Vi Racconto Fabrizio De Andrè_Loris F. Alessandria

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OCEANO

VI RACCONTO FABRIZIO DE ANDRÈ Loris F. Alessandria





OCEANO

VI RACCONTO FABRIZIO DE ANDRÈ

Loris F. Alessandria


Oceano Vi racconto Fabrizio De Andrè ©Loris F. Alessandria ©NABA Nuova Accademia di Belle Arti Via C. Darwin, 20 20143 Milano Tel +39 02 973721 Fax +39 02 97372280 www.naba.it Progetto grafico e realizzazione: Loris F. Alessandria www.be.net/lorisalessandria Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione in qualsiasi forma, memorizzazone e trascrizione con qualsiasi mezzo, anche parziale. Prima edizione: giugno 2013 Stampato presso: InArte - Vimercate (MB)


SOMMARIO PREMESSA 9

LA VITA 1 2 LA MUSICA 32 FONTI 81



PREMESSA

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scolto e apprezzo Fabrizio De Andrè dai tempi del liceo, avevo circa 15 anni quando trovai in casa una sua raccolta, tra i dischi di mio papà, e provai ad ascoltarlo. Ne rimasi subito affascinato, la musica era diversa dalle solite, le parole erano molto belle e la sua voce profonda riusciva ad immergermi nell’ascolto. Con il passare del tempo, ho capito che era molto più di un cantautore, le sue canzoni erano poesie messe in musica e così mi appassionai sempre più. Nelle cuffie avevo spesso le sue composizioni che all’inizio erano una decina e che ora sono diventate la discografia completa. Dietro le sue canzoni ci sono storie che trattano di temi importanti, ancora di grande attualità, e che parlano di gente umile, gente comune. Cercava ad ogni costo di difendere il valore della libertà e delle idee contro tutti i conformismi e le banalità. Ha dato voce agli emarginati, usando parole graffianti contro le società e le istituzioni di tutti i tempi. Ha sempre vissuto al massimo la sua esistenza riportando in versi le sue esperienze. Per me De Andrè è stato più che un cantantautore, per me è stato uno dei più grandi poeti del novecento ed è tutt’ora un maestro di vita. Il titolo del libro Oceano, Vi racconto Fabrizio De Andrè è tratto da una sua canzone, per l’appunto Oceano del 1978, dedicata al figlio Cristiano e nata appositamente per spiegare e provare a rispondere alle mille domande che fanno i bambini. “Com’è bello il mare? Quanto è azzurro il cielo?”. Invece io con questo libro ho riassunto la vita, le esperienze e alcune canzoni del cantautore genovese cercando di spiegare quanto sia stato un immenso, come l’oceano, uomo e poeta.

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In questo libro, oltre ad aver realizzato la grafica in ogni sua parte, mi sono concentrato anche sui contenuti ottenuti da varie fonti (citate interamente alla fine del libro) e arrangiate con parole mie a cui ho dedicato molto tempo.



LA VITA


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INTRODUZIONE

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abrizio De Andrè è stato uno dei cantautori più importanti e ha segnato la scena italiana dalla metà degli anni ‘60 fino ad ora. Le sue canzoni sono ancora oggi cariche di significati profondi e temi di grande attualità. Fabrizio, che viene anche ricordato come Faber (grazie al soprannome datogli dall’amico Paolo Villaggio), ha scelto la musica per esprimere le sue emozioni e gridare ad alta voce i suoi ideali: i temi trattati nelle sue opere sono molto vari e si basano spesso sulle esperienze di vita. Uno dei più cari a De Andrè è sempre stato rivolto ai cosìdetti emarginati, a coloro che venivano dimenticati dalla società ma che nelle sue canzoni assumevano grande dignità e umanità, come le prostitute, i barboni, i drogati, i poveri, i delinquenti. È stato tra i primi a infrangere i dogmi della “canzonetta” italiana, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d’ogni angolo del mondo. Le sue opere, da molti considerate poesie, fungevano da denuncia verso la società borghese e conservatrice, la Chiesa e i suoi esponenti, le ingiustizie nel mondo, i ricchi, i perbenisti, gli ipocriti, i politici, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo e dava invece agli umili personaggi dei racconti varie possibilità di riscattarsi, ad esempio regalando ad una prostituta una nuova morte “visto che non poteva cambiarne la vita” (La canzone di Marinella). Usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia per frantumare ogni convenzione. Il suo canzoniere universale attinge alle fonti più disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall’Antologia di Spoon River ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai Fiori del male di Baudelaire al Fellini dei Vitelloni. Temi che negli anni si sono accompagnati a un’evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi. Non amava molto far parlare di sè e non si dedicava quasi mai alla stampa, se lo faceva, quando lo faceva, era perchè aveva qualcosa da dire e utilizzava parole precise, pesate e soprattutto pensate. Era di orientamento anarchico, anche grazie alla grande amicizia con il poeta Mannerini, ed il suo rapporto con la religione era molto contrastante.


Oceano | La vita

LE ORIGINI

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CITAZIONI “Lessi Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante.”

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Fabrizio De Andrè

e André nasce il 18 febbraio 1940 nel quartiere genovese di Pegli, in via De Nicolay 12 (dove è stata posta una piccola targa commemorativa) da una famiglia dell’alta borghesia industriale cittadina. I genitori sono entrambi piemontesi. Il padre Giuseppe (Torino, 15 settembre 1912 – Genova, 19 luglio 1985), è stato vicesindaco repubblicano di Genova, amministratore delegato dell’Eridania e ha promosso la costruzione della Fiera del Mare di Genova, nel quartiere della Foce. La madre è Luigia “Luisa” Amerio (Pocapaglia, 26 agosto 1911 – Genova, 3 gennaio 1995). Fabrizio vive inizialmente nella campagna astigiana a Revignano d’Asti, luogo dal quale la famiglia era originaria e dove sfollò a causa dei bombardamenti e per rendere meno difficoltosi i contatti con il padre, ricercato dai fascisti per aver impedito la deportazione dei suoi alunni ebrei. Visse, poi, nella Genova del dopoguerra, scossa e partecipe della contrapposizione tra cattolici e comunisti, sovente rigidi e bigotti entrambi. Dopo aver frequentato le scuole elementari in un istituto privato retto da suore, passò alla scuola statale, dove il suo comportamento “fuori dagli schemi” gli impedì una pacifica convivenza con le persone che vi trovò, in special modo con i professori. Per questo fu trasferito nella severa scuola dei Gesuiti dell’Arecco, scuola media inferiore frequentata dai rampolli della “Genova-bene”.

Qui Fabrizio fu vittima, nel corso del primo anno di frequenza, di un tentativo di molestia sessuale da parte di un gesuita dell’istituto; nonostante l’età, la reazione verso il “padre spirituale” fu pronta e, soprattutto, chiassosa, irriverente e prolungata, tanto da indurre la direzione ad espellere il giovane De André, nel tentativo di placare lo scandalo. L’improvvido espediente si rivelò vano poiché, a causa del provvedimento d’espulsione, dell’episodio venne a conoscenza il padre di Fabrizio, esponente della Resistenza e vicesindaco di Genova, che informò il Provveditore agli studi, pretendendo un’immediata inchiesta che terminò con l’allontanamento dall’istituto scolastico del gesuita. Studiò poi presso il liceo comunale “Cristoforo Colombo”. In seguito il cantautore frequentò alcuni corsi di lettere e altri di medicina presso l’Università di Genova prima di scegliere la facoltà di Giurisprudenza, ispirato dal padre e dal fratello Mauro (Torino, 26 maggio 1936 – Bogotà, 18 agosto 1989), che diverrà un noto avvocato. A sei esami dalla laurea decise di intraprendere una strada diversa: la musica (suo fratello sarebbe divenuto uno dei suoi fan più fedeli e critici). Successivamente ad un primo e problematico approccio, determinato dalla decisione dei genitori di avviarlo allo studio del violino, il folgorante incontro con la musica avvenne con l’ascolto di Brassens, del quale De André tradurrà alcune canzoni, inseren-


dole nei primi album. La passione, poi, aveva preso corpo anche grazie alla “scoperta” del jazz e all’assidua frequentazione degli amici Tenco, Bindi, Paoli, del pianista Mario De Sanctis ed altri, con cui iniziò a suonare la chitarra e a cantare nel locale “La borsa di Arlecchino”. De André, in questi anni, condusse una vita sregolata ed in contrasto con le consuetudini della sua famiglia, frequentando amici di tutte le estrazioni culturali e sociali. Sovente, con l’amico d’infanzia Paolo Villaggio, cercava di sbarcare il lunario con lavori saltuari, anche imbarcandosi, d’estate, sulle navi da crociera come musicista per le feste di bordo. La prima moglie di De André fu una ragazza di famiglia borghese, Enrica Rignon detta “Puny”, con la quale ebbe il figlio Cristiano, per poi separarsi a metà degli anni settanta. In seguito al matrimonio e alla nascita del figlio, Fabrizio fu pressato dalla necessità di provvedere al mantenimento della famiglia e trovò un impiego in un istituto scolastico privato come insegnante.

Fabrizio De Andrè ai bagni Tre Pini di Genova, 1970


Oceano | La vita

L’ESORDIO

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PARLANO DI LUI “Una delle grandi qualità di Fabrizio è che non è mai stato moralista, non ha mai apprezzato il perbenismo e ha sempre cercato di capire le debolezze umane. E poi la pietas umana, che era per lui un elemento essenziale per conoscere il prossimo, e che è sempre stata al centro della sua poetica. Fabrizio è anche stato sempre molto coerente.”

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Dori Ghezzi

ell’ottobre del 1961 la Karim pubblica il suo primo 45 giri, con copertina standard forata (la ristampa del 1971 della Roman Record avrà invece una copertina con un disegno anonimo). Il disco contiene due brani, Nuvole barocche ed E fu la notte. Secondo quanto affermato dal cantautore in un’intervista al Corriere della Sera, nel 1964 sostenne l’esame di ammissione come autore della parte letteraria alla SIAE di Roma per poter depositare a proprio nome le canzoni (in realtà la data è sicuramente errata, in quanto De André già nel 1961 firmava i testi e le musiche delle sue canzoni, depositandole alla Siae); nel 1997, durante la consegna del Premio Lunezia, confessò di aver utilizzato una buona parte del testo della canzone Le foglie morte di Jacques Prévert nella prova di esame. Negli anni successivi De André andò affermandosi sempre più come personaggio riservato e musicista colto, abile nel condensare nelle proprie opere varie tendenze ed ispirazioni: le atmosfere degli storici cantautori francesi, tematiche sociali trattate sia con crudezza sia con metafore poetiche, tradizioni musicali di alcune regioni italiane e mediterranee sonorità di ampio respiro internazionale e l’utilizzo di un linguaggio inconfondibile e, al tempo stesso, quasi sempre semplice per essere alla portata di tutti. In questo periodo uscirono i suoi primi 33 giri. La sua discografia non è numerosissima

come, del resto, inesistenti fino al 1975 erano i suoi concerti. L’album del debutto è Tutto Fabrizio De André (1966, ristampato due anni dopo con il titolo di La canzone di Marinella sotto un’altra etichetta e con una diversa copertina), una raccolta di alcune delle canzoni che sino ad allora erano state edite solo in 45 giri, seguita da Volume I (1967), considerato (non a torto) come il suo primo vero album, Tutti morimmo a stento (1968), Volume III (1968), Nuvole barocche (1969); quest’ultimo è la raccolta dei 45 giri del periodo Karim esclusi da Tutto Fabrizio De André. Il brano di apertura di Volume I è Preghiera in gennaio, una canzone scritta di getto poche ore dopo la morte a Sanremo di Luigi Tenco, amico di giovinezza di Fabrizio. Il cantautore, che aveva interpretato la canzone “La ballata dell’eroe” nel film “La cuccagna”, perse la vita durante il Festival della Canzone Italiana di San Remo del 1967, appunto a gennaio.


GLI ANNI PROFICUI Fabrizio con il caro amico poeta ed anarchico Riccardo Mannerini, 1968, nella pagina accanto De Andrè nei primi anni di attività

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G

li anni fra il 1968 ed il 1973 furono fra i più proficui per l’autore, che iniziò la serie dei concept con Tutti morimmo a stento. Quest’album, ispirato alla poetica di François Villon, è il quarto concept album ad essere pubblicato in Italia; il testo del primo brano, Cantico dei drogati è tratto da una poesia di Riccardo Mannerini, “Eroina”. De André incise anche una versione inglese dell’album, oggi esistente in unica copia, che è stata proprietà di un collezionista statunitense e oggi appartiene ad un collezionista pugliese. A Tutti morimmo a stento segue La buona novella; un album importante, che interpreta il pensiero cristiano alla luce di alcuni Vangeli apocrifi (in particolare, come riportato nelle note di copertina, dal Protovangelo di Giacomo e dal Vangelo arabo dell’infanzia), sottolineando l’aspetto umano della figura di Gesù, in forte contrapposizione con la dottrina di sacralità e verità assoluta, che il cantauto-

re sostiene essere inventata dalla Chiesa al solo scopo di esercizio del potere. Nel disco suonano, tra gli altri, “I Quelli”, che nel 1971, dopo l’ingresso di Mauro Pagani, cambieranno il nome in “Premiata Forneria Marconi”. A distanza di anni, De André continuerà a considerare questo disco la sua incisione migliore. Nel 2010 il disco viene reinciso dalla “Premiata Forneria Marconi”, con nuovi arrangiamenti e l’aggiunta di alcuni brevi intermezzi strumentali; il disco, intitolato “A.D. 2010 - La buona novella”, viene pubblicato ad aprile. Proprio a questo periodo risale l’amicizia di De André con un altro collega che ha cantato, spesso, gli ultimi e i poveri, Gipo Farassino; anni dopo De André racconterà a TorinoSette, l’inserto settimanale de La Stampa, un episodio successivo (avvenuto dopo un concerto a Torino) riguardante la loro amicizia: “Mi raccolse dopo un concerto ubriaco come un tino di mosto, mi caricò in macchina, mi trascinò in casa sua, mi offrì un cesso per finire di rovesciarmi lo stomaco e un letto per lasciarmi girare la testa fino al sonno. Il giorno dopo, ad evitarmi un treno per Genova con una maglietta vomitata mi regalò una sua camicia.” Il disco successivo, del 1971, è Non al denaro, non all’amore né al cielo, libero adattamento (eseguito insieme a Giuseppe Bentivoglio) di alcune poesie della Antologia di “Spoon River”, opera poetica di Edgar Lee Masters; le musiche sono com-


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CITAZIONI “Non c’è speranza nell’uomo se non nell’amore che uccide l’odio, nella carità che uccide cupidigie, e rancori, e ingiustizie. I potenti rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare. La morte è rimorso per chi non ha saputo aprirsi, in vita, alla compassione.”

