Storia del design 2 luana leo

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STORIA DEL DESIGN


Interior Design A.A. 2016/2017 Corso di Storia del Design II Docente: Leonardo Rossano Studente: Luana Leo



“Le opere sono necessarie in se stesse e in quanto parti di un ordine genuino. Si puo’ ordinare soltanto ciò che è già in sé ordinato. L’ordine è qualcosa di più dell’organizzazione. L’organizzazione è la determinazione della funzione. L’ordine invece è attribuzione di significato.” Ludwig Mies van der Rohe


01.

02.

03.

LA SCUOLA SCANDINAVA E IL DESIGN ORGANICO

L’INDUSTRIAL DESIGN NEGLI USA

LA SCUOLA DI ULM

ALVAR AALTO

LO STREAMLINING

TAPIO WIRKKALA

RAYMOND LOEWY

FOCUS: PAIMIO CHAIR 41

1940. UNA SVOLTA NEL FURNITURE DESIGN

FOCUS: SGABILLO

GEORGE NELSON CHARLES E RAY EAMES FOCUS: TULIP CHAIR, LOUNGE CHAIR E OTTOMAN

04.

05.

IL DESIGN ITALIANO DEL SECONDO DOPOGUERRA

GLI ANNI ‘60 E I MAESTRI DEL DESIGN ITALIANO

PIAGGIO E FIAT: LA MOTORIZZAZIONE DI MASSA

LE MATERIE PLASTICHE: KARTELL MARCO ZANUSO

GIO PONTI VICO MAGISTRETTI FRANCO ALBINI I FRATELLI CASTIGLIONI BRUNO MUNARI E IL DESIGN DIDATTICO FOCUS: SUPERLEGGERA

FOCUS: SELENE, PANTON CHAIR


06.

07.

08.

GLI ANNI ‘70 E IL DESIGN RADICALE

IL POSTMODERNO

IL DESIGN GIAPPONESE

ALESSANDRO MENDINI E LO STUDIO ALCHIMIA

SHIRO KURAMATA

ARCHIZOOM ASSOCIATI SUPERSTUDIO

GRUPPO MEMPHIS

JOE COLOMBO

ETTORE SOTTSASS

FOCUS: TUBE, PRATONE, CAPITELLO

FOCUS: PROUST

09.

10.

IL DESIGN MINIMALISTA

DESIGN - STAR SYSTEM: PHILIPPE STARCK

GLI SHAKERS FOCUS: LOUIS GHOST CHRISTOPHER DRESSER JASPER MORRISON FOCUS: AIR CHAIR


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01.

LA SCUOLA SCANDINAVA E IL DESIGN ORGANICO

Il design scandinavo occupa un ruolo di assoluta rilevanza all’interno della storia del design. Con questo termine, si vuole indicare tutta la produzione di design proveniente da una precisa area geografica europea, ovvero la Scandinavia. Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia, sono le principali nazioni che ruotano intorno al processo di ideazione di un design nordico. Per la comune necessità di proteggersi in un ambiente estremo, vasto e freddo, la società scandinava svolge un’attiva vita sociale. Questa difesa comune ha portato una particolare attenzione alla qualità degli spazi interni; si è sempre cercato di realizzare luoghi ospitali sia nelle abitazioni private che negli spazi pubblici, caratterizzati da ordine, essenzialità, funzionalità e uso di materiali caldi e organici. Grazie alla presenza di una politica di solidarietà sociale, o social democratica, si ha la possibilità di controllare la qualità e l’estetica dei prodotti, premiando coloro che lavorano meglio. Data la mancanza di indutrializzazione vi è una forte coesione tra gli artigani che, lavorando in team, permettono la realizzazione di prodotti con caratteristiche artigianali ma con i prezzi dei prodotti industriali. La comparsa sulla scena internazionale del design scandinavo avvenne per gradi; furono fattori politici ed economici legati al secon-

do dopoguerra che spinsero queste nazioni ad avvicinarsi, e a vedere concretamente la possibilità di uno scambio di influssi e di idee nell’ambito della progettazione e del design. Nei primi anni Trenta si assiste ad un cambiamento nella “cultura del progetto”, rispetto ai linguaggi del Movimento Moderno. Questo cambiamento, già anticipato da Frank Lloyd Wright che, sostenendo un’armonia tra uomo e natura, concepisce l’architettura come elemento di equilibrio tra il mondo costruito e quello naturale, si traduce in una tendenza all’uso di materiali naturali e nell’adozione di forme morbide e arrotondate. I principali fattori della diversità del design scandinavo rispetto a quello europeo possono considerarsi: il non aver assunto come referente la “macchina”; la mancata frattura tra artigianato e industria; la volontà di non smentire la propria tradizione ma piuttosto di continuarla; l’uso prevalente di alcuni materiali, in particolare del legno; l’aver rivendicato al design degli oggetti domestici un posto nel disegno industriale; l’aver assunto come referente principale dei loro progetti la natura. Il legno, materiale più facile da reperire, veniva molto spesso lasciato grezzo, non pretrattato prima dell’inizio della lavorazione, oppure sottoposto all’azione degli agenti na-

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turali, per ottenere effetti caratteristici che trasformavano direttamente il materiale, senza l’azione fisica dell’uomo. La pietra veniva lavorata o resa lucida; le foglie, con le loro linee semplici si trasformavano in motivi per tavoli oppure davano forma a serie di piatti; il ghiaccio con le sue venature diventava ispirazione per vasi, oppure serie di bicchieri. Kaare Klint, docente in diverse accademie di design, diede origine allo stile moderno scandinavo che cominciò ad emergere verso la fine degli anni Venti e divenne popolare negli anni Trenta. Klint e la sua scuola non vedevano nel mobile un manifesto ideologico. Tradizione e funzionalità erano i concetti principali del suo insegnamento. Il suo intento era creare un oggetto d’uso temporale, uno strumento per abitare. Egli sceglie ed elabora tipologie del passato traducendole in una morfologia prettamente moderna; il suo stile si basa principalmente sulla storia e sull’antropometria. Il concetto di Design Scandinavo viene popola-

