Atti Convegno

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Associazione Alzheimer Trento Onlus la forza di non essere soli

NON C’È TEMPO DA PERDERE L’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione atti del convegno organizzato in occasione del decennale dell’Associazione Alzheimer Trento Onlus

Trento, 26 novembre 2008



Associazione Alzheimer Trento Onlus la forza di non essere soli

NON C’È TEMPO DA PERDERE L’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione atti del convegno organizzato in occasione del decennale dell’Associazione Alzheimer Trento Onlus

Trento, 26 novembre 2008


Convegno organizzato dall’Associazione Alzheimer Trento Onlus Ideazione e cura del convegno Bruna Celardo Rizzi e Giorgia Caldini, membri del Consiglio Direttivo Loreta Rocchetti, medico di base Cristina Uez, collaboratrice Cura redazionale degli atti Bruna Celardo Rizzi, Giorgia Caldini e Eliana Mosna, membri del Consiglio Direttivo Cristina Uez, collaboratrice Editing e grafica Lorenzo Dalmonego, www.lokoweb.net Si ringraziano tutti i relatori che hanno dato il loro contributo professionale e umano al Convegno e agli atti. Convegno realizzato con il patrocinio di Provincia Autonoma di Trento

Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari Provincia Autonoma di Trento

Associazione Alzheimer Trento Onlus Largo N. Sauro, 11 - 38121 Trento tel. 0461 230775 fax 0461 230775 web www.alzheimertrento.org email info@alzheimertrento.org

Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Trento


Sommario

Prefazione Violetta Plotegher, Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Trento Apertura convegno Dott.ssa Vittoria Agostini, moderatrice Partecipazione degli allievi Scuola di Musica “I Minipolifonici” di Trento Lettura di brani tratti da “Visione Parziale - Un diario dell’Alzheimer” Lilia Slomp Ferrari Non c’é tempo da perdere: l’Alzheimer esige solidarietà e non rassegnazione Bruna Celardo Rizzi, familiare e membro del Consiglio Direttivo L’uomo e la demenza: il punto di vista antropologico Dott.ssa Federica Setti Alzheimer: malattia o diverso modo di vivere? Dott.ssa Loreta Rocchetti Una malattia che distrugge la vita. Ma è proprio vero? Prof. Marcello Farina Come “vive” il familiare accanto al malato? L’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione Familiari dell’AIMA Rovereto Prevenzione: quali possono essere i fattori di rischio modificabili? Dott. Giorgio Rossi Accenni alla Terapia come Relazione. Problemi Comportamentali nella demenza, caregiver e trattamenti non farmacologici. Dott. Tiziano Gomiero


Prefazione

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Desidero anzitutto esprimere la mia gratitudine all’Associazione Alzheimer Trento che, in occasione della sua decennale presenza, sempre attiva e propositiva nella nostra Città, ha promosso e organizzato questo importante Convegno. Tutti noi riconosciamo infatti il prezioso lavoro svolto dall’ Associazione, la sua costante presenza a fianco delle persone ammalate e dei loro familiari, l’azione di sostegno, di accoglienza, di accompagnamento che viene loro offerta, ma non sono da meno le sollecitazioni, gli interrogativi, la promozione di un costante monitoraggio e miglioramento delle risposte date dall’Ente Pubblico in campo socio assistenziale e sanitario. Ancora oggi l’unico Centro Diurno dedicato alle persone con Alzheimer a Trento è quello in Via S. Giovanni Bosco, ed è stato realizzato grazie all’impegno della Associazione. Oggi è sempre più necessario trovare, insieme ai cittadini, risposte adeguate ai loro bisogni di assistenza e cura, e penso servano alla nostra realtà cittadina altri Centri diurni ed altre interventi specifici per le persone che soffrono dei problemi legati all’ Alzheimer, come ben colto del resto nella recente legge provinciale dedicata a questo. Questo Convegno è anche una occasione di ascolto: le relazioni dei qualificati esperti, così come le coinvolgenti e toccanti testimonianze di chi ha avuto una esperienza diretta e personale, danno sostanza al titolo “Non c’è tempo da perdere. L’Alzheimer esige la solidarietà e non la rassegnazione”. Solo chi ha vissuto la fragilità e il dolore che questa malattia porta con sé, riesce infatti a narrare e comprendere quanto lacerante ne sia l’esperienza personale e familiare, perché poche altre situazioni impegnano a rispondere, con tale intensità di sentimenti, come il confrontarsi con una malattia che sembra “portare via” la personalità della persona che amiamo. Le risorse per affrontarla nascono spesso dallo sperimentare la forza delle relazioni che sempre più si appoggiano ad un linguaggio che non è fatto di parole o discorsi, ma di sguardi, di sorrisi, di carezze, di un cercare di rimanere comunque “in contatto”. Questo ci porta a riconsiderare gli spazi, i luoghi e i modi dell’essere d’aiuto, per declinarli secondo un valore della malattia e della sofferenza che considera come “prima terapia” il modo di essere tra persone, la capacità di accettare la nostra condizione di creature fragili e di affrontarla prima che con la tecnica, con competenze legate all’intuizione, all’empatia, alle emozioni e all’affettività. Questo significa quindi, per chi ha un ruolo politico, tenere in considerazione non soltanto le necessarie risposte di tipo organizzativo,


strutturale, logistico dei diversi servizi alle persone ammalate e ai loro familiari di cui abbiamo grande necessità, ma di promuovere e consentire una maturazione qualitativa di questi servizi. Dalla formazione del personale dedicato, all’adeguamento degli spazi domestici o dei centri diurni o delle residenze assistenziali, dalla attenzione al sostegno psicologico ed economico alle famiglie, tutti gli interventi debbono essere pensati per tenere in considerazione il significato del “prendersi cura” oltre che del curare. La malattia di Alzheimer determina inoltre un notevole impatto sulla situazione economica delle famiglie e l´assistenza ai malati assume una grande rilevanza sociale, sia per la riduzione della capacità di produzione di reddito (abbandono del lavoro, passaggio al part-time, contrazione della retribuzione, ecc.), sia per i costi emotivi che l´assistenza comporta per chi se ne fa carico. Non sempre le politiche sanitarie e socio-assistenziali risultano inoltre tempestive e adeguate e spesso sono le reti familiari, amicali e del volontariato a fronteggiare i bisogni che nascono nella situazione, anche drammatica, che si viene a creare nella quotidianità. A volte invece il carico dell’ assistenza ricade su un unica persona, e spesso è una donna, che può diventare il punto più fragile di una rete di aiuti incerta, soprattutto se sono compromesse le relazioni parentali e amicali, e si può trovare a sperimentare in un vissuto di solitudine e abbandono. Non dobbiamo permettere che questo succeda. Ogni famiglia colpita dalla malattia ha il diritto di poter disporre di tutte le risorse necessarie e di riceverle attraverso una rete di servizi e di operatori attenti alla dimensione psicoemotiva e relazionale del sistema familiare. Ritengo fondamentale avere nell’ Associazione un punto di riferimento non solo per i familiari, ma anche per gli operatori dei servizi sociali e sanitari che riflettono sulla loro relazione d’aiuto e sanno bene quanto sia importante poter condividere la sofferenza con chi ha sperimentato l’esperienza dolorosa della malattia. Ritornando al bellissimo titolo di questo Convegno penso anche che la solidarietà, che è necessario promuovere oggi per affrontare la prova dolorosa della malattia di Alzheimer, per superare la rassegnazione, chiama in gioco la speranza, che è una dimensione dello spirito. In quanto dimensione spirituale la speranza non lascia certo da parte la fisicità o la razionalità, tanto che motiva la ricerca di nuove terapie e si osserva nelle attenzioni alla promozione delle competenze relazionali attraverso gli stimoli emozionali e sensoriali dell’assistenza per le persone ammalate. La speranza a cui penso, impedendo la perdita di un orizzonte di senso alla sofferenza umana, chiama in gioco anche la politica perché si faccia sempre più attenta ad agire per le

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persone considerandole nella loro unicità. Quell’unicità che è legata al mondo di relazioni di affetto, dedizione e reciprocità che vivono con lei e per lei le altre persone della sua famiglia, che non possono quindi non essere prese in grande considerazione, perché ci si deve prendere cura di chi si prende cura. E questa è la solidarietà di cui abbiamo davvero tutti un grande bisogno, che deve attraversare non solo il volontariato ma l’operatività di tutti i servizi. Perché nessuna persona che si prende cura con responsabilità e amore di chi non può più badare a se stesso, si senta abbandonata e sola ad affrontare questa dolorosa esperienza. L’Associazione Alzheimer è infondo nata per questo scopo, e noi vogliamo continuare a sostenerla nella sua preziosa attività. Violetta Plotegher Assessore alle Politiche Sociali Comune di Trento

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Presentazione del convegno Credo davvero che l’informazione, nel significato più largo della parola, sia fondamentale in medicina. Da essa dipende la possibilità di ottenere maggiori consensi. L’informazione costituisce infatti un momento di riflessione, di presa di coscienza ed un mezzo per raggiungere l’obiettivo primario: l’adesione dei pazienti al grande progetto di prevenzione e cura. Il convegno promosso dall’associazione Alzheirmer di Trento, in occasione del proprio decennale, ha saputo fornire un importante momento di scambio e confronto ed è risultato determinante nel valorizzare le diverse esigenze. Relatori e pubblico hanno instaurato un dialogo fattivo catturando l’ attenzione dei presenti per tutta la giornata di studio e creando un rapporto di empatia che ha contribuito in modo decisivo alla comprensione delle tematiche trattate. Tutti i relatori, medici e non, hanno saputo scegliere parole chiare e comprensibili, con un gergo talvolta anche informale, mostrando attenzione e coinvolgimento anche per temi non strettamente medici ( rapporti con i familiari, aspetti sociali in generale). Un approccio olistico alla malattia, che tenga conto di tutte le peculiarità dell’individuo: fisiche e psichiche, consente al malato ed ai suoi famigliari di potenziare le risorse personali e favorisce lo scambio di tutte le informazioni rilevanti sul piano prognostico curativo ed assistenziale. Ancora una volta abbiamo ritrovato nell’associazione un mix mirabile di laici e di operatori sanitari che hanno saputo coniugare esperienza medica, tecnologia ed aspettative dei pazienti. Personalmente debbo quindi ringraziare l’associazione per avermi dato l’opportunità di partecipare come moderatore a questo convegno, che ritengo essere stato una tappa importante per una corretta informazione sulla malattia di Alzheimer e per la comprensione delle complesse problematiche che ruotano attorno ad essa. Di grande importanza l’invito esplicitato già nel titolo del convegno e che bene riassume il significato del momento di incontro : “ Non c’è tempo da perdere. L’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione”. Dott.ssa Vittoria Agostini moderatrice

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“La musica: linguaggio dell’anima” Con la consueta collaborazione e partecipazione la Scuola Musica “I Minipolofonici” ha offerto i seguenti brani: A. Piazzolla “Café 1930” Alice Nardelli, flauto Filippo Ghidoni, chitarra A. Vivaldi Concerto op. 3 in n. 8 in la min. RV. 522

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Valentina Domeniconi, violino Maria Chiara Pavesi, violino, Aurelia Maria Foti, violino, Alessia Patton, violino, Angelica Lorenzi, viola, Giulia Boller, violoncello Stefano Chicco, direttore

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Apertura lavori con la testimonianza della poetessa Lilia Slomp Ferrari che, con la Sua sensibilità nella lettura di alcuni brani dal testo “Visione Parziale” Un diario dell’Alzheimer” di Cary Smith Henderson è riuscita a sentire e trasmettere l’interpretazione significativa del sentimento interiore del protagonista del testo “Non c’è tempo da perdere” - L’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione – questo il titolo dato al Convegno in occasione del decennale dell’Associazione Alzheimer Trento Onlus svoltosi il giorno 26 novembre 2008 a Trento presso il Centro per i Servizi Sanitari APSS con un nutrito contributo di relazioni importanti tenute da studiosi di questa malattia e con testimonianze toccanti di familiari dell’AIMA di Rovereto. Confesso che quando mi chiesero di partecipare come lettrice di alcuni brani di “Visione parziale” mi sentii emozionata e subito coinvolta, ancora di più dopo aver letto questo libro scritto in forma di diario da Cary Smith Henderson dove il mondo dei malati di Alzheimer si apre in pagine toccanti e in descrizioni personali che per la prima volta aprono orizzonti nuovi su questa malattia così temuta e così devastante. Man mano che proseguivo nella lettura mi rendevo conto di quanto poco sappiamo e quanto poco valutiamo l’importanza di un’esistenza comune non toccata da problemi così gravi, tanto da costringerti ad un’altra visuale della vita. È straordinaria la lucidità di Cary Smith Henderson nella descrizione delle giornate minate dalla malattia, senza autocommiserazione. Già le sue parole d’introduzione al testo: La cosa migliore da fare a questo proposito è semplicemente non preoccuparsi. Siate contenti di una visione parziale o di qualsiasi altra cosa parziale, tutto è parziale, ci danno la misura della sua volontà di riuscire a trasmettere sensazioni, fallimenti, progressione di giorni costellati di piccole impotenze e avvilimenti. Ma quello che è stupefacente è appunto questo suo allargamento di orizzonti o meglio quel saper guardare con occhi diversi le persone, la natura, quell’immedesimarsi in ogni secondo di vita come fosse un dono prezioso irripetibile. La scelta dei brani di lettura è stata fonte per me di titubanze anche perché il tempo a disposizione non era molto, dato il numero degli interventi; ho cercato di trasmettere con stralci anche brevi più messaggi in quanto tutto il libro è un condensato a volte struggente delle inevitabili sconfitte di una malattia che per ora non dà speranza di guarigione e che proietta chi ne è affetto in una dimensione tutta sua dove i significati sono altri. Ecco la preziosità di questa testimonianza: entrare attraverso le parole di Cary in quella dimensione che egli chiama “parziale” ma che in effetti parziale non è perché

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filtrata da tutta un’esperienza di vita precedente che a volte in modo quasi “spietato” ti costringe ad un’analisi costante di quell’attimo di esistenza che ci è dato di vivere nelle diverse stagioni. Ognuno di noi vive il suo attimo unico e irripetibile, ma sempre un attimo rimane confrontandolo all’eternità. Da questa testimonianza emerge il desiderio del malato di cogliere finché sarà possibile ogni frammento del suo istante ed emerge anche la fatalità, il saper percepire l’essenza primaria della vita, il grande desiderio di testimoniare affinché i propri familiari e soprattutto la scienza possano in futuro capire che il malato è in qualche modo cosciente ed è consapevole, specialmente ai primi stadi della malattia, dell’inconsapevolezza alla quale andrà progressivamente incontro. Un’esperienza unica la lettura di “Visione parziale” e coinvolgente nel suo insieme tutta la giornata del convegno: una realtà diversa, una malattia di cui forse si parla troppo poco e che finché non tocca personalmente si sa che esiste ma non ci si pensa. Desidero chiudere queste mie impressioni su un Incontro che mi ha donato profonde emozioni e riflessioni, con le parole di Cary Smith Henderson che trasmettono speranza, nonostante tutto: Ci sono cose che vorrei saper fare, ma d’altra parte ci sono ancora cose che posso fare e che mi prefiggo di non mollare finché posso. Ridere è una cosa bellissima. Il sense of humor è forse la cosa più preziosa e imperante per chi ha l’Alzheimer. Lilia Slomp Ferrari


NON C’ É TEMPO DA PERDERE: l’Alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione

ATTI DEL CONVEGNO 13


NON C’ É TEMPO DA PERDERE: L’ALZHEIMER ESIGE SOLIDARIETÀ E NON RASSEGNAZIONE di Bruna Celardo Rizzi familiare e membro del Consiglio Direttivo

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Sono passati dieci anni da quando nel 1998 un gruppo di familiari ebbe l’onore e l’onere di dare vita all’associazione Alzheimer Trento. Ci siamo conosciuti pian piano e il desiderio che ci univa era la convinzione che insieme si possono affrontare meglio i grossi problemi che questa malattia, molto impegnativa, porta nella famiglia al momento in cui un familiare riceve la diagnosi: è Alzheimer. Infatti, di “conseguenza” si ammala tutta la famiglia, di un dolore disabitato ma vissuto intensamente e molte volte drammaticamente, man mano che gli stadi della malattia si susseguono. Il dramma emotivo della grossa frattura esistenziale provocata porta con sé un carico gestionale inimmaginabile; si abbandonano gli interessi personali e la malattia diventa per tutti l’unica preoccupazione che polarizza l’esistenza. Nelle relazioni interpersonali nascono conflitti che aggravano la gestione della malattia e la storia della famiglia è messa sotto la lente di ingrandimento; tutti i familiari, direttamente ed indirettamente coinvolti, soffrono e hanno bisogno di solidarietà. Per questo non vanno giudicati, ma compresi perché non si sentono appoggiati e riconosciuti nel dolore. Molte volte, nemmeno con i medici che hanno in cura l’ammalato viene instaurata l’alleanza terapeutica necessaria, che diverrebbe grande risorsa per la famiglia nella cura del proprio familiare. L’esperienza, i valori, le opinioni, la personalità, la rete di rapporti sociali di una persona vanno presi in considerazione nella definizione di un progetto di aiuto e, riconoscere la famiglia nella situazione che si è venuta a trovare con l’evento malattia, è di fondamentale importanza. Se non si può attualmente modificare la storia naturale della malattia che è devastante, un traguardo comunque possibile ed importante da raggiungere è l’attenzione rivolta alla qualità della vita della famiglia che diverrebbe risorsa nel vivere il problema Alzheimer. Adams affermava: “Quando curi una persona puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere”. Lungo questi dieci anni di vita dell’Associazione, negli incontri con tanti familiari, nel narrarci e condividere le nostre storie, abbiamo


vissuto in prima persona l’effetto distruttivo della malattia sullo sviluppo cognitivo, durato una vita, che fa arretrare progressivamente il sentiero delle interazioni razionali, lasciando come unica possibilità di rapporto il linguaggio delle emozioni e degli istinti di base. Inoltre, la consapevolezza che aspetti soggettivi quali la storia individuale, la complessità delle relazioni interpersonali, i sentimenti, le emozioni, lo stato economico dei componenti il nucleo familiare concorrono a determinare la qualità della vita. Passare dal curare “al prendersi cura” delle persone vittime passive ed inermi coinvolte nella malattia alzheimer trasforma le persone stesse in protagonisti attivi di un percorso di cura segnato dalla ricerca di dare un senso al loro lungo e faticoso percorso della malattia. La malattia si può combattere solamente incentivando la ricerca che sarà determinante, ma intanto la famiglia si trova a doversi improvvisare da un giorno all’altro infermiere, medico, psicologo, operatore sanitario, con una spesa onerosa e spesso mal sopportata. Come Associazione abbiamo promosso tante iniziative di informazione, formazione, sostegno, convegni, conferenze, consulenze e altre opportunità perché siamo nati per creare rete solidale con le famiglie nella convinzione che i bisogni, sanitari, sociali, economici, sono molti e che solo una associazione rappresentativa può trasformare quei bisogni in domande precise da porre alle istituzioni e sollecitare risposte adeguate e concrete. Possiamo vantare alcuni obiettivi raggiunti sollecitando le autorità competenti come: - aver promosso e voluto con forza l’attuale Centro Diurno Alzheimer (quando lo stesso era genericamente destinato ad un altro centro per anziani) rimanendo l’unico ancora oggi nel Comune di Trento; - promuovendo in modo continuativo tanti corsi di formazione e informazione, ai quali hanno partecipato molte figure professionali oltre a familiari e volontari; la celebrazione della Giornata Mondiale Alzheimer, che si realizza ogni anno il 21 settembre promuovendo la sensibilizzazione attraverso varie manifestazioni; - la promozione dell’“Alzheimer Caffè”, appuntamento mensile presso il BaryCentro (che ci ospita gratuitamente), per scambiare e ricevere informazioni, consigli sulla malattia, sui servizi disponibili, per condividere emozioni, dubbi, incertezze, insieme alle persone presenti, in cui la conviviale ritualità di un caffè facilita il parlare apertamente della malattia. La partecipazione numerosa è rimasta costante in tutti questi 3 primi anni di apertura;

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- Il foglio informativo, che da semplice lettera di comunicazione ai soci, è diventato man mano un opuscolo di collegamento con le famiglie, sempre più bello “esteticamente” e sostanzioso nei contenuti. Bilancio positivo per noi, e soddisfazione di tutti i componenti l’Associazione è il sentirsi dire, dalle persone che ci hanno conosciuti, grazie perché “non mi sento più sola” nella mia fatica e nel mio dolore. Il convegno che qui viene ricordato rappresenta un punto fermo del nostro fare e la tematica scelta, sviscerata in molti aspetti, è stata una prima risposta alle richieste costanti di solidarietà e partecipazione al dramma della famiglia coinvolta nella malattia di Alzheimer.