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Fabrizio De Andrè

poste insieme a Nicola Piovani. De André in quel periodo incontra Fernanda Pivano, traduttrice e scrittrice che ha fatto conoscere in Italia la letteratura americana e che ha tradotto l’Antologia sepolcrale cui trae ispirazione l’album. Per rimuovere l’ostacolo della ritrosia del cantautore a concedere interviste, la Pivano nascose sotto il letto un registratore e trascrisse interamente la lunga conversazione che i due fecero su “Spoon River” e sulle canzoni dell’album. De André accettò con simpatia il “raggiro”. In questo caso, come ha raccontato Roberto Dané, l’idea del disco la ebbe Sergio Bardotti, che infatti lo seguì insieme allo stesso Dané in qualità di produttore. Gian Piero Reverberi ha raccontato che in questo caso il progetto era nato per Michele, sulla scia di Senza orario senza bandiera, quindi con i testi elaborati da De André e le musiche di Reverberi; ma il progetto venne poi dirottato su De André e quindi Reverberi (anche per alcuni suoi contrasti con Roberto Dané) non venne più coinvolto e le musiche e gli arrangiamenti furono affidati a Nicola Piovani. Il coautore dei testi, Bentivoglio, si era presentato con dei testi scritti da lui, che furono giudicati interessanti e che, dopo una prima collaborazione in Tutti morimmo a stento (in cui scrisse il testo di Ballata degli impiccati), portarono all’affiancamento a De André per i testi in questo LP e nel successivo. Nel 1972 la Produttori Associati, senza consulta-

re l’artista, lo iscrive al Festivalbar con il brano Un chimico (pubblicato su 45 giri): De André apprende la notizia dai giornali e convoca una conferenza stampa in cui dichiara che “La casa discografica mi ha trattato come un ortaggio”. Dopo l’intervento del patron della manifestazione, Vittorio Salvetti, si raggiunge un compromesso: la canzone viene inserita nei juke-box, come vuole il regolamento, ma il cantautore non si esibirà durante la finale di Verona nemmeno in caso di vittoria (l’edizione vede vincitrice Mia Martini con “Piccolo uomo”). Nell’autunno dello stesso anno pubblicò un singolo con due canzoni di Leonard Cohen Suzanne, Giovanna d’Arco (brani che verranno poi inseriti con un arrangiamento diverso nell’album Canzoni del 1974). L’album successivo fu, nel 1973, Storia di un impiegato, un “concept album” in cui Giuseppe Bentivoglio autore dei testi con de André, racconta la vicenda di un impiegato durante il maggio del ‘68; il disco, a sfondo politico, venne attaccato dalla stampa musicale militante e vicina al movimento studentesco. Proprio in occasione della pubblicazione del disco, Giorgio Gaber polemizza con De André, affermando che quest’ultimo usi un linguaggio da liceale che si è fer­mato a Dante, che fa dei bei termini, ma non si riesce a capire se sia libe­rale o extraparlamentare; De André risponderà a Gaber in occasione di un’intervista alla Domenica del Corriere del gennaio 1974 (“Mi spiace


dell’autore dal vivo negli anni a seguire. Gli altri brani vennero eseguiti in concerto solo per qualche anno, ne è un esempio la Canzone del maggio inserita nella scaletta del primo tour del 1975 o ancora La bomba in testa, Al ballo mascherato, Canzone del padre, Il bombarolo e Nella mia ora di libertà che vennero riproposti solo in alcune date del tour del 1976.

Fabrizio De Andrè a Sarissola, Genova, negli anni ‘70

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che lui, che si dichiara comunista, sia andato a raccontare queste cose al primo giornalista che ha incontrato. Poteva te­lefonarmi, farmi le sue osservazioni: ne avremmo discusso, ci saremmo con­frontati. Così, invece, ha svilito an­cora di più un mondo già tanto criti­cato”). Delle canzoni del disco, solo Verranno a chiederti del nostro amore rimane nel repertorio


Oceano | La vita

LA CRISI E I CONCERTI

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CITAZIONI “C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a toccare la virtù della speranza , il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare, è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni”

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Fabrizio De Andrè

a pubblicazione di Storia di un impiegato coincide con un periodo di crisi professionale ed anche personale (nello stesso anno termina definitivamente il matrimonio con Puny ed il cantautore inizierà una relazione con una ragazza, Roberta, per cui scriverà due anni dopo la canzone Giugno ‘73), e la pubblicazione di un nuovo disco di rifacimenti ad opera di Reverberi di vecchie canzoni incise per la Karim (con 2 nuove traduzioni dal repertorio di Brassens, le due canzoni di Cohen pubblicate nel 1972 ed una traduzione da Dylan opera di De Gregori ai tempi del Folkstudio cofirmata da De André), intitolato Canzoni, darà inizio alla collaborazione con Francesco De Gregori. Proprio durante le registrazioni di questo disco, nello studio a fianco sta registrando il suo nuovo disco da solista Dori Ghezzi (in una pausa della sua collaborazione con Wess): è l’ìnizio di una nuova e duratura relazione, che sfocerà nel matrimonio tra i due il 7 dicembre 1989. Sono anche gli anni in cui De André fa le sue prime esperienze negli spettacoli dal vivo. Lavoratore instancabile e al limite del perfezionismo in studio, Fabrizio non riesce invece ad esibirsi in pubblico. Il suo timore è dovuto anche al suo problema all’occhio sinistro, leggermente più chiuso del destro, a causa di una ptosi palpebrale seguita ad una paralisi del nervo oculomotore, avvenuta in giovane età, e che successivamente tentò di

curare con un’operazione chirurgica. Sergio Bernardini, il patron de La Bussola, comincia a fare delle grosse pressioni perché Fabrizio si esibisca nel suo locale, ed il cantautore chiede un compenso di 300 milioni di lire, che viene accettato. De André mise dunque da parte le sue paure da palcoscenico, paure che supererà solo con gli anni, suonando e cantando sempre nella penombra e con molto whisky in corpo (la sua timidezza fu tra le cause che gli provocarono una seria dipendenza da alcol). Fabrizio in concerto con la PFM, nel 1979


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partire dal 1974, De André iniziò nuove collaborazioni con altri musicisti e cantautori. Negli anni settanta De André tradusse canzoni di Bob Dylan (“Romance in Durango” e “Desolation Row”), Leonard Cohen (“It seems so long ago, Nancy”, “Joan of Arc”, “Famous Blue Raincoat” per Ornella Vanoni e “Suzanne”) e Georges Brassens (lavoro che porterà all’uscita dell’album Canzoni del 1974). Nel 1975 collabora con Francesco De Gregori, che lavora con lui alla scrittura di molti brani dell’album Volume VIII del

1975, album non privo di sperimentazione in cui sono affrontate tematiche esistenziali quali il disagio verso il mondo borghese e la difficoltà di comunicazione; anche questo disco riscuote critiche negative, come quella di Lello D’Argenzio, che sostiene che De André si sia adattato allo stile del collega anche nel modo di cantare. Rimini (1978), segna l’inizio della collaborazione, che proseguirà nel tempo, con il cantautore veronese Massimo Bubola. Quest’album fa intravedere un De André esploratore di una musicalità più distesa, spesso di ispirazione americana. I brani trattano l’attualità (il naufragio di una nave a Genova) così come tematiche sociali (l’aborto e l’omosessualità). Andrea è uno dei brani più popolari dell’intera produzione di De André, che il suo coautore Massimo Bubola continua a proporre dal vivo durante i suoi concerti; in più di un’occasione l’artista genovese, ad esempio nel 1992, al teatro Smeraldo di Milano, ha eseguito il brano a luci accese, proprio a simboleggiare come l’omosessualità non debba essere motivo di vergogna. Un’altra canzone, Rimini, lui stesso la accosta alle atmosfere de “I Vitelloni” di Fellini, uno dei capolavori del celeberrimo regista. Nel successivo disco dal vivo inciso con la PFM, De André incide una gaffe. Al pubblico parla dei “Vitellini” di “Felloni”. Ma non è l’unico “errore” del disco. Mentre interpreta Sally, Fabrizio scambia il verso “mia madre mi disse: non devi giocare con gli zin-

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ANNI '70


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PARLANO DI LUI “De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano.”

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Nicola Piovano

gari nel bosco”, cantando “mia madre mi disse: non devi giocare con gli svizzeri nel bosco”. Nel 1978 la “Premiata Forneria Marconi” ideò e realizzò nuovi arrangiamenti di alcuni dei brani più significativi del cantautore genovese, proponendo a De André, inizialmente restio ad accettare, un tour insieme, che partì il 21 dicembre 1978 da Forlì e continuò per tutto il mese di gennaio 1979. L’operazione si rivelò positiva, tanto che il tour originò due album live, tra il 1979 ed il 1980, che conobbero un ottimo successo di vendite, anche se il secondo non riuscì a bissare i risultati del primo. Alcuni arrangiamenti realizzati dalla PFM furono utilizzati dal cantautore fino alla fine della sua carriera, Bocca di Rosa, La canzone di Marinella, Amico fragile, Il pescatore. Nei casi di Volta la carta o Zirichiltaggia del tour Anime Salve e M’innamoravo di tutto (gli ultimi concerti) De André era tornato agli arrangiamenti del disco del 1978. Nella seconda metà degli anni settanta, in previsione della nascita della figlia Luisa Vittoria, De André si stabilisce nella tenuta sarda dell’Agnata, a due passi da Tempio Pausania, insieme a Dori Ghezzi, sua compagna dal 1974, poi sposata nel 1989. La sera del 27 agosto 1979, la coppia fu rapita dall’anonima sequestri sarda e tenuta prigioniera nelle pendici del Monte Lerno presso Pattada, per essere liberata dopo quattro mesi (Dori fu liberata il 21 dicembre, Fabrizio il 22), dietro il versamento del riscat-

to, di circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre Giuseppe. Intervistato all’indomani della liberazione (il 23 dicembre in casa del fratello Mauro) da uno stuolo di giornalisti, De André tracciò un racconto pacato dell’esperienza («...ci consentivano, a volte, di rimanere a lungo slegati e senza bende») ed ebbe parole di pietà per i suoi carcerieri («Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai»). Pochi mesi dopo De André cedette al settimanale Oggi i diritti per la pubblicazione del memoriale del sequestro: pur essendo la rivista diretta da Edilio Rusconi dichiaratamente con simpatie a destra, De André accettò il compenso per la pubblicazione del racconto. L’esperienza del sequestro si aggiunse al già consolidato contatto con la realtà e con la vita della gente sarda, e gli avrebbe ispirato diverse canzoni, scritte ancora con Bubola e raccolte in un album senza titolo, pubblicato nel 1981, comunemente conosciuto come L’indiano, dall’immagine di copertina che raffigura un nativo americano. Il filo che lega i vari brani è il parallelismo tra il popolo dei Pellerossa e quello sardo, entrambi oppressi dai loro colonizzatori.


ANNI '80/'90

INTERVISTA DI VINCENZO MOLLICA Di cosa ha paura oggi Fabrizio De André? “Sicuramente della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo.” Qual è il desiderio che vorresti realizzare? “Sicuramente, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, rincontrare mio padre.” Che valore hanno per te l’utopia, il sogno? “Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura.” Che cos’è per te oggi la canzone? “La canzone è una vecchia fidanzata con cui passerei ancora molto volentieri buona parte della mia vita, sempre e soltanto nel caso di essere ben accetto.”

Dori Ghezzi e Fabrizio

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el 1982 fonda un’etichetta discografica (appoggiandosi alla Dischi Ricordi per la distribuzione): la “Fado” (Il nome deriva dalle iniziali del suo nome e da quelle di Dori Ghezzi), con cui pubblicherà dischi di Massimo Bubola, dei Tempi Duri e della stessa Ghezzi. Nel 1984 esce Creuza de mä, disco dedicato alla realtà mediterranea e per questo cantato interamente in lingua genovese, con l’importante collaborazione di Mauro Pagani, curatore delle musiche e degli arrangiamenti. Questo disco segna uno spartiacque nella carriera del cantautore: dopo questo album, Fabrizio esprime la volontà di non cantare più in italiano ma di concentrarsi esclusivamente sul genovese. A partire da Creuza de mä De André si concentra in particolar modo sulle minoranze linguistiche (tema che aveva già iniziato ad affrontare con stesura di Zirichiltaggia, sei anni prima). Creuza de mä è oggi considerato di fatto una pietra angolare dell’allora nascente world music, nonché un caposaldo della musica etnica. Ma Creuza de mä è anche l’album che libera De André dalle impostazioni vocali ereditate dalla tradizione degli chansonniers francesi, che gli garantisce la libertà di espressione tonale al di fuori di quei dettami stilistici che aveva assorbito da Brassens e da Brel. Nel 2004, ventennale dell’uscita di Creuza de mä, Mauro Pagani decide di rendere un sincero tributo all’amico


Oceano | La vita

PARLANO DI LUI “Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale”

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Paolo Villaggio

scomparso cinque anni prima, reincidendo e cantando egli stesso l’album. Alle sette canzoni originarie del disco, Pagani aggiunge Megu Megun, un brano composto insieme a Fabrizio e inserito nell’album Le Nuvole e due pezzi inediti, “Quantas Sabedes”, che non fu inserita in Creuza de mä perché “bruciata” dopo l’inserimento nella colonna sonora di un film (“ammenda fatta”, commenta Pagani nei credit dell’album del 2004), e “Nuette”, tratto da un frammento di lirica greca mai sviluppato nella sua interezza all’epoca da De André. Nel 1985 scrive insieme a Roberto Ferri il testo di Faccia di cane per i “New Trolls”, con cui partecipa come autore al Festival di Sanremo 1985, preferendo però non apparire ufficialmente come autore. Nel 1988 collabora con Ivano Fossati, cantando nella canzone “Questi posti davanti al mare” (contenuta nell’album “La pianta del tè”) insieme a Francesco De Gregori ed allo stesso Fossati. Inizia poi la lavorazione del suo album successivo, che viene pubblicato all’inizio del 1990: Le nuvole titolo che (come in Aristofane) allude ai potenti che oscurano il Sole, vede nuovamente la collaborazione di Mauro Pagani per la scrittura delle musiche (e di Ivano Fossati come coautore di due testi, Mégu Megún e ‘Â çímma, di Massimo Bubola per il testo di Don Raffaé e di Francesco Baccini per quello di Ottocento). Con questo album De André torna in parte al suo

stile musicale più tipico, affiancandolo alle canzoni in dialetto e all’ispirazione etnica. Torna anche la critica graffiante all’attualità, in particolare ne La domenica delle salme e in Don Raffaè. Fra il 1990 ed il 1996 collabora con vari autori, sia come autore che come cointerprete, nei rispettivi album: tra essi ricordiamo Francesco Baccini (“Genoa Blues”, un appassionato brano per la loro città e la loro squadra del cuore, il Genoa, del quale De Andrè fu molto tifoso), i Tazenda, Mauro Pagani, Max Manfredi, Teresa De Sio, Ricky Gianco, i New Trolls e il figlio Cristiano De André (“Cose che dimentico”). Da segnalare la collaborazione con “Li Troubaires de Coumboscuro” nell’album “A toun souléi”, dove De André partecipa all’incisione del brano in provenzale antico Mis amour, insieme a Clara Arneodo, la cantante solista del gruppo, e a Franco Mussida. Nel 1996 De André collabora con Alessandro Gennari alla scrittura del libro “Un destino ridicolo”, dal quale dodici anni dopo Costantini ha tratto il film “Amore che vieni, amore che vai”. Il 26 luglio 1997, Fernanda Pivano consegna a Fabrizio De André il “Premio Lunezia”, mettendo in imbarazzo il cantante parlando di lui come “il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia”, “quel dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo”.


