anno 2 numero 12
TERRA! GEOPOLITICA GHIACCIO CALDO
ECONOMIA OGM
INTERVISTE TERRA MIA
Immagine del satellite che mostra i campi circolari delle coltivazioni intensive del Kansas dove diverse coltivazioni di mais, grano e sorghum sono coltivate insieme per permetere il maggior sfruttamento del terreno.
SOMMARIO
ANNO 2 - NUMERO 12
LOTTA EUROPEA
EDITORIALE DECRESCITA (IN)FELICE
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RISIKO GRECIA ROSSO-VERDE GHIACCIO CALDO
P9 P11
LIBERI MERCANTI I COLTIVATORI DI MORTE ECONOMIA E ECOLOGIA: UNA PROSPETTIVA STORICA
P24 P14 P9
P26 P19
RITORNO AD ITACA LA MONTAGNA DELL’ANIMA
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VOCI DALL’EUROPA TERRA MIA RETE NO MUOS
P26 P28 P11
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P14
LOTTA EUROPEA UFFICIO DI REDAZIONE VIA OTTAVIANO, 9 / 00192 ROMA WEB LOTTAEUROPEARIVISTA.BLOGSPOT.IT MAIL LOTTA.EUROPEA@GMAIL.COM bimestrale europeista|LOTTA EUROPEA|3
EDITORIALE
S
ono passati ormai sette anni da quando il fallimento della Lehman Brothers apriva l’attuale crisi finanziaria, eppure la luce in fondo al tunnel della depressione sembra ancora lontana, almeno in Europa, e ci si interroga ancora su quali possano essere le vie economico-politiche per risollevarsi. Nel rispetto del principio liberista del “laissez faire, laissez passer”, i poteri pubblici hanno per lo più preferito non intervenire (o farlo limitatamente) nella convinzione che circoscritte fasi regressive siano del tutto normali nel più ampio andamento finanziario e che comunque l’economia abbia in sé le potenzialità per invertire il trend negativo. Ma dal 2008 stiamo ancora aspettando questa inversione di rotta: anche se i tassi di crescita di Stati Uniti (fortemente) ed Europa (in modo non diffuso) hanno ritrovato il segno +, siamo ancora lontani dalla possibilità che questi dati si traducano in un reale cambiamento nelle condizioni di vita delle persone. Altri hanno ritenuto necessario e sufficiente favorire la circolazione del denaro, espandendo l’offerta di moneta,
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riducendo le imposte o rendendo più agevole il credito bancario, senza considerare che proprio la facilità di credito è stata la ragione prima che negli U.S.A. ha portato alla creazione di bolle speculative alla base della crisi, a dimostrazione di come non fosse possibile, per usare le parole di Pascal Bruckner, “accordare la proprietà ai salariati senza aumentare i loro redditi, indebitandoli al di là del ragionevole”. Altri ancora, redivivi keynesiani, hanno proposto un rinnovato protagonismo degli Stati nella vita economica ed in particolare, nei settori della tutela dell’ambiente e della sostenibilità. Tre ricette diverse che però tradiscono un assunto di base comune: per uscire dalla crisi, bisogna tornare a puntare innanzitutto sulla crescita economica. Ci si può dividere sui modi migliori per crescere, ma è questa la via maestra da seguire: non c’è alternativa. D’altronde è lo stesso capitalismo globale a basarsi su questo assioma (una continua corsa al rialzo, un incessante stimolo di voglie e desideri sempre nuovi, una somministrazione di massicce dosi di
DECRESCITA (IN)FELICE pubblicità) e non c’è spazio nel mondo contemporaneo occidentale al di fuori del capitalismo, o almeno così sembra. Eppure non sono mancati negli ultimi anni diversi tentativi di teorizzare modelli che superassero l’equazione propria del mainstream occidentale per cui felicità=crescita economica. Si va dalle proposte di Sen, Stiglitz e Fitoussi di individuare indicatori complementari al PIL che includano anche componenti non materialistiche (HDI - human development index), alle teorizzazioni di indicatori del benessere che abbiano riguardo anche per l’ambiente (il BES di Giannini); c’è chi ha sottolineato la necessità di un rinnovato impegno delle aziende oltre alla ricerca del profitto (Yunus) e c’è chi si è spinto ancora oltre, arrivando a teorizzare la necessità e l’urgenza di una vera e propria decrescita, intesa nel senso di meno industria, meno produzione, meno consumi etc. etc. È il caso di Serge Latouche che nel suo “La scommessa della decrescita” arriva ad auspicarsi proprio questo. Un testo che ha alimentato un dibattito accademico e politico interessante, dato
il numero di pubblicazioni uscite in materia, da ultimo il libro dell’americana Naomi Klein “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”: un testo di 600 pagine, dove l’ex guru del movimento No-Global non nasconde le sue simpatie per le idee di Latouche, auspicando anzi che proprio il movimento ecologico riesca laddove il popolo di Seattle ha fallito. Non è un caso che i movimenti populisti (Podemos in Spagna, M5S in Italia) sposino a grande linee il progetto della decrescita, facendo leva in particolare sul discorso ambientale che negli ultimi anni ha raggiunto un grado di consapevolezza senza precedenti (la prossima enciclica di Papa Francesco riguarderà proprio l’ambiente e la sostenibilità). In effetti la diagnosi che Latouche ritrae è difficilmente contestabile: “Il sistema di allevamento intensivo europeo richiede che una superficie equivalente a sette volte quella del nostro continente sia ‘prestata’ da altri paesi per produrre l’alimentazione necessaria agli animali allevati secondo questo metodo industriale; quelle che si chiamano
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‘culture di corridoio’. Secondo W. Rees, le sole necessità di produzione alimentare impongono all’Olanda di utilizzare o ‘importare’ (soprattutto dai paesi del Sud) un territorio di circa 100.000 km quadrati, ovvero una superficie superiore tra cinque e sette volte quella delle terre produttive del paese. Nel 1992, un cittadino del Nord consumava rispetto al cittadino del Sud, in media tre volte di più in termini di cereali e acqua potabile, cinque volte di più in concime, dieci volte di più in legna ed energia, quattordici volte in più in carta, diciannove volte di più in alluminio. Il divario è ancora più emblematico se si confrontano il consumo di energia e le emissioni di gas a effetto serra. Già oggi il pianeta non ci basta più, ma ne occorrerebbero da tre a sei volte per generalizzare lo stile di vita occidentale.” (La scommessa della decrescita, Universale Economica Feltrinelli, cap. 1, p. 29). Pur condividendo l’analisi sui mali della nostra società, la decrescita mostra alcuni problemi strutturali non indifferenti, che Zamagni (Università di Bologna) ha puntualizzato in diverse occasioni. Partendo dalla concezione di sviluppo integrale (Benedetto XVI, Caritas in Veritate; J. Maritain, Umanesimo Integrale), è fondamentale aver presente che uno sviluppo realmente
umano poggia su diverse componenti: la dimensione quantitativa materiale (crescita), la dimensione socio relazionale, la dimensione spirituale. Anche se oggi la componente materiale ha sicuramente un maggior peso rispetto alle altre, non è detto - come diversi studi sulla correlazione HDI/PIL dimostrano (Human Development Report 2014) - che la sua riduzione comporti un aumento dello sviluppo inteso in senso lato, anzi. Da qui si evince la necessità di parlare di uno sviluppo integrale, che ha visto la sua teorizzazione in modelli economici portati avanti, ad esempio, dall’Economia Civile (Genovesi, 1753). Il punto fondamentale per superare le proposte della decrescita, continua Zamagni, è capire a quale tipo di crescita l’essere umano vuole puntare, se un modello illimitato o uno che invece sappia cogliere la nozione di limite (delle risorse, dell’ambiente, delle disuguaglianze). L’idea di limite è qualcosa che fa ovviamente storcere il naso ai principi del liberismo, eppure riuscire a saperlo valorizzare all’interno di logiche economiche potrebbe essere la chiave di volta per riuscire a rendere finalmente più umano il mercato e la società.