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Desidero ringraziare dal profondo del cuore i nostri familiari malati che, nella fatica di accudirli, ci donano la loro fiducia e concludo con le parole di Cary Smith Henderson protagonista del libro “Visione Parziale” - Un diario dell’Alzheimer “[...] Mia moglie sta facendo di tutto per rendermi le cose sopportabili - per tenermi occupato e farmi sentire bene. Io lo apprezzo veramente tanto. Comunque, se ti capitasse di avere l’Alzheimer, la cosa migliore che puoi fare é trovare un bravo caregiver, così chiamano queste persone, come la mia meravigliosa moglie. ...Ho paura di perdere i contatti col mondo. Lei è la sola che veramente mi capisce e io non sono facile da capire.”


L’uomo e la demenza: il punto di vista antropologico Dott.ssa Federica Setti

L’antropologia si occupa dello studio degli esseri umani e delle loro etno-pratiche all’interno delle diverse culture e società; la cultura è come il mare in cui l’essere umano come un pesce nuota, è insomma alla base del nostro essere uomini e donne e ci costituiamo come tali secondo due tipi di interrelazione tra uomo e società, tra loro interconnessi: l’antropo-poiesi (come ha elaborato Prof. Remotti, 2000) e l’auto-poiesi (cfr. L. Bordonaro, 1999). Il primo consiste nei processi attraverso i quali le società costruiscono gli individui, lasciando un patrimonio etico e in qualche modo comportamentale e il secondo invece mette in luce le modalità attraverso cui gli individui costruiscono se stessi nella società. Ad esempio nei paesi che hanno subito la colonizzazione gli individui si trovano di fronte all’insidiosa scelta tra il rimanere fedeli ai valori delle proprie tradizioni locali o tradirle per quelli moderni e insidiosi del nuovo modello culturale, oppure in-corporarli e mantenerli entrambi, come possiamo vedere in molti riti di possessione di spiriti locali che hanno assunto le caratteristiche tipiche occidentali, come ad esempio Mami Wata in Nigeria (cfr. Beneduce, 2002). Queste due distinzioni ci tornano utili anche nel campo dell’antropologia medica, che è un ramo dell’antropologia che si occupa di studiare la salute e la malattia degli esseri umani, in relazione al contesto culturale e sociale in cui si trovano e allo stesso modo analizzando i sistemi di cura come particolari in ogni diverso contesto culturale. Nell’antropologia medica vengono studiate le conseguenze della colonizzazione e della neocolonizzazione come cause evidenti dell’insorgere di malattie, collegate alla violenza di questi avvenimenti, ciò accade quindi in paesi come l’Africa e l’India che vedono alle loro spalle e anche nel presente, anche se in maniera differente, una dis-umanizzazione delle pratiche culturali locali a causa dello sfruttamento e abuso di potere dei paesi occidentali. In seguito vi presento appunto come la colonizzazione dell’India prima da parte degli inglesi e ora come neo-colonizzazione da parte dell’America, abbia stravolto il modo di intendere e interagire con la malattia, nel nostro caso l’Alzheimer. Vi presento quindi uno studio e un’analisi della malattia dell’Alzheimer secondo l’antropologia medica, cercando dunque di de-costruire il modello preso come certo e definito di Alzheimer, che appartiene a un dato contesto, quello Euro - americano occidentale e che ha diverse conseguenze e implicazioni nelle varie culture locali; vi riporterò due ricerche svolte negli Stati Uniti e in India.

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Per cominciare mi baso sull’approfondito studio di Elizabeth Herskovits, ricercatrice di antropologia medica presso l’Università di California, a san Francisco, infatti è soprattutto negli Stati Uniti che si sono avute le ricerche e gli studi di antropologia medica, per quanto riguarda l’antropologia della vecchiaia e l’interesse alla gerontologia e quindi agli studi sulla demenza senile. Secondo il dizionario medico illustrato Dorland la malattia dell’Alzheimer è definita come una “malattia progressiva degenerativa del cervello” accompagnata da deficits cognitivi e funzionali e da disturbi comportamentali e affettivi (cfr. Reiseberg). Come afferma la Herskovits questa comprensione bio-medica della malattia è solo una parte del discorso riguardante l’Alzheimer e l’antropologia si occupa di studiare la totalità di ciò che sta attorno a tale concetto e la percezione e conoscenza delle persone di tale malattia. L’Alzheimer è considerato attualmente, nelle società occidentali post-industriali, una delle malattie più minacciose e insidiose dal punto di vista economico e sociale, in conseguenza all’invecchiamento crescente della popolazione. In America l’Alzheimer rappresenta la quarta/quinta causa di mortalità (cfr. Brody) e le statistiche ci dicono che il 5% delle persone sopra i 65 anni e il 20% di quelle sopra gli 80 anni sono affette da demenza, per lo più del tipo di Alzheimer. Nella ricerca della Herskovits per quanto riguarda gli Stati Uniti e più in generale la società occidentale, vengono messi in luce tre aspetti che ritengo rilevanti anche per quanto riguarda la comprensione dell’Alzheimer, come si sta diffondendo in Europa e in particolare in Italia. In primo luogo, la costruzione della malattia di Alzheimer, come conoscenza appresa a livello pubblico è emersa dal contesto socio-culturale e politico-economico recente degli Stati Uniti e dell’Europa. In secondo luogo il discorso pubblico sull’Alzheimer è servito a interessi specifici politico-economici, come ad esempio alla necessità di finanziamenti e di acquisto di legittimità degli istituti di ricerca e inoltre ha risolto alcuni problemi clinici, pratici e psicologici, come il fatto di legittimare una gamma di risposte terapeutiche e creare una sorta di ordine, capace di delimitare e definire i limiti non precisi dell’Alzheimer inteso come malattia. Infine l’importanza di riflettere sul concetto di sé, di individuo e di persona, che spesso viene manipolato nel caso dei malati di Alzheimer, rendendo tali persone nel discorso pubblico come privi di un sé, morti prima della morte, ecc. Il tentativo dell’antropologia medica e di una nascente antropologia dell’anzianità è quello di de-costruire i modelli mediatici prevalenti dell’Alzheimer come malattia mostruosa, di cui avere timore e invece riflettere e lavorare sulla natura delle relazioni interpersonali con gli anziani, per cercare di favorire la


costituzione di una società in cui siano maggiormente rispettati e in cui le relazioni tra le persone acquisiscano maggiore attenzione rispetto al modello capitalistico e razionale di produzione, che ci obbliga a non perdere tempo, correre dietro a carriera e denaro, tralasciando il tempo per l’umanità. Vediamo ora nello specifico i tre punti di interesse; per quanto riguarda lo sviluppo del concetto di Alzheimer come malattia, sappiamo che il termine “demenza” deriva dal latino DEMENTIA, un composto di DE (fuori) + MENS(mente)+ IA(stato di) e significa “essere fuori o avere perso la mente”. La cultura europea occidentale da secoli è ricca di riferimenti e stereotipi legati all’ anzianità e al conseguente e inevitabile declino mentale, come possiamo notare negli esempi letterari. Ad esempio Giovenale, poeta classico latino, usava il termine dementia per riferirsi al deteriorarsi della mente nella vecchiaia e Sheakspeare nella commedia Come Vi Piace descrive la vecchiaia come “una seconda infanzia…con più oblio, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza tutto”. Sebbene nel 1907 Alois Alzheimer avesse descritto l’entità clinica dell’Alzheimer in termini bio-medici, egli si riferiva alla demenza pre-senile, che insorge prima dei 65 anni (cfr. Herskovits); infatti la demenza associata alla vecchiaia era considerata ancora come un declino normale collegato all’età e quindi non era percepita come malattia; solo negli ’70 del ‘900 fu ridefinito il concetto per riferirsi a coloro che erano sia anziani sia affetti da demenza. Questo è molto significativo poiché mette in luce come la definizione di uno stato di malattia dipenda dalla costruzione sociale del concetto stesso; se in passato era normale l’insorgere di debolezza sia fisica che mentale nell’anzianità, ora vi è una crescente medicalizzazione della vecchiaia, assumendo alcune caratteristiche che erano considerate normali durante l’invecchiamento, come patologiche. L’Alzheimer come malattia della vecchiaia ne è un esempio, in effetti si sta tuttora discutendo, all’interno delle comunità mediche e scientifiche, sul fatto che si possa descrivere questo stato fisico e mentale, come patologia vera e propria. Come ci riporta la Herskovits, riprendendo gli studi di Gubrium (1986), ci sono significativi disaccordi sul fatto che l’Alzheimer sia uno stato qualitativamente patologico o piuttosto una forma quantitativamente estrema di uno stato essenzialmente normale legato all’età e tale dissenso sorge da due aspetti principali messi in luce dalla Herskovits: il primo è il fatto che c’è uno spettro clinico di benigna dimenticanza nella vecchiaia, cioè tutti i sintomi dell’Alzheimer possono essere trovati, a certi livelli, negli anziani sani e il secondo è il fatto che le lesioni neuro-istologiche dell’Alzheimer, come le placche neuritiche, non sono fattori determinanti della malattia, infatti possono essere viste in cervelli anziani sani e spesso non sono presenti nei cervelli degli individui clinicamente diagnosticati con Alzheimer.

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Kraepelin, a questo proposito afferma: “il significato clinico dell’Alzheimer è tuttora incerto…l’evidenza anatomica suggerisce che l’entità è semplicemente una forma particolarmente marcata della demenza senile”. Dunque se l’Alzheimer non è una vera e propria malattia, perché ha assunto tale importanza, nel discorso pubblico, come forma patologica determinata? E qui arriviamo al secondo punto di nostro interesse. Fox offre degli esempi come risposta: - l’interesse di neuro-scienzati intenti a costruire le loro carriere di ricerca - il legittimo bisogno dei caregivers di servizi di supporto e network di cura - le lobby di attivisti per una politica gerontologica di salute per la crescita di servizi per le persone ammalate e le famiglie La Herskovits puntualizza che il fatto di riconoscere la costruzione del concetto di Alzheimer come frutto di dinamiche specifiche locali, non indica che la nozione di malattia di Alzheimer sia accidentale o il risultato di macchinazioni politico-economiche, ma il risultato di una totalità di fattori. Ad esempio le industrie farmaceutiche hanno ampiamente approvato la costruzione sociale dell’Alzheimer, così hanno potuto mettere sul mercato nuovi farmaci, ma allo stesso tempo il concetto di Alzheimer è importante per i caregivers e i familiari dei pazienti, i quali possono in tal modo unirsi per una causa comune e sviluppare così un movimento sociale di aiuto e cooperazione positivo. Molti autori inoltre sottolineano come in una società che pone come valori primari le soluzioni tecnologiche, il pensiero razionale e la scienza positiva, crea paura e terrore l’idea del declino mentale, legato all’età, che in fondo è naturale, normale. Stafford (1991), ad esempio, si chiede cosa significherebbe accettare che l’età sia la causa del nostro declino e conclude che ciò vorrebbe dire sacrificare il controllo umano su un elemento della natura che pensiamo sia sotto la nostra influenza, quindi accettare che la vecchiaia inevitabilmente porti con sé debolezza fisica e mentale, sarebbe come acconsentire al potere della morte un processo non accettato facilmente dal modello sociale tecnocratico dominante, che cerca di prolungare la vita a tutti i costi. Tornstam (1992) ci offre un interessante riflessione sul modo in cui i miti della gerontologia, ad esempio l’Alzheimer, risolvono un conflitto psicologico tra il nostro disprezzo per la debolezza della vecchiaia, che ci deriva dai valori etici della religione protestante e del lavoro capitalistico, da una parte e dall’altra il nostro mandato giudaico-cristiano che ci insegna a rispettare gli anziani, che sono i saggi della comunità. Passiamo ora al terzo punto di nostro interesse, ossia come


cambia il concetto e la percezione di sé per i malati di Alzheimer in relazione agli altri e al discorso pubblico prevalente. Estes e Binney parlano di medicalizzazione della devianza per riferirsi al modo in cui spesso vengono trattati i malati d’Alzheimer, ad esempio i caregivers spesso vengono avvisati che quando le persone diagnosticate con Alzheimer, si comportano in maniera inappropriata è colpa della malattia, non della persona e questo facilita il controllo sociale e medico dell’individuo e ne limita la possibilità di azione e di assunzione della responsabilità su di sé, che consentono alle persone di sentirsi tali e di contare sulla propria individualità. Nella maggior parte della letteratura sull’Alzheimer, inoltre, le persone in questione sono largamente invisibili e quasi mai raccontano in prima persona la loro esperienza che solo loro possono conoscere fino in fondo, per questo credo che il diario Visione Parziale, di cui oggi vengono letti alcuni tratti, sia molto importante come testimonianza sulla malattia e la soggettività di una persona che vive in prima persona questa esperienza. Come riporta Elisabeth Herskovits, una forte minaccia al mantenimento del proprio sé e della propria individualità nell’Alzheimer proviene dalle aspettative sociali di persona, come colei che produce, lavora ecc, in questa visione è come se l’individuo con l’Alzheimer trasgredisse i valori culturali prevalenti, come la produttività, l’autonomia, il self-control, la pulizia. Il fallimento nel portare a termine questi mandati culturali danneggia lo status degli ammalati come persone adulte e come umani. È interessante la testimonianza di una caregiver riportata dalla Herskovits, che qui ripropongo: “Quando ero piccola lo chiamavamo (l’Alzheimer) senilità. Semplicemente ci prendevamo cura dei nostri cari. Nessuno può farci niente su questo. I dottori ancora adesso non riescono a curarlo e a volte diventi matto quando loro, ora tutto di un colpo, agiscono come se stessero per curare l’invecchiamento”. Alcuni autori mettono in luce come la diagnosi di Alzheimer possa diventare “una profezia auto realizzantesi” (Lyman, 1989), ciò significa che si innesca un processo per cui gli altri definiscono la persona ammalata come colei che ha l’Alzheimer e cominciano a trattarla presupponendo una serie di cose tipiche delle persone con questo tipo di malattia. Di conseguenza le vittime cominciano a sentirsi e comportarsi come gli altri si aspettano da loro, lasciandosi andare al decorso della malattia. L’importanza morale di restituire la propria dignità di persona alle vittime dell’Alzheimer è sottolineata anche dal bio-eticista Stephen Post, che ricorda il caso di Janet Adkins, una donna di 54 anni, alla quale venne diagnosticato l’Alzheimer e quando ne notò i primi sintomi decise di morire chiedendo l’eutanasia al dottor Kevorkian. Questo fatto ci pone di fronte alla spinosa

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questione del riconoscimento dell’esperienza e della soggettività della persona malata. È interessante notare che Cary Smith Henderson, nel suo diario “Visione parziale”, ricorda la decisione del dottor Kevorkian di aiutare le persone a morire e a pagina 71 afferma: “Questo Dr. Kevorkian, il medico settentrionale che aiuta le persone a suicidarsi-penso proprio che abbia fatto la cosa giusta. A quanto risulta avevano tutti desiderato morire ed avevano anche un gran buon motivo per farlo. Quando la mente è ormai spacciata, o sta per esserlo e non esiste rimedio e non puoi far di meglio che trascorrere il resto della vita nel rimbambimento puro e semplice del quale non ti rendi neanche conto…”. Non possiamo di certo biasimare le parole di quest’uomo, il quale per primo conosce e vive la malattia sulla sua pelle, però se pensiamo che Janet Adkins scelse di morire ai primi sintomi della malattia, significa che gran parte della responsabilità della sua scelta l’abbia avuta anche il giudizio sociale implicito di cui lei come gli altri malati sono vittime. Questa donna aveva paura di soffrire ma anche di dover incorrere nella mancanza di rispetto e nella perdita di dignità del suo cambiamento da persona “normale” a persona affetta da Alzheimer. Stephen Post mette in luce la difficoltà di un continuo impegno sociale delle istituzioni preposte alla valorizzazione della qualità della vita per coloro che invecchiano, se a livello pubblico l’Alzheimer e la vecchiaia continuano ad essere considerati privi di valore per la vita. Penso che sia un dovere umano, morale e sociale per tutti ridare valore alla vecchiaia e alle persone che vivono in modo diverso a causa della demenza. È importante considerare, comunque, che dagli anni ’80 del ‘900 hanno cominciato a svilupparsi opinioni differenti sulla personalità nei malati d’Alzheimer, con il tentativo di restituire a queste persone la dignità di un proprio sé. A questo riguardo la Herskovits e Gubrium ci riportano alcune testimonianze di caregivers di vari gruppi di sostegno negli Stati Uniti e alcuni esempi letterari significativi. Ad esempio un caregiver, appartenente a un gruppo di supporto afferma: “C’è una persona di cui stiamo parlando…l’umanità è ancora là, la persona con l’Alzheimer ha ancora sentimenti. Ciò che la malattia distrugge è l’abilità di esprimerli appropriatamente”. In un altro gruppo di Detroit una caregiver suggerisce: “Sotto il velo della malattia c’è una persona reale. Mentre la scienza e la medicina possono forse misurare le risposte del paziente a cosa sta succedendo attorno a lui attualmente, nessuno può sapere cosa effettivamente sta pensando e provando il paziente…Possiamo odiare la malattia, ma possiamo sempre amare le persone malate”. Questi due caregivers si rendono conto che le vittime, nonostante siano ammalate, provano sentimenti profondi e pensano, riflettono e si pongono problemi, come le persone considerate “normali”. È importante dunque


riflettere sulle caratteristiche che permettono di definire un individuo in quanto tale e il fatto di attribuire lo status di persona in base alla capacità di provare emozioni e sentimenti, penso che sia un modello davvero sensato e che più si avvicina alla realtà. La problematica maggiore a tale riguardo, riportata da altri caregivers e familiari, è spesso quella di riuscire a capire e tradurre quali sentimenti provano i pazienti, perché ci si trova di fronte a un modo nuovo e diverso di comunicare e per questo è difficile riuscire ad inter-relazionarsi con i pazienti. Gubrium ci ricorda che, nonostante i malati potrebbero avere serie carenze cognitive, ciò non toglie che “ci sono ancora i messaggi del cuore, i significati e le intenzioni, che stanno dietro i gesti e i discorsi confusi”. La Herskovits ci ricorda la fiction americana di Robert Gard riguardante i malati, che si intitola “Oltre la linea sottile: un viaggio personale nel mondo della malattia dell’Alzheimer”, nella quale il produttore sottolinea la vivacità di impressioni e la ricchezza di sentimenti dei malati e descrive il loro mondo come “un ricco caleidoscopio di immagini e memoria, di passato e presente, di colori e suoni.” Elisabeth Herskovits nel suo saggio “Discorsi sul sé e malattia di Alzheimer” ci offre una serie di teorie sul sé elaborate da diversi autori e antropologi, i quali propongono varie definizioni. Ad esempio Sabat e Harrè sostengono che il proprio sé è mantenuto finché a livello linguistico venga mantenuto l’uso di indici lessicali di prima persona singolare per riferirsi a sé stessi, come “io”, “me”, “me stesso/a”, “mio/mia”. Secondo Sabat e Harrè questo utilizzo lessicale conferma l’esistenza duratura del sé, come propone il linguista Vygotsky, secondo il quale la lingua è centrale nella creazione della realtà sociale. Ma io qui voglio riproporvi solo due dei modelli descritti dalla Herskovits, poiché ritengo che siano i più significativi e interessanti. Il primo che vi illustro sottolinea la mostruosità della malattia e il conseguente annientamento del sé, mentre il secondo mette in luce l’importanza della psicologia sociale nel determinare la vita dei pazienti e l’importanza di migliorare le relazioni sociali tra malati e non per ridare la propria dignità agli individui affetti da Alzheimer e al loro statuto di persone. Il primo modello è quello tratto da Bernlef, il quale nel suo racconto in fiction “Fuori di mente” (1989) descrive l’esperienza soggettiva dell’Alzheimer, come un continuum dai primi sintomi di perdita della memoria, confusione e diniego dei primi capitoli, fino alle frasi disconnesse, frammentate e alla pazzia degli ultimi capitoli. L’autore paragona, metaforicamente, il modo in cui la persona con l’Alzheimer sente e percepisce gli altri al modo in cui viene visto il mondo dalle lenti di una macchina fotografica; cito il tratto del brano in cui viene descritto, riportato anche nel saggio della Herskovits:

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“Una macchina fotografica non fa distinzione tra l’importanza e la non importanza del primo piano o secondo piano. E in questo momento mi sento come una macchina fotografica. Registro, ma niente o nessuno si avvicina o risalta in primo piano: nessuno mi tocca dal passato… Tu non puoi leggere, per la maggior parte, quell’album fotografico sul tavolo, perché tu non hai le informazioni del contesto necessarie. Non c’eri là. In altre parole non puoi formare nessuna immagine ulteriore su cosa c’è in loro, perché non riesci a ricordarti cosa, una volta, poteva essere visto effettivamente. Non è il tuo passato.” Qui (ricordo che non è una persona reale a parlare ma un personaggio creato dall’autore) la persona ammalata di Alzheimer viene paragonata a una macchina fotografica presa isolatamente, senza l’interazione del soggetto che la utilizza per fare le fotografie e scegliere quali soggetti inquadrare, dove focalizzare l’immagine, se su primo o secondo piano, ecc. Questo significa che il narratore ha perso il suo sé del passato, ciò che gli permetteva di dirigere le sue attenzioni, le sue scelte e le sue memorie verso qualcosa di determinato nello spazio e nel tempo. Il narratore dice “registro”, cioè sa che ha ancora le abilità cognitive che funzionano bene, ma è come raggelato a livello di emozioni e ricordi, non riuscendo a notare i soggetti importanti in primo piano. Qui però il protagonista si riferisce a sé stesso utilizzando la prima persona singolare; ciò significa che percepisce ed è cosciente del proprio sé. Al contrario, negli ultimi capitoli, dopo un declino implacabile della malattia, il protagonista ha perso il senso e la percezione del proprio sé come agente in prima persona singolare e si descrive in terza persona, utilizzando forme lessicali come “questo corpo”, “lui” o “esso”, ne cito un tratto, riprendendolo dal saggio in cui è riportato dalla Herskovits: “Perché questi sorveglianti rimuovono questo corpo da dove giace e lo asciugano e lo portano via dall’acqua? Lo portano in un luogo dove ci sono dei letti…gli mettono pigiami, che sembrano quei pigiami di quegli altri uomini, con le loro grandi teste mezze calve, lo sguardo fisso, le pillole bianche e tutto viene aggirato, rivolto verso di lui…mettono una pillola nella sua gola” (Bernlef,’89). Riferirsi a sé stessi in terza persona singolare anziché prima persona sta a significare la perdita progressiva del controllo sul proprio sé e sul proprio corpo, che ormai è gestito da altre persone, “i sorveglianti”, “i medici”. La registrazione ora viene fatta da un sé che non riconosce il corpo come proprio ed è debilitato alla passività. Questo immaginario triste e terribile della malattia purtroppo non esiste solo nella fiction di Bernlef, ma in molte storie di vita reali e molte volte non c’è soluzione a tali esperienze, ma il secondo modello, che riprendo dall’elencazione della Herskovits e vi illustro, propone un modo di prendersi cura dei pazienti preventivo e che ha che fare non solo con i


malati ma con il modo di relazionarsi tra le persone, in generale, nella nostra società. Kitwood e Bredin, infatti, nel 1992, suggeriscono che la malattia dell’Alzheimer può essere utilizzata come un pretesto sociale per impegnarci a diventare più umani; essi affermano che non necessariamente l’Alzheimer smantella e distrugge il sé dei malati e sostengono che tale problematica derivi più dal contesto ampio delle relazioni sociali inter-personali dominanti nella vita quotidiana, che non dalla malattia stessa. Cito quanto propongono i due autori, riportato da Elisabeth Herskovits: “il problema della demenza si sviluppa da un’inter-soggettività danneggiata, deragliata e mancante o insufficiente […] È discutibile il fatto che gli aspetti generali della vita quotidiana, con la loro ipocrisia e competitività e le attività banali e stupide e, da un punto di vista umano, profondamente patologiche, siano più importanti del modo di vivere degli anziani danneggiati a livello neurologico, che sono, nonostante ciò, più onesti e più autentici, più sani nel loro bisogno di inter-dipendenza con gli altri e nella loro propensione a vivere nel presente”. Questa affermazione è molto significativa perché ri-afferma l’assoluta umanità delle persone anziane e affette da demenza, che secondo gli autori e anche secondo la mia opinione, spesso svolgono attività e provano sentimenti più umani delle persone considerate normali, che sono stressate dai problemi mondani. Inoltre ritengo che la grande svolta del modello di Kitwood e Bredin nel proporre una definizione del sé che valga anche per i malati di Alzheimer, è quella di affermare la necessità di considerare la persona “in termini sociali piuttosto che individuali”. Infatti ogni persona è il frutto delle relazioni tra sé e gli altri; ci definiamo come individui in un continuo processo di ri-specchiamento negli altri e nella continua interiorizzazione della percezione che gli altri hanno di noi. Vorrei concludere la prima parte del mio intervento con l’ottimistica proposta dei due autori, che cito: “La demenza ,quindi, non risulterebbe una tragedia così grande e non procurerebbe un fardello così pesante… piuttosto potrebbe diventare un modello esemplare di vita inter-personale, un esempio di come essere umani.” Il discorso pubblico e medico sull’Alzheimer considera le abilità cognitive come particolarmente rilevanti nella definizione del sé degli individui e ciò contribuisce a destituire le persone con demenza del proprio sé. Ma come abbiamo visto vi sono modelli che, invece, considerano lo statuto del sé, slegato dalle abilità cognitive e dipendente dalla qualità delle relazioni inter-personali, che purtroppo nella nostra società stanno diventando sempre più fredde e utilitaristiche, contribuendo alla desolazione degli individui, soprattutto delle persone in condizioni di debolezza, le quali hanno bisogno di una sana e vera umanità. Questi modelli sono fondamentali

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perché restituiscono alle persone ammalate di Alzheimer il proprio sé, come afferma Elisabeth Herskovits: “È notevole il fatto che attraverso queste teorie e immagini ottimistiche del sé nell’Alzheimer, il sé relazionale sostituisce il sé autonomo dell’umanismo liberale classico.” Dopo aver riflettuto sul modo in cui sono vissute la vecchiaia e la malattia dell’Alzheimer nella società americana ed europea, vi presento ora una ricerca sul modo in cui viene concepita l’anzianità in una regione dell’India. Questo ci permette di fare una comparazione tra due modi diversi di affrontare la malattia e la vecchiaia e allo stesso tempo ci fa rendere conto di come la costruzione sociale dell’Alzheimer nasce nel contesto della società occidentale, ma attraverso la globalizzazione si diffonde anche in regioni come l’India, ad esempio, causando non pochi stravolgimenti rispetto al modo locale di interpretare la vecchiaia. Purtroppo non ci sono stati molti antropologi che si siano occupati della vecchiaia e della demenza senile nelle società altre; troviamo un’eccezione presso il dipartimento di antropologia dell’università della California a Berkley, dove diversi ricercatori si sono interessati agli studi di gerontologia. Quindi ho deciso di proporvi il lavoro dell’antropologo Lawrence Cohen, dell’università di Berkley, il quale si è ampiamente occupato di tali tematiche e ha svolto la sua ricerca sul campo in India. Cohen ci ricorda un’importante conferenza globale, di cui molte sessioni erano dedicate alla vecchiaia e alla quale parteciparono molti antropologi, che si tenne a Zagabria nel 1988 e qui avvenne una discussione molto interessante per capire come il concetto che per noi è normale di Alzheimer, in realtà non sia universale, ma appartenente a una determinata costruzione culturale e sociale. Come ci riporta Cohen, in questa conferenza uno studioso americano chiese a un antropologo indiano, il quale aveva appena terminato il suo intervento sulla vecchiaia in un villaggio tradizionale indiano, con quale frequenza si presentasse l’Alzheimer tra queste persone. L’antropologo rimase di stucco come se non capisse il termine utilizzato dal ricercatore americano. Infatti presso gli abitanti del villaggio indiano non esisteva un modo di invecchiare, che portasse alla malattia o all’Alzheimer; nessuno aveva mai avuto queste malattie nel contesto studiato dall’antropologo indiano, si trattava di una società tribale isolata, nella quale la famiglia tradizionale era unita e le relazioni inter-personali costituivano la base del loro modo di vivere. L’antropologo spiegò che questo prendersi cura degli anziani da parte della famiglia e della comunità, faceva sì che le persone non diventassero mai vecchie, nel senso di deboli e ammalate. Ciò stupì la maggior parte dei partecipanti alla conferenza di Zagabria, per


i quali il concetto di Alzheimer era ormai appreso con sicurezza come una forma patologica definita clinicamente, in conseguenza alla costruzione sociale e clinica dell’Alzheimer nelle società occidentali. L’India ha subito fino al 1947 la colonizzazione da parte dell’Inghilterra, per poi subire una neo-colonizzazione da parte degli Stati Uniti. Ciò significa che i modelli esotici di villaggi tribali in cui i disagi legati all’invecchiamento non esistono, sono ormai quasi un retaggio del passato, considerando che i processi di colonizzazione, con la violenza che essi comportano, stravolgono i tradizionali modi di vivere di persone e comunità intere. Comunque ciò che riportò l’antropologo indiano alla conferenza di Zagabria, riguardo all’essenziale indianità della buona vecchiaia nel villaggio da lui studiato, è molto importante per evidenziare come era possibile invecchiare bene, senza malattie in un’India pre-coloniale. Allo stesso tempo rappresenta un messaggio utopico verso un modello di vivere non dominato dalla tecnocrazia, ma fondato sulle relazioni inter-personali, modello che anche in India non è più possibile, a causa della modernizzazione, che paradossalmente rappresenta l’insorgere dei problemi e allo stesso tempo la soluzione per risolverli, come nel caso dell’Alzheimer. Infatti, come ci riporta Cohen, questa malattia in India non è ancora conosciuta a livello pubblico e di massa e lui sottolinea come in sostanza l’Alzheimer sia un tipo di interpretazione di uno stato di salute alterato. Ma nella società indiana attribuire questo significato al cambiamento comportamentale nell’età adulta, tentando di dare soluzioni, prese dalle tecnologie altamente sviluppate della geriatria occidentale, comporta conseguenze disastrose, come vediamo nel caso di Somita Rai e della sua famiglia, incontrati da Cohen a Calcutta. Somita Rai era una donna di Calcutta a cui venne diagnosticato l’Alzheimer, rappresentando uno dei primi casi che si avevano nella città e la sua storia di vita ci fa riflettere su come la modernizzazione e la globalizzazione, che hanno portato in India il concetto della malattia dell’Alzheimer e la bio – medicalizzazione della vecchiaia, abbiano causato non pochi problemi al modo in cui tradizionalmente le famiglie si occupano degli anziani nel contesto sociale. Inoltre ci fa vedere come siano determinanti i fattori culturali e sociali nel decorso e nella cura della malattia, in questo caso specifico, ad esempio, il rapporto conflittuale tradizionale tra suocera e nuora. Somita Rai era una ragazza che arrivava da un villaggio, quando ancora giovane sposò un uomo di Calcutta, da cui ebbe il suo unico figlio Amit. La donna si era sempre lamentata che il marito non le dedicava molto tempo e il figlio divenne per Somita l’affetto più importante all’interno della famiglia. Amit si sposò con Sreela, la quale abitò con la famiglia del

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marito, finché il padre di Amit morì e si trasferirono anche con Somita dai genitori di Sreela, andando in contrasto con la pratica tradizionale, che prevede la residenza della nuora presso la casa del marito. Cohen incontra ripetutamente la famiglia, intervistando i vari membri e la prima volta che incontra Sreela, lei si presenta con un manuale sull’Alzheimer, che aveva trovato nella libreria di una catena americana in cui lavorava e gli disse che pensava ed era quasi certa che sua suocera avesse proprio questa malattia. Nel spiegare i sintomi di Somita che l’avevano indotta a pensare che avesse l’Alzheimer, come il fatto di nascondere le cose e dimenticare, Sreela si soffermava maggiormente nell’analisi della relazione conflittuale, che da sempre esisteva tra lei e la suocera. Inoltre, dal momento in cui si erano spostati a vivere presso la famiglia di Sreela, quest’ultima comandava e controllava il nucleo familiare e obbligò suo marito Amit, a stare sempre a casa con la madre, di conseguenza egli perse il lavorò e divenne depresso. Quando Cohen intervista Somita, si reca nella loro casa al sud di Calcutta, dove vivevano tutti e tre in due piccole stanze e quando rimase solo con l’anziana donna, lei gli confidò come si sentisse imprigionata in quella casa e come la nuora avesse provato una settimana prima a metterla in un ospizio per anziani, dove non l’avevano accettata. Infatti un cugino benestante di Amit, li aveva aiutati a portare Somita in questo istituto, con un fallimento, in quanto tre giorni dopo la responsabile chiamò Amit e Sreela, che trovarono la povera donna totalmente stravolta, china in avanti con i capelli tutti disordinati e gli occhi lampeggianti. La sovrintendente dell’istituto disse ai due che Somita era pazza e quindi non poteva stare là e aggiunse che loro due rappresentavano la cattiva famiglia, in quanto era loro responsabilità se la donna era ridotta così e che non era colpa dell’istituto. Sreela fu accusata pubblicamente di essere una nuora immorale e la causa dei mali di Somita, fatto che la spinse a cercare una soluzione per spiegare il male della suocera in altri termini, che non dipendessero da lei come cattiva famiglia. Quindi decisero di portare Somita presso una clinica psichiatrica dove anche Cohen partecipò agli incontri con lo psichiatra dott. Nandi, il quale disse alla famiglia che da poco aveva incontrato i rappresentanti della multinazionale Farmitalia, i quali promuovevano alcuni farmaci, come la nicergolina, marcata in India Dasovas, come farmaci di nuova generazione utili nella cura della demenza senile, che erano appena entrati nel mercato indiano negli anni ’90. La sfida di queste multinazionali era convincere i dottori a prescrivere questi farmaci, in un contesto in cui raramente si erano visti e sentiti casi clinici di demenza senile e Alzheimer. Il dott. Nandi disse a Cohen che Somita era uno dei primissimi casi di ammalata di Alzheimer, che si erano presentati


nella sua clinica e quindi per quest’uomo rappresentava un’opportunità per testare l’efficacia dei farmaci, che gli erano stati recentemente proposti dalla multinazionale italiana e prescrisse la TAC del cervello a Somita, per capire se realmente di Alzheimer si trattava. Dai risultati egli confermò la malattia e la donna cominciò ad assumere il Dasovas, che non ebbe alcun effetto positivo sulla donna, ma Sreela e Amit adesso che sapevano che Somita aveva una patologia clinica del cervello, si sentirono più tranquilli, perché non sarebbero più stati loro ad essere stigmatizzati come cattiva famiglia e causa dei cambiamenti caratteriali di Somita, ma una vera e propria malattia, diagnosticata con i metodi più avanzati da un autorevole dottore all’avanguardia con la medicina occidentale. Questo fatto, anche se apparentemente sgravò il peso della responsabilità su Sreela e Amit, li spinse a cercare una casa di cura dove lasciare Somita; inizialmente non riuscirono a trovarne e la donna rimase ancora un anno a casa, finché trovarono una casa di cura molto lontana, nel nord di Calcutta, dove la donna visse i suoi ultimi anni. Cosa aveva realmente Somita? Presentava degli sbalzi di umore e comportamentali perché aveva una vera e propria malattia o a causa delle relazioni conflittuali che aveva avuto in famiglia nel corso della sua vita? Cohen afferma che alcune caratteristiche presentate da Somita gli facevano credere che lei effettivamente avesse l’Alzheimer, come la progressività, il fatto di nascondere gli oggetti, di gironzolare a vuoto e di accusare Sreela di cose non vere, ma allo stesso tempo sottolinea il modo in cui Sreela cercava di liberarsi dalla relazione da sempre conflittuale con la suocera e dall’accusa di nuora immorale. La decisione di Sreela che era necessario che Somita se ne andasse in una casa di cura rappresentava un luogo familiare del problema, piuttosto che una problematica connessa esclusivamente alla malattia di Somita. Lascio dunque aperte queste domande, portando però ancora una volta la vostra attenzione al fatto che il concetto di Alzheimer offre nel contesto della cultura indiana studiato da Cohen, poco più che un’etichetta, in quanto vediamo nella storia di vita di Somita, che non è guarita grazie alle cure avanzate dell’occidente e in più il fatto di diagnosticare la donna come malata di Alzheimer, si è rivelato inefficace nel dare una risposta al dramma familiare, in cui la voce della donna non aveva alcun potere, essendo debole e arrabbiata. Sreela guarì dal suo complesso e stigma di cattiva nuora sapendo che non era lei, ma una malattia, la causa del male di Somita, la quale però non guarì e fu lasciata a sé stessa, senza supporto anche a causa della spiegazione tutta medica e occidentale che era stata attribuita alle sue condizioni di salute. Film: Water di Deepa Mehta, 2006: 10.48-11.58/18.00-19.00/40.2542.55/47.24-51.53

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Lawrence Cohen svolge la sua ricerca sul campo nel periodo dal 1983 al 1990 nella città di Benares, presso quattro quartieri del centro e analizza il modo in cui le persone di differenti caste, classi sociali e genere, percepiscono e spiegano la vecchiaia e i cambiamenti di comportamento, cognitivi e affettivi ad essa collegati. Benares, o Varanasi, è un centro commerciale, educativo e religioso nello stato di Uttar-Pradesh, nel nord-est dell’India e la popolazione della città e della regione metropolitana circostante conta un milione di abitanti circa. I quattro quartieri si distinguono per la loro diversa composizione sociale e nello specifico due quartieri abitati da persone appartenenti alla classe media, un quartiere povero abitato in primo luogo dai Camar, la casta degli intoccabili e infine un area economica più eterogenea, situata vicino al complesso sacro della città, dove sono più sviluppati gli scambi economici e il turismo. Benares, in epoca moderna, è diventata sempre più un sito simbolico di sacralità, grazie alla sua fama di città di bagni santificanti nel Gange, che attraversa il cuore del centro, fatto che attira un enorme numero di pellegrini; inoltre è associata in modo particolare alla vecchiaia, alla morte e a seva, cioè il servizio e la cura per gli anziani e gli antenati. Quindi ci sono molte persone che vengono a Benares per terminare i loro anni di vita e morire in questo luogo di spiritualità, cosa molto importante per la concezione indù della morte, secondo la quale morire avendo raggiunto i più alti livelli di spiritualità nel cammino mistico o ascetico, permette di porre fine al karman, cioè il ciclo delle rinascite e quindi di raggiungere il nirvana. In questo contesto vi sono dunque due gruppi di persone e di anziani distinti: i Benaresi che ci vivono da molti anni e i Kasivasis che sono arrivati tramite il pellegrinaggio, o sono stati portati nell’età adulta per invecchiare e morire nella città, come le vedove portate anche in giovane età e lasciate al proprio destino. In questo contesto culturale locale esiste un termine, difficilmente traducibile, sathiya jate hain, che si riferisce al fatto di diventare sessantenni, che significa diventare vecchi, senza memoria, deboli, dipendenti dagli altri. Un’altra connotazione della vecchiaia a Benares è quella di dimag, letteralmente debolezza, ma in realtà questo termine si riferisce a una più ampia concezione della vecchiaia, riferita alla debolezza mentale o depressione. Nei quattro quartieri studiati da Cohen, le persone caratterizzate da dimag, mente debole, presentano dimenticanza, perdita di memoria e confusione, ma per il discorso culturale prevalente è più significativo il fatto che tali persone si arrabbino e siano intransigenti. Questo significa


che viene data più importanza ai cambiamenti affettivi degli individui piuttosto che a quelli cognitivi: “i cambiamenti affettivi implicano più una trasformazione tra i corpi che dentro i corpi” (Cohen, 1995). Ci sono due comunità prevalenti: quella degli insiders (quelli che stanno all’interno) e quella degli outsiders (quelli che stanno all’esterno), i primi sono i familiari dell’anziano, mentre i secondi sono le altre persone della comunità, che guardano e giudicano dall’esterno ciò che accade all’interno dell’insieme familiare. La comunità degli outsiders accusa l’insieme familiare di essere una cattiva famiglia e di maltrattamento, quando un anziano appartenente a tale nucleo, diventa debole mentalmente, depresso, arrabbiato e presenta dei cambiamenti di personalità. Tale accusa diventa uno stigma davvero pesante per i familiari, ma allo stesso tempo, spingendoli a prendersi maggior cura degli anziani, rappresenta una salvaguardia per questi ultimi. “Un corpo indebolito e una famiglia discordante diventano sempre più identificati l’uno con l’altro, si definiscono in quello che può essere considerato come il corpo familiare dell’anziano” (Cohen, 1995). Nelle famiglie intervistate da Cohen in India, la vecchiaia rappresenta anche lo spazio della morte, che diventa luogo contestualizzato e positivo, quando avviene nelle mura domestiche, con l’accompagnamento e il rispetto dei familiari. Il fatto di continuare ad ascoltare i consigli dei genitori anziani e di metterli al centro dello spazio familiare, permette loro di essere identificati con la casa e con l’autorità su di essa, continuando ad esercitare il controllo di prima, Cohen suggerisce: “L’anziano è la casa. Il suo controllo su di essa significa l’integrità morale della famiglia” (Cohen, 1995). Esiste anche uno spazio della morte, opposto a quello appena visto e decontestualizzato, collegato a una cattiva morte, che riguarda gli anziani, come le vedove kasivasi, che vivono ai margini delle case e negli interstizi della città che sono non-luoghi (cfr. Augè), ovvero posti anonimi e di passaggio di tutti e di nessuno, dove queste persone non possono esercitare il minimo controllo e potere, non avendo un proprio spazio riconosciuto e istituzionalizzato dagli altri. Per concludere vorrei portare la vostra attenzione alla diversità di problemi con cui hanno a che fare i familiari delle persone anziane deboli e ammalate, rispettivamente alla propria appartenenza a una classe sociale povera o benestante. Nel primo caso l’antropologo ci descrive come nel quartiere degli intoccabili Nagma di Benares, le storie dei figli spieghino e giustifichino la debolezza e malattia del familiare, come effetto di cause esterne alla famiglia, come l’impossibilità economica di dargli abbastanza cibo e medicine adeguate, fatto che non dipende direttamente da loro ma dalla condizione economica in

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cui si trovano. Nelle classi medio - ricche, invece, i familiari parlano più di cause interne alla famiglia per spiegare il cambiamento dei genitori anziani, come l’incapacità di mantenere l’equilibrio quando i genitori invecchiano e l’incapacità di accettare la vecchiaia, che porta ad adirarsi i più anziani. Con la mia relazione spero di aver dato uno spunto per riflettere sugli aspetti antropologici della malattia dell’Alzheimer, portando la nostra attenzione più sulla qualità delle relazioni interpersonali che sugli aspetti bio-medici della malattia (altrettanto importanti), con la speranza di un impegno e un’attenzione sempre maggiori a livello istituzionale e sociale al miglioramento delle relazioni inter-personali.