L’ADDIO

Al suo ultimo concerto, nel 1998, si nota già il viso segnato dalla malattia

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opo il concerto a Roccella Ionica, il 13 agosto del 1998, era prevista un’altra tappa ad Aosta il 24 dello stesso mese. Tuttavia durante le prove De André sembrava scoordinato e a disagio: non riusciva a sedersi e imbracciare la chitarra come voleva e aveva anche un forte dolore al petto. Il cantautore gettò via la chitarra e non tenne il concerto quella sera. I biglietti furono poi risarciti. Qualche giorno dopo gli viene diagnosticato, in spiegazione a quanto accaduto, un carcinoma polmonare, che lo portò a interrompere definitivamente i concerti. Nonostante fosse malato, continuò a lavorare con Oliviero Malaspina al disco di notturni, un progetto che non verrà mai alla luce. De André sarà ricoverato solo verso la fine di novembre 1998, quando ormai la malattia era ad uno stato avanzato. Uscirà dall’Ospedale solo il giorno di Natale per poterlo trascorrere a casa insieme alla famiglia.La notte dell’11 gennaio 1999, alle ore 02:30, Fabrizio De André morì all’Istituto dei tumori di Milano, dove era stato ricoverato con l’aggravarsi della malattia. Aveva 58 anni, ne avrebbe compiuti 59 il successivo 18 febbraio. I funerali si svolsero nella Basilica di Santa Maria Assunta in Carignano a Genova il 13 gennaio: al dolore della famiglia partecipò una folla di oltre diecimila persone, in cui trovarono posto estimatori, amici ed esponenti dello spettacolo, della politica e della cultura.


Oceano | La vita

LIBERO DI VIVERE NELLA STRADA

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CITAZIONI “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”

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Fabrizio De Andrè

ono nato il 18 febbraio del 1940 a Genova Pegli, quindi Genova occidentale. Fu una colonia di peglini (o pegliesi) ad aver colonizzato Tabarca, in Tunisia. Intorno al 1700, mi pare che gli Arabi li avessero respinti coi forconi nel culo e quelli lì, prendendo il mare, la prima isola in cui si fermarono fu Carloforte. Allora si chiamava San Pietro eppoi è diventata Carloforte dove si parla infatti ancora il pegliese di quell’epoca [...] Dell’infanzia ricordo soprattutto la casa di campagna di mia nonna, una cascina: allora le vacanze estive duravano quattro mesi e, a parte quindici giorni di mare, che avevamo sotto, le passavamo tutte in campagna, con mio grande piacere. Lì ho assorbito tutto l’amore, che poi mi è rimasto, per la campagna, la natura, gli animali e la cultura contadina. Mio padre, contrariamente a quanto per anni è stato scritto, era di origini modeste: il benessere cominciò ad aggirarsi in casa nostra dopo che lui aveva superato i quarant’anni. Forse da queste radici la sua mai abbastanza ringraziata accondiscendenza a lasciarmi libero di vivere nella strada: e nella strada ho imparato a vivere come probabilmente prima di me aveva imparato lui. Ho fatto il classico al liceo comunale “Cristoforo Colombo”. A Genova ce n’erano tre di comunali: l’”Andrea Doria”, il “Cristoforo Colombo” e il “Mazzini”. Quest’ultimo era molto fuori zona, in periferia; per l’”Andrea Doria” c’era il problema di mio fratello che prendeva

10 anche in educazione fisica oltre che in filosofia e in italiano. Perciò non volendo rischiare confronti sono rotolato al liceo “Colombo” ch’era un po’ distante da casa però ero tranquillo che non mi si metteva in concorrenza con lui. Al liceo studiavo il meno possibile. Riuscivo a racimolare la sufficienza perché ai professori ero simpatico. E, d’altronde, andare a scuola mi serviva quando, d’estate, cercavo di rimorchiare le ragazze alla Lucciola, una balera alla periferia di Asti. Mi presentavo come uno studente di Genova, il che fa sem-


Fabrizio De Andrè con la sua chitarra classica in concerto

me la canta Mina, mi arrivano 600 mila lire in un semestre (somma davvero considerevole per quegli anni). Allora mi sono licenziato, ho preso armi e bagagli, moglie, figlio e suocero e ci siamo trasferiti in Corso Italia, che era un quartiere chic di Genova […] Da quel momento ho cominciato a pensare che forse le canzoni m’avrebbero reso di più e soprattutto divertito di più.

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pre effetto, da quelle parti […]Ho fatto un po’ di tutto: ho frequentato un po’ di medicina, un po’ di lettere e poi mi sono iscritto seriamente a legge dando, se non mi sbaglio, 18 esami. Poi ho scritto Marinella, mi sono arrivati un sacco di quattrini e ho cambiato idea […] dopo che Marinella l’aveva cantata Mina, eravamo nel ’65, io ero sposato da tre anni e lavoravo negli istituti privati di mio padre […] Lavoravo lì non sapendo cos’altro fare, visto che di laurea non se ne parlava perché stentavo molto a studiare, insomma questa Canzone di Marinella,


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GUARIRE LE PERSONE

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CITAZIONI “Pensavo, è bello che dove finiscono le mie dita deve in qualche modo incominciare una chitarra.”

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Fabrizio De Andrè

i ricordo che all’età di circa sedici anni mi ero comperato, dopo aver convinto mia madre, una chitarra elettrica (una Framus, allora una delle migliori) con quegli assurdi amplificatori Davoli (specie di cassette da frutta […]). M’aggregai a un gruppo di ragazzi genovesi che faceva jazz comperandomi pure dei plettri di gomma con l’intento d’imitare le sonorità di Jim Hall (il mio chitarrista preferito) […] La musica mi sedusse un po’ alla volta, come una troia prudente. Cominciò con qualche mormorio fioco, poi divenne balbuzie e pian piano acquistò la franchezza di un linguaggio che, per quanto elementare, era comunque il mio. Ma la musica fu anche una necessità. Nella mia famiglia tutti si esprimevano in modo non truccato, in assoluta coerenza con le scelte di ciascuno: l’avvocatura, il management, la politica, l’insegnamento. Io non ero capace di esprimermi a quei livelli, con quel misto di vocazione e, si dice oggi, di professionalità […] Il canto deve in qualche maniera avere come obiettivo quello che anticamente aveva la musica cantata ch’era di far guarire le persone. Quindi deve emozionare e un certo timbro, un certo tono di voce, può essere emozionante, può essere evocativo, può far immaginare di più di un tono piatto, di un timbro metallico. La mia voce poteva essere una voce da sciamano, tanto per farmi capire, dunque mi ha aiutato moltissimo. Che talvolta poi ne abbia approfittato anche in manie-

ra sgradevole questo è altrettanto vero, nel senso che ho esagerato col colorire con note basse dove non ce n’era assolutamente bisogno, proprio per narcisismo, per far sentire proprio queste basse, per sedurre (soprattutto me stesso). Ci si fa l’abitudine ai concerti. Hai mai visto gli orsi polari dentro i recinti degli zoo? Sicuramente soffrono per i primi anni, ma alcuni di loro sono arrivati a compiere il ciclo naturale della loro vita. Sono morti vecchi come i loro fratelli liberi fra i ghiacci dell’artico. La differenza è che loro, per quella vita di merda, non sono stati pagati. […] Penso che il fine della canzone sia quello, se non proprio di insegnare, almeno di indicare delle strade da seguire, dei codici di comportamento […] ed è l’unico motivo che mi fa pensare che questo possa anche essere un mestiere serio. Credo più nel disco come mezzo di comunicazione, che non nel rapporto diretto col pubblico. Preferisco che un ragazzo mi chieda “Nella tua comune agricola c’è posto per me?”, piuttosto che “Ma tu, dopo Spoon River, perché hai cambiato questo o quello?”


SEI CRESCIUTO IN UN MONDO NEL QUALE I SOLDI SONO CONSIDERATI LA DIVINITÀ SUPREMA CHE PUÒ TRASFORMARE D'INCANTO LA VITA IN PARADISO, LA CHIAVE PER SODDISFARE TUTTI I DESIDERI E SUPERARE OGNI DIFFICOLTÀ. È QUELLO CHE SEI STATO COSTRETTO A PENSARE A CREDERE FIN DA BAMBINO, COME TUTTI NOI CHE STIAMO ATTRAVERSANDO QUESTO SECOLO BUGIARDO. PENSA A QUANTO DENARO VIENE GETTATO OGNI GIORNO NEL GIOCO, NELLA LOTTERIA, NEL TOTOCALCIO. SAI PERCHÉ? PERCHÉ ALLA GENTE NON PIACE VIVERE. SOGNA IL COLPO GROSSO COME UN'OCCASIONE PER USCIRE DALLA VITA PRIMA CHE FINISCA, CON L'ILLUSIONE DI TAGLIARE IN UN COLPO SOLO TUTTI GLI INCONVENIENTI, LE CONTRARIETÀ E LE FATICHE. MA È UN INGANNO. PERCHÉ DIO HA VOLUTO CHE NELLA VITA CI FOSSERO BIANCO E NERO, CHIARO E SC URO, BENE E MALE. SE NON FUGGIAMO LE AVVERSITÀ E ACCETTIAMO DI AFFRONTARE ANCHE QUELLO CHE CI FA PAURA, PRIMA O POI IL MIRACOLO SI MANIFESTA, E ALLORA SCOPRIAMO CHE LA DIFFICOLTÀ PUÒ TRASFORMARSI IN UN'OCCASIONE, CHE I PROBLEMI SEMBRAVANO INSORMONTABILI PERCHÉ VENIVANO RIMANDATI E SI ACCUMULAVANO NELLA PIGRIZIA E NELL'AVIDITÀ.

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LA MUSICA


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DISCOGRAFIA

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CITAZIONI “A Sanremo si mettono in gioco le qualità dei cantanti in gara; io invece nelle canzoni penso a mettere in gioco i miei sentimenti e i miei ideali.”

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Fabrizio De Andrè

li anni dal 1961 al 1966 sono stati recentemente riuniti sotto il termine “Il primo De Andrè”. Non si tratta di un confine stilistico, anche se molte delle diciotto canzoni di questi anni hanno parecchio da spartire, quanto piuttosto di una periodizzazione utile. La prima casa discografica di Fabrizio De Andrè fu la Karim, che come suo artista ebbe proprio lui a partire dal 1961 con il disco Nuvole Barocche, il cui lato B era E fu la notte. Nel 1966, poco prima del fallimento, la Karim raccolse dieci canzoni di Fabrizio in un LP intitolato Tutto Fabrizio De Andrè, ma lo fece senza autorizzazione dell’autore. Nel 1968 il catalogo del cantautore passò alla Roman Record Company (RCC) che ripubblicò l’album Tutto Fabrizio De Andrè ma con titolo e copertina diversi sull’onda del successo del pezzo nella versione cantata dalla grande Mina, fu La canzone di Marinella. Le restanti canzoni invece vennero pubblicate su un altro LP nel 1969, sempre dalla RCC, intitolato Nuvole Barocche.

Dopo la rottura tra Fabrizio De Andrè e la Karim, Volume I fu il primo album pubblicato nel maggio del 1967 dalla nuova etichetta, la Bluebell Records. La prima edizione è stata pubblicata da Gian Piero Reverberi e Andrea Malcotti in mono ed aveva una copertina apribile color marrone con un’introduzione curata da Giuseppe Tarozzi. Dopo pochi mesi,

quattro per la precisione, vennero prodotte delle ristampe in versione stereo e cambiò anche la copertina, con De Andrè in primo piano a colori racchiuso in un cerchio, che pertanto rimarrà la copertina ufficiale del titolo e i


medesimi parametri grafici verranno ripresi anche per i due long playing successivi di De André, ed una nuova introduzione firmata da Cesare Romana. Nelle successive edizioni vennero apportati ulteriori cambiamenti, ad

esempio parte del testo della canzone Bocca di rosa subisce due variazioni (Il paesino di Sant’Ilario, un vero sobborgo di Genova con tanto di stazione ferroviaria, fu trasformato in San Vicario, così come cambiarono i versi riferiti alle

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Fabrizio De Andrè con Giampiero Reverberi, 1968


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De Andrè e il suo solito vizio, la sigaretta

PARLANO DI LUI “Forse non lo sapevi, Fabrizio, che cosa avevi fatto per me, per noi. Ero una prostituta della strada e ti ascoltavo, e da dentro sentivo montare la mia dignità. Poi, grazie alla dignità sono venuti l’orgoglio e la ribellione.”