rizzato a partire dagli anni Cinquanta attraverso l’esposizione “Design in Scandinavia” presentata tra il 1954 e il 1957 negli USA e in Canada. Il design scandinavo si concentra sulla realizzazione di un oggetto o mobile singolo che, se accostato ad altri concepiti nello stesso spirito organico, si inserisce nell’ambiente diventando parte armonica di un insieme; ciò non funziona quando questo è accostato ad un pezzo estraneo. Non è interesse di questo design realizzare oggetti icona, seriali, ma piuttosto di creare oggetti pensati in relazione all’ambiente in cui questi devono essere collocati, importante è creare un’armonia tra uomo, oggetto e ambiente. Il design nordico ambisce a raggiungere un equilibrio tra forma, funzione, colore, consistenza, robustezza e costi. Alvar Aalto, Tapio Wirkkala e Hans J. Wegner sono alcuni dei designer che hanno trovato nella natura un’inesauribile fonte di ispirazione. Semplicità, linee definite, unità tra forma e funzione si fondono con la passione per lo studio

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delle forme organiche. Lo stretto rapporto con la natura e la praticità rappresentano un tratto comune del design scandinavo; l’elemento naturale non è visibile solo nei materiali che vengono scelti ed utilizzati per la produzione, ma è fonte di ispirazione per le forme stesse. Il legno è il materiale per eccellenza del design scandinavo poiché è una delle poche materie prime disponibili in loco. Il suo impiego frequente non è dovuto soltanto alla sua facile reperibilità ma anche alle sue proprietà, in particolare quelle isolanti. Inizialmente non esistevano particolari innovazioni, i modelli infatti si fondavano sulla tornitura e sui sistemi di curvatura del legno. Con l’introduzione di sostegni metallici si vide un avvicinamento verso l’industria. Solo con lo studio di Aalto, prima sulla curvatura del legno utilizzando l’umidità naturale del legno di betulla finlandese e poi sul compensato, si raggiunge la vera espressione del design scandinavo. Anche il vetro e la ceramica sono due materiali molto usati dai designer scandinavi. L’impostazione democratica della società scandinava, facendo convergere l’attenzione sui beni primari, come la casa e i suoi arredi, facilitò un design a basso costo e dai buoni standard qualitativi. Ciò spiega oggi un fenomeno come IKEA, considerata l’ultimo erede dello stile svedese. “Il design scandinavo ha dato forma alla cultura scandinava, raccontandola attraverso le linee di ogni singolo oggetto. Semplicità formale, materiali naturali e forme organiche rendono questo stile intramontabile e facilmente riconoscibile”.

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“ Lo scopo della nostra ricerca e’ un sistema che ci consenta di realizzare case secondo una varieta’ funzionale e in rapporto a specifiche condizioni ambientali. Le case devono risultare diverse le une dalle altre, ma in un modo organico, non arbitrario. L’architettura deve garantire all’edificio, e all’uomo in particolare che e’ la cosa piu’ importante di tutte, un contatto organico con la natura, in ogni momento.“ ALVAR AALTO

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01.1 ALVAR AALTO Hugo Alvar Henrik Aalto (Kuortane, 3 febbraio 1898 – Helsinki, 11 maggio 1976) è stato un architetto, designer e accademico finlandese, tra le figure più importanti nell’Architettura del XX secolo – assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright e Le Corbusier – come maestro del Movimento Moderno. Nel 1921 Aalto si laurea al politecnico di Helsinki. Nel 1928 inizia una ricerca sull’industrial design, viene eletto membro permanente del Ciam (Congresso Internazionale di Architettura Moderna, nato con l’intento di promuovere un’architettura ed un urbanistica funzionali), nel 1935 fonda la ditta Artek con i Gullischen, per la realizzazione industriale ed esportazione di arredi, sopratutto in legno. Alvar Aalto si puo’ considerare uno dei fondatori del Design Organico; per diverso tempo si occupò anche di Architettura Organica; per Aalto organico è qualcosa che dà molta importanza alle connessioni tra le parti, ovvero tra l’oggetto e l’uomo che lo andrà ad utilizzare. Il tema principale è il confort dell’uomo, per questo motivo l’architettura organica di Aalto si libera dalle geometrie del De Stijl, ovvero dell’angolo a 90°, per passare ad un’espressione più libera e spontanea che rompe gli schemi della classicità, si confonde nel paesaggio, usa materiali naturali come il legno e si ispira a forme organiche che a volte richiamano l’acqua; nonostante ciò nella

prima parte della sua vita professionale Aalto risente del clima razionalista e funzionalista. Le sue idee ebbero grandi influenze sui designer del dopo guerra, come Charles Eames. Tra le sue prime opere troviamo la sede del quotidiano “Turun Sanomat” (1928-30) a Turku, il sanatorio di Paimio e la biblioteca di Viipuri, nelle quali, nonostante l’inserimento di elementi organici, è ben visibile l’influenza funzionalista. Per quanto riguarda il sanatorio di Paimio, è un progetto di impostazione razionalista ma con elementi di architettura organica, come la pianta libera che si snoda sul territorio e tende a dare energia al complesso (come nel Bauhaus) e dove i vari padiglioni sono divisi a seconda della funzione. L’elemento di organicità lo troviamo nella sistemazione territoriale (una foresta), ma anche nell’elemento curvato della pensilina d’ingresso che riprende l’andamento dei laghi finlandesi. Quindi pianta libera, facciate funzionaliste e ciminiera che ricorda molto il costruttivismo russo. Organizzata appositamente per la funzione di sanatorio è l’area dei malati, con ampie terrazze che si aprono sul paesaggio circostante e dove i letti venivano portati all’esterno; l’ala si conclude con una parte libera di aggregazione dei malati, inoltre mentre rimane chiusa rispetto alla parte di ingresso, dall’altra si apre sulle passeggiate dei malati e sul territorio circostante. Anche la camera del malato viene studiata in 16 1