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Alzheimer: malattia o diverso modo di vivere? Dott.ssa Loreta Rocchetti

Ho iniziato la mia attività di medico di famiglia alla fine degli anni 70 … del secolo scorso (fa una certa impressione dirlo ma, per come sono cambiate le cose, sembra davvero che sia passato un secolo). Ho incontrato subito alcune persone dalle quali ho imparato la realtà di una patologia, la demenza, una variante indicata sui testi anche come Morbo di Alzheimer: una diagnosi di probabilità all’interno di patologie con sintomi simili, una diagnosi di esclusione della quale si parlava poco (per non dire mai) che non mi era capitato di vedere nei miei studi universitari. Una situazione tragica che si gestiva all’interno delle famiglie, improvvisando e facendo il possibile. Questi primi incontri hanno dato l’imprinting al mio modo di affrontare nel corso degli anni le situazioni analoghe che diventavano via via più numerose … una epidemia? Ma anche sempre più conosciute, studiate, seguite … anche se la loro drammaticità è rimasta, forse è aumentata. Rievoco ancora in modo molto vivido il viso, le parole, l’ambiente di vita delle mie prime due malate di una demenza, da me diagnosticata come probabile m. di Alzheimer: Brigida: una donna dolcissima, mite, con begli occhi azzurro chiaro. Ha sempre accolto tutti senza giudicare. Viveva col marito, i numerosi figli e i numerosi nipoti, vicini logisticamente e affettivamente. Alla morte del marito, a domicilio con lei accanto, ha reagito in un modo che mi ha un po’ stupita: ho notato per la prima volta un certa rassegnazione che aveva del “distacco”, Un po’ alla volta il distacco dalla realtà è diventato totale .. il comportamento non più conseguente, non più adeguato alle consuete regole di vita, … la parola sempre più rara, sempre meno comprensibile fino a scomparire … il riconoscimento delle persone sempre meno sicuro fin quasi a “riconoscere” solo un legame affettivo (anche il medico era diventato figlia). L’assistenza da parte della numerosa famiglia è stata assidua .. e lunga (anni). Anche l’assistenza medica è stata lunga ma, in realtà, c’era poco da mettere in pratica tecniche apprese all’università di diagnosi e cura, forse le visite erano più per la famiglia e perché lei non si sentisse abbandonata o forse perché il legame che si era creato tra me e lei era forte e importante per me. Avevo con lei la netta curiosa

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impressione che vivesse in un’altra dimensione, non la nostra. Ma quale? Mi sembrava che fosse diventata un angelo non più toccato da nessuno degli affanni della nostra vita quotidiana . Un altro modo di vivere …..

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Ines viveva con il marito. Non hanno avuto figli. In lei la memoria faceva brutti scherzi. Non riconosceva le persone, talora nemmeno il marito. Non posso dimenticare il giorno che sono andata a trovarla e lei, che stava seduta in terrazza e sgranava i piselli, mi fa una accoglienza gioiosa. Metto alla prova la sua memoria chiedendo cose di semplice quotidianità, le chiedo di poterle misurare la pressione, lei accetta e si prepara. Sono convinta che mi abbia riconosciuta, accettata, che la situazione non sia poi così disperata come me la descriveva il marito. Ma quando, commossa e insuperbita per l’accoglienza ricevuta, chiedo “Lei sa chi sono io vero Ines?” “Ma certo, sei la Jolanda della verdura”. Ebbene, lei si era creata una realtà alternativa sua, mi parlava dei suoi figli e di quelli del marito che erano andati a pranzo da lei per cui era un po’ stanca … i figli forse che lei aveva sempre desiderato e mai avuto, la vita che aveva desiderato e mai avuto se l’era ricreata nella sua fantasia. Ma la situazione sociale della signora Ines era diversa da quello di Brigida, ha dovuto essere ricoverata in Casa di Riposo e non ho potuto più seguirla . Un altro modo di vivere …. Erano l’immagine di una estrema fragilità che suscitava, assieme alla tenerezza e all’istinto della cura, una certa imbarazzante timidezza di fronte a un mistero che fa paura. Quando ho letto, molti anni dopo la poesia The Old Fools di Larkin ho trovato le parole che descrivono questo mio sentimento. Ma forse essere vecchi è avere stanze illuminate dentro la testa, e in esse delle persone, che recitano. Persone che conosci, ma di cui ti sfugge il nome; ognuno appare in lontananza come un vuoto profondo che si colma: si volta sulla soglia di casa, sistema una lampada, sorride da una scala, prende un libro già letto dallo scaffale; oppure, qualche volta, soltanto quelle stanze, le sedie e un fuoco ardente o, alla finestra, un cespuglio mosso dal vento o il sole, timido e gentile, sul muro una serata solitaria di mezza estate dopo l’acquazzone. E’ là che vivono: non qui e adesso, ma là dove tutto è successo un tempo. E’ per questo che suscitano


un’aria di sconcertata assenza: cercano di essere là e sono ancora qui. Infatti le stanze svaniscono, lasciando un freddo buono a niente, il continuo logorio dell’affanno – e loro a ripiegarsi sotto l’alpe dell’estinzione, vecchi scemi che non s’accorgono mai quanto è vicina. E’ per questo forse che se ne stanno calmi: quel picco che noi, ovunque andiamo, ci troviamo di fronte agli occhi è per loro un’era da salire. Potranno mai raccontare cos’è che li strascina indietro, e come andrà a finire? Non di sera? Non all’arrivo degli stranieri? E neppure attraverso tutta quell’orrenda infanzia alla rovescia? Be’, lo scopriremo. La mia riflessione parte da una domanda: malattia o modo di vivere? Ci sono diversi tipi di domande: quelle che contengono in sé già la risposta, quelle per cui non c’è risposta (forse non è ben formulata la domanda?), quelle che trovano una risposta soddisfacente e quelle che originano a loro volta altre domande. Cercherò nel mio percorso, una risposta, arriverò forse ad una nuova serie di domande. Il percorso: malattia o diverso modo di vivere? Cosa vuol dire malattia? Ha senso o è solo sterile speculazione mentale cercare di distinguere? Sono davvero così chiaramente separabili “malattia e modo di vivere”? Considerare un comportamento malattia aiuta o mette in pericolo il rispetto della dignità della persona, del malato? Considerarlo semplicemente stile di vita non può essere altrettanto problematico? Può influire sul modo di assistere, sulla sofferenza, sulla ricerca di senso da parte delle persone che amano, assistono e vivono un dramma che è pari, se non superiore a quello della persona interessata? Diceva l’Abbé Pierre che bisogna tenere entrambi gli occhi aperti: uno sulla miseria del mondo, per combatterla; l’altro sulla sua ineffabile bellezza, per rendere grazie. (…). Come M. de Hennezel, che riporta la citazione nel suo ultimo libro, cercherò di tenere entrambi gli occhi bene aperti. (…) Due occhi, due modi di vedere la realtà. La realtà della demenza (quale che sia l’etichetta diagnostica) è una durissima realtà. Presente probabilmente in tutte le culture, affrontata e interpretata in modo diverso, come ci dice l’antropologia. Ma cos’è questa situazione? Chi la sta vivendo, malato o familiare, forse non si pone troppe domande sul suo “statuto”, forse chiede solo aiuto e comprensione, aiuto anche in senso materiale, o assistenziale sanitario, o, forse, aiuto a trovare

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un senso ad una situazione che sembra non ne abbia alcuno. Credo però che, proprio nell’ottica di trovare un senso, non sia indifferente il modo nel quale noi come singoli, ma soprattutto la società, la collettività guarda a questa situazione: è un modo diverso di essere o una malattia? Questo interrogativo si pone anche per l’approccio alla vecchiaia in generale, alle limitazioni che essa porta, alla sua richiesta quasi scandalosa di uno stile di vita secondo valori e ritmi diversi dall’inserimento forzato in quelli di una società dinamica, velocissima, senza memoria, usa e getta alla quale non si può più adeguare, all’obbligo di restare giovani pena essere esclusi, che porta ad una negazione di sé e talora a risultati patetici : medicalizzazione o accettazione? I due approcci contrapposti, uno tipico della cultura occidentale l’altro di quella orientale, sono da un lato, considerare ogni manifestazione che si discosta dalla”norma” come patologa fino ad una medicalizzazione spinta della vecchiaia (e/o della società) e dall’altro considerare tutte le manifestazioni della vecchiaia come facenti parti del tempo della vita ed accettate come tali. Entrambi gli atteggiamenti hanno validità e limiti. Il primo rischia la cecità per la mancanza di senso in quello che si fa, mentre il secondo rischia l’inefficacia, il lasciare perdurare delle sofferenze inutili che si potrebbero eliminare solo che ci fossero i mezzi (che trascinano poi con se anche la volontà di intervenire). La tecnica. se non è presa come fine ma semplicemente come mezzo per aumentare il benessere (la felicità) dell’uomo, offre dei mezzi straordinari di intervento. La considerazione della vecchiaia come semplice parte dell’anello della vita che continuamente fluisce, in modo contemplativo e di accettazione, se è accompagnata da mezzi che ne smussano quanto meno gli spigoli più dolorosi, può diventare una fonte cui attingere il senso dell’esperienza. Ecco perché bisogna tenere entrambi gli occhi ben aperti, perché considerare la demenza esclusivamente un’espressione patologica della vita umana, una non-vita dal momento che manca di autocoscienza, autonomia, capacità di decidere, capacità di produrre e così via può portare a negare dignità ma anche a non ascoltare i messaggi che questo tipo di vita manda. L’invecchiamento e l’indebolimento delle facoltà mentali probabilmente è sempre esistito, meno evidente in passato quando l’età media della vita era molto bassa e le poche persone che riuscivano a diventare vecchie venivano considerate come qualcosa di “speciale” e senilità e demenza erano considerate sottoprodotti naturali dell’invecchiamento. “La demenza senile esiste da quando la gente ha avuto i mezzi per descriverla.” (J.Franzer) Il morbo di Alzheimer ha assunto “pienamente” onore di malattia solo recentemente . Il progetto Cronos, negli anni 90 è stata l’occasione per uscire allo scoperto, sperimentare le prime cure che si speravano efficaci. Non era


così quando Brigida e Ines mi misero di fronte a questa realtà, certo descritta nei testi ma orfana di possibilità diagnostiche praticabili, terapie efficaci se non il generico intervento per problemi acuti temporanei e il sostegno alla famiglia. Nessun intervento specifico extrafamiliare offerto. Oggi le cose sono cambiate, la ricerca si è fatta carico anche di questa situazione, che nell’Harrison è descritta come “ forse, la più importante delle malattie degenerative a causa della sua frequenza e della sua tremenda gravità.“ Come ogni malattia che si rispetti, ha delle ipotesi etiologiche (molte e in continua evoluzione), ricerca di test diagnostici, ricerca e sperimentazione di terapie, speranze di guarigione attraverso la della gentica e delle cellule staminali. Molti lavori ne definiscono la frequenza e fanno previsioni fosche per il futuro. In uno studio svedese che ha riguardato gli ultrasessantenni, pare che il 19% di essi (la percentuale è molto più alta se si considerano gli ultra sessantacinquenni) soffra di un disturbo minimo di memoria e dopo cinque anni solo 4 821%) non peggiorano e 15 hanno sviluppato una forma di demenza (7 m. di Alzheimer il 36,9% -:6 demenza vascolare – 30,4%-; 2 altre forme di demenza -11,7%) . In Italia nel 2005 erano malate da 500 a 800 mila persone . Al di la di tutto questo, la gente forse l’aveva sempre considerata malattia. Non perché rientrasse nelle definizioni ufficiali, dotte o filosofiche; non perché si conoscessero i tre termini inglesi per definire la malattia: disease, illness, sikness (aspetto clinico medico, aspetto soggettivo e aspetto sociale), ma perché conosceva per esperienza fin troppo bene l’ illness, sapendo tutti poco sul disease e la società … assente. Ma perche l’umanità ha da sempre utilizzato la parola malattia per riferirsi in maniera generale a tutte le condizioni fisiche o mentali, indesiderabili. La malattia è sempre stata identificata con il dolore e la disabilità. E la demenza porta con sé fin troppo dolore e disabilità per non essere malattia. Chiamarla ufficialmente malattia forse è un passo avanti verso la “non solitudine” di malati e famiglie: se questa terribile e dolorosa condizione è considerata malattia, allora è definibile, è uno stato riconosciuto, da studiare, trovare un rimedio, un aiuto , un riconoscimento sociale. Chi la vede nel comportamento delle persone che ama, che si sgretola giorno dopo giorno, forse si sente meno solo. Prima era “niente” solo dolore e disperazione, ora è “malattia” cioè ricerca di soluzione, che vuol dire interessamento da parte del mondo sanitario, cure forse, vuol dire riconoscimento sociale, indennità di accompagnamento, centri diurni, ricoveri in strutture protette e … speranza. E se ne può parlare, non è una cosa di cui vergognarsi e relegare nel chiuso delel case. Se ne può parlare si, ma si fa davvero fatica ad accettarla perche non toglie solo la salute, ma rischia di togliere anche

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la

dignità

e

quindi

l’umanità.

Scrive

J.

Franzer

Ricordo la diffidenza e il fastidio che provai quando l’espressione “morbo di Alzheimer” cominciò a diffondersi, quindici anni fa. Mi sembrava un altro esempio della medicalizzazione dell’esperienza umana, l’ultima voce della sempre più ricca terminologia del vittimismo.(…) Dalla mia posizione attuale, nella quale passo qualche minuto al mese ad irritarmi per il trentenne moralista che ero allora, riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine “Alzheimer” a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile.. Le malattie hanno dei sintomi, i sintomi fanno pensare al cervello come a un pezzo di carne. E, laddove dovrei riconoscere che, si, il cervello è un pezzi di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io più legati all’anima. Vedere mio padre malato come una collezione di sintomi organici mi spingerebbe a interpretare anche l’Eart Franzen sano (e il me stesso sano) in termini sintomatici – a ridurre le nostre amate personalità a sistemi circoscritti di coordinate neurochimiche. Chi vorrebbe vedere la storia della propria vita in questo modo? 38

Ma considerarla solo come malattia e delegare a questa definizione tutta la nostra emotività nei confronti della stessa, può portarci ad una vera esclusione del malato: tutte le manifestazioni incomprensibili o sgradevoli diventeranno manifestazioni della malattia e non della persona: è inquieta, agitata, urla: è la malattia! Ha un atteggiamento incomprensibile: è la malattia! E’ aggressivo e rifiuta il cibo: è la malattia ….ma se i segni, o sintomi, nascondessero anche altro? Un modo di esprimersi non totalmente insensato ma difficile da codificare? Un frammento di vita, di storia che viene a galla difficile da collocare? Un dolore non altrimenti esprimibile? Troppa sofferenza, troppo dignità offesa, troppe domande senza risposta non c’è tempo da perdere la ricerca biomedica trovi una soluzione non c’è tempo da perdere tutti assieme troviamo un senso alla nostra esperienza Trovare un senso ad una esperienza dolorosa non diminuisce il dolore ma una sofferenza insensata è davvero umanamente insopportabile. Il senso probabilmente è accettare una vita “diversa” ed accettare l’inaccettabile – che è anche l’inevitabile - l’idea della morte.


La morte: non è facilmente accettabile oggi quando la spinta sociologica è verso l’immortalità. Anche la spinta della ricerca scientifica è nell’ottica di “non morire mai”. Si legge sulla stampa “… D’Adda di Fagagna ha sviluppato ulteriormente le ricerche condotte a Cambridge da de Grey, il quale ha elaborato un … progetto per allungare la vita umana attraverso una serie di tecniche, in parte già sviluppate, in parte immaginate. (telomeri) … Sarebbe in tal modo possibile portare la durata della vita umana dai cento ai duecento anni e oltre ….” (il sole 24 ore) …studiano la mianserina che in un verme del genere nematodi allunga la vita di un terzo … si spera di mettere a punto il farmaco anche per l’uomo: dai 100 attuali si arriverebbe a 130! (Tempo Medico del 13 dicembre ) Una vita “diversa”. La sfida con la persona demente, è domandarsi come continuare a tenere conto della sua soggettività, della sua dignità, quando il ricorso al verbale non è più possibile, quando bisogna trovare altri mezzi di comunicare. E’ difficile, ma ci costringe a pensare che c’è sempre una umanità anche quando non c’è più la ragione, quando il ricorso alla parola, quindi alla deliberazione cosciente, non è più possibile. ”in che modo le pratiche assistenziali con i malati di demenza permettono di mantenere con loro un legame sociale in che permetta uno scambio fino alla fase terminale della demenza? Come possiamo vedere nella demenza una esperienza singolare del mondo e della vita umana che abbia qualcosa da dirci, che abbia senso per noi? “ si chiede Natalie Rigaux Certo non può più essere per noi il senso trovato da quella tribù africana nella quale si vede l’anziano demente come colui al quale, grazie all’età e alla saggezza, è permesso parlare con gli dei, per questo non è più possibile comprenderlo. Ma chiediamoci: possono i nostri cari, anche se anziani, anche se dementi, avere ancora un ruolo positivo nella costruzione della nostra cultura e nella nostra vita? Possiamo vedere nella demenza un’esperienza unica, singolare del mondo e della vita umana che abbia qualcosa da dirci, un senso per noi? Possiamo apprendere qualcosa della vita, una vita diversa per noi, anche dai “sintomi”? Possiamo considerare la manifestazione di questi sintomi non come “non è lui è la malattia” ma come un modo diverso, molto più difficile da decifrare, attraverso il quale si manifestano gli aspetti

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essenziali del carattere, della personalità e della persona, gli aspetti del sé che sopravvivono anche nella demenza molto avanzata? (Saks) Attingendo sempre all’esperienza descritta da Franzer col padre malato di Alzheimer:

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La senilità non è soltanto una distruzione di significato ma anche una fonte di significato (…) la più importante delle “finestre sul significato” offerte dall’Alzheimer è il rallentamento della morte. David Shenk paragona la malattia a un prisma che rifrange la morte nello spettro delle sue parti , di solito saldamente congiunte – morte dell’autonomia, morte della memoria, morte della consapevolezza, morte della personalità, morte del corpo – e condivide l’opinione più diffusa sull’Alzheimer: questa malattia è particolarmente triste e orribile perché il paziente perde il proprio “io” molto prima che il corpo muoia. (…) Quando il cuore di mio padre si fermò., lo stavo già piangendo da anni. Eppure, quando ripenso alla sua storia, mi chiedo se le varie morti siano davvero così disgiunte, e se la memoria e la coscienza abbiano davvero pieno diritto, dopotutto, a essere considerate la sede della personalità. Non riesco a smettere di cercare significati nei due anni successivi alla perdita del suo presunto “io”, e non riesco a smettere di trovarli.( Jonathan Franzer) Il linguaggio, la comunicazione verbale, o scritta: grande conquista dell’umanità. Facile modo di mettersi in contatto tra esseri umani. Diventa confusa, illogica, incomprensibile, rara e scompare quasi del tutto. Disartria, afasia …. Davvero non hanno nulla da dirci? O forse dobbiamo “guadagnarci” il significato? Davvero non sentono-capiscono quello che diciamo? Davvero possiamo dire qualsiasi cosa di fronte a loro senza paura di umiliarli? Scrive Maisondieu “Si vuole capire il demente o farlo tacere accusandolo di essere folle e curandolo piuttosto che ascoltarlo? (..) preferiamo credere che hanno preso una malattia, sperando che non sia ereditaria e vorremmo che il loro comportamento fosse totalmente insensato per non decodificare il messaggio di angoscia che ci mandano. Da parte mia penso che i dementi non hanno perso la ragione ma non hanno più ragione di vivere, e non vogliono morire: ecco la loro malattia. “ Un altro autore afferma “Il morbo di Alzheimer toglie quel che l’educazione ha messo nella persona, e fa risalire in superficie il cuore. E’ attraverso gli occhi che i malati parlano, e quello che vi leggo mi illumina più dei libri […]. Mi porto via dalla casa di riposo un bisogno di toccare, anche solo furtivamente, la spalla di coloro che incontro e una diffidenza accresciuta verso i bei discorsi.”