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Carla Corso

forze dell’ordine dopo “cortesi pressioni” dell’Arma dei Carabinieri), mentre l’intera canzone Caro amore venne sostituita con La stagione del tuo amore nel 1970. Nell’album venne inoltre inclusa la già conosciuta Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, canzone del 1963 già presente nel 45 giri della Karmin. Si delinea in questo album quello che sarà lo stile musicale di De André, un abbinamento di melodie semplici e allo stesso tempo ricercate con la chitarra e un testo poetico con soggetti spesso tratti ai margini della società. Le canzoni dell’album sono tutte inedite al momento dell’uscita del disco salvo l’ultima, come detto prima, Carlo Martello. In seguito al successo del 45 giri con la Karmin e dell’album Volume I, a Fabrizio De Andrè venne messo a disposizione uno studio di registrazione all’avanguardia: quello della RCA, con Giorgio Agazzi come tecnico, con un’orhestra sinfonica di 80 elementi diretta da Gian Piero Reverberi. L’LP fu un vero concept album, infatti De Andrè, che non mancò di sottolinearlo, scelse questo tipo di disco anzichè un 45 giri (che era più richiesto dal mercato) perchè pensava che per parlar di amore, morte e guerra non poteva bastare lo spazio di una canzone e così nel 1968 uscì il suo Tutti morimmo a stento. “Questa opera parla della morte, non della morte cicca con le ossette, ma della morte psicologica, morale, mentale

che un uomo normale può incontrare durante la sua vita. Direi che una persona comune, ciascuno di noi forse mentre vive si imbatte diverse volte in questo genere di morte, in questi vari tipi anzi, di morte, prima di arrivare a quella vera: così quando tu perdi un lavoro, quando tu perdi un amico muori un po’, tant’è vero che devi un po’ rinascere dopo”. In un’altra intervista dice: “Ho tentato un affresco sulla miseria dell’uomo che è, implicitamente, un invito alla pietà, alla fraternità. Vi ho radunato il campionario di un’umanità derelitta: drogati, fanciulle traviate, condannati a morte, tutti coloro che, a salvarli, sarebbe bastato quel briciolo d’amore che la società non ha saputo dargli”. L’album fu a lungo considerato dallo stesso Fabrizio “barocco, cattedratico e pomposo”, ma in un secondo tempo lo rivalutò


Volume III nacque sull’onda del successo de La canzone di Marinella che cantò e incise Mina nel 1967. Un successo di tale portata che Fabrizio De Andrè smise di lavorare alle scuole professionali del padre per intraprendere l’attività di cantautore come una vera professione. Infatti fino allora, nonostante avesse al suo attivo dieci 45 giri e due LP, non era in condizione di vivere di sola musica. Grazie a Toni Casetta, proprietario della Bluebell Records, venne prodotto un album che riproponeva molti dei sucessi di Fabrizio con l’aggiunta di quattro nuove canzoni: Il gorilla, S’ì fosse fuoco, Nell’acqua della chiara fontanta e Il re fa rullare i tamburi. A riprova del successo ormai consolidato, l’album rimase nella classifica degli LP più venduti per due anni. Le canzoni reinterpretate e reincise nell’album sono sei: La canzone di Marinella, di cui si fece anche un 45 giri avente sul retro Amore che vieni, amore che vai, fu tra quelle riprese nella tournee del 1979 con la PFM; La ballata dell’eroe; la già citata Amore che vieni, amore che vai con intervento di Reverberi; lo stesso musicista adattò anche la famosa Guerra di Piero del 1964; Il testamento, incisa per la prima volta nel 1963, fu reinterpretato però con minime variazioni; La ballata del Mi-

chè, incisa nel 1962, che fu ripubblicata per la Bluebell Records nel 1968 su un 45 giri. La Buona Novella, quarto LP di De Andrè, è un altro concept album, quasi un romanzo, basato sulla storia di Gesù raccontata dai Vangeli apocrifi. Pubblicato nel 1970 su etichetta Produttori Associati. Ad accompagnare De Andrè nella registrazione fu il gruppo musicale dei Quelli, che di lì a poco avrebbero cambiato nome in Premiata Forneria Marconi (la famosa PFM). L’album è uno dei più significativi nella storia della musica d’autore italiana per la poeticità dei testi e la qualità delle melodie che raccoglie. Lo stesso Fabrizio considerava La Buona Novella una delle sue opere meglio riuscite, frutto di un coinvolgimento e di un’ispirazione profonda. I personaggi dell’album sono carichi di umanità, non solo perchè tali sono nei Vangeli apocrifi ma per esplicita scelta dell’autore, che rese la figura di Giuseppe più vicina e concreta e la figura di Gesù Cristo come il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Fabrizio De Andrè racconta così il suo album Non al denaro non all’amore nè al cielo del 1971: “Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto diciott’anni. Mi era piaciuto, e non so perchè mi fosse piaciuto, forse perchè in questi personaggi ci trovavo qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e

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largamente affermando che le canzoni sono belle ma che forse è il predicozzo finale che non gli dà un po’ fastidio.


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RICONOSCIMENTI

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-1975: Premio Tenco -1984: Targa Tenco per l’album Crêuza de mä e per la miglior canzone in dialetto -1991: Targa Tenco per il brano La domenica delle salme e per l’album Le nuvole -1997: Targa Tenco per il brano Princesa e per l’album Anime salve -1997: Premio Lunezia per Smisurata preghiera -2001(postumo): Premio Librex Montale

mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte invece i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perchè non hanno da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.” De Andrè si era dunque innamorati del libro di Edgar Lee Masters, tanto da volerci fare un album. I temi a cui si attenne furono principalmente l’invidia e la scienza, per poi parlare di molti aspetti della vita. Non al denaro non all’amore nè al cielo uscì nell’autunno del 1971 e fu subito un grande successo, nonostante fosse censurato dalla RAI e di conseguenza non venisse trasmesso in radio. De Andrè ci mise circa due anni prima dell’uscita del suo nuovo lavoro. Infatti l’album Storia di un impiegato, che prima doveva essere “Storia di un impiegato e di una bomba”, uscì nel 1973 anticipato però da un’intervista rilasciata l’anno prima: “Ora voglio fare un disco sull’anarchismo e da tempo sono già al lavoro per incontrare persone che l’anarchismo l’hanno vissuto da vicino. Perchè come ideologia politica negativa è senz’altro la più onesta di tutte, e perchè gli anarchici hanno sempre pagato di persona, senza coinvolgere gruppi, o mamme o papà.” De Andrè voleva svolge-

re un discorso poetico e umano mentre gli altri, Giuseppe Bentivoglio e Roberto Danè, propendevano per un contenuto più esplicitamente politico. Il risultato fu un album che venne criticato dalla sinistra per essere troppo moderato e dalla destra per essere troppo di sinistra, ma che venne accolto dalla gran parte degli appassionati come un disco che colpisce al cuore e alla testa. Molti lo considerano addirittura il miglior album della produzione faberiana. Il contesto è la rivolta studentesca del 1968, il famoso “Maggio francese” che aveva unito per la prima volta la protesta degli studenti a quella degli operai e che si era sviluppato anche in Italia con l’occupazione di fabbriche e università. La storia è quella di un impiegato, inteso come figura che non appartiene a nessuna classe sociale, che accortosi di vivere in una situazione di perbenismo vuole reagire, cambiare. Non potendo unirsi con gli studenti nelle piazze decide quindi per una protesta solitaria: una bomba. E sogna, in tre giorni diversi, di reagire contro tutti fino ad arrivare davanti ad un giudice che gli desse ragione. Svegliatosi decide di passare dall’intenzione ai fatti e gettare una bomba in parlamento (Il bombarolo) ma fallisce e viene arrestato. In prigione, oltre ascrivere alla donna che ama (Verranno a chiederti del nostro amore) porta avanti una protesta individualistica rinunciando alla sua ora di libertà (Nella mia ora di libertà). “Capisce


soprattutto che la rivolta individuale è solo un fatto estetico, che è necessaria un’azione collettiva per cercare di cambiare le cose”. Abbandonando il passo dei concept album e, come ammise lui, in crisi creativa, De Andrè uscì nel 1974 con un album-raccolta, Canzoni, in cui inserì due canzoni pubblicate su 45 giri prima di Storia di un impiegato (Suzanne e Giovanna d’Arco), tre canzoni nuove (Via della povertà, Le passanti e Morire per delle idee) e nuove interpretazioni di canzoni già amate dal suo pubblico (La canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Delitto di paese, Valzer per un amore, La ballata dell’amore cieco e Fila la lana). Queste nuove versioni miravano a far dimenticare le incisioni delle medesime fatte con l’etichetta Karim, con la quale era in causa. L’album ebbe arrangiamenti e direzione d’orchestra di Gian Piero Reverberi. Fabrizio De Andrè seduto in spiaggia, fine anni ‘70

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Volume 8, del 1975, è l’ottavo album registrato in studio da Fabrizio De Andrè ed è il frutto, almeno in parte, della collaborazione tra Fabrizio e un giovanissimo Francesco De Gregori. I due si conobbero nella primavera del 1973 al Folkstudio di Roma, infatti De Andrè andò a vedere dal vivo il giovane artista e gli piacque da subito, tanto da invitarlo nella sua casa in Sardegna a Portobello di Gallura. Nel giro di tre mesi i due scrissero quattro canzoni dell’album Volume 8: La cattiva strada,


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Oceano, Dolce Luna, Canzone per l’estate. Inoltre De Andrè incluse una canzone, per la prima volta, con la firma delle parole e della musica di De Gregori (che nel frattempo scrisse il suo album più famoso: Rimmel). Con questo lavoro De Gregori prese molto dallo stile di De Andrè e altrettanto De Andrè prese da De Gregori, ragione per cui la critica all’uscita dell’album non fu gentile nei confronti del cantautore genovese accusandolo di aver fatto leva sul giovane Francesco.

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Fabrizio De Andrè durante la collaborazione con il giovane Francesco De Gregori (con le spalle al muro)

L’album Rimini, del 1978, nato dalla collaborazione tra De Andrè e Massimo Bubola, nacque inizialmente senza un filo con-

duttore preciso, ma in corso d’opera i due cantautori trovarono un percorso comune. Il tema principale è la piccola borghesia e il suo tentativo di assomigliare alla borghesia vera: “Rimini si intitola Rimini perchè è il collocamento estivo di un certo tipo di persone che vanno a passare l’estate in un certo posto secondo certo clichè e secondo certi metodi di comportamento”. Le musiche e le linee melodiche delle canzoni mutano significativamente rispetto al passato: con Rimini si ascolta un bel po’ di America e di rock. L’annuncio del disco fu ripreso e rilanciato in modo ampio dalla stampa, segno evidente dell’interesse suscitato da De Andrè. Diversi importanti avvenimenti seguirono l’album Rimini: anzitutto un tour con la PFM che riscosse talmente tanto successo da fruttare la pubblicazione di due album live, considerati ancora ora tra i capisaldi della musica pop. Poi, e soprattutto, il rapimento di Fabrizio De Andrè e della allora compagna Dori Ghezzi dalla villa in Sardegna fra la notte del 28 e 29 agosto del 1979. Verranno liberati pochi giorni prima di Natale, dopo 118 giorni di prigionia. “Fu un momento di grande emozione. Mentirei se dicessi che lo vorrei passare di nuovo. Però, mi si passi il paradosso, lo augurerei a un sacco di gente, che vada a finire bene come il mio naturalmente, perchè veramente un’esperienza del genere aiuta a


Nel 1984 uscì l’album Creuza de mä ed ebbe da subito un grande successo, tanto da essere considerato un capolavoro della musica pop e un caposaldo della musica etnica. Ebbe rapida diffusione anche all’estero, tanto da essere citato nella prestigiosa rivista Rolling Stone come uno dei dischi più importanti degli anni ottanta, e rimane l’album più famoso e apprazzato all’estero. L’opera, partita da

In alto la Premiata Forneria Marconi (PFM), il gruppo che ha accompagnato De Andrè in ogni suo concerto, a sinistra la prima pagina di un quotidiano che riporta la notizia del rapimento di Fabrizio e Dori

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riscoprire i valori fondamentali della vita. Ti rendi conto di cosa vuol dire avere i piedi al caldo, quale grande conquista sia non avere l’acqua che ti gocciola sulla testa mentre dormi. Fai a meno del whisky. Le sigarette, sfortunatamente, me le passavano, altrimenti forse avrei smesso di fumare”. Così nel 1981 uscì il decimo album fatto in studio che, inizialmente senza titolo, si chiamò semplicemente Fabrizio De Andrè ma che poi verrà ribattezzato Indiano per l’immagine di copertina di Frederic Remington. Furono le riflessioni sui suoi rapitori a far maturare a De Andrè l’idea che tra sardi e indiani d’America ci fossero molte cose in comune. Ma quali erano i punti di contatto? “Moltissimi. A partire dall’identico modo di gestire l’economia, entrambe le civiltà sono vissute di sussistenza e non di produttività. E poi l’amore per la natura, il rispetto, il poco interesse per il denaro se non per lo stretto necessario alla sopravvivenza e all’amore grandissimo per i bambini.”