Uno dei tanti non-luoghi industriali nel mondo generatori di inquinamento atmosferico. A maggio 2014 la concentrazione di CO2 ha superato il record dell’anno precedente, superando i 402 ppm. 402 ppm è il dato più alto mai raggiunto negli ultimi 800mila anni, da che esiste l’uomo non era mai successo. Questo vuol dire che siamo entrati in una fase completamente nuova, imprevedibile, le cui conseguenze si possono solo ipotizzare. Scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, aumento degli eventi climatici estremi, dalle inondazioni alle ondate di caldo.
La foto a sinistra ritrae Serge Latouche. È tra gli avversari più noti dell’occidentalizzazione del pianeta e un sostenitore della decrescita conviviale e del localismo (o localizzazione). Rimane uno dei critici più radicali della ideologia universalista dalle connotazioni utilitariste. Il suo pensiero trova riscontro in Italia nel movimento per la decrescita felice.
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Una delle tante vittime dell’avanzata delle truppe islamiche al soldo di Washington
Nel libro “What Money can’t buy. The moral limits of markets”, Michael Sandel, filosofo politico ad Harvard, evidenzia con numerosi magnifici esempi tratti dalla realtà contemporanea (molti dei quali sull’ambiente), come l’estensione di logiche di mercato a qualsiasi ambito della nostra vita ci abbia di fatto portato “dall’avere un’economia di mercato ad essere una società di mercato” dove tutto quindi è regolato da principi
economici. Gli effetti sono semplicemente catastrofici, ed è questo il vero incubo che siamo chiamati a dissipare. Riscoprire la nozione di limite è un moto che dobbiamo riscoprire dall’interno e che possiamo attuare grazie allo sviluppo di virtù umane come la gratuità, la generosità, la temperanza. Solo a quel punto saremo in grado di plasmare in senso positivo e umano le strutture socio-economiche.
La sfida è riscoprire altre dimensioni oltre quella quantitativa, che possano limitare e allo stesso tempo valorizzare quest’ultima. Ancora una volta però il mainstream sembra guardare altrove, come si evince dalle parole di Alesina (Bocconi - Harvard), a crisi appena iniziata: “se uscire dalla crisi nel 2010 significasse inquinare ancora per un anno ai ritmi attuali, facciamolo pure. Poi con calma, usciti dal panico per la
L’economista Stefano Zamagni, tra i primi in Italia a riscoprire il valore e la modernità di quella che nel ’700 Antonio Genovesi battezzava col nome di “economia civile”, attualizzando l’idea che l’homo oeconomicus si debba nutrire anche di relazioni, motivazioni, fiducia, e che l’attività economica abbia bisogno di virtù civili, di tendere al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali.
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crisi e dal rischio di una lunga depressione, ci dedicheremo con rinnovato vigore a proteggere l’ambiente”. Le parole di Alesina tradiscono una cieca fiducia nel futuro e nel progresso tecnologico che riecheggia i sogni visionari di Jules Verne e di tanti positivisti ottocenteschi così come le previsioni degli odierni teorici del decoupling, ossia, letteralmente, dello sganciamento prossimo venturo della crescita rispetto a suoi naturali limiti fisici segnati dall’esaurimento delle risorse e dall’impatto ambientale: grazie ai miglioramenti delle tecnologie per produrre merci e servizi saremo prima o poi in grado di fare di più con meno e allo stesso tempo di ridurre l’impatto delle attività antropiche sull’ambiente fino ad annullarlo. Per qualcuno (Fabris) questo processo sarebbe addirittura accelerato dallo sviluppo di Internet, responsabile della comparsa di un tipo di consumatore più consapevole ed adulto, immune alle sirene della pubblicità e capace con le sue scelte di orientare il mondo della produzione e della distribuzione verso politiche ambientaliste. Senza soffermarci sulla scarsa predittività dei fautori del web (ci basta mostrare la deriva delle primavere arabe nate a suon di tweet e post su FB), i dati a disposizione non confortano queste ipotesi utopistiche:
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malgrado i pur esistenti perfezionamenti tecnologici, i gas serra nell’atmosfera sono in aumento e non è ancora stata trovata un’alternativa reale al petrolio, mentre la popolazione mondiale continua a crescere ed interi paesi escono dalle condizioni di povertà e pretendono di accedere ai medesimi standard di consumo occidentali. Occorre pertanto cambiare paradigma, nello stesso modo che agli albori della società industriale, il mondo moderno ha rimpiazzato quello tradizionale. Nessuno vagheggia un ritorno ad epoche pre-moderne, vuoi perché quello della tradizione è un “filo spezzato”, vuoi perché anche coloro che criticano il mondo moderno in esso vivono; si tratta piuttosto di trovare un equilibrio che si traduca in realizzazioni politiche, economiche e sociali improntate al senso del limite (lo stesso nel quale la cultura classica vedeva il segno della perfezione) o meglio ancora della ricerca dello sviluppo integrale. La riscoperta del limes contro la cultura della ybris, ossia in senso geopolitico la valorizzazione del Mediterraneo come mare fra le terre, estraneo alla dimensione monista, cosmopolitica e umanitaria delle potenze oceaniche, secondo le categorie schmittiane.
grecia rosso-verde
L
e prime mosse di Tsipras hanno tradito le aspettative di chi in campagna elettorale aveva posto fiducia nelle sue roboanti promesse antieuro e nei suoi attacchi al cuore della troika, e non poteva essere altrimenti: divenuto premier, il leader della sinistra greca e astro nascente della sinistra europea è corso a rassicurare i creditori, promettendo il rispetto delle scadenze pattuite depositando una dopo l’altra le somme dovute al FMI in tranches da diverse centinaia di milioni di euro l’una, ventilando l’ipotesi di nuovi accordi. A questo punto le minacce a Berlino di procedere alla confisca dei beni di proprietà tedesca se la Cancelleria federale si rifiuta di riconoscere gli indennizzi per i danni di guerra non fanno nessuna paura e mostrano la loro vera natura di specchietti per le allodole per una popolazione che rischia di passare velocemente dall’euforia per la vittoria elettorale al disincanto. C’è però un altro banco di prova su cui giudicare il governo Tsipras ed è quello legato alle scelte strategiche,
RISIKO
legate a doppio filo alla politica ambientalista di un governo che, se ha fuso il ministero dell’Ambiente con quelli dell’Agricoltura e dell’Industria in un inedito dicastero della Produzione, Ricostruzione, Ambiente ed Energia, ha comunque fagocitato in Syrizia i referenti greci dei Verdi Europei, primo fra tutti quel Giannis Tsironis che di questo nuovo dicastero è vice-ministro. Uno dei principali nodi che il governo dovrà sciogliere riguarda le estrazioni delle risorse prime ed in particolare dell’oro nella penisola calcidica, miniera di Atene fin dai tempi di Pericle: ora che la sinistra è al potere si piegherà alla volontà dei potentati o avrà la forza per sbarrare la strada alle imprese straniere, cinesi in testa, che volevano aprire nuovi fronti di cava? Al momento, ci sembra che si possa rispondere positivamente, sempre che si voglia credere al ministro Lafazanis che, intervistato circa una ventilata gestione canadese della miniera d’oro di Skouries, si è detto “assolutamente contrario”.