Orientamento nel tempo e nello spazio: ieri, oggi, domani, festa, mesi, anni, prima, dopo, qui, là, la casa dell’infanzia, la mamma che ha bisogno di aiuto … avanti fino al disorientamento temporale, alla difficoltà nel prendere decisioni, alla perdita d’iniziativa ….. I ritmi ridiventano essenziali, ….quelli della natura …. Tutte le domeniche, mi confidò la vecchia, “io mi inginocchio all’esterno e respiro l’odore dell’erba che mi tiene in un’aria di devozione. E’ la mia messa” Tonino Guerra Forse nella loro disperazione notturna, nel loro rimbambimento diurno o nell’irrequietezza perenne, l’aggressività giocata nello spazio chiuso delle loro stanze senza … infinito, la televisione perennemente accesa con le eterne televendite di cose inutili, senza un animale domestico da accarezzare o di cui prendesi cura, senza verde, senza erba da odorare o toccare in ginocchio … forse vogliono mandarci il messaggio, un invito a riprendere i contatti con la natura, tornare a considerarci parte integrante di essa prima che sia troppo tardi. Riconosciamo le persone, il loro ruolo, quello che possiamo attenderci da loro, che dobbiamo loro dare, quello che assolutamente non possiamo fare …… a poco a poco i ruoli scompaiono : il direttore, il padrone di casa, il capoufficio, il politico .. a poco a poco scompaiono, e poi anche la vicina, la cugina, il marito, la moglie, i figli …. Poco a poco tutti scompaiono, ma resta viva la memoria dell’affetto che lega. Vado a trovare Berta nella bella RSA che la ospita da qualche mese. Mi accoglie con vivo piacere, passeggiamo a braccetto nei corridoi “Dimentico i nomi – mi dice – ma ricordo l’affetto. Sono contenta che sei venuta a trovarmi ….” Sento che in casa di cura il personale sta parlando di una ricoverata terribile, ha colpito il medico che le si è avvicinato, accoglie a pugni le infermiere … tutti la fuggono. Credo di conoscerla, è una persona dolcissima, dignitosa, consapevole. L’ho curata per molti anni, ho parlato molto con lei, anche della sua morte, A oltre 90 anni e dopo aver superato la morte di un figlio, poche cose fanno paura. L’ho persa di vista dopo l’invio in RSA in seguito ad un ictus, ed ora …. Voglio andare a salutarla (ed accertarmi che sia veramente lei), le infermiere me lo sconsigliano, poi mi accompagnano in stanza mettendomi in guardia. La vedo, legata al letto, con i guantoni che le impediscono di sfilarsi il sondino naso gastrico, tolgono anche il tatto... Provo una grande pena per lei: la donna dolce e dignitosa che ho conosciuto era avvilita e umiliata! Mi vede,

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mi sorride, allarga le braccia e dice “O cara…” Le infermiere sono meravigliate e sorprese, la abbraccio e soffro con lei. Non credo mi abbia riconosciuta, ma sicuramente ha riconosciuto l’affetto che ci legava …. Mi sembra un insegnamento neanche tanto implicito: investire sui sentimenti ripaga, non sui ruoli, sulle formalità, sull’apparenza …. Il contatto con la realtà e le allucinazioni. Grande cosa la mante umana, riesce a trasformare, trascendere la realtà. Attraverso la poesia, l’immaginazione, il sogno ….

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Un raccontino senza pretese di U. Cornia: Una mia amica (…) ha una nonna di centosette anni, che è ancora viva e che lei va a trovare spesso, (…) una volta, poco tempo fa, mentre lei chiedeva alla nonna “Nonna, come va?” la nonna le ha detto che fino ai cento si vive proprio bene, ma dopo cambia tutto in peggio e vivere non è più bello. Alzarsi alla mattina è faticoso, ti fa tutto male, le gambe fanno un male tremendo. Di notte di dormire non se ne parla. Anche il mangiare non è più buono, fanno schifo anche le cose che ti piacevano perché non san più di niente. Non ci vedi più bene, non ci senti più bene. Poi tutto il giorno uno non sa più cosa fare. E poi le ha detto “Per fortuna di pomeriggio và un po’ meglio, perché il nono esce dall’armadio e si fanno due chiacchiere”. In una chiave interpretativa di malattia l’allucinazione è un fenomeno psicopatologico (da curare), ma non potrebbe essere anche un’arma di difesa dalla solitudine, un aiuto per combattere/sopportare la depressione ? E’ proprio una perdita di tempo, in questa nostra realtà di materialità, contingenza e apparenza, esercitare fantasia, sogni, pensiero, poesia, la realtà altra che c’è ma non vediamo, tocchiamo, sfruttiamo, o perlomeno non a sufficienza. La memoria …. si sgretola, si frantuma, viene rubata e con essa la possibilità di “partecipare” agli altri in modo comprensibile la nostra storia. Mi diceva con amarezza Amalia, nelle sue visite in ambulatorio che si ostinava a fare da sola, nonostante i deficit evidenti di memoria “non riesco a trattenere quello che mi dice. E’ come se le parole si appoggiassero su una palla lucida e subito scivolassero giù senza lasciare traccia”. Scrive ragazzi crucci, invece

Garçìa Marquez a 90 anni (riportato da Veronesi) “Oggi rido dei di ottant’anni che consultano il medico spaventati da questi senza sapere che a novanta sono peggiori, ma non importano più: è un trionfo della vita che la memoria dei vecchi si esaurisca per


le cose che non sono essenziali, ma che di rado venga meno per quelle che ci interessano davvero. Cicerone l’ha illustrato con una frase: Non c’è vecchio che dimentichi dove ha nascosto il suo tesoro.” Nella m. di Alzheimer sembra che la memoria andandosene, lasci una landa desolata, assolata, sconsolante. Ma cosa ne sappiamo? Alcune forme di memoria sopravvivono in modo quasi indistruttibile (come la risposta alla musica). Non scompare la malattia, non torma la memoria quando una persona ascolta o suona la musica che gli piace, ma la percezione, la sensibilità. l’emozione e la memoria musicale possono sopravvivere anche quando altre forme di memoria sono scomparse da tempo ed esercitarle, al malato dà dei momenti di tregua e di serenità ed a chi partecipa all’esibizione, una considerazione diversa del malato demente (O. Sacks ). Allora cosa aspettiamo a prepararci dei piccoli giardini, delle piccole oasi che persisteranno nel deserto della memoria rubata, dove possiamo per brevi tratti, con una consapevolezza frammentaria e interrotta, ritrovarci per noi e per gli altri? Cosa aspettiamo a sentire come fondamentale il dovere di garantire agli altri (all’infanzia in particolare) ed a noi stessi una vita gioiosa e serena, sapendo che essa ritornerà a popolare i nostri giorni e le nostre notti semmai dovessimo trovarci nel crepuscolo della ragione? E si potrebbe continuare ancora per molto, da sintomo a sintomo, da persona a persona, da una anomalia comportamentale all’altra ……a cercare significati e sollievo. Ma può essere un nostro esercizio di vita quotidiana! (….) Spelato, scialbo, di lunga vita, di lunga morte stanco. Secco risuona, rauco il suo canto. Suona caparbio, angoscioso, ancora per un’estate, per un inverno ancora. (Herman Hesse) L’aspettativa di vita oggi è abbastanza elevata, il rischio di sviluppare una demenza aumenta con essa. Che fare? Se non facciamo nulla, né in noi né attorno a noi, ci renderemo conto, quando il gallo canterà di aver tradito noi stessi, la nostra umanità. In conclusione: Alzheimer: malattia o diverso modo di vivere? Alzheimer: malattia e diverso modo di vivere! …e da qui ripartiamo per guardare con altri occhi, con due occhi a questa drammatica esperienza umana.

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Una malattia che distrugge la vita. Ma è proprio vero? Prof. Marcello Farina

1.

La

doppia

dimensione

(l’ambiguità)

dell’invecchiare.

Un bel racconto indù ci invita a distinguere quattro fasi (o stadi) nella vita di ogni donna e di ogni uomo: - c’è, anzitutto, lo stadio in cui “si impara”, il momento che si dipana nella conoscenza del mondo circostante e della storia che ha coinvolto popoli e persone nella ricerca di forme di vita praticabili. Esso è come l’infanzia dell’umanità, segnata dalla curiosità e dalla voglia di esplorare la realtà; - c’è poi lo stadio in cui “si insegna” o “si servono” gli altri, il momento in cui si mettono a frutto le conoscenze acquisite e si lavora per sé e per gli altri. Esso è come una sorta di età matura, in cui si dà, si progetta, si porta a compimento ciò che si è sognato, desiderato, coltivato nell’epoca precedente; - c’è, subito dopo, lo stadio in cui “si va nel bosco”, cioè il momento del silenzio, della riflessione, del ripensamento,nel quale, passeggiando tra gli alberi, si rimettono in ordine le memorie. Esso è come il luogo della sedimentazione di ciò che si è visto, ascoltato, intrapreso, amato, così che nulla vada disperso o diventi insignificante; - c’è, infine, lo stadio in cui si impara “a mendicare”, cioè il momento in cui ci si accorge di “aver bisogno degli altri”, di “dipendere” dagli altri. Esso è come un prendere coscienza che il valore della vita più autentico e profondo sta nel riconoscere il legame necessario e incontrovertibile che tiene insieme singoli e popoli, donne e uomini, ricchi e poveri, sapienti e ignoranti. Per il saggio indù l’andare a mendicare è il sommo della vita ascetica e lo stadio più alto dell’esistenza umana. Mi sembra molto bello questo racconto, per il fatto che, mentre riserva un solo stadio per l’età giovane (quella dell’”imparare”) e per l’età adulta (quella dell’”insegnare” e del “servire”), esso dilata il tempo della maturità – vecchiaia in due momenti tra loro profondamente complementari: quello dell’”andar nel bosco” (il rimettere in ordine le memorie nel ripensamento) e quello del “mendicare” (riconoscere i legami necessari con gli altri), un interiorizzare le esperienze costruite negli anni e un manifestare all’esterno “il bisogno dell’altro”, cioè la propria dimensione relazionale in maniera più piena e convinta di prima. Quello che è ulteriormente significativo è che entrambe le immagini

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sottolineano una realtà dinamica, in divenire, come a dire che “vecchi si diventa” ciascuno a proprio modo, in termini niente affatto uniformi. È interessante notarlo fin da principio, sottolineando in particolare l’ambiguità che accompagna la percezione dell’invecchiare. Virginia Woolf con ironia esclama: “Non credo che invecchiamo, credo che mutiamo continuamente la faccia che presentiamo al sole”. Montaigne, invece, si consola: “Non sentiamo alcuna scossa quando muore in noi la giovinezza”, cui fa eco nel ventesimo secolo la sua compatriota Simone de Beauvoir, con altrettanto scetticismo: “La vecchiaia è ciò che capita alle persone che diventano vecchie”. Anche quel grande libro che descrive la storia dell’umanità che è la Bibbia porta con sé immagini estreme: la vecchiaia è una sorta di ritorno al paradiso, oppure un declino inarrestabile, una passeggiata tra i ruderi. Abramo Levi, un prete di raffinata sensibilità, scrive: “La faccia del vecchio è come la faccia della luna, che si annulla, quando si decide di procedere alla sua conoscenza. Alla faccia della luna si possono attribuire con uguale facilità e verità sia i caratteri della fata buona, sia quelli della strega cattiva. Non era lontana da questa verità quella bambina che chiedeva, impertinente, a una vacchia, tutta rughe e grinze e il naso che le toccava il mento: “Ma tu, quando diventi strega?” (in Servitium, n. 94, pp. 62-63). 2.

L’identità negata: essere vecchi.

“Oggi si allunga la vecchiaia, non la vita”, così traducono oggi molte persone il detto latino “senectus ipsa morbus”, sottolineando così che la vecchiaia è l’età del tramonto, della fine di ogni progettualità, quindi il tempo del declino, cioè un’età caratterizzata dal progressivo venir meno di qualità positive, a causa del passare del tempo, percepito come qualcosa che distrugge e divora (vecchio, qui, da vetus, anno o ciclo che passa!) Certo, in alcune situazioni, per esempio nell’ambito rispetto alla cerchia famigliare, il vecchio è anche il testimone privilegiato delle tradizioni culturali e religiose, che fonda il bisogno di continuità del gruppo di appartenenza e regola i rapporti intergenerazionali secondo la cifra del rispetto (vecchio, qui da senex, il soldato ricco di esperienza per le tante battaglie). Un po’ come il vino, senza tirare in campo anche la gallina! Il dato storico più impressionante da tenere presente è che dopo la seconda guerra mondiale si è passati ad un aumento esponenziale non solo della popolazione generale della terra, ma anche dell’aspettativa di vita, fino a farci riconoscere che la componente anziana è nettamente


prevalente nell’odierna società occidentale (occorre tener conto anche di un fatto profondamente umano: le donne e gli uomini di oggi “rischiano” di passare da “vecchi” una grossa fetta della loro esistenza!). Dinanzi a questo fenomeno, soprattutto per la rapidità con cui si è instaurato, la società si è trovata impreparata. Il primo dei saperi – e per lungo tempo unico – come scrive Lucio Pinkus (Servitium n. 163, pp. 17-24) – ad essere interpellato sulla condizione della vecchiaia è stato quello medico, che rispose istituendo cattedre universitarie e reparti ospedalieri di geriatria, nel tentativo più o meno esplicito di circoscrivere il problema alle mere funzioni biologiche, minimizzando la portata psicologico – emotiva e socio – culturale. L’avanzare dell’età veniva, quindi, inevitabilmente associato alla presenza di danni biologici, di fragilità fisica, cioè di malattia, da assumere con atteggiamento di rassegnazione. L’esempio dell’Alzheimer è qui estremamente eloquente: quando cominciavano ad essere annotati con frequenza i disturbi delle funzioni cognitive, si faceva strada la convinzione della loro “fatalità”. Per lungo tempo, almeno fino ai celebri studi di O.Sacks, la medicina ha vissuto e diffuso un senso di rassegnato pessimismo introno a queste malattie e più in generale ha sostenuto l’assunto dogmatico dell’invecchiamento cerebrale. L’analisi sociale, poi, giudicava l’esperienza lavorativa acquisita dagli anziani come inutile, perché, nella maggior parte dei lavoratori, il progredire delle innovazioni tecnologiche, produceva una sensazione di incapacità e di naturale espulsione dal ciclo lavorativo. Veniva meno, si potrebbe dire, la loro identità legata alle “regole dell’arte” professionale. Contemporaneamente, su un piano antropologico, una cultura che considerava (e considera) lo star bene e la giovinezza sinonimi, attraverso l’esaltazione della sessualità, del muoversi e del vivere con … fretta, l’esasperazione della competitività in tutte le manifestazioni del vivere, l’assunzione del narcisismo come ideale di vita, ha rafforzato l’estraneazione della vecchiaia dalle prospettive del nostro vivere (eccetto, paradossalmente, per gli aspetti economici …). Tanta tecnologia, poca o nulla antropologia si potrebbe dire, soprattutto nei confronti dei vecchi. Di fronte a questa situazione molte famiglie non sono più state in grado di far fronte ai problemi posti; nasce da qui, sull’onda dell’emergenza, la soluzione sociale più diffusa, un contenitore per vecchi … o casa di riposo. Soprattutto nei primi tempi queste istituzioni erano molto simili a lugubri anticamere della morte; solo in tempi abbastanza recenti si

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è cominciato a parlare di un’assistenza attenta anche alla personalità delle donne e degli uomini ospiti di quelle strutture. Per i malati di Alzheimer, in questo contesto, l’attenzione dovrebbe essere ulteriormente concentrata, proprio perché, purtroppo, l’ospedalizzazione e il ricovero in casa di riposo nuoce in maniera particolare sia per quanto riguarda il loro comportamento (con conseguente somministrazione di sedativi), sia per la salute in generale. Le condizioni del paziente soffrono per alcuni sintomi disturbanti che alterano la loro vita. Essi, inoltre, subiscono più di altri la dipendenza dalla patogenicità della famiglia. Le presentazioni: “Dottore, io sto peggio di lui”, oppure “Non è ammalato, ma cattivo!”, sono il marchio con cui vengono consegnati ed emarginati: la richiesta di ricovero ne è il logico complemento. Se, come troppo spesso accade, si attua nel senso dell’allontanamento e del disinteresse, risulta più crudele di quanto si possa pensare. Si devono invece cercare soluzioni altamente qualificate, in senso umano e scientifico, le quali esistono e vanno valorizzate e moltiplicate. È all’interno di queste situazioni, tutte diverse una dall’altra, rappresentative di vissuti differenti, di esperienze umane di lavoro e di ricerca spirituale le più disparate, che occorre ritrovare il mondo delle relazioni, superando i pregiudizi di comodo e riflettendo sui percorsi di senso per la vecchiaia. Molte volte, occorre ripeterlo, la principale patologia della vecchiaia è l’idea che ne abbiamo. Se le placche dell’arteriosclerosi, o le lesioni amiloidi dell’Alzheimer sono devastanti, lo sono altrettanto quelle dell’abitudine a un’idea stereotipata e distorta della vecchiaia (e dei pregiudizi che questa comporta). Forse qualcuno di voi conosce il bel testo di Aude Zeller, Alla prova della vecchiaia, dove ella racconta di aver seguito e assistito la propria madre per sei anni nelle vibrazioni del delirio della demenza senile, scoprendo giorno dopo giorno l’inesistenza del non – senso a riguardo di quell’esperienza. “Ha scoperto cioè che tutti i gesti incompiuti, le frasi mozza, le incongruenze, le follie di questa sua prediletta ammalata, erano frammenti della sua biografia, riportavano alla mente schegge di episodi remoti, con cui rivelavano di avere una connessione resa quasi invisibile dalla patina del tempo, dai vissuti successivi, dall’affollarsi delle rimozioni. E la Zeller è colpita, fin dagli inizi, da una sorta di rivelazione: crede che sia possibile, con gli strumenti adatti (non solo tecnici, ma soprattutto umani) e con una dedizione passionale, ricostruire il senso e la continuità della storia di sua madre, ricompattare l’unità della sua persona sconvolta (ma non distrutta) dalla malattia, accompagnarla non solo lungo il tragitto della sofferenza, ma fino alle soglie dell’oltre, della vita che non conosce fine” (in Servitium, n. 163, p. 144).


3.

Tra “tempo” e “corpo” un filo tiene insieme le trame della vita.