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CITAZIONI “Signora libertà, signorina anarchia, così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza”

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Fabrizio De Andrè

premesse assai incerte smentite subito dopo l’uscita, nasce dalla collaborazione tra De Andrè e Mauro Pagani, un affermato musicista, compositore e arrangiatore che stava da tempo riscoprendo e facendo ricerche sulla musica mediterranea, da quella balcanica a quella greca, turca e tutte le altre. Fu Fabrizio a lanciare l’idea di fare insieme un album “mediterraneo” che raccogliesse tante lingue dei paesi che si affacciano sul “Mare Nostrum”, ma per questioni di metrica e di rima optarono per il genovese. “Si è tentato di fare una specie di sintesi di quelli che erano i suoni del Mediterraneo: suoni non soltanto strumentali, ma anche vocali. Avete sentito dei suoni strani, bouzouki, oud, shanaj, suonati dal vostro beniamino Mario Arcari. Allora si è tentato di usare una lingua che gli scivolasse sopra; e fra gli idiomi mediterranei, combinazione, ci siamo resi conto che la lingua genovese, con la sua impostazione, con un vocabolario di 1500 termini persiani, turchi, e arabi, era quella che più si adattava ad accompagnare questo tipo di musica. Ne è nata una specie di sintesi, di sunto, di quello che potrebbe essere la musica mediterranea”. Alle motivazioni artistiche se ne aggiungeva una più generale e culturale, legata al rispetto che De Andrè nutriva nei confronti dei dialetti. Dopo il successo strepitoso di Creuza de mä De Andrè e Pagani presero il largo per l’usci-

ta di un album molto simile al precedente, ma dopo diversi mesi in giro per il Mediterrano il progetto fallì. Successivamente Fabrizio pensa ad un’opera sui mongoli ma anche di questo non si fece più nulla e passarono ben sei anni prima che De Andrè uscisse con un nuovo album, Le nuvole del 1990 con la collaborazione del solito Pagani e l’inserimento di Ivano Fossati e Massimo Bubola. Le Nuvole è un disco di protesta, a tratti molto aspra: “Se le mie nuovole del 1958 erano barocche, quelle di oggi potrebbero essere considerate rinascimentali. Sono cariche di significati allegorici. Mi sono reso conto che la gente è proprio incazzata e siccome Le nuvole è il simbolo di questa incazzatura, il transfert, il tramite di questo malcontento generale, direi che il disco è stato accolto quasi come un vessillo, come emblema della rabbia nei confronti di una nazione che sta andando a rotoli, e certo non per colpa dei cittadini”. L’album è diviso in due parti: il lato A è dedicato ai potenti, alle nuvole che oscurano il sole; il lato B parla invece del popolo lontano dai giochi del potere e quindi dal potere stesso. L’ultimo album in studio di Fabrizio De Andrè fu Anime Salve del 1996. L’anno successivo, nel ‘97, seguì la registrazione di una singola canzone: un duetto con Mina ne La canzone di Marinella inserita nella raccolta Mi innamoravo di tutto. Quando morì, l’11 gennaio del 1999,


Fabrizio De Andrè sul lungo mare sassoso tipico della sua Liguria

Fabrizio stava lavorando ad una nuova opera che sarebbe dovuta uscire nel 2000. Per Anime Salve ci volle un’attesa lunga (sei anni) e un parto complesso dovuto anche dalla collaborazione con Ivano Fossati. Racconta Fossati che all’inizio non avevano nemmeno un canovaccio da cui partire e che per il 90 per cento i testi sono stati scritti da De Andrè su idee di Ivano e per il 90 per cento le musiche erano state create da Fossati con qualche contributo di Fabrizio. Nonostante ciò i due avevano idee e visioni diverse su come dovesse uscire l’album, così Fossati lasciò il progetto e De Andrè scelse Piero Milesi come coproduttore, arrangiatore e direttore d’orchestra. Lavorarono insieme per un anno e alla fine uscì un capolavoro. “Questo lavoro può sinteticamente definirsi come l’osservazione e la descrizione di svariate e diseguali solitudini [...]. Dunque Anime Salve sono i solitari, i diversi, quelli che stanno ai margini, perchè ce li ha cacciati il sistema o perchè l’hanno scelto loro. Salvi, perchè soli, perchè liberi, perchè lontani da questa civiltà da basso impero dove i bambini vengono stuprati e gli adulti si arrabbiano solo quando gli rubi l’argenteria in casa”. Finisce così la produzione di Fabrizio De Andrè tra numerosi album, raccolte e canzoni.


42 * Ristampa ** Raccolta Rimini

1978

Volume 8

1975

Fabrizio De Andrè 2*

1973

Fabrizio De Andrè 1*

1972

La buona novella

1970

Nuvole Barocche*

1969

Tutti morimmo a stento

1968

Volume I

1967

1966

Fabrizio De Andrè Vol 1 e Vol 2*

1978

Fabrizio De Andrè*

1976

Canzoni**

1974

Storia di un impiegato

1973

Non al denaro non all’amore nè al cielo

1971

Il pescatore*

1970

Volume III

1968

La canzone di Marinella*

1968

Tutto Fabrizio De Andrè

Oceano | La musica


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Raccolte e ristampe

1999-2006

De Andrè in concerto**

1999

Mi innamoravo di tutto**

1997

Concerti**

1991

Fabrizio De Andrè 1 & 2*

1989

Creuza de mä

1984

Fabrizio De Andrè 1*

1982

Una storia sbagliata/ Titti**

1980

In concerto**

1979 1980

Opere complete**

1999

Anime salve

1996

La canzone di Marinella*

1995

Le nuovle

1990

Fabrizio De Andrè (antologia blu)*

1986

Fabrizio De Andrè 2*

1982

Fabrizio De Andrè (Indiano)

1981

In concerto Vol 2**


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LE STORIE DIETRO LE CANZONI

P

remettendo che tutte le canzoni di De Andrè sono capolavori, ho fatto una scelta strattamente personale tra quelle più importanti, quelle che hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura italiana, e quelle magari sono meno conosciute ma che trattano temi di grande attualità e importanza. Tutte le canzoni sono spiegate e in alcuni casi raccontate con le parole del cantautore in modo da coglierne il significato profondo.

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Bisogna poi precisare che oltre alle canzoni proposte, che rientrano nella mia sfera di preferenze (per lo meno in questo periodo) sia per la musica che per le parole, non vanno tralasciate altre canzoni di grande spessore che per questioni di tempo non sono riuscito a descrivere nel dettaglio. Le composizioni che vanno assolutamente ascoltate, almeno una volta, sono Amore che vieni amore che vai, Anime Salve, Bocca di Rosa, Canzone del Maggio, Canzone del padre, Coda di lupo, Dolce Luna, Dolcenera, Don Raffaè, Fila la lana, Giugno ‘73, Hotel Supramonte, Ho visto Nina volare, Il gorilla, Il pescarore, Khorakhanè, La ballata dell’amore cieco, La canzone di Barbara, La cattiva strada, La città vecchia, La guerra di Piero, La morte, Le acciughe fanno il pallone, Morire per delle idee, Princesa, Quello che non ho, Si chiamava Gesù, Un chimico, Un matto, Un medico, Un malato di cuore, Un ottico, Verranno a chiederti del nostro amore e Volta la carta.


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Questa di Marinella è la storia vera che scivolò nel fiume a primavera ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra a una stella sola senza il ricordo di un dolore vivevi senza il sogno di un amore ma un re senza corona e senza scorta bussò tre volte un giorno alla sua porta bianco come la luna il suo cappello come l’amore rosso il suo mantello tu lo seguisti senza una ragione come un ragazzo segue un aquilone e c’era il sole e avevi gli occhi belli lui ti baciò le labbra ed i capelli c’era la luna e avevi gli occhi stanchi lui pose la mano sui tuoi fianchi

LA CANZONE DI MARINELLA furono baci furono sorrisi poi furono soltanto i fiordalisi che videro con gli occhi delle stelle fremere al vento e ai baci la tua pelle dicono poi che mentre ritornavi nel fiume chissà come scivolavi e lui che non ti volle creder morta bussò cent’anni ancora alla tua porta questa è la tua canzone Marinella che sei volata in cielo su una stella e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno , come le rose

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e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose.


tranquillamente, senza il pericolo di offendere la morale o il buon costume [...]”. Ne uscì un 45 giri, nel ‘64, che venne appunto preso da Mina nel suo repertorio e divenne quindi popolare. Riguardo ciò, in un’altra intervista, De Andrè afferma: “Non considero La canzone di Marinella né peggiore né migliore di altre canzoni che ho scritto. Solo che le canzoni si distinguono in fortunate e sfortunate, e probabilmente il fatto che Marinella facesse rima con parole come bella o come stella l’ha resa più fortunata delle altre.”

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Fu questa canzone, grazie all’interpretazione di Mina, a portare De Andrè al successo e alla notorietà. L’ispirazione viene raccontata da Fabrizio, in diverse interviste, in questo modo: “La canzone di Marinella è uno dei brani a cui tengo di più, anche perchè ha segnato la svolta della mia vita. È la storia di una ragazza, figlia di contadini, che a sedici anni rimase orfana e senza casa, sotrattala da parenti predoni. Lei fu quindi costretta al marciapiede tra i paesini dell’Astigiano. Due anni dopo, durante uno di questi appuntamenti, il cliente la scippò, la uccise e la gettò nel Tanaro. Lessi questa storia su un quotidiano ed ebbi l’impulso di fare qualcosa per lei nell’unico modo in cui potevo, con una canzone: decisi di cambiarle la morte, visto che non potevo più cambiarle la vita, e scrissi questo testo come una specie di riscatto. Allora pensavo, e forse lo penso ancora, che se lei, da qualche parte, ha uno spiraglio attraverso il quale può vedere che qualcuno si occupa di lei, forse ne sarà contenta”. De Andrè afferma che la canzone inizialmente era molto più cruda e spinta, ma la moglie non apprezzò i toni così decise di limarla e quindi di farla diventare la storia di Marinella. “È nata in una versione quasi pornografica, molto spinta. Poi una persona che allora mi era particolarmente vicina mi ha fatto capire che quella canzone poteva diventare un grosso successo, quindi ne è venuta fuori una canzone a cui ci si poteva avvicinare


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Via del Campo c’è una graziosa gli occhi grandi color di foglia tutta notte sta sulla soglia vende a tutti la stessa rosa. Via del Campo c’è una bambina con le labbra color rugiada gli occhi grigi come la strada nascon fiori dove cammina. Via del Campo c’è una puttana gli occhi grandi color di foglia se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano

VIA DEL CAMPO e ti sembra di andar lontano lei ti guarda con un sorriso non credevi che il paradiso fosse solo lì al primo piano. Via del Campo ci va un illuso a pregarla di maritare a vederla salir le scale fino a quando il balcone ha chiuso.

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Ama e ridi se amor risponde piangi forte se non ti sente dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior.


Si può pensare che i versi “Via del Campo ci va un illuso / a pregarla di maritare” siano autobiografici, così come fa capire De Andrè in un’intervista nel ‘69: “Tuttavia le donne di strada sono un mio tema sincero. Ho vissuto in mezzo a loro. Sono semplici, spontanee [...]. Prima di incontrare mia moglie ho conosciuto e amato, molto amato, una donna di strada. Però sono stato vigliacco e ipocrita: ecco, qui sono rimasto borghese. No, non l’avrei mai sposata”.

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Anche Via del Campo rimane senza dubbio una delle canzoni più apprezzate dal pubblico e dallo stesso De Andrè, che la inserì in ogni suo tour. Il titolo fa riferimento ad una via nel cuore della vecchia Genova, in una zona che Fabrizio amava frequentare da quando era ragazzo, e la canzone fu ispirata da un travestito genovese che si supponeva fosse una bellissima ragazza bionda di nome Joséphine ma che in realtà era semplicemente un “Giuseppe”. Dalle parti di Via del Campo corre il nome di tale Morena, e non si può affatto escludere che i travestiti da cui De Andrè trasse ispirazione siano stati diversi, come le prostitute, e che ognuno abbia dato uno spunto. Uno dei temi più cari a Fabrizio De Andrè è relativo ai cosidetti ultimi, i diseredati, quelli che vivono ai margini della società, i poveri, i barboni, le prostitute, i ladri, gli ubriaconi. Un tema che in questa canzone è trattato in piena coerenza e trova felice sintesi negli ormai celeberrimi versi “dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior” che dicono tutto dell’atteggiamento che Fabrizio nutrì sempre nei confronti delle anime perse, dei ceti sociali più miseri. La canzone è famosa anche per una parola, cantata forse per la prima volta in modo così esplicito, senza enfasi, compiacimento o moralismi, quasi raccontando una parte di umanità. Il verso è “Via del Campo c’è una puttana”. Era il suo modo di parlare delle persone e ha di certo lasciato il segno.


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Ho licenziato Dio gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore. Le parole che dico non han più forma né accento si trasformano i suoni in un sordo lamento. Mentre fra gli altri nudi io striscio verso un fuoco che illumina i fantasmi di questo osceno giuoco. Come potrò dire a mia madre che ho paura? Chi mi riparlerà di domani luminosi dove i muti canteranno e taceranno i noiosi quando riascolterò il vento tra le foglie sussurrare i silenzi

che la sera raccoglie. Io che non vedo più che folletti di vetro che mi spiano davanti che mi ridono dietro. Come potrò dire la mia madre che ho paura?

CANTICO DEI DROGATI

Perché non hanno fatto delle grandi pattumiere per i giorni già usati per queste ed altre sere. E chi, chi sarà mai il buttafuori del sole chi lo spinge ogni giorno sulla scena alle prime ore. E soprattutto chi e perché mi ha messo al mondo dove vivo la mia morte con un anticipo tremendo? Come potrò dire a mia madre che ho paura? Quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota allora avrò il mio premio come una buona nota. Mi citeran di monito a chi crede sia bello giocherellare a palla con il proprio cervello. Cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito.

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Come potrò dire a mia madre che ho paura? Tu che m’ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria.


I personaggi della canzone sono dei drogati rappresentati dall’interno: un viaggio nella mente di chi ha “il vuoto nell’anima e nel cuore”, vive in un mondo popolato da fantasmi. Si recrimina su un mondo e su chi ci ha messo al mondo. Se si percepisce un filo di speranza, è una falsa speranza. La canzone, sottolineò il cantautore, gli permetteva di rappresentarsi e di liberarsi dall’imbarazzo di essere considerato un alcolizzato.

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La canzone è frutto della collaborazione tra De Andrè ed il grande poeta Riccardo Mannerini, legati da una profonda amicizia. Fu lui, attivista della Federazione anarchica genovese, ad approfondire in De Andrè il sentimento anarchico. Cantico dei drogati, derivata dai versi della poesia Eroina di Mannerini in virtù di una rivisitazione poetica quale solo il miglior De Andrè sapeva produrre, è un capolavoro che dopo oltre quarant’anni conserva intatta la sua valenza, originalità e potenza espressiva. La droga di cui vivevano Riccardo e Fabrizio era l’alcol. Il cantautore genovese disse di aver smesso di bere solo quando suo padre, sul letto di morte gli disse di smettere. Questa è la conversazione raccontata da De Andrè: “ [...] sul letto di morte mi chiamò e mi disse: ‘Promettimi una cosa’ e io: ‘Quello che vuoi papà’ ‘Smetti di bere’ E io: ‘Ma porca di una vacca maiala, proprio questo mi devi chiedere?’ Io, praticamente, avevo il bicchiere in mano. Ma ho promesso. E ho smesso.” “Scrivere il Cantico dei drogati, per me che avevo una tale dipendenza dall’alcol, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. È una reazione frequente, tra i drogati, quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perchè grazie all’alcol la fantasia viaggiava sbrigliatissima. Ho scritto sotto l’effetto dell’alcol testi di cui vado orgoglioso, come Amico fragile per esempio.”