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RISIKO GRECIA ROSSO-VERDE Non è solo l’oro in questione, ma anche il più vile (ma non meno importante) carbone, principale risorsa in Grecia per la produzione di energia elettrica: a tal proposito, Tsipras si è impegnato a smantellare i due impianti più obsoleti e inquinanti a favore di una nuova centrale a carbone “pulita”, nonché a promuovere lo sfruttamento delle risorse rinnovabili e le ristrutturazioni edilizie ad alta efficienza. Tutte parole d’ordine cara alla gauche occidentale,
ma che non fanno i conti con la realtà socio-economica di una nazione dove il dibattito sulla crescita sostenibile e le aspettative verdi stenta ad attecchire. Nel Comitato centrale di Syrizia ci si è resi conto che in un paese dove i suicidi per disperazione sono più che raddoppiati nell’ultimo anno “la stessa parola ‘decrescita’ sarebbe vista come un’assurdità” e, come riportato dal Guardian, non sono pochi coloro che ritengono che “mantenere i combustibili fossi-
li sotto terra” sia un’idea altrettanto inadeguata alla miseria greca: “Se nel medio termine ci troviamo di fronte a difficoltà fiscali provenienti dall’estero, bruciare più lignite invece di importare energia sembrerà la cosa saggia da fare. Se non avremo i soldi per importare la benzina allora bruceremo la lignite, che è libera (non dall’impronta di carbonio) ma relativamente meno costosa. In un modo o nell’altro la lignite greca sarà sfruttata”.
e l’efficienza energetica dell’Europa”. Il progetto, da completarsi entro il 2019, prevede il trasporto del metano azero verso l’Europa attraverso la Turchia, la Grecia e l’Albania: dalla città di Fier il metanodotto raggiungerà l’Italia per collegarsi alla rete italiana gestita da Snam ReteGas. È questa la punta di diamante della politica energetica della UE (ne abbiamo già parlato in passato), motivo per cui non è priva di significato la momentanea sospensione della privatizzazione della rete greca di distribuzione del gas (DESFA) che dovrebbe far parte integrante di TAP: nella lettera inviata alla UE, il governo greco ha affermato che, pur impegnandosi “a non ritirare le privatizzazioni già completate e a rispettare, in base
A proposito di risorse energetiche, sempre Lafazanis si è precipitato a dirsi favorevole al passaggio in Grecia della Trans Adriatic Pipeline (TAP): “supportiamo TAP ed il suo passaggio attraverso la Grecia, che porterà benefici al Paese, così come aiuterà la sicurezza
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La miniera di Megalopoli, il più grande centro di estrazione carbonifero del Peloponneso dove, in più di 37 anni di attività, è stato estratto carbone in un’area di circa 40km², con evidenti ripercussioni ambientali
alla legge, quelle per cui è stato lanciato il bando, […] rivedrà quelle non ancora lanciate puntando a migliorare i benefici a lungo termine per il governo”. Il riferimento è alla prevista vendita dei 6 chilometri quadrati del vecchio aeroporto di Atene, alle concessioni quarantennali per 14 aeroporti regionali, alla vendita del 66% della rete elettrica e alla privatizzazione del porto del Pireo e di Salonnico, delle società ferroviarie, di quella del gas DEPA e, per l’appunto, della rete di gasdotti DESFA. Ancora una volta, la domanda è la stessa: quanto tempo ancora potrà mantenere la propria posizione, prima che la troika faccia valere i propri crediti?
S
arà pure catastrofismo, ma la comunità scientifica sembra concorde nel predire che un giorno “l’Artico sarà solo mare”, anche se continua a spostare in avanti la data fatidica: il 2013, indicato in passato come l’ora x, è ormai alle spalle e i metereologi sembrano aver spostato le lancette dei propri orologi al 2035. Vent’anni sono tanti agli occhi dell’uomo comune, ma sono sufficienti a scatenare le reazioni delle potenze che sull’Artico si affacciano, interessate al controllo delle nuove rotte commerciali destinate inevitabilmente ad aprirsi, ma soprattutto all’accaparramento giuridico dei fondali e di quello che nascondono: secondo le stime, il 15% del petrolio ed il 30% del gas naturale delle riserve inesplorate a livello mondiale. Ecco spiegato il riacuirsi delle mai risolte controversie tra Stati Uniti e Russia per la spartizione del mare di Bering, tra Stati Uniti e Canada per la delimitazione delle rispettive piattaforme continentali ed il conseguente status giuridico del passaggio a Nord-Ovest (considerato stretto internazionale da Washington e acque interne da Ottawa), tra Canada e Danimarca per
la sovranità sull’isola di Hans che, pur disabitata, si trova al centro del canale Kennedy nello Stretto di Nares. E poi c’è la più o meno comune opposizione al dominio russo sul passaggio a Nord-Est, guidata da Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. Senza dimenticare l’annosa questione, anche simbolica, intorno alla sovranità sul Polo Nord Geografico, conteso dal Canada e dalla Russia, ma anche dalla più piccola Danimarca che a fine 2014 ha presentato una richiesta formale all’apposita commissione prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare per chiedere l’ampliamento della piattaforma continentale a Nord della Groenlandia in un’area sottomarina di quasi 900mila kmq: secondo i geografi danesi la catena montuosa sottomarina di Lomonosov, passante appunto per il Polo, costituisce la continuazione della massa costiera terrestre groenlandese, motivo per cui i diritti sovrani ed esclusivi di sfruttamento del fondo e del sottosuolo dell’area farebbe capo a Nuuk (che tra l’altro ha bisogno di nuove risorse economiche per realizzare anche nei fatti la wider autonomy sancita dal referendum del 2009).