Può sembrare patetico ma occorre ricordare , in una società e in un tempo in cui si è invitati a “mostrare i muscoli”, che la realtà dell’uomo è la fragilità, non la forza. Egli giunge alla sua verità non combattendo, ma assumendo la fragilità, la quale gli appartiene da sempre. Anzi, la debolezza è, paradossalmente, condizione per un incontro libero, gratuito, in cui non soverchio l’altro con la mia potenza, ma attivo un veritiero atteggiamento di solidarietà, quello che permette al singolo di presentarsi radicalmente disarmato all’incontro con l’altro. Sono il tempo e il corpo i due ponti che possono essere gettati per un rapporto di solidarietà che unisca insieme sani e malati, giovani e vecchi. Da parte di entrambi si tratta, anzitutto, di stabilire un giusto rapporto con il tempo, tenendo conto della diversa sensibilità nei suoi confronti nelle diverse età della vita e soprattutto nelle diverse condizioni di salute. “Una società che si struttura nella lotta contro il tempo, che inculca l’illusione di restare sempre giovani, che rimuove la morte, non può che rifiutare anche la vecchiaia: e più la morte è sentita come inaccettabile, più i vecchi, che la rappresentano più da vicino, divengono oggetto di vera emarginazione. Si colloca qui il problema di vivere la vecchiaia come avventura spirituale, di fare della vecchiaia un atto. Si tratta anzitutto di cogliere la vecchiaia come un’età della vita, con le sue prerogative e opportunità proprie. La vecchiaia è vita: imparare a invecchiare è imparare a vivere. Jung ha sottolineato la vecchiaia come tempo propizio per l’interiorizzazione e il teologo Karl Barth ha scritto che questa fase della vita offre all’uomo la possibilità di vivere per grazia, non per dovere. Nella vecchiaia semplicemente si è. In questo, la vecchiaia è un’età di verità: non ciò che facciamo ci definisce, ma ciò che siamo. Inoltre l’uomo è pienamente uomo anche nella vecchiaia: abituati a leggere la vecchiaia sotto il segno del meno e della fine, dimentichiamo che l’anziano è colui che ha vissuto di più di altri, e in ogni caso, che proprio nella debolezza dell’anzianità si fa più forte l’imperativo di custodire e aver cura dell’umano che è in noi e negli altri, che ospita noi e gli altri. E ci ospita in tutte le fasi della vita. È un umano, in noi e negli altri, di cui non siamo padroni, ma ospiti” (in L. Manicardi, L’umano soffrire, ed. Qiqajon, pp.109). Imparare a vivere, e a “rivivere”, il tempo è perciò indispensabile per diventare persone autentiche e scoprire la bellezza e la gioia dell’esistenza. Lo stesso vale per il corpo: noi siamo anche la storia del nostro corpo … Il corpo è, perfino, il libro del tempo, su cui restano registrate emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è dietro a noi, ma che è dentro di noi; le posture del nostro corpo non sono innocenti, ma sono il frutto

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di una storia, sono rivelazione ed eloquenza. Il nostro corpo porta iscritte in sé la memoria della nostra origine, del grembo da cui proveniamo. Posture e gestualità del nostro corpo, il modo con cui lo trasciniamo o lo portiamo ben eretto, il nostro essere curvati o ciondolanti, il modo di camminare, le rigidità, sono un linguaggio che riflette il nostro psichismo e i nostri vissuti e che attende interpretazione. Il corpo, anche quello dei malati di Alzheimer, parla e parla un linguaggio che trascende l’espressione verbale. Il filosofo Merleau-Ponty sostiene che noi impariamo la nostra lingua materna attraverso il corpo, non mentalmente e Nietzsche aggiunge che “vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”. Anche nel momento difficile della malattia il corpo è il nostro modo di esservi al mondo, del prendervi parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sue sollecitazioni. Non sono forse due mani che si tendono l’una verso l’altra l’immagine più potente della creazione dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina? E non è quello che può accadere ogni volta nel rapporto solidale tra sano e malato, tra giovane e vecchio nel prendersi cura l’uno dell’altro? Attraverso il corpo può affermarsi con naturalezza il legame solidale tra le persone coinvolte nel sostegno di coloro che portano con sé i segni della debolezza. Mi viene in mente, per concludere, quello che ricordava Alexander Langer a coloro che avessero avuto voglia di cercare una modalità di vita più umana e più vivibile: si trattava di abbandonare lo stile convulso degli atteggiamenti diffusi, descritti dai tre avverbi citius, altius, fortius (più veloci, più alti, più forti) con l’acquisizione dei tre avverbi della distensione, della calma, dell’umanità gustata e comunicata: lentius, profondius, suavius (più lenti, più profondi, più soavi). Forse, con le persone che accostiamo, queste parole possono diventare uno stimolo per una relazione più ricca e significativa.


Testimonianze 1° Familiare Rovereto Sono una casalinga, con famiglia, un marito e tre figli, come penso ce siano tante. Ho avuto la mamma affetta dalla malattia di Alzheimer. La mamma era una casalinga, con 5 figli, vedova, che viveva da sola dopo la morte di papà; era una donna molto dolce e mite, le piaceva molto la sua casa, il suo appartamento. I suoi hobby erano uncinetto, lavorare a maglia, cucito; lei viveva per i suoi figli. Io sono la terza dei 5 figli e penso di aver avuto un rapporto privilegiato con la mamma, più che madre e figlia eravamo anche amiche perché ci scambiavamo molte confidenze. Non so ben dire quando mia madre cominciò ad avere i primi sintomi, perché per lei era abbastanza normale scambiare i nomi dei suoi figli e anche non ricordare dove aveva nascosto certe cose. Noi figli la prendevamo in giro per questo da sempre; per noi era disattenta, non prestava attenzione a quello che faceva e se poi si agitava era peggio. Dopo la morte di papà viveva da sola. Con l’andar del tempo ci eravamo accorti che sempre più spesso dimenticava il gas acceso, non si ricordava cosa aveva mangiato a pranzo o a cena, oppure per non far vedere che non si ricordava rispondeva sempre allo stesso modo, cioè aveva mangiato sempre le stesse cose; inoltre mi telefonava sempre più spesso per sapere come si cucinavano cose molto semplici. Lei che cucinava da sempre si trovava in difficoltà. In quel periodo aveva avuto un piccolo incidente ad una gamba ed era stata costretta a venire a casa mia; lì mi sono accorta di quante cose non andavano. Se prima erano cose non ricordate, ora erano anche azioni che non ricordava. Se al mattino le facevo i capelli, il pomeriggio non se ne ricordava più; anche le medicine non sapeva sempre dire se le aveva prese. Solo allora stando tante ore assieme, parlando con lei mi confidava quante volte aveva buttato via il cibo perché lo aveva salato 2 volte, o di quante notti passava a rovistare in casa perché non si ricordava dove aveva messo il portafoglio, o qualche documento, o gli occhiali, o qualche altra cosa. Quando dopo due mesi rientrò a casa sua, abbiamo deciso di farle portare i pasti, chiudere il gas e metterle una piastra elettrica; per le medicine le preparavo un blister settimanale, mentre per riscaldare il cibo usava il microonde che sapeva già usare da tempo. Contattando l’assistente sociale per i pasti, mi dissero di convincerla a frequentare il Centro Diurno per anziani, visto che non aveva molti contatti al di fuori dei suoi familiari. Dopo non poche resistenze riuscimmo a convincerla almeno a provare; così

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cominciò a frequentare per 2 o 3 volte in settimana. A lei piaceva e noi figli eravamo più tranquilli perché in quei giorni aveva la possibilità di fare delle attività che a casa non avrebbe fatto: passeggiate in compagnia, qualche gita, festicciole, ginnastica, mangiare in compagnia. Nei giorni che non frequentava il Centro, o lei veniva a casa mia o io andavo da lei. Però quando era a casa da sola andava in depressione, piangeva, ma non sapeva per che cosa; se veniva a casa mia dopo un po’ voleva tornare a casa sua. Molte volte era un andirivieni dalle 2 case; specialmente quando iniziava a fare buio voleva tornare a casa, senza un motivo vero. Lì era ancora in grado di vestirsi, prepararsi la colazione, andare al Centro Diurno con il pulmino che la veniva a prendere; guai se le si proponeva di venir via da casa sua per andare a vivere con un figlio: rifiutava energicamente, si sentiva autosufficiente. Poi venne il momento che si rese conto che non poteva più stare da sola. Aveva avuto un attacco al trigemino e si trovò in difficoltà a chiamare aiuto per telefono; questa malattia nel male fu anche una fortuna perché la fece decidere. In quel frangente con una sorella si decise di ospitarla 6 mesi per ciascuna di noi. Questa soluzione andò avanti per circa 1 anno e mezzo abbastanza bene, a parte i periodi di assestamento tra gli scambi; la mamma sentiva la differenza fra le due famiglie che si alternavano: abitudini diverse, zone diverse, cibi diversi, ritmi diversi. Ad un certo punto la mamma non accettava più di andare al C.Diurno, faceva fatica ad accettare i loro ritmi e aveva difficoltà di rapporti con il personale; la diagnosi di Alzheimer è di quel periodo. Avevo sentito parlare di questa malattia, ma molto marginalmente, solo per sentito dire. Non ne sapevo niente e mi ricordo che quando mi fu comunicata dallo specialista chiesi subito dove mi potevo rivolgere per avere informazioni e documentarmi su questa malattia che sapevo non facile. Lì ebbi il primo contatto con l’AIMA di Rovereto; informai i miei fratelli di quello che mi era stato detto e consegnai anche a loro la documentazione che mi era stata consegnata dicendo che anche loro dovevano informarsi per capirne di più. Fino a quel momento tutte le problematiche mediche che avevano avuto i miei genitori erano state delegate a me, ma ora ritenevo giusto che dovessero intervenire anche loro. Io avevo preso una decisione: fino a quando avrei potuto, avrei cercato di tenere mia madre nel suo ambiente; non accettavo l’idea di metterla in una casa di riposo. Tempo addietro quando si parlava di questo con lei, quando lei


stava ancora bene, lo vedeva come una sofferenza o come una punizione, ed io di rimando le avevo promesso che avrei fatto tutto il possibile per non arrivare a questo. Aveva lavorato tutta una vita per poter allevare i suoi figli, non lo vedevo giusto; il mio pensiero era che eravamo in 5, se ognuno avesse fatto un po’, anche se difficile si poteva gestire a casa. Ma non fu proprio così. Nel giro di poco tempo le cose erano precipitate; avevo continui conflitti con i miei fratelli, solo uno era d’accordo su quello che avevo in mente di fare. Vidi la mia famiglia d’origine sfasciarsi per discussioni e punti di vista diversi, anche paure diverse. La mamma era diventata aggressiva ed aveva allucinazioni; solo più tardi capii il perché di questo aggravamento. Avevo pregato i miei fratelli di tener fuori dalle nostre discussioni la mamma; scoprii invece che la coinvolgevano; non pensavano, o meglio non capivano che stavano parlando ad una malata di Alzheimer, anzi facevano leva su di lei per ferirmi e contraddirmi. Non si erano neanche interessati di capire i suoi comportamenti ed i modi più adatti per gestirla. La mamma sentiva questo clima di conflitto e di rimando era diventata aggressiva: prima a parole, poi con i fatti. In quel periodo la ospitò mia sorella per un mese: la fece impazzire; mia sorella decise che non voleva più ospitarla a casa sua. Per lei la soluzione era solo la casa di riposo, visto che secondo lei la badante non sarebbe stata accettata da mia madre. Io dissi ai miei fratelli che se quella era la loro decisione, ed erano 3 su 5, io avrei provato a portarla a casa sua nel suo appartamento per un mese con la mia assistenza e poi si vedeva. Con l’AIMA ne avevo già parlato e mi era stato detto che in questo momento questa poteva essere la soluzione migliore. Per me questo fu uno dei periodi più duri; in attesa di trovare una badante stavo in casa della mamma giorno e notte. Se veniva qualcuno dei miei parenti ne approfittavo per andare a casa mia almeno per organizzare i pasti; oltre alla mamma e alla mia famiglia da gestire, avevo anche il compito di provare i vari medicinali per trovare quello più adatto e la dose più efficace, tenendo conto che non sempre erano senza controindicazioni o erano positivi. In compenso però la mamma tornando a casa sua e anche con l’aiuto di medicinali adeguati, dopo circa 15 giorni aveva trovato più stabilità e stava meglio; era più serena, non sembrava più la persona di prima . Visto che l’esperimento era andato bene, adesso dovevo trovare anche una badante; la prima fu un’esperienza deludente perché dopo 2 giorni se ne andò. La seconda mi fu presentata da un parente; aveva lavorato per lui e mi assicurava che era una bravissima persona.

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Infatti questo mi tranquillizzò, perché ero molto titubante a lasciare mia madre con una persona che non conoscevo, per di più con la mamma che non sapeva dirti le cose in modo affidabile. Dovevo tener conto anche che la badante non aveva mai gestito una persona con l’Alzheimer , perciò dovevo anche cercare di trasmettere tutto quello che sapevo su questa malattia. Piano piano, un po’ alla volta, mia mamma accettò questa persona, la badante cominciò a conoscere mia mamma, a cucinare le cose che le piacevano. Lei cucinava in maniera molto diversa, parlava abbastanza bene l’Italiano, ma capiva molto poco le frasi in dialetto. La mia ora non era più un’assistenza a tempo pieno, ma richiedeva sempre una buona dose di impegno e di tempo. Le medicine, il medico, lo specialista, incartamenti vari, la spesa per lei e la badante, le ore di libertà della badante ed anche il suo giorno libero erano cose che dovevo gestire io. La mia presenza era quotidiana; succedeva anche che per qualsiasi cosa avesse la mamma, per esempio la tosse, la febbre, i comportamenti difficili da gestire, l’insonnia, la badante mi chiamasse a qualsiasi ora del giorno e della notte. Con lei avevo risolto solo in parte il problema. I miei parenti, uno in particolare, non avevano accettato questa badante e non perdevano un’occasione per criticarla, riprenderla, ferirla; mi ritrovavo spesso a sostenere anche la badante e a cercare di minimizzare le cose, i contrasti, smorzare le discussioni specialmente in presenza di mia mamma. Io continuavo ad avere contatti con persone che avevano avuto esperienze simili, a seguire incontri dove spiegavano e formavano per questa malattia. Molte volte sono andata in depressione nel vedere che non solo tutto era caricato sulle mie spalle, ma anche che dovevo scontrarmi con i miei fratelli per il benessere di mia mamma. Dei miei parenti solo mio marito e una cognata in quella fase mi facevano forza per andare avanti, mi dicevano di non mollare, perché se avessi ceduto ci sarebbe andata di mezzo solo mia madre. Nei miei alti e bassi avevo maturato anche un’altra consapevolezza; dovevo andare avanti senza guardare ciò che mi circondava, dovevo fare quello che io mi sentivo di fare, senza guardare i miei fratelli, altrimenti non sarei andata da nessuna parte. Eravamo in conflitto, prendevo quello che si offrivano di fare, senza chiedere od imporre qualche cosa, e non tutti lo facevano. Mio marito mi aiutò molto, molte volte la sera quando raccontavo i fatti successi nel giorno, le mie perplessità, le cose che mi facevano star male, mi aiutava a vederle sotto un altro aspetto, a vederle in modo diverso, riuscivo a scaricare tutte le tensioni accumulate, prendevo più serenamente delle decisioni, cercando il modo migliore per portare avanti le difficoltà, non solo immediate, ma anche quelle che si sarebbero presentate nel futuro.


Un’ altro aiuto grande è stato lo specialista neurologo; tutte le volte che io andavo da lui anche senza preavviso, per una difficoltà di gestione di mia mamma, per una regolazione delle medicine, o per qualsiasi altra cosa legata all’Alzheimer o alle malattie di mia mamma, ho sempre trovato tantissima disponibilità ad ascoltare e a cercare una soluzione ai problemi che ponevo. Anche con l’AIMA di Rovereto mi sono fatta tantissime “diciamo chiacchierate” per poter dipanare i dubbi e le difficoltà, mi ritengo molto fortunata ad aver avuto questi pilastri che mi sostenevano. Avevo sentito parlare dallo specialista di un progetto di un centro diurno per malati di Alzheimer che doveva essere aperto dopo qualche mese a Rovereto e sarebbe stato adatto alla mamma e di aiuto per me. Mi interessai con l’assistente sociale e appena fu pronto inserii mia madre in questo centro; il primo periodo di inserimento fu abbastanza duro. Secondo la mamma lei non poteva stare lì; mi diceva che doveva andare a casa a cucinare il pranzo per i suoi figli e inoltre insisteva: non vedi che sono in mezzo ai vecchi? (Da notare che lei era la più anziana di tutti). Piano piano però si ambientò; al mattino verso le 9 la portavo al centro e il pomeriggio verso le 17 la ritiravo per riportarla a casa. In quel periodo l’ho vista anche ballare, cosa che non aveva mai fatto; se al mattino partiva con qualche titubanza, la sera quando andavo a prenderla mi accoglieva con un sorriso e mi abbracciava felice. Sempre in quel periodo, tre dei miei fratelli che non si erano interessati ai vari aspetti e problemi dell’Alzheimer, andarono al C.Diurno per vedere se potevano ritirare mia madre dal Centro, perché erano contrari a questa soluzione. In quell’occasione una mia sorella capì che il Centro non poteva far altro che del bene a mia madre; per lei ammettere questo voleva dire entrare in conflitto con gli altri due. Non volevano che andasse al Centro perché poi la badante cosa avrebbe fatto a casa? Con mia madre al centro lei non serviva. Non tenevano conto che la badante si alzava anche tre o quattro volte ogni notte per mia madre, riusciva fare tutte le sue ore di libertà senza doverla sostituire; poi c’era anche il sabato e la domenica quando il Centro era chiuso, c’erano gli imprevisti che non permettevano a mia madre di frequentare il Centro, come indisposizioni, febbre, influenza, etc. Inoltre, se lei se ne andava, voleva dire cercare e istruire nuovamente un’altra persona in un futuro più o meno prossimo, senza contare le difficoltà che questo cambiamento avrebbe provocato alla mamma. Fra l’altro io mi stavo rendendo conto che con un eventuale aggravamento della malattia la permanenza al Centro non sarebbe durata a lungo, anche se speravo che questo avvenisse il più lontano possibile.