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maniera attenta con il colore del soffitto tenue, i lavandini inclinati in modo da non far sentire la caduta della goccia nel lavabo; quindi grande attenzione al confort e non a caso i primi mobili ergonomici in legno basati sulle misure dell’uomo sono stati creati proprio per il sanatorio. Aalto si occupa anche del progetto delle case per i medici e per i dipendenti. Con lo studio di Alvar Aalto, prima sulla curvatura del legno di betulla utilizzando la sua umidità naturale e poi sul compensato, si raggiunge la vera espressione del design scandinavo. Una delle innovazioni più importanti di Alvar Aalto è la gamba a “L”, brevettata nel 1933 e divenuta una componente standard dei suoi mobili. Queste sue ricerche gli permisero di trovare la soluzione al problema dell’incontro tra piani verticali e orizzontali creando una struttura unica. Per la prima volta si possono osservare sedie dalle curve morbide ed armoniose da contrapporre al rigoroso formalismo dell’International Style. Alvar Aalto fu un designer versatile che si dedicò a vari campi. Egli è conosciuto anche per le sue eleganti lampade, spesso create appositamente per determinati progetti e in seguito adattate per la produzione seriale. Alvar Aalto è stimato anche come designer del vetro e il suo lavoro più famoso con questo materiale è il vaso Aalto, un’icona del design finlandese. Alvar Aalto non volle indicare quale uso fare di questo oggetto in vetro, ma volle che fossero le persone stesse a deciderlo e forse questo è il segreto che ha permesso alla collezione Aalto di rimanere sempre moderna e fresca.

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“...Prendi un pezzo di ghiaccio in mano e scopri la tua cultura...” TAPIO WIRKKALA

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01.2

TAPIO WIRKKALA

Tapio Wirkkala (Hanko, 2 giugno 1915 – Helsinki, 19 maggio 1985) è una delle icone del design finlandese del dopoguerra. Tapio Wirkkala era un versatile designer ed artista che poteva passare senza problemi da un materiale all’altro; egli lavorò in campi molto diversi, dai frigoriferi alle banconote ma anche mobili, gioielli, ceramiche, metalli e luce. I materiali più importanti per Wirkkala furono il legno e il vetro, materiali che non smise mai di esplorare per le possibilità che offrivano. Wirkkala ottenne il successo a livello mondiale nel 1951 alla Triennale di Milano, dove ricevette tre premi Grand Prix: per l’architettura, per il design del vetro e per le sculture di legno. Wirkkala era un autodidatta in molti campi, ed anche nel design del vetro. Nel 1946 egli disegnò uno dei suoi lavori più famosi, il vaso Kantarelli, per Iittala. Per quest’ultima creò molti pezzi d’arte, per la maggior parte dei quali ricevette premi alle Triennali di Milano degli anni Cinquanta. La linea di bicchieri Ultima Thule, creata nel 1968, vide il designer stesso impegnato nella fabbrica del vetro di Iittala per la sua creazione. Ultima Thule è diventata una delle collezioni più popolari di Iittala e mostra bene il punto di vista di Wirkkala secondo cui gli oggetti semplici sono quelli che richiedono più lavoro. La prima linea di bicchieri di Wirkkala prodotta in massa fu Tapio, lanciata nel 1954. 20 1


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Tapio Wirkkala ricevette importanti commissioni anche dall’estero: a metà degli anni Sessanta Wirkkala iniziò a disegnare oggetti in vetro per la storica azienda italiana Venini, leader nel settore del vetro artistico. Presso la fornace Venini, Wirkkala creò le bottiglie Bolle per la collezione della Biennale di Venezia nel 1966. Una delle commissioni più importanti di Wirkkala all’estero fu il lavoro presso la fabbrica tedesca di porcellane Rosenthal, da cui scaturì una collaborazione che durò circa trenta anni e il cui risultato più importante è il vaso Paperbag (1977), ancora oggi uno dei prodotti più venduti di Rosenthal. Tapio Wirkkala è noto anche per l’uso innovativo che fece del legno nel design dei mobili – da ricordare il tavolo X-Frame, un vero capolavoro di intaglio del legno, creato da Wirkkala nel 1958 e ora prodotto da Artek. Tapio Wirkkala fu anche uno scultore. La sua carriera come scultore iniziò negli anni Trenta, ma egli abbandonò la scultura tradizionale negli anni del dopoguerra. All’inizio degli anni Cinquanta, insieme ad altri lavori, cominciò a sviluppare un rapporto completamente nuovo con la scultura e una nuova tecnica da utilizzare. Come risultato, furono create delle sculture uniche in compensato che combinavano forma e movimento su una superficie in compensato leggero. Le sculture di Wirkkala rappresentarono un eccezionale astrattismo e diedero all’arte della scultura finlandese una nuova direzione in un periodo in cui la linea ufficiale preferiva monumenti e sculture eroiche.

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FOCUS

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PAIMIO CHAIR 41 Designer: Alvar Aalto 1931-32 Materiali: Legno di betulla; sedile in compensato di betulla laccato in bianco


PAIMIO CHAIR 41 ALVAR AALTO La Paimio chair 41 è il progetto più celebre di Aalto sia per l’inedito uso dei materiali che per la sua ingegnosità strutturale. Destinata al sanatorio di Paimio, rappresenta una specie di contraltare alla celeberrima “Wassily” di Marcel Breuer, nella quale il ferro, cioè i montanti tubolari in acciaio sostituivano il legno. La sobrietà di entrambi gli oggetti è indubbia, ma il progetto di Aalto sembra voler porre l’accento sulle curvature del legno, secondo quel modello formale che gli è tipico anche come architetto: “le curvature sono più accettabili psicologicamente degli angoli retti”. L’obiettivo principale di Aalto nel progettare la poltrona 41 era ottenere un prodotto funzionale ed economico. Contro la tradizione, la poltrona conferma l’abolizione razionalista dei cuscini e delle imbottiture a favore di una piegatura anatomica e utilizza un materiale economico, di natura industriale, come il compensato di betulla. Il telaio della sedia è costituito da due anelli chiusi di legno laminato di betulla curvato che sostengono il peso grazie alla loro flessibilità e elasticità. Aalto riteneva che il legno presentasse maggiori vantaggi e benefici dell’acciaio tubolare, perchè conduceva meno calore, non creava riflessi e assorbiva i rumori. Oltre che per motivi estetici, la poltrona Paimio fu realizzata in questo modo per rendere più facile ai pazienti respirare. Paimio chair è composta da un telaio indi24 1


