porta alla prevalenza del ruolo sulla persona.

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Lyotard (1998, p. 32). Sullo sviluppo della soggettività post-moderna cfr. Wood & Zurcher (1988). Goffman (1969). 4 Girard (1990, pp. 7ss.): “Simulazione non è sinonimo di dissimulazione. La differenza è importante perché la dissimulazione, come raggiro deliberato, nasconde un che di veritiero che la fonda: dissimulare implica di ammettere che una verità, anche se nascosta, c’é. Dissimulo nascondendo una verità che so che esiste. In questo caso, il dissimulatore è un soggetto forte, di coscienza. Non così il soggetto debole, simulatore. La simulazione, in questo contesto, è l’aria che si respira, il clima sociale che non lascia più spazio alla distinzione tra essenza e apparenza. Simula chi finge l’esistenza o il possesso di una verità di cui dubita”. In proposito cfr. anche Girard (1999 e 2001). 5 Laing (1991, p. 5). 3


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3. Le strategie di self-empowerment E’ sicuramente una caratteristica della nostra società frenetica ed inquieta, interpretare la riflessione come non-azione, come perdita di tempo6. Eppure solo una profonda riflessione e uno spazio di autentico rapporto con se stessi può garantire al manager che la vita che vive sia davvero la sua vita e non la vita di qualcun altro7 e solo così possiamo auspicare di vivere una vita di eccellenza nella quale i ruoli che ricopriamo non diventino corazze che ci nascondono a noi stessi, ma dimensioni della nostra esperienza che ci consentono di esprimerci, potenziarci, realizzarci. Lavorare in ottica di empowerment significa lavorare con la persona nel ruolo: potenziando la sua autoconsapevolezza, promuovendo una riflessione sui suoi valori e obiettivi, garantendo uno spazio di elaborazione delle emozioni e delle esperienze. Si tratta di rimettere in discussione le risposte troppo note, provare a guardare da una diversa prospettiva a ciò che si fa, a ciò che si è, a ciò che si dice. Aiutando la persona a focalizzarsi su di sé: a riscoprire ed esplicitare i suoi valori; ad acquisire una maggiore consapevolezza del suo ruolo all’interno degli accadimenti, positivi o negativi, della sua vita. Quindi a rivalutare le priorità, a pianificare le fasi necessarie a raggiungere i propri obiettivi. A riflettere sulla propria esperienza, sulle proprie emozioni e sui propri atteggiamenti per arrivare a rielaborare le proprie modalità comportamentali. A trovare spazio, attraverso il confronto, per comprendere gli schemi comportamentali entro cui è abituato a lavorare. Tutto questo richiede al consulente di sapersi muovere a livello “meta” per accompagnare il manager nella riflessione sui propri paradigmi, per arrivare ad esplicitare il suo modo di guardare alle cose, al mondo e dunque a se stesso. Per esplicitare che cosa significa per lui successo, realizzazione di sé, felicità. Poi è necessaria la competenza psicologica, per creare l’alleanza di lavoro, supportare il manager in questo delicato percorso e favorire la messa in atto del cambiamento. Lavorare in ottica di empowerment significa guardare al futuro: il consulente nei colloqui non ricerca la verità storica fondata sulla corrispondenza del resoconto del manager ad un evento della sua bibliografia, consapevoli che noi diventiamo la narrazione che raccontiamo riappropriandoci in modo nuovo delle esperienze passate e inquadrando quelle attuali e future alla luce di una determinata prospettiva ulteriore. “Le cose accadono a coloro che le sanno raccontare”8. Il confronto si apre a partire dalle situazioni concrete e dagli obiettivi futuri, garantendo un rapporto alla pari tra consulente e manager finalizzato al confronto, al supporto e alla realizzazione di sé.

Riferimenti bibliografici Gennari M., Filosofia della formazione dell’uomo, Bompiani, Milano, 2001. 6

Come ha scritto Severino (1982, p. 263), “si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?” 7 “La maggior parte delle persone, se alla fine guarderanno indietro, troveranno di aver vissuto per tutta la vita ad interim, e si meraviglieranno di vedere che proprio ciò che hanno lasciato passare senza considerarlo e senza goderlo è stato la loro vita, ed è stato proprio quello nell’attesa di cui hanno vissuto. E’ così infatti è di regola il corso della vita umana: l’uomo preso in giro dalla speranza finisce a passo di danza tra le braccia della morte” (Nozick, 1990, pp. 8ss.). 8

James (1890).


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Girard G., Psicologia debole, Tirrenia Stampatori, Torino, 1999. Girard G., Simulazione e identità debole, Tirrenia Stampatori, Torino, 1990. Girard G., Tutto e niente, Tirrenia Stampatori, Torino, 2001. Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969. Gordon Craig, The actor and the Über-marionette, in “Mask”, 1908. Laing R.D., Nodi. Paradigmi di rapporti intrapsichici e interpersonali, Einaudi, Torino, 1991. James W., The principles of psychology, Dover Publications, New York, 1890. Lyotard J.F., La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1998. Nozick R., La vita pensata. Che cosa conta veramente nella nostra esistenza?, Mondadori, Milano, 1990. Severino E., Sul significato della “morte di Dio”, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano, 1982. Wood M. & Zurcher L. jr., The development of a post-modern self: a computer-assisted comparative analysis of personal documents, Greenwood, Westport, 1998.


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