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Con il Centro era più semplice gestire la mamma; parlavo con gli operatori, c’era la psicologa che monitorava sia la mamma sia il famigliare(care giver), si poteva controllare assieme se la terapia andava bene, c’era la possibilità di consultarsi con il neurologo. Vedendo la mamma tutto il giorno, vedevano i cambiamenti ed i peggioramenti che avvenivano. Dopo circa un anno che la mamma frequentava il Centro ebbe episodi di broncopolmonite bilaterale e dovette essere ricoverata ; in ospedale aveva bisogno di assistenza 24 ore su 24. Nel frattempo cominciavano ad aumentare gli episodi di vagabondaggio, “wondering”. A casa avevamo coperto gli specchi, perché quando si guardava si arrabbiava perché la persona riflessa non le rispondeva; avevamo portato via tanti sopramobili perché lei li spostava in continuazione e avevamo paura che si facesse del male. Le avevamo tolto gli anelli ed anche l’apparecchio acustico perché se li toglieva e se li metteva in bocca; così però aveva anche più problemi di udito, aggravando quel po’ di comunicazione che era rimasta. Toglieva le coperte e le lenzuola in continuazione; trafficava con i suoi vestiti nell’armadio; i cassetti poi erano la sua passione: toglieva tutto ciò che c’era, poi rimetteva tutto dentro e poi li svuotava ancora. Si doveva controllare in continuazione che non facesse qualcosa che la potesse danneggiare. Un giorno al Centro Diurno mi dissero che visto l’aggravamento si dovevano ridurre le ore di frequenza; poteva frequentare solo al mattino e quindi subito dopo pranzo la si riportava a casa. Si offerse di aiutarmi anche mia sorella, visto che poteva avere dei brevi permessi settimanali dal lavoro. Era una sofferenza vedere mia madre che si spegneva; se prima lei mi confidava: “vedi io dentro so cosa vorrei, ma non riesco a dirlo!”, adesso uscivano solo delle frasi scombinate che mi sforzavo di interpretare, per capirne il senso. Non si riusciva più a fare un dialogo; non riuscire più a comunicare con lei, fu uno dei periodi più dolorosi. Dopo pochi mesi si ripetè un’infezione polmonare e dovette essere nuovamente ricoverata. Dopo circa 2 anni che la badante era lì, mi disse che ritornava a casa perché aveva problemi familiari e non sarebbe più tornata. Dopo una nuova ricerca e anche con l’aiuto dell’AIMA, trovai una badante che aveva già assistito 2 persone con l’Alzheimer; fu una grande fortuna, perché sapeva benissimo come si doveva comportare con un malato del genere, aveva esperienza! Mia madre non avvertì lo scambio, anzi si trovò meglio. Dopo qualche mese la mamma si ammalò e non fu più in grado di andare al C. Diurno. Era sempre più rallentata nei movimenti; in casa camminava da sola, ma per uscire usava la carrozzina. Al solo guardarla capivo come andava, non servivano parole; l’espressione del viso, i suoi occhi parlavano per lei. In quel periodo si erano accentuati


gli alti e bassi di salute; ogni giorno era diverso, aveva molti piccoli problemi e questo aumentava le mie difficoltà di poterla gestire. Per esempio aveva una micosi in bocca e nonostante avessi provato tutte le medicine del caso, non ottenevo risultati. Ad ogni rialzo di temperatura o del catarro, si ricorreva a terapie antibiotiche per prevenire complicazioni, anche se questo la debilitava; d’altronde i raggi X non si potevano fare in ogni momento. I disturbi comportamentali gravi non c’erano più, ma aveva bisogno di più cure mediche. Tre mesi dopo fu necessario un altro ricovero dove mi dissero di darle tutto frullato, perché aveva difficoltà a deglutire ed era questo che le procurava queste infezioni polmonari recidive; in ospedale ebbe anche un attacco di cuore. Tornò a casa; ora era costretta sempre sulla carrozzina e a letto. Bisognava essere in due per spostarla dalla carrozzina al letto e viceversa, anche perché se non si sentiva sicura, oltre a non riuscire a stare più sulle gambe, veniva a tremare e si irrigidiva; era troppo pericoloso spostarla da soli. Dopo l’ultima crisi, su consiglio del medico, mi ero equipaggiata anche di ossigeno per precauzione; lo usavo nei momenti in cui vedevo che lei aveva difficoltà a respirare. Ora aveva cominciato ad usare il pannolone, mentre fino allora si teneva pulita; da tempo non si alimentava più da sola, ora impiegavamo più di un’ora per alimentarla. Quando avevo parlato con il neurologo mi aveva detto che ormai eravamo nell’ultima fase; con una persona dell’AIMA, che aveva avuto un’esperienza simile, ebbi un’incontro per capire come potevo portare avanti la situazione e cosa mi aspettava. La necessità di una assistenza continua, la necessità di essere presenti in 2 persone per spostare la mamma, la necessità di lasciare le ore di libertà alla badante e la poca disponibilità dei miei parenti ad aiutarmi, mi hanno convinta a prendere una seconda badante. La mamma non riusciva più a parlare, non diceva più neanche una parola. Questo ultimo periodo fu per me un dramma, una grande sofferenza, anche se cercavo di essere preparata a viverlo. Mia madre si aggravava sempre di più e io non sapevo come curarla; ritenevo necessario un servizio infermieristico perché io non avevo esperienza in questo ambito. Purtroppo solo quando si sono manifestate le piaghe da decubito, è stato attivato un servizio infermieristico per curarla. Dopo circa 10 giorni ci fu un altro aggravamento; non beveva e non mangiava più. A quel punto furono attivate le cure palliative, ma purtroppo dopo tre giorni la mamma si è spenta. Ora non aveva più bisogno di niente. Da quel momento, io ho cominciato un altro difficile cammino per metabolizzare il dramma che avevo vissuto, cammino che stò ancora facendo.

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2° Familiare Rovereto Come vive il familiare accanto al malato? L’alzheimer esige la solidarietà non la rassegnazione.

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Quando lo specialista, dopo aver visitato il paziente, chiama il suo accompagnatore per dirgli che la persona accompagnata ha la malattia di Alzheimer, si apre un nuovo, inquietante periodo di vita per l’ammalato, per il quale non ci sono ancora cure risolutive, ma soprattutto per le persone che gli stanno attorno, in particolare per “quella” persona che prende il nome -inglesedi caregiver, colui che si prende cura. Perciò, dopo aver ascoltato l’esperienza esemplare di Rita, faccio anch’io alcune considerazioni, basate sulla mia esperienza personale, quindi mie, ma -penso- condivisibili con l’esperienza di chiunque viva o abbia vissuto questa avventura. Per prima cosa il verdetto medico: Mi dispiace dirLe che la signora che Lei ha accompagnato è affetta dalla malattia di Alzheimer. Shock! Mi sono sentita gelare, anche perchè non sapevo bene che cosa era questa malattia, come si sarebbe evoluta, come avrei dovuto affrontare i molti giorni che mi aspettavano, a chi mi sarei dovuta rivolgere per avere aiuto, quanto avrebbe inciso economicamente la cura... insomma una ridda di interrogativi mi sono passati per la testa in pochi secondi, il tempo intercorso tra quella prima frase del medico e la seconda: Però possiamo curarla con dei farmaci specifici che permetteranno alla signora di avere una buona qualità di vita. Alla mia richiesta di avere informazioni maggiori sull’Alzheimer, di cui conoscevo appena il nome, ho avuto il primo segno tangibile di solidarietà per me. Già, perchè la solidarietà verso l’ammalata, mia zia, per me era scontata. Mi rendevo conto che da quel momento avrei dovuto aiutarla io, per il fatto che non aveva figli che potevano accudirla ed ero la nipote più vicino a lei. Il neurologo mi ha fornito del materiale informativo ed ha aggiunto: “Si faccia aiutare, altrimenti, invece di curare la paziente dovrò curare Lei”. Da lì è incominciata un’avventura che ha modificato la vita di mia zia e anche la mia, perchè ho dovuto sperimentare tutta una serie di pensieri e di atteggiamenti, prima di tutto il rifiuto di questa situazione, poi il non sapere bene come sarebbe andata, soprattutto nelle prime fasi della malattia, ed è stata veramente dura. Leggendo e successivamente cercando ulteriori informazioni sono entrata nel mondo di questa malattia estranea, imprevedibile- anche se ci sono fasi per così dire codificate- angosciante, inelulttabile... Insomma mi sono fatta un’idea di come questa andava avanti, ma il bello doveva ancora arrivare, perchè non avevo ancora interiorizzato un comportamento razionale:


praticamente ero ancora “arrabbiata” con mia zia, che non capiva, che mi costringeva a seguirla giorno dopo giorno, che non si comportava secondo i canoni del buon vivere, che mi faceva fare brutte figure. Nella sua fase di wandering avevo fantasie mortifere nei suoi riguardi: se magari finiva sotto un camion o non la trovavamo più... Ero preoccupata e nello stesso tempo pensavo che se le fosse successo qualche cosa di brutto almeno era finita quell’angoscia, ma immediatamente mi pentivo di aver solo pensato una cosa simile. Infatti ero terrorizzata se non la trovavo a casa sua all’ora solita. Andavo a cercarla e dopo averla trovata magari dietro l’angolo di casa, la sgridavo, l’ho fatta anche piangere. Poi piangevo anch’io, piena di sensi di colpa, consapevole, della mia impotenza di fronte al fatto che mia zia non era più quella che era e non c’era praticamente niente da fare. Ero sola perchè i miei parenti, pur appoggiandomi (Tu sei brava, sei forte...), mi hanno scaricato addosso tutta l’organizzazione della vita di questa ammalata. Mi sono anche resa conto che la malattia di Alzheimer mette le persone di fronte a scelte difficili: io mi ero caricata eccessivamente di tutte le responsabilità, mentre gli altri le rifiutavano, non credo per cattiva volontà, ma per una forma di inadeguatezza che probabilmente non riuscivano a superare e così però rifiutavano mia zia, allontanandosi sempre di più da lei e anche da me. Occhio non vede, cuore non duole. Mi davo da fare per ottimizzare la situazione (non sto a raccontare l’iter burocratico per ottenenere ciò che semplicemente era un diritto avere, dagli ausili all’assegno di accompagnamento ecc.). Quando facevo una domanda, una richiesta in qualche ufficio, ottenevo le risposte adeguate, ma mi sentivo quasi come chi chiede l’elemosina, perchè dall’altra parte c’era la professionalità, col suo linguaggio burocratico, ma comunque con una certa freddezza. Per lo meno la percepivo così. Avevo sensi di impotenza e di colpa nei confronti di mia zia, per la quale avrei voluto fare di più, e della mia famiglia, che trascuravo, correndo sempre all’impazzata al lavoro, da mia zia, a casa, sempre con l’ansia, pensando spesso che tutto quello che faceva era inutile... E allora: altra svolta dell’avventura. Ho cercato una badante, dopo varie peripezie l’ho trovata, ma il sollievo per me è stata minimo, perchè chi andava dai medici, risolveva tutti i problemi, andava in farmacia, comperava a mia zia ciò di cui aveva bisogno? Sempre io, sempre da sola, senza trovare un pò di solidarietà da nessuno. O forse non sapevo come trovarla. Col senno di poi ho capito che era anche un pò colpa mia se ero da sola, perchè mi sentivo talmente indispensabile che non chiedevo neanche aiuto e chi aveva l’intenzionedi darmene vedeva che c’ero sempre io e allora lasciavano a me

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l’onore e l’onere. Voglio dire che forse sarebbe meglio cercare di coinvolgere anche qualcun altro che sollievi il tuo carico, soprattutto all’interno della famiglia. Qualche amico si faceva vivo ogni tanto per chiedere come andava ed era già qualche cosa. Le amiche di mia zia... praticamente volatilizzate. Una, incontrandomi, mi ha detto chiaramente che non se la sentiva di vedere la sua cara amica “così cambiata”. E io penasavo “perchè non viene a fare coraggio a me, che ne ho bisogno?” Per mia fortuna c’era sempre il neurologo da cui andavo a “confessarmi”, da cui ricevevo un’iniezione di sicurezza. E’ merito suo se è nata la nostra associazione. Lì ho trovato altre persone che come me affrontavano questo cammino, ho trovato comprensione, amicizia, condivisione dei miei problemi, momenti di formazione e di informazione. Ho imparato ad essere più forte, più razionale. Non ero sola! Potavo parlare dei miei problemi con qualcuno che mi ascoltava e mi comprendeva veramente. Addirittura potevo offrire la mia solidarietà a chi come me aveva sofferto solitudine e mancanza di sostegno. La parola solidarietà aveva preso davvero il senso di “sentirsi moralmente unito e solidale con gli altri”. Ma fuori di lì “solidarietà” che significato ha? Qualche giorno fa ho cercato su un motore di ricerca le parole Alzheimer+ Solidarietà: le indicazioni trovate erano moltissime e si poteva vedere come in tutta Italia la solidarietà verso questa malattia è veramente grande. Mi sono fermata alla pag. 27, ma la ricerca poteva andare avanti per un’altra cinquantina di pagine: c’era l’indicazione di numerosi gruppi di volontariato che fanno gare sportive, vendite di fiori, concerti, tavoli informativi in piazze di tutto il paese, organizzano incontri sulla malattia di Alzheimer, associazioni che si interessano della malattia e degli ammalati, gruppi di ascolto per i familiari, dalla Valle d’Aosta al più profondo sud della Sicilia,... insomma in Italia c’è una grande sensibilità verso il problema. Ma allora perchè il caregiver si sente così spesso solo? Alla nostra associazione arrivano persone disperate, che non sanno più dove letteralmente sbattere la testa, e da noi vengono ascoltate, trovano almeno un pò di conforto, oltre che indicazioni su come affrontare il loro calvario. Da un pò di tempo hanno preso l’abitudine di trovarsi una volta al mese presso la nostra sede i parenti degli ammalati che frequentano il centro diurno Alzheimer di Rovereto ed altri interessati ad avere informazioni. Là trovano risposta alle loro domande, ai loro dubbi, aiutate spesso da un esperto. Da questi incontri escono rinfrancati, accettano con maggiore consapevolezzale le contraddizioni dei sentimenti che provano prendendosi cura di un ammalato, alleviano un pò la tristezza, la depressione, il senso di impotenza che gli


accompagna... Ci risulta tuttavia che la maggior parte delle persone che si prendono cura di un ammalato di Alzheimer sono ancora in balia di se stesse. Si chiudono nel loro dolore e rifiutano addirittura anche il minimo aiuto. Perchè? Io non ho una risposta, ma ho pensato questo: noi cresciamo ognuno nel nostro ambiente familiare e sociale, con un certo tipo di educazione, con gli stereotipi che il nostro ambiente stesso ci fornisce, con i nostri credo, tutte cose che ci tiriamo dietro e che formano la nostra persona. Di fronte ad una disgrazia abbiamo un comportamento che ci viene dal nostro bagaglietto personale: cerchiamo di essere forti, non ci lasciamo andare a urla di disperazione, assumiamo un atteggiamento dignitoso. Ma non è proprio questo che forse ci fa chiudere la porta a chi ci tende una mano per darci aiuto? E’ forse questo che ci fa essere –stupidamente o disperatamente- orgogliosi di essere capaci di bastare a noi stessi? Ci hanno sempre detto fin da piccoli che di fronte alle avversità si deve mostrare la capacità di saperle affrontare coraggiosamente. Domandare aiuto è una cosa da deboli. E’ la famiglia il tuo punto di forza e le disgrazie si affrontano in casa, tanto non c’è nessuno che ti può aiutare. Non si deve disturbare gli altri per cose private. Quando poi arriva l’Alzheimer in casa, si va in tilt.Demenza senile di tipo Alzheimer. DEMENZA!!! Questa parola fa orrore, e penso che proprio qui il nostro bagaglio di conoscenze ed educazione ci gioca un brutto tiro. Nel linguaggio tecnico essa ha un significato ben preciso, cioè perdita progressiva della memoria, ma nel linguaggio comune è sinonimo di pazzia. Vedere per credere un qualsiasi dizionario della lingua italiana di qualche anno fa: perdita parziale o totale dell’intelligenza, che accompagna diverse malattie mentali. Forse i nuovi dizionari danno una spiegazione più aderente alla comprensione, ma si confonde ancora il significato reale (de-mentia= perdita della memoria) con quello che è ancora nel linguaggio comune. Chiaro che se la demenza è la pazzia bisogna rassegnarsi, accettare questa croce. “La persona che mi sta a cuore è demente, lo dicono anche i medici!” Forse compito dei medici e degli operatori sarebbe quello di spiegare e tranquillizzare ammalati e parenti. Un’altra spiegazione che mi sono data – e questa forse è ancora più vicina alla realtà delle cose- è che spesso il caregiver è talmente occupato a prendersi cura dell’ammalato da non avere neanche il tempo per informarsi un pò, non chiede aiuto, si rassegna, cade in depressione... Ma è giusto? Se è vero che tutti questi gruppi di volontariato e tutte queste Associazioni che ho trovato in internet, comprese le nostre, sono sensibili alla malattia di Alzheimer, che detta così un’entità astratta, dovrebbero forse essere più sensibili verso le persone che verso la malattia, cioè sensibili verso l’ammalato sicuramente, ma anche verso chi gli sta vicino. Mi rivolgo a noi che siamo qui. Penso che

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dovremmo riuscire ad avvicinare di più chi è in difficoltà, per “sentirsi moralmente uniti e solidali con gli altri”, cosa di cui dicevo prima. E’ difficile? A parola di tutti siamo sensibili, attenti, solidali... Incominciamo a farlo magari con una vicina che non ha più il tempo di pensare un pò a se stessa perchè deve accudire al padre malato di Alzheimer, facciamolo con quel signore costretto a rimpinzarsi di antidepressivi perchè non ce la fa più con sua moglie malata. Certe volte la solidarietà inizia da una buona parola, per far sentire a chi soffre che non è solo. Facciamogli capire soprattutto che chiedere aiuto non è da deboli, che c’è chi –come le nostre associazioni- può ascoltare e comprendere. La parola permette a chi parla di chiarire meglio i suoi stessi stati d’animo, di comprenderli e di accettarli. Il familiare ha bisogno di trovare qualcuno con cui parlare dei suoi sentimenti, che non lo condanni e che non lo compatisca, ma semplicemente lo capisca.

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Prevenzione: quali possono essere i fattori di rischio modificabili? Dott. Giorgio Rossi

La storia naturale della malattia di Alzheimer è ben conosciuta (1). Dal momento della diagnosi al momento del decesso passano in media 8 – 12 anni mentre un grado significativo di disabilità è sempre presente dal quinto anno in poi. Tuttavia sintomi di malattia sono presenti 1 – 2 anni prima della diagnosi ed i processi anatomopatologici sono presenti anche prima dei sintomi (fase preclinica). Pertanto è importante poter individuare correttamente e, se possibile, trattare i fattori di rischio che agiscono anche quando la malattia è silente clinicamente. Negli ultimi vent’anni molti fattori di rischio sono stati proposti, identificati e valutati. Tuttavia, per l’incontro di oggi, mi soffermerò solo su alcuni di essi, in particolare quelli legati allo stile di vita, rimandando, per chi fosse interessato, all’ottima revisione condotta da Christofer Patterson e coll., pubblicata nel febbraio di quest’anno sul Canadian Medical Associations Journal (2). Vorrei prendere lo spunto da un interessante studio di popolazione (REMEMBER Project) effettuato porta-porta dal neurologo Patrizio Prati nei comuni friulani di Remanzacco e Buttrio (prov. di Udine) nel periodo 2005 – 2008 e concluso da pochi mesi (3). Sono stati selezionati 1052 soggetti da una coorte di 3146 persone con età >55 anni. Il 6,4 % (l.c. 95% 4.8 – 9.5) della popolazione identificata presentava un quadro clinico di demenza. La stretta somiglianza nella composizione della popolazione friulana con quella trentina, ci può ragionevolmente far ritenere che, applicando il tasso riscontrato in Friuli, ai 97994 trentini con età superiore a 65 anni, si può stimare che siano presenti, sul territorio provinciale, circa 6271.6 soggetti con demenza con limiti di confidenza tra 4703,7 e 9309,4. Lo studio REMEMBER Project inoltre, applicando una procedura di tipo “backward “ha trovato che l’età, il sesso femminile, la storia di malattia cerebrovascolare ed il livello di educazione ricevuto risultavano correlare, in modo direttamente proporzionale i primi tre, inversamente proporzionale l’ultimo, con il rischio di essere affetti da demenza. Per quanto riguarda l’età come fattore di rischio ovviamente non esistono mezzi per rallentare l’inesorabile progressione degli anni. L’allungamento della durata della vita media sta sicuramente alla base dell’esplosione del fenomeno demenza ed il fatto che essa sia più elevata nel sesso femminile può rendere

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conto della maggiore prevalenza della malattia in questo genere. Non sorprende invece il dato di elevata presenza di disturbi circolatori cerebrali nel campione esaminato. Esistono numerosi studi che hanno documentato come il controllo dei valori pressori con mantenimento di valori inferiori a 160mm Hg di sistolica nei soggetti con età superiore a 60anni, sia in grado di ridurre non solo il rischio di ictus ma anche quello di demenza. (4). Nello studio Syst-Eur infatti il trattamento attivo dell’ipertensione sistolica ha ridotto l’incidenza di demenza da 7.7 casi di demenza nel gruppo di controllo che assumeva placebo, a 3.8 casi per 1000 pazienti-anno (p=0.05), una riduzione quindi di quasi il 50%. Ciò significa che ogni 1000 pazienti con età superiore a 65 anni e ipertensione sistolica, se trattati appropriatamente con farmaci antipertensivi per 5 anni, si possono prevenire 19 casi di demenza. Nella prima metà degli anni 90 sono stati pubblicati numerosi studi in differenti regioni del mondo che segnalavano come un periodo di istruzione prolungato costituisse fattore protettivo rispetto al rischio di sviluppare demenza. (5, 6, 7, 8, 9 ). Sono state proposte teorie diverse per spiegare il fenomeno che sembra collegato con i meccanismi di plasticità del sistema nervoso come l’incremento della densità sinaptica. Che l’uso continuativo ed intenso delle funzioni cognitive, in particolare della memoria, possa modificare perfino la struttura stessa del cervello è stato confermato in modo incontrovertibile dallo studio neuropsicologico e di neuroimaging dei conducenti di taxi di Londra. Il volume della sostanza bianca ippocampale si correla con le capacità acquisite di rappresentazione spaziale memorizzata necessaria per districarsi nella complessità della rete stradale della city. (10) Già all’inizio degli anni novanta Elisabeth Gould, della Rockfeller University dimostrò che ogni giorno nel cervello adulto nascono migliaia di nuove cellule nervose = “neurogenesi”, in particolare nell’ippocampo, struttura importante per l’apprendimento e la memoria. (11-12). Ma se non sono adeguatamente stimolate da compiti di apprendimento impegnativi, muoiono entro un paio di settimane (13). Altri studi longitudinali di popolazione hanno evidenziato come attività intellettive di vario tipo fossero associate ad un rischio ridotto di sviluppare demenza. Nello studio di Kungsholmen (14) attività mentali svolte quotidianamente riducono tutti i tipi di demenza (rischio relativo 0.59). Una analoga riduzione del r.r. a 0.62 è stata riportata nel Washington Heights Study (New York) (15). Un recente follow-up di uno studio randomizzato e controllato sembra inoltre mostrare che un training cognitivo può presentare, in specifiche performance cognitive, un miglioramento consistente anche dopo 5 anni dall’intervento (16). Ci sono quindi prove emergenti che il declino cognitivo


possa essere ritardato da un training cognitivo, in particolare se utilizza compiti sempre nuovi e poco familiari. Anche l’attività fisica svolge un ruolo protettivo nei confronti del deterioramento cognitivo e la demenza, in particolare nelle donne. (17). I dati del Canadian Study of Health and Aging hanno associato, ad un’attività fisica regolare, un ridotto rischio di malattia di Alzheimer (rischio relativo 0.69, l.c. 95% 0.50-0.96). Anche uno studio negli U.S.A., il Cardiovascular Health Study, ha evidenziato come chi spende, in attività fisica regolare, un più alto quartile di energia (calcolato come più di 1657 kcal/settimana) presenta un rischio più basso per tutte le cause di demenza (r.r. 0.58 l.c. 95% 0.41 – 0.83) ed anche per la sola malattia di Alzheimer (r.r. 0.55, l.c. 95% 0.34 – 0.88) rispetto a chi invece spende meno di 248 kcal/settimana. (18) Sarebbe insensato pensare che questi semplici interventi come la misurazione ed il controllo della pressione arteriosa, l’attività fisica regolare, il training cognitivo possano invertire completamente i danni provocati da una patologia come l’Alzheimer. Tuttavia essi hanno dimostrato sul campo che sono in grado di rallentare il declino cognitivo, sia nelle persone con patologie degenerative sia nel cervello di ognuno di noi quando invecchiamo. 65


Accenni alla Terapia come Relazione

Problemi Comportamentali nella demenza, caregiver, e trattamenti non farmacologici Dott. Tiziano Gomiero, Luc Pieter De Vreese. Problemi comportamentali? <…la Signora Z, continua a trascinarsi dietro il nostro povero C., rischia di farlo cadere… Cosa ci consiglia… dobbiamo legare lei o lui…?> La domanda non nasconde uno stigma sociale molto radicato ed evidenzia in modo sintetico i due poli del problema, almeno per come vogliamo tentare di introdurli in questo contesto, da una parte i problemi comportamentali che le persone con demenza manifestano con le inevitabili conseguenze sul benessere e sicurezza della persona e dall’altra l’interazione/reazione a questi comportamenti da parte dei caregiver formali o informali.