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pendente in legno curvato al quale si fissa la scocca con l’aiuto di viti in metallo. Le linee sono curve e astratte e descrivono alla perfezione lo stile di Aalto. La conformazione della sedia fa si che le tensioni provocate dal peso dell’individuo arrivino in ritardo agli attacchi, rendendola cosi più robusta. Paimio chair è tutt’ora prodotta da Artek in maniera artigianale; le linee della stuttura e della scocca infatti non consentono la produzione industriale. La sedia fa parte della collezione permanente del MOMA di New York e del Museo del design finlandese di Helsinki. Tuttavia, Aalto non ha ancora trovato la soluzione per alleggerire la forma totale, che appare di un certo ingombro, anche se quasi trasparente. Nella poltrona modello 406, con l’inaugurazione dell’ardito sbalzo strutturale, il designer porterà a logico compimento la ricerca formale e strutturale qui già straordinariamente innovativa. ALVAR AALTO, poltrona 406

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FONTI: CAP. 01 – LA SCUOLA SCANDINAVA E IL DESIGN ORGANICO

http://www.museiitaliani.org/it/organic-design/ http://insidesigngiuliabertolini.blogspot.it/2014/01/importanza-della-natura-e-dell-organic. Tesi di Laurea di Ilaria Pigliafreddo, Il design scandinavo alle Triennali di Milano negli anni Cinquanta Link: http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/2964/833787-1161207.pdf?sequen- ce=2 Renato De Fusco – Storia del design, Laterza, Roma-Bari 1998 Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

CAP. 01.1 – ALVAR AALTO

https://it.wikipedia.org/wiki/Alvar_Aalto http://www.finnishdesignshop.it/Alvar_Aalto-d-47.html http://storiadellarchitetturamoderna.blogspot.it/2013/06/alvar-aalto.html Susie Hodge - Il piccolo libro del grande design, Atlante

CAP. 01.2 – TAPIO WIRKKALA

https://it.wikipedia.org/wiki/Tapio_Wirkkala http://www.finnishdesignshop.it/Tapio_Wirkkala-d-39.htm http://www.poltronafrau.com/it/designer/tapio-wirkkala

FOCUS

www.andreabonavoglia.it/aalto.rtf https://www.moma.org/collection/works/92879

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02.

L’INDUSTRIAL DESIGN NEGLI USA

Il design ha presentato molteplici concezioni nel corso della sua storia, in quanto è sempre stato profondamente legato al contesto storico, culturale, artistico, sociale e geografico di appartenenza, quindi al pensiero di progettisti e scuole differenti. La storia del prodotto industriale ha avuto in America uno sviluppo più rapido che negli altri paesi, di conseguenza non è stato possibile parlare della vicenda europea senza fare riferimenti a quella americana. È proprio in America che nel 1920 viene coniata l’espressione “industrial design” per indicare la rappresentazione di oggetti d’uso che richiedono un’accurata progettazione, ed è sempre in america che, negli anni Trenta, nasce la professione di designer. Solo con la meccanizzazione piena, raggiunta negli Stati Uniti in questo periodo, fu possibile realizzare molti progetti, primo tra tutti la “qualificazione della quantità”, alla base della cultura del design europea. Negli anni Trenta si assiste ad un incontro concreto tra la cultura europea e quella americana in seguito al trasferimento negli Stati Uniti dei migliori architetti e designers tedeschi dopo l’avvento del nazismo. L’industrial design nacque quindi dall’esigenza di elevare, soprattutto dal punto di vista estetico, gli oggetti fabbricati in serie

dall’industria al livello di quelli, più pregevoli e costosi, prodotti dall’artigianato artistico. Negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta del Novecento si sviluppò una vera e propria tendenza definita “styling”, che privilegiava lo studio dell’aspetto estetico degli oggetti, finalizzato prevalentemente all’incentivazione del consumo di prodotti industriali. In questo periodo si afferma una nuova generazione di designer e architetti che trasformano il design in un importante valore per la ripresa economica. È questo il caso George Nelson che dal 1945 comincia ad occuparsi di arredi, diventato direttore artistico della Herman Miller, da incarichi a giovani progettisti come Charles e Ray Eames, Richar Schultz, Isamu Noguci. Fondamentali per la storia del design sono i progetti di mobili che Charles e Ray Eames fecero per la Herman Miller, mobili che nascono dalla sperimentazione di materiali innovativi. L’altra azienda che determinò la notorietà del design americano è la Knoll, fondata nel 1938 con l’intento di farne il marchio più esclusivo del design contemporaneo lavorando con Mies van der Rohe, Henry Bertoia ed Eero Saarinen.

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“ Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si e’ arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocita’.” FILIPPO TOMMASO MARINETTI

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02.1 LO STREAMLINING Con il termine Streamline (o Streamlining), nel campo del disegno industriale si indica un movimento di progettazione della cultura tecnica statunitense. Nella seconda metà degli anni Venti negli USA si sta cercando di mettere in atto una propria produzione di oggetti, per questo motivo si iniziano a guardare con ammirazione i segni della modernità con l’intento di trasferirli nel design. Vengono riprese le teorie futuriste sulla velocità e studiate delle forme che possano simboleggiare quest’ultima; per lo stesso motivo vengono recuperate le forme slanciate e lanciformi tipiche dell’Art Déco, che gli americani ritrovano nei numerosi grattacieli costruiti nelle metropoli americane dagli architetti europei. Una forma che verrà impiegata, perché ritenuta la forma aerodinamica per eccellenza, è la forma a goccia derivata dagli studi aerodinamici fatti nelle gallerie del vento. Sono questi gli anni dello Streamline, della forma a goccia e della continua ricerca aerodinamica in ogni tipologia di oggetto: non soltanto treni, automobili o aerei ma qualunque oggetto assumerà la forma aerodinamica. I prodotti di consumo apparivano nuovi grazie alle forme semplificate, i contenitori scultorei e i materiali brillanti. Lo stile era caratterizzato da bande orizzontali come se l’oggetto stesse volando nello spazio. Nei prodotti in stile Streamline raramente la forma seguiva la funzione, 34 1