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Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare: genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano. Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano. Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone:

quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Quanto a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Ricorda di santificare le feste. Facile per noi ladroni entrare nei templi che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni senza finire legati agli altari sgozzati come animali. Senza finire legati agli altari sgozzati come animali. Il quinto dice non devi rubare e forse io l’ho rispettato vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio.

IL TESTAMENTO DI TITO Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l’ami così sarai uomo di fede: Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore: ma non ho creato dolore. Il settimo dice non ammazzare se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno:

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guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno. Guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno. Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo. Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono:

ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore. Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore. Non desiderare la roba degli altri non desiderarne la sposa. Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa: nei letti degli altri già caldi d’amore non ho provato dolore. L’invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita. Ma adesso che viene la sera ed il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore.


Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare: genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Il primo comandamento, nato da una visione fortemente monoteista, è criticato per il fatto che non tutti credono in uno stesso dio e che quindi, questo, non deve portare a odio e violenza tra uomini. Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano. Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. In questo caso si lamenta dell’inutilità di invo-

care il nome di Dio, in quanto è considerato troppo spesso assente sulla scena del mondo. Ricorda di santificare le feste. Facile per noi ladroni entrare nei templi che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni. Allusione ai sacrifici compiuti dagli Ebrei sugli altari e alla discriminazione verso coloro “che non sono padroni o schiavi, dunque coloro che stanno ai margini, come i criminali” che non vengono ammessi ai templi. Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone. In questo caso la critica riguarda un comandamento che non tiene conto delle realtà di molte famiglie, che spesso non vivono di situazioni facili e semplici, e delle violenze che si consumano troppo spesso tra le mura domestiche, magari solo per qualche richiesta di troppo, come un pezzo di pane. Nei versi successivi allude anche al rapporto, che nel caso suo era tutto sommato normale, tra i figli ed il padre che, in particolare in quegli anni, assumeva atteggiamenti fin troppo violenti. Il settimo dice non ammazzare

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Il Testamento di Tito è una canzone di forte impatto sociale, che colpì per la sua originalità e considerata dallo stesso De Andrè come la sua miglior canzone, insieme ad Amico fragile. Nel suo “testamento” Tito, De Andrè, analizza tutti i comandamenti, uno ad uno, per raccontare come li ha violati eccetto, significativamente, quello che impone di non ammazzare. Di seguito l’analisi di ogni comandamento che, per motivi non noti, seguono una sequenza variata rispetto al decalogo della Bibbia.


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se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno. Al settimo posto nei comandamenti di Faber (anzichè al quinto posto) si parla della pena di morte, a cui è fortemente contrario, che in questo caso ha colpito il Nazareno come un qualunque ladrone. Il contro-comandamento sottolinea come una proibizioni così semplice e chiara sia costantemente violata, anche ai tempi nostri.

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Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l’ami così sarai uomo di fede: Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore: ma non ho creato dolore. In questo comandamento De Andrè allude alla visione peccaminosa che si ha del sesso in quanto tale, soprattutto dagli esponenti della Chiesa o dai “perbenisti”. Nei suoi versi fa capire che è molto meglio dedicarsi al piacere sessuale fine a sè stesso, piuttosto che procreare e mettere al mondo un figlio poichè molto spesso capita che, per mancanza di

“amore” o mancanza di denaro, il pargolo diventi un “peso” e venga ucciso dalla fame. Il quinto dice non devi rubare e forse io l’ho rispettato vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. De Andrè mette al quinto posto il settimo comandamento che può sembrare ovvio ma contiene un’assurdità. Infatti, se a scrivere questa legge e a farla rispettare sono i potenti che poi, qualche via subdola, sono autorizzati a rubare, che fare? Il mondo è pieno di furbi che riescono a rubare in modo legale. Diceva lo stesso Faber: “Gli zingari rubano, è vero. Hanno rubato anche a me. Ma non ho mai sentito dire o letto che rubano tramite banca”. Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo. Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono. Anche questo, come il quinto, De Andrè se la prende con la legge dei potenti che chiede la complicità al popolo, sfruttandolo per condannare a morte chi vuol togliere di mezzo. Se lo scopo è questo, allora è un’altra legge da non rispettare, senza provarne dolore.


Nono e decimo comandamento, rispettivamente: “Non desiderare la casa del tuo prossimo” e “Non desiderare la moglie del tuo prossimo, nè il suo schiavo, nè la sua schiava, nè il suo bue, nè il suo asino, nè alcuna cosa appartenga al tuo prossimo”. In un mondo perfetto, o quasi, sarebbe giusto e normale rispettare e non desiderare quel che è degli altri. Ma se il mondo è nettamente diviso tra chi ha e chi non ha, e chi scrive questo comandamento è dalla parte di chi ha, forse di nuovo le cose non sono così semplici. E nessuno, naturalmente dalla parte di chi ha e di chi potrebbe farlo, cerca mai di aiutare o per lo meno alleviare le sofferenze dei più poveri e degli emarginati che sono costretti, schiacciati da una società ingiusta e fortemente classista, ad osservare e desiderare almeno una piccola parte di ciò che hanno gli altri, poichè loro, pur cercando di rispettare il comandamento, non hanno nulla. Ma adesso che viene la sera ed il buio

mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore. Nel Nuovo Testamento l’attenzione si sposta su un nuovo, undicesimo comandamento basato sull’amore tra uomini. L’unica cosa che ha imparato da Gesù, l’unica veramente importante, dice la canzone, è appunto l’amore.

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Non desiderare la roba degli altri non desiderarne la sposa. Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa: nei letti degli altri già caldi d’amore non ho provato dolore. L’invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita.


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Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente, o la curiosità di una ragazza irriverente che si avvicina solo per un suo dubbio impertinente: vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani, che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente. Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti; la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore toppo, troppo vicino al buco del culo.

UN GIUDICE Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami. diventai procuratore per imboccar la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

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E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva Vostro Onore, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio non conoscendo affatto la statura di Dio.


sta persona piccola di statura è agguerrita, è tronfia di se stessa, e ha abbastanza carattere per tentare di dare la scalata al potere, per arrivarci, al potere. [...] Io non auguro a nessuno, piccolo o grande che sia, di ridursi alla statura morale di questa persona, che all’ultimo momento, incarognito a sua volta dalla gente, si caga sotto quando è all’ultimo respiro, senza avere idea di quale statura possa avere il presunto Dio che lo giudicherà”.

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Una delle canzoni più famose, ripresa da molti artisti soprattutto grazie all’arrangiamento fatto dalla PFM. Si parla di una persona piccola di statura che viene per questo dileggiata e per vendicarsi dei soprusi subiti diventa giudice, così che tutti siano costretti a portargli rispetto e temerlo. La storia è tratta da una delle poesie di Lee Masters, la storia di Selah Lively, adattata naturalmente da De Andrè soprattutto nella parte iniziale e viene raccontata dallo stesso autore in questo modo, in un concerto del 1976: “Certe volte, molto stupidamente, ce la si prende con le persone piccole di statura. Chissà perchè le persone che sono alte un metro e settanta, uno e sessantotto, vedendo un’altra persona che deve prendere una scaletta per riuscire a impiccare il proprio abito a un attaccapanni lo prendono per il sedere. È una cosa abbastanza antipatica direi, tanto più che queste persone piccole di statura da un punto di vista di quello che è il loro funzionamento cerebrale sono addirittura all’avanguardia di quelo che può essere una persona longilinea. Mi hanno spiegato dei medici, miei amici, che la statura piccola dà una più intensa e maggiore prontezza di riflessi. Però ripeto, una persona che sia piccola è necessariamente colpita da questa necessità delle persone alte di prenderla per il sedere. È come se un tulipano se la prendesse con una melanzana. Una cosa abbastanza cretina. In questo caso, nel caso specifico però, que-


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Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore, più non arrossii nel rubare l’amore dal momento che Inverno mi convinse che Dio non sarebbe arrossito rubandomi il mio. Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino, non avevano leggi per punire un blasfemo, non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte. Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo, lo costrinse a viaggiare una vita da scemo, nel giardino incantato lo costrinse a sognare, a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male.

UN BLASFEMO Quando vide che l’uomo allungava le dita a rubargli il mistero di una mela proibita per paura che ormai non avesse padroni lo fermò con la morte, inventò le stagioni. ... mi cercarono l’anima a forza di botte...

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E se furon due guardie a fermarmi la vita, è proprio qui sulla terra la mela proibita, e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato, ci costringe a sognare in un giardino incantato ci costringe a sognare in un giardino incantato.


Masters, quello della mela proibita, cioè della possibilità di conoscenza non più detenuta da Dio ma dal potere poliziesco del sistema”. De Andrè rispose quindi: “Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato di botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare [...] perchè doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non contro un’immagine così metafisica”.

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Nel Blasfemo De Andrè tocca un altro tema a lui molto caro, ovvero il rapporto con Dio. La canzone (ripresa da una storia della Spoon River Anthology di Lee Masters) infatti racconta di una società bigotta che non accetta il pensiero libero. Nella prima strofa c’è già una sintesi: “Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore” (per pregare) “più non arrossii nel rubare l’amore” (riferito all’amore libero). Non avendo leggi per punire un blasfemo, lo arrestano per il suo comportamento “antisociale” e in carcere, lontano dallo sguardo degli altri, due guardie bigotte lo ammazzano a forza di botte. Il blasfemo accusa Dio di aver ingannato l’uomo facendogli credere che esista solo il bene, e di averlo punito sprofondandolo in una vita non eterna (“lo fermo con la morte, inventò le stagioni”). Sono queste accuse, ovviamente non accettate dalla società, a determinare una sorta di condanna a morte per colui che le muove. Le ultime due strofe contengono delle aggiunte di De Andrè: la prima, la più audace, è relativa all’invenzione di Dio (“E non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato”) affermazione che Lee Masters non si sarebbe mai permesso di avanzare e che De Andrè esprime con una concezione umana della divinità. L’altra riguarda la citazione della mela proibita, a cui è stata posta la seguente affermazione: “Ma per esempio nella poesia del blasfemo tu hai aggiunto un’idea che non era in


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Chi va dicendo in giro che odio il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo, è quasi indipendente ancora poche ore poi gli darò la voce il detonatore. Il mio Pinocchio fragile parente artigianale di ordigni costruiti su scala industriale di me non farà mai un cavaliere del lavoro, io sono d’un’altra razza, son bombarolo. Nello scendere le scale ci metto più attenzione, sarebbe imperdonabile giustiziarmi sul portone proprio nel giorno in cui la decisione è mia sulla condanna a morte o l’amnistia. Per strada tante facce non hanno un bel colore, qui chi non terrorizza si ammala di terrore,

IL BOMBAROLO c’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, io sono d’un altro avviso, son bombarolo. Intellettuali d’oggi idioti di domani ridatemi il cervello che basta alle mie mani, profeti molto acrobati della rivoluzione oggi farò da me senza lezione. Vi scoverò i nemici per voi così distanti e dopo averli uccisi sarò fra i latitanti ma finché li cerco io i latitanti sono loro, ho scelto un’altra scuola, son bombarolo.

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Potere troppe volte delegato ad altre mani, sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani,

io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore del tuo disordine del tuo rumore. Così pensava forte un trentenne disperato se non del tutto giusto quasi niente sbagliato, cercando il luogo idoneo adatto al suo tritolo, insomma il posto degno d’un bombarolo. C’è chi lo vide ridere davanti al Parlamento aspettando l’esplosione che provasse il suo talento, c’è chi lo vide piangere un torrente di vocali vedendo esplodere un chiosco di giornali. Ma ciò che lo ferì profondamente nell’orgoglio fu l’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio lontana dal ridicolo in cui lo lasciò solo, ma in prima pagina col bombarolo.


tritolo” è quindi il Parlamento. “L’impiegato sa cosa fare, sa dove andare, sa chi deve colpire e perchè. Va dritto al Parlamento a gettare una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno: la bombola rotola giù verso un’edicola di giornali”. Molto più tardi De Andrè si esprimerà così riguardo al terrorismo: “Il terrorismo è stata la vera esasperazione: il Sessantotto che ho vissuto io era un’epoca ricca di fantasia e ha fatto del bene. Le Brigate Rosse no, se avessero vinto, oggi staremmo peggio”.

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Questa canzone, dell’album Storia di un impiegato, parla appunto di un impiegato che accortosi di voler far parte dei moti rivoluzionari in Italia nel ‘68 decide di fare un atto eclatante: lo scoppio di una bomba in Parlamento. Infatti il protagonista ha le idee molto chiare e per sfogare la sua rabbia decide appunto di lanciare una bomba contro il potere. La prepara in modo del tutto artigianale, tanto da paragonarla ad un burattino di legno (“il mio Pinocchio fragile”). Mentre prepara l’attentato si sente rinvigorito, importante, al centro del mondo. A lui spetta la decisione “sulla condanna a morte o l’amnistia”. Nessuna gli dirà più cosa fare, tutto il potere è nelle sue mani. Sta anzi attento a non farsi male (“nello scendere le scale / ci mettò più attenzione), per poter essere più lucido quando agirà. Camminando tra la gente vede visi disperati, afflitti dalla paura. Con bellissima sintesi: “qui chi non terrorizza si ammala di terrore”. Non è così per lui, ha scelto di agire: è un bombarolo. Anche gli intellettuali non sfuggono alla sua condanna: “Perchè gli intellettuali sono delle bestie molto pesanti, degli acrobati della rivoluzione, cioè a parole sono pronti a tutto, ma, in realtà, dopo aver tirato i sassi, cioè le parole, si tirano indietro, bene al riparo”. Infine il bombarolo se la prende con il potere stesso. La bomba restituirà un po’ di terrore a chi lo semina con gli aerei (espressione profetica del nuovo modo di fare la guerra). Il luogo “adatto al


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Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone che non sia l’aria di quel cortile voglio soltanto che sia prigione che non sia l’aria di quel cortile voglio soltanto che sia prigione. È cominciata un’ora prima e un’ora dopo era già finita ho visto gente venire sola e poi insieme verso l’uscita non mi aspettavo un vostro errore uomini e donne di tribunale se fossi stato al vostro posto... ma al vostro posto non ci so stare se fossi stato al vostro posto... ma al vostro posto non ci sono stare. Fuori dell’aula sulla strada ma in mezzo al fuori anche fuori di là ho chiesto al meglio della mia faccia una polemica di dignità

che non ci sono poteri buoni. E adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali tranne qual’è il crimine giusto per non passare da criminali. C’hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame. Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va e abbiamo deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà venite adesso alla prigione state a sentire sulla porta la nostra ultima canzone che vi ripete un’altra volta per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ tante le grinte, le ghigne, i musi, vagli a spiegare che è primavera e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera e poi lo scanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera.