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1. Il presupposto da cui partiamo è che il comportamento è un messaggiosempre-. Vanno quindi sempre ricercate delle letture comunicative nel senso più ampio possibile della parola Innanzi tutto dobbiamo tenere presente il declino cognitivo nell’AD e la sua correlazione con altri sintomi e quindi ricordare che: - Il declino cognitivo è il miglior predittore del declino funzionale - Il declino cognitivo predice anche l’insorgenza di Sintomi Comportamentali e Psicologici nella demenza (Behavioural and Psychological Symptoms in Dementia, d’ora in poi BPSD) - La collocazione in strutture di ricovero è predetta dall’insorgenza di BPSD. Questi sintomi che corrispondono ad un vasto e controverso quadro nosografico possono essere rappresentati da: Alterazioni della percezione, del contenuto del pensiero, dell’umore o del comportamento che si riscontrano frequentemente in malati di demenza Questi ultimi portano con molta frequenza a gravi ricadute sulla persona quali solo a titolo esemplificativo citiamo: - Cadute e lesioni - Contenzione fisica/chimica - Isolamento - Stress e assenteismo Inoltre i sintomi non cognitivi sono la causa più frequente di istituzionalizzazione,


di intervento medico specialistico, di prescrizione farmacologia, di un accelerato declino con eccesso di disabilità oltre che causa di stress grave e di effetti negativi sulla salute dei caregiver e di ridotta qualità di vita del malato del caregiver con un aumento dei costi economici della malattia. Risulta chiara a questo punto la rilevanza clinica dei sintomi ai fini della valutazione di efficacia degli interventi e che i BPSD rappresentano un grave problema per chiunque interagisca con il malato al pari dello stesso malato. Devono essere considerati pertanto obiettivi terapeutici di assoluta rilevanza clinica. Un elenco sintetico di questi comportamenti comprende: - Sintomi affettivi - Sintomi neuropsichiatrici - Disturbi neurovegetativi - Comportamenti specifici - Attività motoria aberrante - Disinibizione sessuale - Disturbi del sonno - Apatia Va sottolineato come questi aspetti non si sviluppino affatto in un modello lineare ne statistico, quanto piuttosto in un caotico rimando di una condizione all’altra come tenta di evidenziare la rappresentazione grafica che segue dove l’attenzione è posta al diverso peso che in una “rete” del genere occupa ogni nodo per ogni individuo:

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Nella trattazione odierna ci limiteremo ad alcune esemplificazioni, cominceremo evidenziando il problema dell’ansia all’interno dei sintomi affettivi ed in particolare ricordiamo che essa viene definita come: Esperienza soggettiva di nervosismo, preoccupazione, apprensione o irrequietezza, ma può esprimersi in modo enormemente differenziato come: - Ansia Anticipatoria, - Situazionale, - Pavor nocturnus, - Paura di stare da solo - Senza apparenti motivi. In aggiunta per accennare comprendere la complessità degli spettri emotivi, questo stato può manifestare come segni psicofisiologici molto diversi quali: Respiro affannoso, Sudorazione, Tremore, Palpitazioni, Astenia, Vertigini o Aspecifici (come cantilenare, battere le mani, ecc.) Un secondo esempio può essere rappresentato dalle richieste incessanti vale a dire comportamenti che attirano l’attenzione sul paziente e che interferiscono con le attività degli altri: - un eccessivo aggrapparsi al famigliare/operatore - piagnistei - richiami ripetuti o suppliche per avere attenzione - fare finta di cadere Mentre un terzo esempio che accenneremo è rappresentato dai disturbi del ritmo circadiano Che si può esplicitare come inversione sonno-veglia o con una forma definita come sindrome del sole calante: Comparsa/accentuazione di agitazione psicomotoria indotta da confusione temporo-spaziale, famigliare e personale e/o da sintomi neuropsichiatrici nelle ore pomeridiane e/o serotine (ore 15:00ore 23:00) In ogni caso dobbiamo tenere presente che si verifica un abbassamento della soglia dello stress, la persona senza demenza, possiede buffers (filtri, mediatori) che lo aiutano a rimanere stabile o almeno a transitare da uno stato d’animo ad un altro molto lentamente. In un malato di demenza questi buffers si alterano e quindi i malati passano velocemente da uno stato ad un altro molto velocemente (labilità emotiva). Progressivamente si abbassa la capacità di fronteggiare lo Stress come questo grafico (tratto da Hall G, Buckwalter R. Arch Psychiatr Nurs 1987;1:399-403.) documenta.


Nell’analisi dei problemi comportamentali non va dimenticato il rischio che questi possano essere l’esito collaterale di una comune sottovalutazione del dolore così come è attestato in alcune ricerche che evidenziano come i pazienti delle case di riposo con diagnosi di demenza abbiamo un maggiore rischio di un trattamento inadeguato del dolore (Nygaard e Jarland, 2005) a fronte di una percezione segnalata dal 62,6% dei caregiver intervistati che hanno rilevato la presenza di dolore “spesso” o “quasi sempre” nei soggetti da loro assistiti (Schulz R. N Engl J Med 2003;349: 1936-42) Non va dimenticato a questo proposito che: - Le demenze sono malattie non guaribili - I disturbi cognitivi e funzionali sono legati alle alterazioni neuropatologiche - I BPSD essendo anche associati a fattori extra-demenza, sono relativamente più controllabili - L’Anziano molto spesso presenta “comorbilità complicata da demenza” - Buona parte dei malati non hanno una diagnosi tipologica di demenza - Il monitoraggio dell’evoluzione della malattia con strumenti di stadiazione non è una pratica di routine In molte circostanze di rileva come la valutazione oggettiva dei BPSD non sia ancora una pratica di routine nonostante essi siano: - Frequenti con impatto tremendo - 98% dei pazienti 1-2 sintomi nel corso della malattia - 85% di rilevanza clinica (NPI≥ 4) - >50% di natura neuropsichiatrica: - Psicosi con agitazione/aggressività - Uso di farmaci ‘off-label’’ A tale proposito si moltiplicano descrizioni scientifiche che indicano di porre molta cautela nell’utilizzo di farmaci antipsicotici tipici e atipici in pazienti

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con malattia d’Alzheimer (Schneider & c., 2006) nel caso di una loro inefficacia questo porta a numerosi esiti secondari quali: - Nessuna differenza per l’affaticamento (burden) del famigliare - Maggiore dipendenza (vestizione, igiene, alimentazione) - Nessun miglioramento alla scala AD-QOL 2 La psicologia sociale dei caregiver e del contesto può essere produttiva di malessere

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La psicologia “maligna” consiste di una mistura di indifferenza e di forme di interazione in un certo senso “patogene” e che in qualche modo danneggiano o minano la personhood di coloro che ricevono le cure. La Psicopatologia generale ci indicata infatti che il comportamento positivo o negativo della persona è l’esito combinato di contesto, caratteristiche della persona e dei caregiver. Lo studio citato di Lo studio di Sink et al. (2006) riporta l’analisi dei dati di 5.788 coppie malato-caregiver ed evidenzia come le caratteristiche del caregiver sono associate con i Sintomi Neuropsichiatrici della demenza, i risultati evidenziano che le variabili indipendenti del caregiver che si associano ad un numero maggiore di SNP (mediamente 1,5 in più) sono le seguenti: - Età - Scolarità - Depressione - Carico assistenziale vissuto come stressante - Numero di ore settimanali di assistenza Queste ultime sono indipendenti dalle condizioni accertate nella persona malata che accudiscono, come l’età, il sesso, il tipo, la gravità di demenza e il livello di disabilità funzionale). Appare chiaro come il Burn-out non sia allora considerabile solo come una malattia professionale ma che questo “bruciare con il fuoco” sia una sindrome di esaurimento delle proprie risorse emotive, con una spersonalizzazione per mancanza di relazioni sociali e di tempo per sé e conseguente riduzione delle proprie capacità personali. Tra i fattori di rischio per il burn out sono identificabili tra gli altri in questi: - Isolamento sociale - Scarsa conoscenza e consapevolezza della malattia - Ridotte disponibilità nelle relazioni sociali - Scarsa capacità di fronteggiare e risolvere situazioni difficili - Alta emotività espressa


- Presenza di sensi di colpa - Tensione ed affaticamento nella relazione con il congiunto malato 3 Interventi Psicosociali Possiamo genericamente distinguere tra Interventi orientati alle emozioni - validazione e reminiscenza - musicoterapia - stimolazione sensoriale - stimolazione multisensoriale Interventi orientati all’ambiente Verifica della loro efficacia tramite lo Studio di Livingston (2005): Revisione di 1.632 studi (fino a Luglio 2003), di cui solo 162 hanno soddisfatto i criteri d’inclusione. Ad ogni tipo d’intervento è stato assegnato un “livello di raccomandazione”che varia da A (evidenza forte e consistente) a D (evidenza scarsa con risultati non conclusive) Risultati: Effetti a lungo termine: Interventi psicoeducativi rivolti al personale/famigliare Interventi comportamentali individualizzati Stimolazione cognitiva Effetti solo durante la seduta: Musicoterapia Snoezelen Altri studi come quello di Landreville (Landreville Ph. et al. Int Psychogeriatrics 2006, 18:47-73.) mettono in rilievo come in ordine di priorità la formazione occupi un ambito privilegiato, di seguito l’elenco in ordine di priorità: Formazione (sul campo) degli operatori/familiari Modificazione ambientali Stimolazione sensoriale Gestione comportamentale Attività strutturate Special Care Unit Interventi psicosociali Nel dettaglio di alcune tipologie di interventi possiamo rilevare che: L’Attività Assistita con l’Animale AAT può migliorare i BPSD, ma si ignora per ora la durata dell’effetto benefico

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L’effetto terapeutico dei cani ‘residenti’ vs. ‘esterni in visita’ non è chiaro AAT ha anche un impatto positivo sulla interazione tra il personale di cura e i malati (Filan SL, Lewellyn-Jones RH. Int Psychogeriatrics 2006;18(4):597-611.) La Musicoterapia dal vivo è efficace nel trattamento a breve-termine dell’apatia in pazienti con demenza da moderata a severa vi è un’efficacia limitata dell’ascolto di musica registrata specie nel malato grave mentre la musicoterapia con suonatori è superiore in efficacia di quella registrata nella demenza severa (Holmes C. et al. Int Psychogeriatrics 2006;18(4):623-630.) Il canto assieme al malato durante ADL porta ad una maggiore efficienza nelle ADL, migliore comprensione ordini non verbali, riduzione dell’aggressività, urla e confusione, favorisce la socializzazione, incrementa l’espressività di piacere e felicità, migliora la postura, la consapevolezza corporea, le abilità fisiche. (Göttell E. e coll. Int Psychogeriatrics 2003; 15(4): 411-30.)

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2. Approccio persona-centrico In estrema sintesi va privilegiata una visione olistica che preveda attenzione a: Biografia – Storia di vita

B

la biografia, con speciale attenzione alle conseguenze degli eventi negativi verificatisi nel recente passato

Personalità

P

la personalità, inclusi temperamento, abilità, stili di coping e difese psicologiche

Salute e Benessere Fisico

H

la salute, organica e funzionale, con particolare riguardo all’acuità sensoriale

Degenerazione Neurologica

NI

le alterazioni sia della struttura che della funzione del sistema nervoso centrale


Psicologia sociale

SP

il contesto psico-sociale in cui la persona vive (l’intrecciarsi di relazioni interpersonali, scelte, occupazioni)

Dove le varie strategie di intervento mirano alla creazione di una “nicchia ecologica” in cui predominano senza esclusivismi preconcetti interventi non farmacologici di tipo globale come la gestione centrata sulla persona e il Gentlecare e viene effettuata la “somministrazione” di interventi specifici (musicoterapia, attività assistita con gli animali) Rimane fondamentale la Formazione dei caregiver con un evoluzione del concetto di cura: dal funzionamento al sostegno, che tenga debitamente conto delle inferenze implicite e degli stili attribuzionali e nello stesso tempo prevenga malessere indotto (protezione sociale del lavoro) Va ricordato infatti che: - La demenza e con essa altri tipi di patologie invalidanti, sono condizioni croniche e inguaribili. L’esigenza del prendersi cura (care) del paziente non autosufficiente è quella della flessibilità ed è essenziale creare una rete di solidarietà attorno alle relazioni familiari. - L’elasticità del personale, orari e organizzazione è una indicazione TERAPEUTICA.

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Un esempio di formazione sul campo e quella che rende più cosciente il caregiver che per un malato di demenza l’esperienza e l’espressione delle emozioni cambiano soprattutto in termini di reversibilità (Thompson, 1985). Nel soggetto con demenza c’è una irreversibilità delle emozioni, nel senso che non è in grado di concettualizzare le proprie relazioni indipendentemente da quella emozione: Quella persona è “odiosa” e non può essere valutata indipendentemente dall’emozione che suscita, questo paradossalmente si incrocia con la labilità e fa si che ci siano oscillazioni dell’umore con atteggiamenti contrastanti. Mentre se il malato riceve risposte affettive inadeguate evidenzia risposte depressive e ansiose. Nella figura sottostante riproduciamo schematicamente quello che rappresenta secondo noi il Setting di un Ambiente Protesico

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Accenniamo brevemente alle VARIABILI AMBIENTALI ben consapevoli che da sole queste meriterebbero un’apposita trattazione (esempio di uno dei più studiati stressor ambientali indicato dalla parola affollamento). Il comportamento ci permette di vedere quando una situazione supera la capacità di elaborazione in particolare quando ci sono comportamenti ostinatamente oppositivi o sovraeccitati ad esempio con agitazione, aggressività, paranoia , ansietà ecc È utile in particolare porre attenzione a: luci, ombre, buio, oggetti non familiari - rumori di sottofondo quali il telefono, conversazioni multiple, grida, TV o radio - gli effetti cumulativi delle stimolazioni sono sovra-imposte ad una persona già in grosse difficoltà nell’interpretare ciò che lo circonda. - Evacuare in modo calmo da situazioni stressanti - Evitare sovrastimolazioni mantenendo l’ambiente calmo e tranquillo - Dare tempo per ascoltare, per elaborare e rispondere - Offrite il contatto, teneteli per mano o abbracciateli quando si devono calmare. - La musica ha un effetto calmante soprattutto in alcuni contesti quali il pranzo o l’igiene personale. - Ritmi di vita elastici Il caregiver ideale naturalmente non esiste, ma il suo profilo si avvicina all’elenco sotto indicato


Empatia (+ importante della capacità tecnica) Tranquillità interiore (essere liberi da preoccupazioni o distrazioni personali) Facilità al contatto con le persone Abilità di sostenere una interazione impegnativa senza eccessivo stress Flessibilità Stabilità e abbandono delle difese psicologiche (disponibilità a mettersi in gioco) Capacità di recupero (essere in grado di affrontare le pressioni) A nostro parere la flessibilità personale oltre che organizzativa è una caratteristica chiave così come è sempre molto utile mantenere una capacità di immedesimazione. Non ci pare banale mantenere viva su di sé e su quelli che ci circondano anche in termini di autoironia, una domanda che a noi pare non evitabile è questa: Cosa Pensano? 75

In effetti le persone con l’alzheimer pensano-forse non pensano le stesse cose delle persone normali, ma pensano. Si domandano come le cose succedano, perchè succedano in un dato modo. Ed è un Mistero. (Visione Parziale) Nel trattamento vanno sempre privilegiati i comportamenti regolatori autodiretti, anche perché nelle interazioni tra caregiver e ospiti nel migliore dei casi solo nel 20-30% del tempo si verificano interazioni coordinate. Vi è la possibilità di fallimenti interattivi e di riparazioni che creano la fiducia per fronteggiare i momenti critici. Il problema è di non affidarsi ad un impossibile coerenza e capacità di venire incontro a tutti i bisogni dell’altro, ma essere in grado di ripartire dopo


ogni fallimento ed incomprensione con un abbraccio che tiene dentro anche tutto il proprio errore (sviluppo del we-go).

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Conclusioni… - A ciascuna fase della malattia corrisponde un tipo di intervento - La valutazione degli interessi residui e delle preferenze individuali - L’apprendimento senza errori - Il condizionamento operante - La retrogenesi - I servizi (semi)residenziali sono “i luoghi degli interventi psicosociali” ideali - La valutazione “ecologica” e quindi “pace e benessere” La visualizzazione delle risposte elettromiografiche (EMG) alla presentazione di immagini di volti arrabbiati e felici fanno evidenziare come il linguaggio non verbale e i messaggi che operano ad un livello pre-cognitivo siano essenziali e richiedano una particolare attenzione. Questa è una delle poche alternative ad una inaccettabile…“mutilazione” dell’Altro. Tendiamo a ridurre l’altro ai nostri criteri e alle nostre misure, al nostro stato d’animo, quindi alla nostra convenienza… sottolineiamo quello che ci interessa, quello che corrisponde… è la strumentalizzazione dell’ALTRO (Giussani, 2008). Solo in questo modo la qualità di vita da “mito” può passare a diventare da indicatore e “…la “gestione” (relazione)…deve mirare al raggiungimento di una sua funzionalità ottimale come essere sociale e nel rispetto della sua personalità, fatta non solo di memoria, ma anche di sentimenti, azione, appartenenza, attaccamento alle persone e di identità, e quindi a “pace e benessere”.


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Si ringrazia l’Azienda Sanitaria per i Servizi Sanitari per la preziosa collaborazione nell’aver offerto la sede per il convegno, e tutti i partecipanti che hanno collaborato alla realizzazione di questo evento.


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