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infatti spesso la forma nascondeva la funzione dell’oggetto. Lo Streamline infatti copriva i meccanismi e le parti meccaniche mostrando un’immagine pulita e liscia. I modernisti criticarono questo approccio perchè non seguiva il principio di fedeltà verso i materiali. Gli oggetti che vengono prodotti sono caratterizzati da linee filanti, superfici cromate, spesso in metallo e forme curve che richiamano il movimento. Indubbiamente queste forme oltre a richiamare il concetto di modernità hanno il merito di risultare più facili da costruire ed anche da pulire; questi aspetti non verranno colti dalla cultura europea che a lungo li giudicherà negativamente ritenendo questo modo di progettare una mera operazione di marketing. Le linee che caratterizzano lo Streamlining sono originate dagli studi che si sviluppano a partire dagli anni Venti, anche grazie all’invenzione della galleria del vento, sul Cx (Il coefficiente di resistenza aerodinamica). Lo Streamline deve il suo nome alla ricerca delle forme aerodinamiche. Per molti anni da allora la parola “aerodinamica” viene usata nel linguaggio popolare al posto di “moderna”. Lo streamlining fu utilizzato per la prima volta agli inizi del XX secolo per migliorare le prestazioni, riducendo la resistenza, di aerei, locomotive, automobili, alle alte velocità. Negli anni trenta molti designer industriali usarono lo streamlining, più che per ragioni di funzionalità, per dare agli oggetti forme più eleganti e seducenti che attraessero il consumatore. Successivamente alla crisi economica e al crollo della borsa di Wall Street i produttori

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Chrysler Airflow

americani preferirono migliorare o riprogettare i prodotti già esistenti sul mercato in modo da farli sembrare nuovi. Molti designer utilizzarono la bachelite per la realizzazione dei loro progetti, un materiale plastico termoindurente molto adatto allo stampaggio di forme curve e affusolate. Nel 1934 il frigorifero Coldspot divenne il primo oggetto ad essere commercializzato più per il suo aspetto estetico che per le sue prestazioni. Nello stesso anno viene prodotto uno dei modelli più significativi della storia dell’automobile: la Chrysler Airflow (ZSB), per la realizzazione della quale la Chrysler fece costruire una galleria del vento aziendale. “Lo Streamline è riuscito a rendere appetibili al pubblico oggetti di uso comune concentrando la propria attenzione sull’estetica e sulla forma. L’aspetto che più mi ha colpito è stato il fatto di aver agito e pensato negli anni ‘30 nel modo in cui oggi operano gli operatori di marketing.”

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02.2

RAYMOND LOEWY

Raymond Loewy, nato nel 1893, è stato un Guru del design industriale. Le sue opere marchiano ancora a fuoco il nostro retro-immaginario collettivo, e la loro apparente età indefinita dimostra la loro futuristica violenza. Il suo lavoro, soprattutto dagli anni Trenta in poi, ha imperversato per tutto il Ventunesimo secolo cambiando il modo in cui concepiamo e guardiamo un prodotto, modificando il nostro bagaglio visivo e di conseguenza la nostra memoria collettiva, tanto da non attribuire più il logo al prodotto ma a farli talmente fondere idealmente da far sì che il logo sia il prodotto. Basti pensare al logo Lucky Strike (e all’intero pacchetto), alla bottiglia della Coca Cola e ai distributori della stessa, al logo della Shell, della Exxon, alle locomotive della Pennsylvania Railroad. Se ci soffermiamo su queste opere di design non possiamo fare a meno di pensare che esistono semplicemente da sempre. Questa è la violenza della liturgia della creatività, dopo la creazione, tutto il memoriale di ciò che c’era prima viene dimenticato, anzi, non sembra mai essere esistito. La rappresentazione di un marchio, la creazione, seppur nella sua apparente semplicità (ciò che sembra essere semplice in realtà è frutto di un processo di costruzione e decostruzione continua) per Loewy è fondamentale, tale da influenzare l’intero processo pubblicitario ed economico che ne consegue, afferma infatti: “Fra due prodotti identici nel prezzo, nella 40 1


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funzionalità e nella qualità, quello più bello sarà il più venduto”. Celebre è l’aneddoto che si racconta: una signora a cena, accanto al leggendario Loewy, gli chiede: “Perché ha voluto usare due x nel marchio Exxon?”. Lui rispose: “perché me lo chiede?” e lei: “Perché non ho potuto fare a meno di notarlo” … e lui: “Molto bene, questa è la risposta”. Molte delle idee di Loewy che si fondano su funzione e semplicità vengono dall’impianto culturale della Bauhaus e dal famoso architetto svizzero Le Corbusier. Da questo background di partenza Loewy trasformò per sempre il design americano, spaziando in tantissimi campi diversi e unendo le vendite alla propria percentuale di guadagno, con la conseguenza principale di scommettere sempre e solo su se stesso e sul proprio lavoro.