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Tante le grinte, le ghigne, i musi, poche le facce, tra loro lei, si sta chiedendo tutto in un giorno si suggerisce, ci giurerei quel che dirà di me alla gente quel che dirà ve lo dico io da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio. Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni da non riuscire più a capire


piccola vittoria contro il potere “rinchiudendolo nelle celle” nell’ora di libertà. Il passaggio dall’io al noi è molto evidente, così come la chiusura che riprende il ritornello della Canzone del Maggio: “Per quanto voi vi crediate assolti / siete lo stesso coinvolti”.

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Nell’ultima canzone dell’album, l’impiegato si rende conto che una protesta individuale ha poche possibilità di ottenere dei risultati, di intaccare il potere. Inizialmente l’impiegato continua a muso duro nel suo tentativo solitario di sconfiggere il potere, che in prigione è rappresentato dai secondini. Piuttosto che averli intorno anche nella sua ora di libertà, rinuncia a uscire e rimane in cella. Rinuncia alla sua minima misura di libertà pur di fare uno sgarbo al potere. Nella sua cella ripensa a com’è andato il processo per l’atto compiuto in precedenza, assistendo ai piccoli giochi del potere: gente venuta sola e uscita insieme, rassicurata e rallegrata dalla giustizia fatta. Lui, l’imputato, ha cercato di darsi un tono, pur non aspettandosi nè clemenza nè errori da parte del giudice. Come avrebbe potuto? Ormai era tutto deciso. L’unica faccia che distinuge nella folla è quella della sua donna. Sta cercando di darsi contegno, sta pensando a cosa potrà dire del suo uomo. Lui lo sa, sa bene cosa potrà dire, ignorando tutto di lui e dei pensieri che gli hanno attraversato la mente: dirà semplicemente che lo aveva visto un po’ diverso, ma nemmeno tanto. Tornando alle riflessioni dell’impiegato si arriva alla conclusione che "non ci sono poteri buoni" e che l’unico modo per cambiare le cose, forse, è fare come gli studenti del Maggio francese: una rivolta di massa, tra uguali, tutti insieme. I carcerati, insieme, riescono ad ottenere una


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Quanti cavalli hai tu seduto alla porta tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto la notte non ha bisogno la notte fa benissimo a meno del tuo concerto ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo Ed arrivò un bambino con le mani in tasca ed un oceano verde dietro le spalle disse “Vorrei sapere quanto è grande il verde come è bello il mare, quanto dura una stanza,

OCEANO è troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”

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Prova a lasciare le campane al loro cerchio di rondini e non ficcare il naso negli affari miei e non venirmi a dire “Preferisco un poeta, preferisco un poeta ad un poeta sconfitto” Ma se ci tieni tanto puoi baciarmi ogni volta che vuoi


fanno a una certa età, e a cui i padri non sanno rispondere: “Io vorrei fare una canzone che ho dedicato a mio figlio. Gliel’ho dedicata per forza perchè mi aveva messo con le spalle al muro, mi faceva delle domande tipo quanto è grande il verde quanto è bello il mare, quanto dura una stanza.. Io non sapevo assolutamente come rispondergli, e gli avevo dedicato questa canzone. Non è che con queste risposte io l’abbia messo nelle condizioni di non dover più domandare nulla, magari potessi assolvere a questo problema di padre!”.

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La canzone è senza dubbio ermetica, partorita dalle menti di De Andrè e del giovane De Gregori. L’idea nasce da una domanda che veniva sempre posta dal figlio di Fabrizio, Cristiano, riguardo alla canzone Alice di De Gregori, “Perchè Alice guarda i gatti?”, ma si allarga alle domande di tutti i bambini che non hanno e non possono avere risposte semplici. De Andrè inserì subito la canzone nei suoi concerti. La presentava con una dedica al figlio, raccontando come fosse nata l’idea di raccogliere le domande che tutti i bambini si


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Evaporato in una nuvola rossa in una delle molte feritoie della notte con un bisogno d’attenzione e d’amore troppo, “Se mi vuoi bene piangi “ per essere corrisposti, valeva la pena divertirvi le serate estive con un semplicissimo “Mi ricordo”: per osservarvi affittare un chilo d’era ai contadini in pensione e alle loro donne e regalare a piene mani oceani ed altre ed altre onde ai marinai in servizio, fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli senza rimpiangere la mia credulità: perché già dalla prima trincea ero più curioso di voi, ero molto più curioso di voi. E poi sorpreso dai vostri “Come sta” meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci, tipo “Come ti senti amico, amico fragile, se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te” “Lo sa che io ho perduto due figli” “Signora lei è una donna piuttosto distratta.” E ancora ucciso dalla vostra cortesia nell’ora in cui un mio sogno ballerina di seconda fila, agitava per chissà quale avvenire

AMICO FRAGILE il suo presente di seni enormi e il suo cesareo fresco, pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci, mi sentivo meno stanco di voi ero molto meno stanco di voi.

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Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta fino a farle spalancarsi la bocca. Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli di parlare ancora male e ad alta voce di me. Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo con una scatola di legno che dicesse perderemo. Potevo chiedere come si chiama il vostro cane Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero. Potevo assumere un cannibale al giorno per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle. Potevo attraversare litri e litri di corallo per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci. E mai che mi sia venuto in mente, di essere più ubriaco di voi di essere molto più ubriaco di voi.


Andrè. Fabrizio sottolineò la valenza politica della canzone: “Prendiamo Amico fragile, che rispecchia la mia situazione reale in Sardegna: quando mi sono trovato con la chitarra in mano in mezzo a gente che pensava solo al divertimento, agli affari suoi, al denaro, allo sfruttamento. Allora ho messo in evidenza la differenza che c’è tra loro e una persona come me che scrive per sè e per gli altri. Anche questa è un’operazione politica [...]”.

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Una delle canzoni più autobiografiche e più amate da Fabrizio De Andrè. Quasi sempre è stata inserita nei concerti, a volte cambiando il verso “per raggiungere un posto che si chiamasse / Arrivederci” in “per raggiungere un posto che si chiamasse / Anarchia”. La genesi di Amico fragile è stata raccontata dello stesso Fabrizio così: “Amico fragile è nata così: quando ero ancora con la mia prima moglie, fui invitato una sera a Portobello di Gallura, dove m’ero fatto una casa nel ‘69 [...] e le sere finivano sempre per me col chiudersi puntualmente con la chitarra in mano. Una sera ho tentato di dire ‘Perchè non parliamo di..’ [...] nemmeno per sogno, io dovevo suonare. Allora mi sono proprio rotto i coglioni, mi sono ubriacato sconciamente, ho insultato tutti, me ne sono tornato a casa e ho scritto Amico fragile. L’ho scritta da sbronzo, in un’unica notte. Ricordo che erano circa le otto del mattino, mia moglie mi cercava, non mi trovava nè a letto nè da nessun’altra parte: c’era infatti una specie di buco in casa nostra, che era poi una dispensa priva anche di mobili, dove m’ero rifugiato e mi hanno trovato lì che stavo finendo proprio questa canzone”. La canzone comincia esattamente da dove il racconto termina: la nuvola rossa citata all’inizio è un riferimento all’alcol; la dispensa dove si era rifugiato è “una delle molte feritorie della notte”. Scritto o no sotto l’effetto dell’alcol, il testo dimostra un’efficacia non comune, degna del miglior De


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Teresa ha gli occhi secchi guarda verso il mare per lei figlia di pirati penso che sia normale Teresa parla poco ha labbra screpolate mi indica un amore perso a Rimini d’estate. Lei dice bruciato in piazza dalla santa inquisizione forse perduto a Cuba nella rivoluzione o nel porto di New York nella caccia alle streghe oppure in nessun posto ma nessuno le crede. Coro: Rimini, Rimini E Colombo la chiama dalla sua portantina lei gli toglie le manette ai polsi gli rimbocca le lenzuola “Per un triste Re Cattolico - le dice ho inventato un regno e lui lo ha macellato su di una croce di legno.

RIMINI

E due errori ho commesso due errori di saggezza abortire l’America e poi guardarla con dolcezza ma voi che siete uomini sotto il vento e le vele non regalate terre promesse a chi non le mantiene “. Coro: Rimini, Rimini Ora Teresa è all’Harrys’ Bar guarda verso il mare per lei figlia di droghieri penso che sia normale porta una lametta al collo è vecchia di cent’anni di lei ho saputo poco ma sembra non inganni. “E un errore ho commesso - dice un errore di saggezza abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza

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ma voi che siete a Rimini tra i gelati e le bandiere non fate più scommesse sulla figlia del droghiere”.


Cristoforo Colombo, incontrato da Teresa sul letto di morte, che le confida la fine orribile che è toccata alla sua scoperta: ha regalato un mondo a un “triste Re cattolico” e lui l’ha “macellato su una croce di legno”, esplicito riferimento all’evangelizzazione forzata del Centro America. Colombo dirà inoltre: “Due errori ho commesso / due errori di saggezza / abortire l’America / e poi guardarla con dolcezza”.

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Canzone che da il titolo all’album e che ne definisce il carattere. “Rimini è l’emblema del disco: è infatti il luogo dove durante l’estate ci si sveste dell’esperienza quotidiana per approdare a un miraggio di benessere e di consumo, che per quindici giorni ci fa sentire qualcuno”. Nel presentare il brano durante la sua turnèe con la PFM, lo stesso Fabrizio disse: “Storia di una piccola borghese che è costretta ad abortire non per sua volontà ma perchè alla fin dei conti le torna più comodo, perchè altrimenti gliene dicono di tutti i colori”. “Storia di una ragazza che vive male, che vive in un mondo di merda [...] Ebbene questa ragazza è costretta a fare una cosa che non avrebbe fatto mai, ovvero abortire il figlio del bagnino, perchè imprigionata da certe regole stronze che sono la regola piccola borghesia. Ma il dramma è che dopo aver abortito se lo prende in braccio e lo guarda con dolcezza. A me sembra un dramma”. Quindi Teresa, il personaggio della canzone, è una persona semplice, figlia del droghiere, che, messa incinta dal bagnino, abortisce per poi pentirsene. Coinvolta nei pettegolezzi della gente, cerca di sfuggire alla realtà inventandosi una storia un po’ stampalata in cui il suo “fidanzato” è stato ucciso dalla santa inquisizione, o magari a Cuba durante la rivoluzione o addirittura nel porto di New York ai tempi della caccia alle streghe. Nessuno le crede ma lei continua a fantasticare. Nel mezzo di questa storia c’è la comparsa di


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ANDREA Andrea s’è perso s’è perso e non sa tornare Andrea s’è perso s’è perso e non sarà tornare Andrea aveva un amore Riccioli neri Andrea aveva un dolore Riccioli neri. C’era scritto sul foglio ch’era morto sulla bandiera C’era scritto e la firma era d’oro era firma di re Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia. Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia. Occhi di bosco contadino del regno profilo francese Occhi di bosco soldato del regno profilo francese E Andrea l’ha perso ha perso l’amore la perla più rara E Andrea ha in bocca un dolore la perla più scura. Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo Andrea gettava Riccioli neri nel cerchio del pozzo Il secchio gli disse - Signore il pozzo è profondo più fondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto.

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Lui disse - Mi basta mi basta che sia più profondo di me. Lui disse - Mi basta mi basta che sia più profondo di me.


una ciocca di capelli (“riccioli neri”) nel pozzo e possiamo immaginarcelo mentre la guarda lentamente cadere e perdersi nel buio. Il secchio del pozzo cerca di dissuaderlo da quello che sta per fare dicendo che è molto profondo ma Andrea ha deciso di gettarsi per raggiungere il suo amato e dice: “mi basta che sia più profondo di me”.

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Andrea è una canzone contro la guerra ma anche contro l’atteggiamento morale che avversa gli omosessuali. Parla infatti di un amore tra due “lui”, uno morto in guerra e l’altro che non sopravvive alla scomparsa dell’amato. Volutamente, questo tipo di relazione è trattato in modo sfumato e poco comprensibile a un primo ascolto. È solo durante le esecuzioni dal vivo che De Andrè chiarì il significato della canzone. “La dedichiamo a quelli che Platone oltre che filosoficamente anche molto poeticamente chiamava i figli della Luna, e che invece noi insistiamo nel chiamare gay o, con una strana forma di compiacimento diversi se non addirittura culi, e questo non va bene. E ci fa piacere cantare questa canzone che per loro è stata scritta una dozzina d’anni fa così a luci accese, anche a dimostrazione che oggi, almeno in Europa, ognuno può essere sempicemente se stesso senza bisogno di vergognarsene più”. La canzone, nella prima strofa, ci presenta Andrea già sperduto con il suo amore/dolore (sottile ma notevole il cambio della parola “amore” in “dolore” nei versi tre e quattro). Sappiamo anche che il suo amore ha i riccioli neri. La seconda strofa ci fa capire l’origine del dolore: l’amore di Andrea è morto in battaglia, sui monti di Trento (quindi nella Prima Guerra Mondiale). Ci viene detto poi che era un contadino partito soldato, dai tratti belli e dolci: “occhi di bosco”, “profilo francese”. Andrea, disperato per la sua morte getta


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Mia madre mi disse - Non devi giocare con gli zingari nel bosco. Mia madre mi disse - Non devi giocare con gli zingari nel bosco. Ma il bosco era scuro l’erba già verde lì venne Sally con un tamburello ma il bosco era scuro l’erba già alta dite a mia madre che non tornerò. Andai verso il mare senza barche per traversare spesi cento lire per un pesciolino d’oro. Andai verso il mare senza barche per traversare spesi cento lire per un pesciolino cieco. Gli montai sulla groppa sparii in un baleno andate a dire a Sally che non tornerò. Gli montai sulla groppa sparii in un momento dite a mia madre che non tornerò. Vicino alla città trovai Pilar del mare con due gocce d’eroina s’addormentava il cuore. Vicino alle roulottes trovai Pilar dei meli bocca sporca di mirtilli un coltello in mezzo ai seni.