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RISIKO GHIACCIO CALDO La Russia e il Canada possono restare a guardare inerti? Certo che no. Non è difficile prevedere che la richiesta presentata da Copenaghen, spronerà Ottawa a compiere quanto annunciato nel dicembre 2013 quando presentò alla Commissione una “preliminary information”, vale a dire una dichiarazione d’intenti che anticipava una futura richiesta formale, ancora non pervenuta. Più pragmatica Mosca che, dopo aver visto rispedita al mittente la propria richiesta presentata già nel 2001 e basata sull’assunto che la stessa dorsale di Lomonosov sarebbe la continuazione della placca continentale siberiana, nel
2007 ha piantato il tricolore russo a 4261 metri di profondità sotto la verticale dell’Artico. Lo stesso pragmatismo mostrato più recentemente con le esercitazioni della flotta del Nord che sta testando nell’alto Artico nuovi siluri capaci di rompere il ghiaccio per l’emersione dei sottomarini e con lo sviluppo del locale sistema di difesa missilistica: quasi la realizzazione concreta di quanto minacciato da Sergey Donskoy, ministro delle Risorse naturali russo, secondo cui la Commissione “non ha il diritto di dare il Polo Nord ai danesi che peraltro potrebbero trovarsi ad affrontare un’occupazione di
fatto russa dell’Artico”. Il silenzio degli Stati Uniti sugli ultimi sviluppi della questione non stupisce: non avendo mai ratificato la Convenzione sul diritto del mare, non potrebbero avanzare pretese sulle decisioni di una Commissione che formalmente non riconoscono. Questo sul fronte dei paesi produttori, che non sono però i soli ad essersi mossi: le materie prime dell’Artico fanno gola anche ai paesi asiatici consumatori, per i quali costituiscono un’alternativa a quelle del più lontano golfo del Persico, oltre tutto franche dal peso dell’incertezza politica che grava sugli stretti di Hormuz e di Malacca, che mina alle basi la sicurezza energetica di Giappone, India e Cina. Ancora una volta, fra le tre è stata proprio la Cina il paese che, nonostante i 16000 km di distanza dall’Artico, si è mosso
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fondire ulteriormente la cooperazione reciprocamente vantaggiosa nei settori del commercio e degli investimenti”. Tutto qui? Affatto. La Cina ha infatti stretto i rapporti anche con la già citata Groenlandia (finanziamento di un progetto minerario da 2,3 miliardi di dollari che fornirà a Pechino 15 milioni di tonnellate di minerale di ferro ed accordi per le forniture di petrolio e di uranio), con il Canada (acquisizione della Nexen da parte della Chinese National Oil Overseas Corporation per 15,1 miliardi di dollari e del 49% delle quote della Talisman Energy da parte della Sinopec per 1,5 miliardi di dollari) e – spenti i riflettori sull’attribuzione del Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo (che aveva comportato l’embargo cinese al salmone norvegese) - anche con la Norvegia con nuovi contratti per le trivellazioni nel Mare del Nord (finanziati dalla China Oilfield Services) e nuove fusioni e acquisizioni tra le società dei due paesi.
con più sicurezza in questa direzione, chiedendo ed ottenendo l’ammissione in qualità di osservatore permanente all’interno del Consiglio Artico, nel quale siedono come paesi membri i rappresentanti di Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia, USA. Un’ammissione che ha suggellato la partnership tra Pechino e Mosca, di cui abbiamo già parlato a più riprese (finanziamenti cinesi in cam-
bio di approvvigionamenti di greggio e metano e concessioni per esplorazioni congiunte offshore nei mari di Barents e di Pechora), ma anche tra Pechino e Reykjavik. Anche se ha fatto meno rumore a livello mediatico, l’Islanda è stato infatti il primo paese europeo a firmare un accordo di libero scambio con la Cina già nell’aprile 2013 per “migliorare lo scambio e la cooperazione pratica nell’Artico” e “appro-
Grandi manovre da una parte e dall’altra, che però mostrano tutta la loro debolezza se si confrontano le previsioni dei meteorologi con i dati reali: nel 2014 la calotta polare ha raggiunto un’estensione minima di 5,02 milioni di kmq, inferiore quindi a quella dell’anno precedente (5,10 milioni di kmq), ma ben al di sopra di quanto misurato nel 2007 (4,17 milioni) e ancora nel 2012 (3,41 milioni). Che le potenze si siano mosse troppo in anticipo e abbiano sottovalutato l’imprevedibilità dei fenomeni naturali? A sinistra: le rotte di traffico marittimo dell’Artico tra cui la nuova Rotta polare che si sta aprendo a causa dello scioglimento dei ghiacci del Polo Nord. in basso: il Presidente Islandese Grimsson durante la formalizzazione dell’accordo di libero scambio con la Cina. L’accordo chiude un negoziato durato sei anni, avviato dal Governo islandese per ridare spinta alla propria economia dopo il crollo del 2008.
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LIBERI MERCANTI
Abbiamo più volte fatto notare come, in quest’epoca di “libertà e democrazia”, presentateci come virtù inviolabili, vi siano in realtà varie forme di dittatura che puntano al controllo totale di ogni singolo aspetto della vita dei popoli.
I coltivator 14|LOTTA EUROPEA|bimestrale europeista
ri di morte bimestrale europeista|LOTTA EUROPEA|15
LIBERI MERCANTI I COLTIVATORI DI MORTE
A destra: Gli effetti evidenti della coltivazione di piante geneticamente modificate in Africa, i cui “effetti collaterali” provocano aridità e carestie.
in basso: La mappa degli OGM nel mondo: i Paesi in verde permettono colture OGM; in arancione ne importano alcuni tipi sotto obbligo di etichettatura; in grigio i Paesi dove sono sperimentate lel colture OGM.
È
in corso da tempo un processo letale di avvelenamento su più livelli, strettamente collegati tra loro: si parte dall’imposizione di nuovi modelli culturali e morali, che stravolgono la visione tradizionale di uomo e società, fino ad arrivare alle aberrazioni pseudo-scientifiche e alle follie eugenetiche, che manipolano cellule e creano ibridi, giocando con la vita come se ne fossero i custodi supremi. Seguendo le stesse dinamiche è stata
introdotta su scala mondiale l’agricoltura transgenica, con risultati drammatici dal punto di vista della salute e dell’ambiente.
carestie. In realtà rappresenta una fonte inesauribile di guadagno per i diffusori di queste menzogne, e cela programmi ben più oscuri.
OGM, Organismo Geneticamente Modificato: fino a non molto tempo fa un acronimo del genere avrebbe insospettito e spaventato al solo leggerlo. Oggi invece, questo ennesimo prodotto dei nostri tempi malati, ci viene spacciato come una svolta epocale, un’opportunità per salvare l’umanità dalle
Un ruolo predominante in questa operazione è giocato da Monsanto, potentissima multinazionale americana, leader assoluto nel campo della manipolazione genetica alimentare. L’azienda del Missouri produce una quantità enorme di sementi OGM ed in molti casi ne forza la coltura per mezzo di inganni, raggiri e false promesse. Secondo Monsanto e gli altri colossi della biotecnologia (Syngenta, AstraZeneca, Novartis, Pioneer Biothec, AgrEvo e Bayer, per citare i più importanti) le coltivazioni di organismi transgenici necessitano di meno pesticidi e risultano più resistenti a condizioni climatiche difficili, e questo porterebbe notevoli miglioramenti in termini di quantità e qualità della produzione. Le cose stanno diversamente. Lo scopo di lucro a discapito della salute della popolazione è evidente già dai principi coi quali si produce in laboratorio: esistono sementi OGM che sono state progettate per produrre piante sterili (Terminator della Monsano è l’esempio più famoso): questo costringerebbe
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gli agricoltori a ricomprare ogni anno i semi dalla multinazionale produttrice, che, possedendone i diritti, ne imporrebbe il prezzo.
Per evitare di buttare tutto quel capitale investito, Bill e Monsanto hanno così cercato di venderlo agli altri paesi dell’Africa, consapevoli di spacciare qualcosa di inutilizzabile. Questo perché è stato ritenuto che il carattere genetico della resistenza agli insetti, nelle sementi africane, fosse un carattere recessivo. Un gruppo indipendente di scienziati ha dimostrato essere invece un carattere dominante. In sostanza i parassiti hanno sviluppato una massiccia resistenza a causa dei prodotti chimici immessi dalla Monsanto nelle sementi, annullando proprio quella capacità che doveva essere la ragione per l’uso degli OGM.
Una delle tante prove dell’inconsistenza delle loro tesi e della pericolosità dei loro prodotti.
In alto: il presidente ucraino Poroshenko durante le trattative con il FMI per ricevere il prestito di 17 mln di dollari in cambio di aperture al libero mercato. Al momento la legge di bio sicurezza è stata cambiata, in Ucraina i semi OGM possono essere piantati regolarmente e la Monsanto ha annunciato l’intenzione di investire 140 milioni di dollari di un impianto di semi di mais non-OGM in Ucraina.
processi a causa della tossicità dei prodotti che impone al mercato, accuse di frode, negligenza, corruzione, disastro ecologico e sanitario, attentato a persone e cose, e utilizzo di false prove.