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“ Concepisci una cosa considerandola sempre nel suo contesto piu’ ampio - una sedia in una stanza, una stanza in una casa, una casa in un quartiere, un quartiere nel piano di una citta’ .” EERO SAARINEN

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02.3

1940. UNA SVOLTA NEL FURNITURE DESIGN

Il concorso “Organic Design in Home Furnishing” è un evento ricordato come segno di svolta nel design statunitense, fu bandito nel 1940 dal Dipartimento di Industrial Design del Moma, facevano parte della giuria Alvar Aalto, Marcel Breuer e Frank Parrish. I vincitori furono Charles Eames ed Eero Saarinen per i progetti di due categorie: sedute e mobili per ambienti di soggiorno. Per la prima categoria idearono un insieme di sedute in compensato a forma di guscio, ognuna legata ad un confort diverso in base alla forma dello schienale. La linea è composta da: sedia, poltroncina, poltrona da conversazione e chaise longue; per la seconda, un gruppo di contenitori composti da elementi smontabili, intercambiabili e proporzionati. Il modello più famoso è la poltrona da conversazione, la sua sagoma avvolgente fonde in un’unica scocca la seduta, i braccioli e lo schienale, fatto in modo da funzionare anche come poggiatesta. Le gambe sono formate da quattro sostegni metallici leggermente divaricati fissati direttamente alla scocca. Questo tipo di sostegni diventerà un motivo ricorrente nel design statunitense, la scocca in compensato curvato presenta invece forti riferimenti al design di Aalto con l’aggiunta della tridimensionalità. La novità sostanziale consiste nella ricerca di un prodotto dal co44 1


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sto di fabbricazione contenuto e quindi con un prezzo di vendita basso. Le premesse del concorso vanno in primo luogo considerate sotto il profilo culturale. In tale ambito il furniture design statunitense poteva contare su di una valida didattica progettuale ereditata dall’Europa. Il trasferimento dei maestri del Bauhaus negli Stati Uniti a causa del regime hitleriano non era un fatto isolato: già negli anni venti alcune importanti figure della progettazione di interni e del design avevano scelto di svolgere la propria attività negli Stati Uniti. Il furniture design conquistò un nuovo status, dovuto sia alle componenti culturali sia all’assetto produttivo statunitense. Il modello del Bauhaus era rimasto per molte ragioni irrealizzato nel suo paese d’origine; i suoi protagonisti una volta stabilitisi nella nazione dell’industrializzazione globale avano puntato più sull’architettura che sul design. I mobili “storici” di Gropius, Breuer e Mies van der Rohe verranno prodotti negli Stati Uniti, ma a prezzo di un cambiamento quasi radicale di destinatario. Infatti non erano più le cellule abitative delle Siedlungen (i quartieri operai, dove peraltro raramente sono entrati) né l’accogliente domesticità scandinava a ospitare il tubolare metallico e il legno curvato. Ora sono le case degli intellettuali e degli esponenti della classe agiata e gli uffici dei grandi manager ad accoglierli assieme ai nuovi arredi progettati dai designer americani. Le ricerche tecnologiche richiedevano ingenti investimenti finanziari, che andavano a incidere sul prezzo di vendita anche se questo non impressionava quella parte dei compratori ame46 1


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ricani che poteva permettersi prodotti élitari. L’organicismo, proponendosi come una sorta di reazione allo styling della fase precedente, fu uno dei temi portanti del design americano degli anni Quaranta e Cinquanta. Per organico si intendeva quel principio di una sana democrazia professato da Sullivan, Wright e da scrittori come Emerson. Un design può essere definito organico se vi è in esso un’armonica organizzazione delle parti rispetto al tutto secondo la struttura, il materiale e l’uso. Il concetto di organicità ha finito quindi per assumere solo il valore di schema e modello in grado di fornire una chiave interpretativa per una fenomenologia il più delle volte senza confini ben definiti. Che ciò sia vero lo testimonia proprio la linea International Style degli arredi di Eames e Saarinen. Infatti dopo l’esordio al Moma, in cui riuscirono a fondere l’organicità di Aalto con il razionalismo di Breuer, sia Saarinen che Eames proseguono con la ricerca della continuità negli elementi dei mobili, ma interpretandola secondo il proprio pensiero. Saarinen fu invece l’inventore della celebre tipologia di arredi ad una sola gamba. Sulla base di idee e schizzi che risalgono agli anni ’50 egli realizzò nel 1957 la serie “Pedestal” nella quale sedie, poltrone e tavoli poggiavano su pavimento grazie ad un sostegno svasato. Lo scopo di Saarinen consisteva nel recuperare la continuità delle parti del singolo arredo e l’equilibrio dell’intero ambiente dove i sobri elementi dall’unico appoggio avrebbero sgombrato lo spazio dalla chiassosa folla delle gambe dei tavoli e delle sedie.

È sulla base delle idee dei designer statunitensi che la linea europea si trasforma nel Furniture Design lussuoso e costoso degli anni Sessanta. Tra le molte industrie che seguirono questa linea rivestono un ruolo di particolare importanza la Knoll International e la Herman Miller Furniture Company. La prima nacque con le dimensioni di un modesto laboratorio avviato nel 1938 dal tedesco Hans Knoll; l’azienda produrrà i mobili di Eero Saarinen e di Henry Bertoia senza trascurare quelli di Mies van der Rohe e Marcel Breuer. La Herman Miller era stata fondata nel 1905 e si era specializzata nella produzione di arredi in stile ma ben presto, grazie al contributo del designer Gilber Rodhe, iniziò a puntare su prodotti di alto livello destinati agli uffici, ma sarà George Nelson il personaggio destinato ad imprimere una svolta decisa nella produzione dell’azienda. Numerosi pezzi di design americani un tempo prodotti dalla Herman Miller oggi sono prodotti da Vitra, azienda che in passato produceva proprio per la Herman Miller. 48 1


“ Un buon design, come la buona pittura, cucina, architettura o qualsiasi altra cosa che ti piace, e’ una manifestazione della capacita’ dello spirito umano di trascendere i suoi limiti.” GEORGE NELSON