SALLY Mi svegliai sulla quercia l’assassino era fuggito dite al pesciolino che non tornerò. Mi guardai nello stagno l’assassino s’era già lavato dite a mia madre che non tornerò. Seduto sotto un ponte si annusava il re dei topi sulla strada le sue bambole bruciavano copertoni. Sdraiato sotto il ponte si adorava il re dei topi sulla strada le sue bambole adescavano i signori. Mi parlò sulla bocca mi donò un braccialetto dite alla quercia che non tornerò. Mi baciò sulla bocca mi propose il suo letto dite a mia madre che non tornerò.

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Mia madre mi disse - Non devi giocare con gli zingari del bosco. Ma il bosco era scuro l’erba già verde lì venne Sally con un tamburello.


sia finito: il protagonista finisce nel letto del pappone con un braccialetto come ricompensa. C’è aria di pentimento, forse, e insieme certezza di non poter più tornare indietro. Oltre che per cercare la libertà, può essere che il ragazzo stesse scappando dalla droga. In molti casi può essere che assomigliasse allo stesso De Andrè.

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Sally è una canzone che racconta delle “scelte di un ragazzo che si allontana dalla famiglia e vive una serie di esperienze traumatizzanti. Si parla degli zingari come di una simbologia delle eresie in senso lato (ideologiche e religiose)”. “Sally è l’occasione che viene data ad un ragazzo di 16-18 anni di andare al di là della famiglia, di uscire fuori da certi schemi. Ecco, Sally è il primo incontro che gli fa scattare la molla del sesso. Quindi proprio per questo non è una canzone su una donna, ma una canzone su un uomo che attraverso questa necessità di esperienze nuove arriva ad averne diverse, compresa quella dell’omosessualità. In ogni caso lui è convinto che attraverso l’esperienza si può conoscere meglio il mondo, meglio se stessi, meglio le persone con cui si ha a che fare”. La canzone è accattivante e ha una direzione precisa. ll protagonista vuole indipendenza e se ne va da casa. Affronta i pericoli (il bosco, gli zingari) perchè ne ha voglia, è cresciuto abbastanza. Incontra Sally con cui gioca un po’ e subito prosegue il cammino. La madre è ormai dimenticata (“Dite a mia madre, che non tornerò”). Raggiunge il mare, dove compera un pesciolino d’oro e cieco, da poter cavalcare. Continuano il vagabondare del protagonista e le esperienze scioccanti. La ricerca della libertà, che era iniziata con “l’erba era già verde”, finisce con un pappone, il Re dei topi. La penultima strofa è la più oscura, sembrerebbe che il viaggio di libertà


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Umbre de muri muri de mainé dunde ne vegnì duve l’è ch’ané da ‘n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua e a muntä l’àse gh’é restou Diu u Diàu l’é in çë e u s’è gh’è faetu u nìu ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria e a funtan-a di cumbi ‘nta cä de pria E ‘nt’a cä de pria chi ghe saià int’à cä du Dria che u nu l’è mainà gente de Lûgan facce da mandillä qui che du luassu preferiscian l’ä figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun

CREUZA DE MÄ E a ‘ste panse veue cose ghe daià cose da beive, cose da mangiä frittûa de pigneu giancu de Purtufin çervelle de bae ‘nt’u meximu vin lasagne da fiddià ai quattru tucchi paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi

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E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi finché u matin crescià da puéilu rechéugge frè di ganeuffeni e dè figge bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


delle ragazze) sarebbe un riferimento diretto a Craxi. Non si tratta però del socialismo che libera i lavoratori, ovviamente, ma di quello “bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä / che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä” (padrone della corda marcia d’acqua e di sale / che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare). Fosse stato Craxi un socialista in senso rivoluzionario, avrebbe spezzato quella corda e i marinai non sarebbero più stati “emigranti du rìe cu ‘i cioi nt’i euggi” (emigranti della risata con i chiodi negli occhi).

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Il titolo della canzone, Creuza de mä, è un’espressione traducibile con “mulattiera di mare”. Per capire meglio cosa significa occorre fare qualche passo indietro nel tempo e andare a quando, in Liguria, tutti gli appezzamenti di terra erano racchiusi da muretti di pietra e tra una proprietà e l’altra correva spesso un piccolo sentiero, chiamato “crosa”, che dalla collina scendeva fino al mare. Una mulattiera dunque, ma con la specificità di essere l’unica strada tra i diversi terreni e di condurre ripida al mare. Premessa importante è che per tutto il disco la voce di De Andrè va ascoltata come se fosse uno strumento musicale e le parole “in lingua” (genovese, come “lingua del Mediterraneo”) hanno raggiunto vette poetiche. La canzone parla del ritorno in terraferma di un gruppo di marinai, dopo tanto tempo passato in mare. Si racconta di uomini stanchi (“ombre di facce”) che vengono da mare, dove la Luna si mostra nuda e la notte sempre pericolosa. Hanno la pancia vuota e sono scesi a terra proprio per bere e mangiare (“cosa da beive, cose da mangià”). Poi ritornano in mare, un po’ alticci, e riprendono il loro viaggio. I protagonisti sono dunque dei marinai, gente semplice e umile (come i protagonisti di tutto l’album), ma in una chiave di lettura diversa si leggono forti rimandi politici. Ovvero una polemica contro il craxismo al potere: “u matin crescià” alluderebbe all’alba socialista, “frè di ganeuffeni e dè figge” (fratello dei garofani e


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Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino dalla bottiglia di orzata dove galleggia Milano non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina la sua anima accesa mandava luce di lampadina gli incendiarono il letto sulla strada di Trento riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento I Polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est chi si convertiva nel novanta ne era dispensato nel novantuno la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava

le abbiamo visto tutto il culo la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava le strade la domenica delle salme si portò via tutti i pensieri e le regine del ‘’tua culpa’’ affollarono i parrucchieri Nell’assolata galera patria il secondo secondino disse a ‘’Baffi di Sego’’ che era il primo si può fare domani sul far del mattino e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro ad annunciare l’amputazione della gamba di Renato Curcio il carbonaro il ministro dei temporali

LA DOMENICA DELLE SALME in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile

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La domenica delle salme nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale la domenica delle salme si sentiva cantare quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio

voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti per l’Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avete voci potenti lingue allenate a battere il tamburo voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia la domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante mentre il cuore d’Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta.


c’è niente di più idoneo perchè il potere possa compiere i propri misfatti nella più assoluta impunità. Si continua ad affermare la priorità del mercato e con essa la morte delle ideologie: così si educa la gente al ripudio degli ideali. Questa rassegnata abulia, che coinvolgeva anche artisti un tempo impegnati, giornalisti non di regime e politici d’opposizione, è sintetizzata nel finale della canzone dovei si parla di pace terrificante, mentre il cuore d’Italia si gonfia in un coro di vibrante protesta. Senonchè la protesta ha la voce d’un coro di cicale, scelto a emblema del menefreghismo collettivo”. La canzone inizia a Milano e comincia subito con un riferimento che se fosse stato scritto tre anni dopo, avrebbe avuto tutt’altro peso. Si parla infatti di un certo “poeta della Baggina” che fugge da qualcosa. La Baggina era la casa di riposo Pio Albergo Trivulzio, gestita dal socialista Mario Chiesa che fu arrestato per brogli fiscali. Da lì partirono le indagini dell’operazione “Mani pulite”. De Andrè scrisse questo testo alcuni anni prima ed è perciò impensabile che si riferisse proprio a questi fatti. E in effetti il riferimento era ad un anziano ricoverato in quella stessa casa di riposo. Il passaggio “gli incendiarono il letto” è quasi certamente un riferimento ad un clochard bruciato vivo nei delitti di “Ludwing” (avvenuti in quegli anni tra Veneto e Germania).

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La domenica delle salme è la canzone più politica di De Andrè, ricca di riferimenti ed allusioni e, purtroppo, ancora molto attuale dopo più di vent’anni. Il brano nacque ad album finito, perchè Fabrizio sentiva che mancava ancora qualcosa, tirò fuori il suo quaderno di appunti, raccolti in anni di letture di libri e quotidiani, e in soli tre giorni diventarono la descrizione lucida e appassionata del silenzioso, doloroso e patetico colpo di stato avvenuto intorno a tutti senza che nessuno si accorgesse di nulla, della vittoria silenziosa e definitiva della stupidità e della mancanza di morale sopra ogni altra cosa. Della sconfitta della ragione e della speranza. Nel testo della canzone troviamo il più grande Fabrizio narratore. Ci sono tutti gli elementi per capire, ma è tutto raccontato, non ci sono sintesi o giudizi che, come lui diceva spesso, nelle canzonette sono peccati mortali. La visione del tutto scaturisce dalla somma di tante piccole storie personali, nessuno grida in quella ridicola tragedia. Nessuno punta il dito, tutto si spiega da sè. E nell’elenco dei patetici fallimenti non dimentica il proprio e quello dei suoi colleghi canterini, giullari proni e consenzienti di una corte di despoti arroganti e senza qualità. Fabrizio De Andrè la raccontava così: “Sul finire degli anni ottanta la gente aveva perso a tal punto il senso della propria dignità che si viveva in una specie di limbo, dove nessuno aveva più voglia di protestare, figuriamoci poi di ribellarsi: non


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I Polacchi non morirono subito e inginocchiati gli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime La seconda strofa è dedicata alla Germania dell’Est. Inizia parlando dei polacchi, liberatisi da dittatura tra i primi e ai tempi della canzone erano molto presenti ai semafori delle nostre strade a pulire i vetri delle macchine, cioè alla nostra società capitalista. C’è un riferimento molto chiaro alla caduta del muro di Berlino, nel 1989: per poter bilanciare la caduta del muro e la fine della Guerra Fredda, bisognava subito inventarsi qualcosa di grande. Una piramide.

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La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava nelle strade Questa strofa allude al colpo di stato strisciante, senza fucilate, anzi nelle strade il “gas esilarante” costringe la gente a una falsa allegria. La gente, i benpensanti nel “tua colpa” nel senso che non è mai colpa loro, affollano i negozi come sempre, senza pensieri. C’è molta amarezza in questo passaggio. L’accenno a Renato Curcio “carbonaro” fu voluto sia da Pagani che da De Andrè che disse: “Curcio non si è dissociato, non ha approfittato di questa regola non morale; e vedo circolare gente

che ha un sacco di omicidi alle spalle [...]”. Il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni L’accenno al “ministro dei temporali” è un riferimento alla classe politica. Durante il colpo di stato strisciante i politici che lo hanno appoggiato, se non organizzato, auspicano una “loro” democrazia. Per timore che questa venga davvero si tengono “le mani sui coglioni”. La domenica della salme nessuno si fece male Eccoci di nuovo al colpo di stato indolore. Nessuno si fa male e tutti seguono il feretro del comunismo o dell’anarchia. C’è poi un invito a vivere alla giornata senza preoccupazioni. Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe Anche quelli che avevano ancora il coraggio di girare per le strade, finirono per andare a nascondersi. Provarono anche ad ascoltare gli artisti che avrebbero potuto dire la loro (tra i quali Fabrizio inculude se stesso) ma poco dopo, avendo capito che era inutile, “li mandarono a cagare”.


Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio Qui De Andrè articola il suo pensiero “contro” i colleghi cantautori, che dopo aver cavalcato la protesta si sono velocemente adeguati al cambio di potere vestendosi da Pinocchio e cantando per coloro che governavano. L’accusa è quella di non aver utilizzato le loro “voci potenti” in modo da giustificare il “vaffanculo”. La domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante

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L’ultima strofa sottolinea la morte dell’utopia, la tranquillità apparente come se nulla fosse successo, la “pace terrificante” e la protesta appena percettibile, definita da De Andrè un coro di cicale a cui anche lui si associa.



LE FONTI

C

ome detto in apertura del libro, per realizzare i contenuti di Oceano, Vi racconto Fabrizio De Andrè ho utilizzato diverse fonti sia cartacee che online. Sicuramente è stato di grande aiuto e anche ispirazione un libro, molto completo e ben realizzato, che racconta canzone per canzone le parole del cantautore, ovvero Fabrizio De Andrè, Le storie dietro le canzoni di Walter Pistarini (Giunti Editore) e il suo sito internet www.viadelcampo.com, molto visitato e seguito. Devo citare inoltre: -De Andrè Talk. Le inverviste e gli articoli della stampa d’epoca di Claudio Sassi (Coniglio Editore) -Una goccia di splendore di Guido Harari (Rizzoli Editore) -Fabrizio De Andrè. Discografia illustrata di Michele Neri, Claudio Sassi, Franco Settimo (Coniglio Edirore) -In direzione ostinata e contraria di Andrea Podestà (Zona Editore). I siti invece sono moltissimi: a partire dalla biografia di De Andrè reperita dalla sempre utile Wikipedia (con aggiustamenti), il sito ufficiale della Fondazione Fabrizio De Andrè (www.fondazionedeandre.it) di cui la moglie Dori Ghezzi è presidente, www.creuzadema.net fino ad arrivare al sito di Marcello Motta www.faberdeandre.it e molti altri.

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Le foto originali sono state anch’esse reperite esclusivamente dal web e in caso di riproduzione di materiale coperto da copywrite o di uso scorretto di alcune immagini si invita a segnalarlo all’editore.




“Pare che persino Attila si sia fermato di fronte al mare. Attila sicuramente non era un buon marinaio ma puo’ darsi che di fronte al mare gli sia bastato sedersi ed immaginare. E il mare separa e unisce popoli e continenti, nel momento in cui ti separa direi che ti stimola il sogno e la fantasia, nel momento in cui li unisce vale a dire, nel momento dell’intrapresa del viaggio, ti mette a rapporto costante con la realtà. Per quanto mi riguarda, e quindi per quanto riguarda il mio mestiere, direi che la complicità del mare è duplice: c’è una complicità poetica e una giornalistica.’’ Fabrizio De Andrè

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