La manipolazione genetica porterà inevitabilmente ad alterazioni irreversibili dell’ambiente naturale e della biodiversità: squilibri che potrebbero compromettere inevitabilmente la vita del pianeta. Il timore è che i trasferimenti di gene tra organismi non appartenenti alla stessa specie possano danneggiare i sistemi immunitari o trasmettere allergie e resistenza agli antibiotici dato che nessuno è in grado, allo stato attuale delle conoscenze, di stabilire con certezza quali potrebbero essere le eventuali conseguenze a breve e a lungo termine del disordine genetico creato dal diffondersi di tali pratiche agricole.
La cosa davvero preoccupante è che man mano che la situazione peggiora, i produttori di OGM la camuffano con la collaborazione di quelle autorità che invece dovrebbero regolamentare. Nello stesso tempo una gigantesca macchina propagandistica lascia credere al mondo che questo tipo di sementi possono eliminare il problema della denutrizione. Si spiegano molte cose, e si capisce perché la Monsanto continua a trarre profitti spaventosi, nonostante sia una delle aziende che ha subito più cause:
Attorno a questo giro di affari colossale, ruotano interessi non solo economici, ma anche di controllo politico e sociale. Dalle stanze dei bottoni di Washington fino agli uffici della Microsoft e di altre multinazionali di altri settori, il filo che compone la trama è lungo. Un caso scabroso è nato proprio dalla collaborazione con la “Bill Gates Foundation”, che ha finanziato Monsanto per produrre mais geneticamente modificato, noto con la sigla di MON810, per poi coltivarlo in Africa del Sud: il risultato si è rivelato totalmente fallimentare.
In basso: Bill Gates al tempo della collaborazione con Monsanto, pubblicizza il suo mais OGM in Africa.
Le vittime di questa politica sono incalcolabili: non solo chi, molto spesso inconsapevolmente, diventa un consumatore di determinati prodotti, ma anche chi, a causa dell’aggressione sul mercato, ha smesso di lavorare e di vivere: sono in aumento costante i casi di suicidio tra gli agricoltori finiti sul lastrico. Un meccanismo letale che stritola chiunque gli si opponga.
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Attiviste del No TTIP manifestano contro il trattato di libero scambio che permetterebbe l’apertura dei mercati europei ai prodotti geneticamente modificati provnienti dagli Stati Uniti. L’Europa per il momento tiene botta: in quasi tutti i paesi sono presenti leggi che vietano le colture OGM. La Monsanto però non molla ed ha escogitato un piano ben preciso: crearsi un varco all’interno del Vecchio Continente vendendo prodotti non OGM. Poi, una volta dentro, tutto sarà più facile. Uno dei punti di partenza dell’operazione è la Francia, un mercato enorme che fa gola al colosso agrochimico statunitense, che sta investendo milioni di euro per espandere e modernizzare gli impianti di sementi già esistenti. Ma la vera strada è un’altra, ed è una notizia finita su tutti i giornali nell’ultimo periodo: il vero cavallo di Troia utile agli scopi è l’Ucraina, terra attorno alla quale ruotano gli interessi della geopolitica internazionale. Kiev, dopo il golpe filo-americano, ha ottenuto un prestito enorme (quantificabile in diversi miliardi di euro) dal FMI, che a quel punto ha posto le sue condizioni, iniziando a fare le riforme nel paese al posto del governo in carica e coinvolgendo nel progetto dei privati legati alle strategie di Washington e soci. Uno dei settori che fa più gola è proprio quello agricolo, visto che l’Ucraina è il terzo esportatore mondiale di frumento ed il quinto di grano ed è nota per i suoi vasti terreni, che
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contano più di 32 milioni di ettari coltivabili. Ed è qui, naturalmente, che entra in gioco Monsanto, che negli ultimi 3 anni ha raddoppiato la sua presenza sul territorio, investendo 140 milioni di dollari per un nuovo stabilimento. Ne consegue che l’intero settore agricolo ucraino (come tutti gli altri settori del resto) è in mano alle multinazionali straniere che fanno capo agli Stati Uniti: anche se Kiev, formalmente, vieta le coltivazioni OGM, quanto credete che durerà? E quando prenderà corpo il nefasto progetto della Multinazionale più spietata del pianeta, quanto tempo ci vorrà prima che arrivi anche in tutti gli altri Stati membri dell’Unione? Senza dimenticare la battaglia che proprio intorno agli OGM si sta giocando nelle trattative per la futura ratifica del TTIP, che, se le previsioni non mentono, aprirà definitivamente il mercato europeo alle sperimentazioni transgenetiche. E’ un processo che sembrerebbe inevitabile, ma le esperienze passate dimostrano che se un popolo è sveglio, informato e preparato, riesce a tarpare le ali agli avvoltoi. Occhi aperti.
Economia ed ecologia:
una prospettiva storica
I
l rapporto tra ecologia ed economia non risulta essere sicuramente tra i più felici. Questa tocca per lo più i valori di scambio mentre quella ha a che fare con l’ambito delle risorse, a prescindere dalla loro capacità di generare un valore monetario.
I diffusi timori per le conseguenze dell’attività economica sull’ambiente potrebbero a prima vista apparire una preoccupazione tutta moderna, figlia dell’industrializzazione o meglio della capacità della tecnologia non solo di esplorare ma anche di sottomettere la natura. In realtà le radici di questo confronto affondano nel XVIII secolo, epoca in cui l’impresa coloniale iniziava a scontrarsi con l’idealismo romantico e con le scoperte scientifiche. Rispetto all’impressione manualistica di a-storicità dei principi economici, non è assurdo quindi ritenere che la soluzione a problematiche odierne si possa riscontrare, perlomeno in linea generale, nelle teorie dimenticate del passato. Spostiamo le lancette dell’orologio all’epoca economica pre-classica (nei classici troviamo: Smith, Ricardo, J.S. Mill, Marx): contrariamente alla vulgata popolare anche in questo periodo troviamo delle vere e proprie scuole di economia (del tipo di quelle che oggi sarebbero la scuola austriaca o quella dei keynesiani), tra le quali volgiamo la nostra attenzione al gruppo dei fisiocratici.
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LIBERI MERCANTI ECONOMIA ED ECOLOGIA: UNA PROSPETTIVA STORICA Come scrive Schumpeter nel suo celebre “Storia dell’analisi economica” (1955): “la fisiocrazia non esisteva nel 1750. Tutta Parigi e, ancor più, Versailles ne parlava fra il 1760 e il 1770. Praticamente tutti l’avevano dimenticata nel 1780”. Cosa professavano gli aderenti a questo movimento? E perché la loro notorietà rimane legata esclusivamente a quegli anni? Il loro fondatore, François Quesnay, medico ordinario del Re, deve essere interpretato come un filosofo del diritto naturale e le sue teorie sullo stato e la società come riformulazioni della dottrina scolastica di S. Tommaso (Schumpeter 1955). Rispetto però a quest’ultimo che, consapevole della relatività storica degli stati e delle istituzioni sociali, applicava l’“ordine immutabile” esclusivamente alle entità metafisiche, Quesnay e i suoi seguaci cre-
devano che lo stesso regolasse anche le questioni terrene. Siamo nella Francia di Luigi XV (1710-1744) e l’assolutismo monarchico acritico e astorico di Quesnay trova grande favore a corte; inoltre l’agricoltura svolge un ruolo fondamentale nel suo programma di economia politica, in un periodo in cui i salotti londinesi e parigini vivevano l’entusiasmo legato alla rivoluzione della tecnica agraria: ecco spiegati le ragioni del suo successo. Al centro del pensiero economico dei fisiocratici vi era infatti la convinzione che la terra fosse diversa da ogni fattore di produzione. La natura, operando attraverso il suolo, produceva più ricchezza di quella che veniva consumata nel corso della sua creazione. Il commercio, il trasporto e la manifattura, al contrario erano incapaci di produrre nuova ricchezza: piuttosto, aumentavano il valore della merce, senza crearne di nuovo; potevano mutarne la forma nel
Adam Smith, il padre della moderna teoria economica. L’opera più importante di Smith “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” chiude il periodo dei mercantilisti, dando avvio alla serie di economisti classici, superando i concetti definiti dai fisiocratici.