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02.4

GEORGE NELSON

George Nelson (1908-1986) era, insieme a Charles & Ray Eames, uno dei padri fondatori del modernismo americano. Nelson appunto, è un designer americano che ha fatto parte di quelle generazione di architetti che hanno trasformato con successo il product design, il graphic design e il design di interni. Il suo lavoro e la sua figura sono in gran parte legati alla Herman Miller, azienda per la quale ha disegnato pezzi iconici e sopratutto ha curato il celebre catalogo del 1941 con cui si segna il lancio dell’azienda. E’ sotto la sua direzione che nascono alcuni pezzi che hanno fatto la storia firmati da maestri del design come Ray e Charles Eames, Harry Bertoia, Richard Schultz, Donald Knorr, e Isamu Noguchi. Come direttore del dipartimento Design della Herman Miller dal 1947, ha tenuto questo ruolo fino al 1972. Tra i prodotti firmati da George Nelson per la Herman Miller vi è la Basic Cabinet Series, prodotta da Herman Miller dal 1946 al 1958. Per l’azienda sviluppò l’Herman Miller’s Action Office, e nel 1970 creò un proprio sistema per ufficio: il Nelson Workspaces. Simile ai mobili per la casa e all’architettura sperimentale, questo sistema si basava su una serie di elementi modulari che potevano essere liberamente combinati. Nel 1947 Nelson apre uno studio di design a New York City, è così che la George Nelson Associates, Inc. da vita a moltissimi progetti di design e architettura.

Tra i progetti più celebri vediamo il divano Marshmallow, il divano e il tavolino Sling, un divano in pelle con cuscini di schiuma solida. I giunti sono tenuti con resina epossidica in modo che possa essere facilmente prodotto in serie e venduto ad un prezzo minore. Come la maggior parte dei lavori di Nelson è stato progettato per essere il più utile e confortevole possibile. Iconici sono molti dei suoi progetti, come la Coconut Chair, pezzo noto degli anni ‘50 composto da una scocca in metallo rivestita; oggi la scocca in metallo è stata sostituita da una in plastica. La Coconut Chair è una fusione tra forme organiche e geometriche; è

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divenuta una delle sedute piÚ note della storia del design del ventesimo secolo insieme alla Pretzel Chair (rieditata nel 2008 da Vitra). Oppure la Swag Chair per il cui schienale Nelson, ottenne il permesso da Charles e Ray Eames di utilizzare il loro brevetto per lo stampaggio della plastica. Oltre agli arredi per ufficio un altro prodotto di punta tra i progetti di George Nelson sono gli orologi da parete. Ne disegnò quasi 300 per Howard Miller Clock Company (tra cui la Ball, Kite, Eye, Turbine, Spindle, Petal e Spike clocks insieme a diversi orologi da tavolo) sono attualmente prodotti da Vitra.

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“ The details are not the details. They make the design.” CHARLES EAMES

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02.5

CHARLES E RAY EAMES

Charles Ormond Eames, (Saint Louis, 17 giugno 1907 – Saint Louis, 21 agosto 1978) è stato un designer, architetto e regista statunitense. Charles Eames iniziò molto precocemente l’attività di progettista tanto da essere impiegato, già all’età di soli 14 anni, nei laboratori della Laclede Steel Company. Studiò architettura alla Washington University a St. Louis. Propose ai suoi professori lo studio dell’opera di Frank Lloyd Wright ma fu espulso dalla scuola in quanto – si legge nel commento di uno dei professori - “il suo punto di vista era troppo moderno”. Una grande influenza ebbe su di lui l’architetto finlandese Eero Saarinen con cui condivise alcune esperienze professionali e di cui divenne amico. Nel 1941 vinse proprio con Eero Saarinen il concorso per il MoMA di New York relativo all’”Organic Design in Home Furnishing” (Design organico nell’arredamento domestico). Il loro lavoro mostrò un nuovo modo di concepire il mobile in legno, sperimentando l’uso di compensato in legno curvato, come aveva fatto pochi anni prima Alvar Aalto. Nel 1941 si sposò con Ray Kaiser, pittrice, con cui condivise la successiva vita professionale. Dopo il matrimonio si trasferì a Los Angeles in California, dove fondò con la moglie quello che da allora in poi fu conosciuto come lo studio degli “Eames”. Alla fine degli anni Quaranta fu coinvol-

to nel programma sperimentale Case Study Houses di edilizia residenziale, disegnando tra l’altro la propria casa, successivamente indicata come un esempio precursore dell’architettura high-tech. La produzione poliedrica degli Eames si sviluppò in diversi campi comprendendo, oltre al design, anche l’architettura e il cinema. Charles Eames è il maggior esponente del furniture design e il primo disegnatore di mobili americano che si sia imposto a livello internazionale, nelle sue opere si incontrano la tradizione dello Streamlining, l’eredità del Bauhaus, la lezione di Aalto e i modelli di Le Corbusier. Con uno straordinario senso dell’avventura, Charles e Ray Eames hanno rivolto la loro curiosità e il loro entusiasmo senza limiti alle creazioni che li hanno imposti come uno straordinario team di design composto da marito e moglie. La loro sinergia esclusiva ha portato alla realizzazione di arredi dall’aspetto completamente innovativo. Snelli e moderni, divertenti e funzionali, eleganti, sofisticati e meravigliosamente semplici. Questo era ed è ciò che contraddistingue il “look Eames”. Quel look e il loro rapporto con Herman Miller è iniziato con sedie in compensato modellato verso la fine degli anni Quaranta e comprende la sedia lounge Eames, conosciuta a livello mondiale, ora inclusa nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York. 54 1


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Nel 1946 il MoMA allestì una mostra dedicata alla coppia intitolata “Nuovi Mobili di Charles Eames”; nel 1948 vinse il secondo premio all’International Competition for Low-Cost Furniture Design” del MoMA proponendo una serie di sedie in fibra di vetro stampato. Queste sedie di plastica senza imbottitura furono tra le prime a essere prodotte in serie; un altro elemento che le rese rivoluzionarie fu che la seduta poteva essere fissata a varie basi, permettendo cosi di otterene molte variazioni dello stesso prodotto. Negli anni Cinquanta e Sessanta gli Eames lavorarono a stretto contatto con Herman Miller creando mobili ancora più innovativi, fra cui le sedie Aluminium Group. Charles e Ray Eames hanno raggiunto il loro monumentale successo, affrontando ogni progetto nello stesso modo: “Ci interessa e ci intriga? Possiamo migliorarlo? Sarà davvero divertente occuparsene?“ Amavano il loro lavoro, che era una combinazione di arte e scienza, design e architettura. “I dettagli non sono dettagli”, diceva Charles “Creano il prodotto”. Acquisirono molto prestigio anche per i loro progetti di architettura, in particolare le Case Study n.8 e n.9 completate nel 1949, entrambe costruite a Pacific Palisades. Gli interni della n.8, successivamente ribattezzata con il nome di Eames House erano sensazionali per la loro luminosità e per il senso dello spazio; venne arredata con un miscuglio eclettico e multicolore di giocattoli, aquiloni e oggetti orientali, quasi a bilanciare e uma-