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netto era evidentemente un’idea piena di buon senso. Fondarlo esclusivamente sul reddito netto della terra era la maniera in cui Quesnay applicava ai problemi tributari la sua teoria, secondo cui la rendita netta della terra è l’unico reddito netto e ogni imposta, in ultima analisi, ricade comunque su di essa; una teoria, questa sì, difficilmente oggi sostenibile. Ecco allora che la dottrina fisiocratica si presenta come l’opposto delle teorie mercantiliste (che avevano avuto la meglio in Francia con il ministro Colbert). Industrialismo e regolamentazione da un lato, preferenza assoluta per l’agricoltura e libertà dall’altro: non per la libertà in sé e per sé, ma in quanto mezzo per favorire lo sviluppo dell’agricoltura (Henri Denis, 1973). La ricchezza della nazione allora non va cercata nella bilancia commerciale né nella produzione industriale, ma piuttosto nell’agricoltura e nell’appropriazione di stock di ricchezza naturale. Questa grande attenzione al legame tra fusis ed economia sarà radicalmente spazzata via dal sopraggiungere della rivoluzione industriale (1780) e il graduale spostamento dell’attenzione prima alla leggi di comportamento sociali ed istituzionali da parte dell’economia classica (la distribuzione dei redditi, la lotta di classe) e poi alle preferenze individuali della scuola neoclassica (rivoluzione marginalista). processo di produzione ma non aggiungevano nulla al prodotto della terra. Questi aspetti di analisi economica si traducevano in due concezioni di politica economica: il celeberrimo motto del liberismo “laissez faire-laissez passer” (è loro la prima citazione) e l’imposta unica sul reddito netto della terra. Quesnay considerava il “lasciar fare” e il liberismo commerciale come norme di assoluta saggezza politica: questi imperativi vanno visti alla luce dell’ostilità dei fisiocratici nei confronti degli abusi delle posizioni monopolistiche (R. Lekachman, Storia del Pensiero Economico) e soprattutto dobbiamo considerare come essi non potevano essere raggiunti senza una buona dose d’interferenza governativa. Riguardo alla sua condanna indiscriminata dei controlli governativi, è importante osservare che egli aveva sotto gli occhi i controlli ereditati dal passato, non più adatti alle condizioni correnti ( J. Schumpeter). Similmente rispetto alla sua imposta unica, dobbiamo considerare che semplificare e rendere nazionale il sistema fiscale francese basandolo su un’imposta sul reddito bimestrale europeista|LOTTA EUROPEA|21
RITORNO AD ITACA
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La montagna dell’anima
A
ndare in montagna non può non piacere: è una sensazione che unisce i gitanti della domenica e i pionieri delle vette inconquistabili, i bambini e gli anziani, le donne e gli uomini. Trovarsi di fronti agli scenari montani è qualcosa che tira fuori dall’animo quel che c’è di buono e che per natura esiste, quel buono a cui bisogna credere per portare avanti quelle lotte che sono sia individuali che collettive. Proprio per questo motivo, l’andare in montagna è stato oggetto di contesa tra i diversi modi di vedere il mondo, tra i governi degli stati, tra gli alpinisti, tra gli sponsor. E proprio per questo è necessario cercare di tornare all’origine di ciò che significa andare in montagna. bimestrale europeista|LOTTA EUROPEA|23
RITORNO AD ITACA LA MONTAGNA DELL’ANIMA appoggiano alle rocce nei tratti di arrampicata più impegnativi. Passo dopo passo ci si accorge che si entra sempre di più in lotta con se stessi. Quando la fatica si fa sentire e il sentiero si fa più ripido si riscopre la voglia di lottare, metafora della vita, in cui il coraggio arriva dal tuo compagni di cordata, simbolo antico di cameratismo, e dalla bellezza dell’obiettivo: la vetta ideale, sempre sovrastata da una Croce, a ricordarci che per quanto si possa salire non si può andare più in alto di Dio. Eccola, è questa la riflessione chiave. È sottilissima la linea che separa la ricerca della sana solitudine periodica dalla scelta del sentiero dell’isolamento per far valere il proprio desiderio. Tale è la bellezza dello scenario e tale il sapore della sfida che si rischia continuamente di autocelebrarsi per ciò che si fa, di sentirsi migliori degli altri con
Durante le prime uscite di trekking leggero, la prima cosa che colpisce, assai più della bellezza del paesaggio, è senza dubbio il silenzio. Interrompendo il proprio passo per bere dalla borraccia, specie se si è soli, si entra in un mondo che sembra quasi finto per la totale assenza di suono. È questa la vera sensazione di trovarsi lontani da tutto. Già, essere lontani: ad un lettore accanito di Degrelle non può non tornare alla mente la Beata Solitudo, quella necessità periodica di ritrovare se stessi e ritrovarsi con se stessi, di mettersi alla prova se si sta compiendo un itinerario impegnativo o semplicemente di pensare, fantasticare, parlare con Dio o la propria anima. La natura è immediatamente di aiuto in questo. Invade con la sua forza tutti i sensi: la vista con i suoi scenari grandiosi, l’udito con il fischio delle marmotte o lo scampanellio delle mucche al pascolo, l’olfatto con odori che solo chi frequenta certi posti riconosce a memoria, il gusto per il sapore inconfondibile dell’acqua di sorgente; persino il tatto, quando le mani si
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disprezzo, di voler nutrire il proprio ego con imprese sempre più grandi e vanitose. Come si rischia di lottizzare politicamente certe discipline, quasi appartenessero a questo o a quel credo, quasi si potesse mettere anche qui ancora una volta al centro l’uomo. La vita insergna che dove c’è l’ego umano, lì si annidano le insidie: osservando il mondo di chi va in montagna con occhi attenti, si vedono tutte. L’ecologismo esasperato, ad esempio, come se il rispetto della natura fosse qualcosa su cui forzare la mano e non una naturale tendenza dell’animo umano: mostrare all’esterno certe radicalizzazioni significa essere esasperati dal desiderio che gli altri ti vedano come una persona fuori dal comune. Narcisismo mascherato da buoni sentimenti, come il veganesimo e la medicina orientale, che se non sono sbagliati in sé, lo diventano non appena (e accade quasi sempre) si trasformano in credo politico da esportare ed imporre. Tutto questo funge da anticamera al pericolo peggiore: le filosofie olistiche, olimpiche forse, orientaleggianti, sé-centriche, che elevano la personalità del singolo, allontanandolo da quello che resta il compito principale dell’uomo, ossia aiutare il prossimo, quello più sfortunato, quello più umile. Non deriderlo perché non ha compreso il presunto significato della vita. Scrivo queste righe con amarezza, pensando a quante volte mi sono macchiato di queste colpe. Troppe volte ho creduto che raggiungere una vetta mi rendesse migliore degli altri, troppe volte mi sono crogiolato dentro questa illusione. Andare in montagna significa arrivare in vetta, ma chiunque intraprende quel cammino deve imparare a conservare dentro di sé la voglia e la determinazione per saper poi ridiscendere e mettersi al servizio del Principio e non di falsi dei.
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§Lotta Europea intervista
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erra Mia è un movimento identitario, solidarista e autonomista lucano nato da poco, ma che si è da subito segnalato per una fortissima presenza nelle manifestazioni contro il decreto “sblocca Italia” del governo Renzi, tenutesi nelle strade di Potenza e che hanno coinvolto migliaia di giovani e meno giovani. Nell’ultima manifestazione, a ridosso dell’approvazione in consiglio regionale di una proposta di impugnativa della norma nazionale, ci sono stati persino tensioni, fuori dal Palazzo, tali da determinare la sospensione dei lavori. Lotta Europea l’ha intervistata. Prima di tutto, cosa è Terra Mia? Tutto nasce a tavola, durante una fitta nevicata, in una masseria lucana. Era un incontro tra amici e conoscenti di diverse età. Alla fine dei pasti si è cominciato a parlare di Lucania, di promesse di sviluppo mancate e della questione petrolio. Il collasso dei prezzi delle ma-
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terra mia
terie prime ha reso evidente quanto effimera fosse la promessa di ricchezza regionale legata al fragile sistema delle “Royalties”. Si tratta di problemi molto sentiti dalle nostre parti. È lì che è nata l’idea di costituire un movimento? L’idea era di individuare una via politica alla contestazione. Non un movimento che facesse da semplice aggregatore di malcontento, ennesima sigla fra tante già esistenti (alle manifestazioni lucane contro lo sfruttamento dell’ambiente sono presenti moltissime sigle, tutte agguerrite), ma un movimento che contribuisse a diffondere una strategia. Non più sola protesta, ma proposta e strategia della proposta. Sarebbe a dire? Noi non siamo totalmente contrari allo sfruttamento delle risorse petro-
lifere. Sappiamo bene che una realtà locale non può opporsi alla pressione economica e politica provocata dalla domanda di queste risorse, e che la politica energetica è inevitabilmente un affare di Stato. Inoltre, non riteniamo sbagliato in sé che una comunità utilizzi a proprio vantaggio tali risorse. Ma abbiamo visto i risultati delle estrazioni in Lucania per molti decenni: a fronte di un vantaggio economico consistente, che finisce soprattutto nei forzieri della politica, non ci sono ricadute sul lavoro, sull’economia, sul risparmio privato, sulla qualità della vita. Le royalties hanno arricchito il bilancio regionale, ma la classe dirigente lucana non ha innescato alcun volano di sviluppo, perché il denaro accumulato in questo modo non produce gli effetti sperati, forse per incapacità di gestione, sicuramente per sprechi e corruzione. Quindi via libera alle estrazioni? Possiamo vendere tutto: i frutti del-
la terra, l’acqua, il risultato del nostro lavoro, lo spettacolo dei nostri luoghi natali. E possiamo vendere il petrolio. A maggior ragione se tutta la nazione ne ha bisogno. L’unica cosa che non possiamo vendere è la dignità. Dobbiamo vendere ciò che abbiamo per conseguire ciò che ci manca: un piano di sviluppo serio dell’impresa locale, una programmazione onesta dei finanziamenti bancari per le attività produttive, una pianificazione pluriennale degli interventi per la messa in sicurezza delle nostre risorse naturali (penso al sempre promesso e mai realizzato piano per il dissesto idrogeologico, che sta divorando migliaia di ettari di montagna). Se vedremo questo impegno, accetteremo le estrazioni. In caso contrario, ci opporremo. Non abbiamo bisogno delle elemosine delle multinazionali; noi non siamo il terzo mondo. Ci serve una classe dirigente. Utopistico, non credete? Decisamente no. Abbiamo avuto esempi di programmazione dello sviluppo, dalle nostre parti, molto più complesse e decisamente riuscite. Penso alla Riforma Fondiaria, che ha strappato al latifondo gran parte dei terreni coltivabili lucani, assegnandoli ai braccianti agricoli: persone che vivevano al limite della sopravvivenza, prive di denaro, terreni e spesso addirittura delle conoscenze agrarie necessarie (ricordiamoci che erano braccianti, meri esecutori degli ordini del massaro), ebbero terra, finanziamenti per acquistare mezzi agricoli, cattedre ambulanti di agraria e zootecnia. Una lunga marcia di progresso, dipanatasi nell’arco di molti anni, che ha cambiato il volto della Lucania. Per fare questo non servono gli incantesimi: servono politici seri e motivati, studiosi, tecnici. E’ questo di
cui la Lucania ha bisogno, questo in cambio del nostro petrolio. Passiamo al vostro simbolo: cosa rappresenta? Una donna lucana con il figlio, entrambi sorridenti. Immagine della società tradizionale, e richiamo visivo alla Madonna di Viggiano, protettrice della nostra terra. Sullo sfondo c’è l’alba, la cornice sono spighe di grano. L’idea che abbiamo voluto far trasparire è quella di una Lucania diversa da quella disegnata dalle multinazionali americane; una Lucania giovane, vitale, ottimista. Una Lucania con una visione di società e un’idea di libertà. Una Lucania che vive di lavoro, non di assistenzialismo. Avete rapporti con la politica? Trattiamo con i politici da pari a pari. Ci siamo pubblicamente confrontati con gli amministratori regionali. Abbiamo esposto con forza le nostre idee, abbiamo proposto loro di portare in sede nazionale ed europea, tramite i loro partiti, la proposta di “emancipare” le royalties dai limiti del patto di stabilità, di costituire comitati misti tra multinazionali, organi politici e rappresentanti dei cittadini per ispezionare i luoghi di estrazione, di aprire un tavolo con l’università per progettare interventi di sostegno duraturi a favore di imprese, lavoro ed economia. Hanno il dovere di ascoltarci, e di rendere conto di quanto faranno. La gente è sempre più sfiduciata, gli spazi per le scuse sono sempre più ridotti. Ma qui, non lo dimentichiamo, i nostri avi, briganti, hanno già dato l’esempio. Adesso tocca a noi. Il ritornello –da anni- è sempre lo stesso: la terra è a nostra e nun s’adda tocca.
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otta Europea ha incontrato i rappresentanti della Rete No MUOS, la sigla siciliana che si oppone alla nuova installazione di comunicazione militare impiantata dagli americani in aggiunta al preesistente centro di trasmissioni radio navali: una vera e propria bomba ad orologeria per l’ambiente e la cittadinanza, investita dalle onde elettromagnetiche delle antenne predisposte nel bel mezzo di una riserva naturale nonché l’ennesimo sfregio ad un territorio, la Sicilia, e ad un Paese, l’Italia, privati da settant’anni della propria sovranità e della propria indipendenza e trasformati in un enorme base di lancio nel bel mezzo del Mediterraneo.
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La Rete No MUOS ha recentemente ottenuto un’importante vittoria, per quanto parziale e temporanea: il sequestro della struttura. Cosa è successo nello specifico e perché affermate che si può sorridere solo a metà? Il nucleo di polizia giudiziaria della polizia municipale della Procura di Caltagirone ha eseguito il sequestro dell’impianto MUOS per ottemperare alla precedente sentenza del TAR di Palermo che aveva sancito l’illegittimità della costruzione. Si tratta naturalmente di un fatto positivo e per molti versi insperato perché nessuno di noi avrebbe mai pensato che si sarebbe dato seguito alla sentenza del TAR avversa all’esercito statunitense. Tuttavia non possiamo esultare fino in fondo perché abbiamo il timore (del tutto fondato, viste le parole del sindaco di Niscemi Franco La Rosa) che il MUOS possa semplicemente cambiare luogo e venga traslato in un’altra area della Sicilia. Il TAR di Palermo aveva dichiarato illegittimo il progetto MUOS perché pericoloso per la salute di cittadini: quali sono i reali pericoli per l’uomo e l’ambiente? Che il MUOS comportasse enormi rischi per l’uomo e per l’ambiente non è certo una novità. Da questo punto di vista la sentenza del TAR del Febbraio u.s. non fa altro che riportare dati già acquisiti e resi pubblici nel corso degli
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anni, scaturenti dalle relazioni basate essenzialmente sulle rilevazioni effettuate dall’ARPA Sicilia. Se vogliamo tracciare un quadro riassuntivo, senza addentrarci nel dato medico, possiamo affermare con certezza che il MUOS non porterà certo benefici all’uomo, in termini di benessere e salute, nel breve e nel lungo periodo. Per quanto concerne l’aspetto ambientale, recandosi sui luoghi è di tutta evidenza, anche ad un occhio poco attento, il disastroso impatto che queste installazioni hanno avuto sul paesaggio. La riserva ambientale della Sughereta è uno dei patrimoni ambientali della Sicilia orientale, dentro la quale hanno letteralmente installato un tumore. A ciò si aggiunga la conclamata incompatibilità del sistema MUOS con il traffico aereo e le strutture civili che insistono sul territorio ragusano. Insomma gli americani non ci hanno fatto mai mancare proprio nulla e la Sicilia ne sa qualcosa. Il Senato ha recentemente approvato la legge che punisce chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale, da considerarsi come l’alterazio-
La manifestazione di Palermo sotto Palazzo dei Normanni, la sede dell’Assemblea Regionale Siciliana sotto: le antenne del MUOS durante i lavori di istallazione nella base di Niscemi
ne irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o come l’offesa all’incolumità pubblica in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. La legge prevede anche un’aggravante per l’ipotesi in cui il delitto sia commesso in un’area naturale protetta o sottoposta a vincoli, proprio come l’area di Riserva integrale interessata dal MUOS. Ci sembra quindi che ce ne sarebbe ab-
zioni. Da un lato abbiamo una sentenza emessa da un tribunale amministrativo - quindi immediatamente esecutiva - che definisce illegittime le autorizzazioni e conseguentemente abusivo l’impianto, mentre dall’altro abbiamo la questura che, sotto le indicazioni del Ministero, continua a scortare operai e tecnici per la prosecuzione dei lavori all’interno dell’area. Tutti fanno spallucce e giocano allo scarica barile. Ad oggi non siamo in grado di comprendere a che punto sia l’iter di avviamento del sistema, anche perché gli americani, come ovvio, sono sempre molto vaghi sulla questione. Dalle foto scattate dagli attivisti dopo la sentenza, tuttavia, si evince chiaramente come le luci del sistema siano ancora accese e che le antenne si trovino sempre in posizioni diverse. Di fatto, il sistema è ancora operativo.
bastanza per processare i responsabili americani ed italiani... Assolutamente si. D’altronde, nella loro diversità, le responsabilità americane e nostrane legate alla vicenda sono conclamate. Agli americani occorrerebbe far pagare 70 anni di prepotenza ed arroganza, nonché disastri ambientali che portano la bandiera Yankee. Grazie al placet incondizionato della nostra “classe dirigente” essi ci hanno sempre trattato come terra di conquista o forse ancor peggio da discarica: da questo punto di vista il MUOS rappresenta solo l’ultima delle nefandezze perpetrate nei confronti del nostro paese e dell’Europa Viceversa, i politici italiani, che hanno a vario titolo contribuito alla creazione di questo abominio - per intenderci da La Russa e Crocetta, passando per tutti i gradi di potere intermedi - non solo hanno manifestato il più becero servilismo nei confronti degli USA, ma hanno letteralmente tradito il proprio popolo. Per questo occorre che paghino.
In gioco non c’è solamente la tutela della salute e dell’ambiente, ma la stessa indipendenza politica e militare dell’Italia e della Sicilia: quale è il ruolo svolto da Niscemi nei piani strategici statunitensi? La Sicilia storicamente ha sempre rivestito un ruolo fondamentale negli equilibri bellici del mediterraneo, non fosse altro per la posizione geografica che la accredita di fatto come crocevia delle dinamiche militari riferibili non solo al Vecchio Continente ma a tutto il Nord Africa ed al Medio Oriente. In questo contesto, il MUOS di Niscemi non è altro che una delle quattro basi costituenti il sistema tattico next gen di comunicazione predisposto dagli americani: le altre installazioni sono disposte in altri punti del globo e comunicano direttamente con altrettanti satelliti in orbita intorno alla terra.
Sembra evidente, dunque, di che entità siano gli interessi in gioco. Dal canto nostro abbiamo sempre evidenziato che uno degli aspetti fondamentali della vicenda sia la sovranità militare e politica del nostro paese. La nostra classe dirigente, prona agli interessi dei potentati internazionali, è assolutamente incapace di esprimere un moto d’orgoglio che faccia gli interessi del nostro popolo. Occorre una presa di coscienza forte e decisa che inverta, dopo 70 anni di servilismo, le politiche internazionali dell’Italia. C’è ancora speranza di vincere definitivamente la battaglia contro il MUOS? Certamente. La forte presa di posizione della magistratura amministrativa ha segnato una decisa inversione di tendenza. Per la prima volta, dal 2006 ad oggi, uno dei tre poteri dello Stato ha affermato con fermezza che nessuno è al di sopra delle leggi, finanche gli “intoccabili” americani. È chiaro che a questo deve seguire una lotta di popolo. Occorre far capire alla gente che questo non è un problema siciliano, ma italiano se non anche europeo. Da battaglie come questa dipende il futuro stesso di un paese che deve a tutti i costi riacquistare la propria sovranità e quindi la capacità di scegliere il proprio futuro politico e militare nell’interesse esclusivo dei propri cittadini. Ad ogni modo, parafrasando Teseo Tesei, vincere o perdere una battaglia non è sempre importante. Ciò che conta è che la nostra lotta indichi ai nostri figli e alle future generazioni a prezzo di quali sacrifici si serva il proprio ideale e per quale via si pervenga al successo.
Naturalmente non ci aspettiamo che la volontà americana si fermi di fronte ai decreti del TAR o alla legge italiana: come procede la costruzione e l’avviamento del MUOS? Questo è uno degli aspetti più grotteschi della vicenda, che la dice davvero lunga sulla serietà delle nostre istitubimestrale europeista|LOTTA EUROPEA|31
LOTTA EUROPEA Segreteria di redazione Via Ottaviano 9 00192 Roma email: lotta.europea@gmail.com lottaeuropearivista.blogspot.it 32|LOTTA EUROPEA|bimestrale europeista