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nizzare l’estetica ultramoderna degli interni. Durante le loro carriere divennero famosi anche per i loro numerosi cortometraggi, alcuni dei quali usati come complemento alle loro esposizioni. Furono anche designer di esposizioni, capaci di comunicare al pubblico idee spesso molto complesse in modo deciso ma anche brioso, attraverso una varietà di media e una grafica splendida e interessante. Con il loro design, film e fotografie crearono un nuovo linguaggio visivo che ebbe un forte impatto sia in America che all’estero. Oltre alle storiche sedute, i coniugi Eames si dedicarono anche al disegno di giochi per bambini. Eames Plywood Elephant, un piccolo pachiderma in legno d’acero, mai entrato in produzione e prodotto in edizione limitata nel 2007 da VITRA, riassume in sé la politica della coppia: semplicità, rigore, creatività, equilibrio. Un mix di forme essenziali ma espressive, ispirate al mondo naturale. Con il loro lavoro Charles e Ray comunicarono i valori della coerenza, della moralità sociale, dell’egualitarismo, dell’ottimismo, dell’informalità e dell’antimaterialismo e dimostrarono nella pratica che il design moderno può e deve servire a migliorare la qualità della vita, l’umana percezione, la comprensione e la conoscenza. “Penso che ogni singolo oggetto progettato da Charles e Ray Eames non sia soltanto un oggetto d’uso bensì un’opera d’arte, apprezzata da giovani e adulti, che con il passare del tempo acquista valore ed è sempre contemporanea”.

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FOCUS

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TULIP CHAIR Designer: Eero Saarinen 1953-58 Materiali: alluminio pressofuso; seduta in fibra di vetro sagomata


TULIP CHAIR

EERO SAARINEN

La sedia Tulip, disegnata da Eero Saarinen nel 1957, è un’icona del design da ormai 50 anni. Prima di iniziare il progetto della sedia Saarinen aveva promesso di affrontare il “brutto, confuso, inquieto mondo” che notava sotto sedie e tavoli, rappresentato dalle loro gambe. Perciò ha condotto una lunga indagine di progettazione di cinque anni che lo ha portato alla rivoluzionaria collezione “Pedestal” di cui fa parte la sedia Tulip. La sedia è caratterizzata dalla forma a calice con un unico stelo centrale per basamento. L’idea di un progetto di una sedia con base a piedistallo ha avuto inizio circa nel 1953. Saarinen ha lavorato prima con centinaia di disegni che poi sono stati seguiti da modelli in scala. Dal momento che l’idea era di progettare sedie che sembrassero belle in una stanza, Saarinen creò anche un modello di stanza in scala per una casa di bambole. Attingendo alla sua prima formazione come scultore, Saarinen affinò il suo progetto grazie a modelli in scala reale modificando la forma con l’argilla. Insieme a un gruppo di ricerca di design di Knoll, hanno lavorato sui problemi che sorgono nella produzione. I modelli in scala reale divennero mobili e la famiglia e gli amici vennero chiamati a fare da “cavie” per testare i pezzi. La collezione Tulip, oltre alla sedia con e senza braccioli, con base fissa o girevo-

le comprende anche la versione sgabello. E’ composta da due parti: la base con il piedistallo circolare in alluminio laccato e la scocca in fibra di vetro rinforzata. I materiali caratterizzanti sono appunto l’alluminio pressofuso con rivestimento in Rilsan e la scocca in fibra di vetro sagomata rinforzata con rivestimento plastico bianco. Le sedie sono disponibili completamente rivestite o con solo cuscino.

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FOCUS

LOUNGE CHAIR E OTTOMAN Designer: Charles e Ray Eames 1956 Materiali: struttura in legno multistrato curvato; connessioni in gomma; imbottitura schienale, poggiatesta e seduta in poliuretano; rivestimento in pelle; basamento in fusione di alluminio.

“ Alla fine tutto e’ legato - le persone, le idee, gli oggetti. La qualita’ dei legami e’ la chiave della qualita’ in se’.” CHARLES EAMES

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LOUNGE CHAIR E OTTOMAN La Lounge Chair e Ottoman è uno dei progetti più famosi di Charles e Ray Eames; realizzati dalla Herman Miller, sono considerati tra i più significativi mobili progettati nel 20° secolo tanto da essere parte della collezione permanente del MOMA di New York. La prima poltrona e pouf, realizzata nel 1940 e commercializzata nel 1956, era un regalo di compleanno per l’amico regista Billy Wilder. La prima apparizione pubblica della Lounge avvenne nel 1956 al Arlene Francis Home show in onda su NBC rete televisiva negli Stati Uniti. Subito dopo il debutto Herman Miller lanciò una campagna pubblicitaria per promuovere la Lounge Chair sottolineandone la versatilità. Più tardi, Vitra ha iniziato a produrre la sedia per il mercato europeo. Subito dopo il suo rilascio le aziende del mobile hanno cominciato a copiare il design della poltrona. Tuttavia, Herman Miller e Vitra rimangono le uniche due società per la produzione di queste sedie con il nome Eames allegato. Ogni poltrona e pouf realizzati, hanno ricevuto una meticolosa attenzione artigianale. L’impiallacciatura e la morbida pelle suggeriscono un lusso antico tradotto in forme moderne, stabilendo uno standard duraturo per comodità ed eleganza. Nella prima sedia in legno lamellare a cinque strati Eames

CHARLES E RAY EAMES

Lounge Chair Wood (LCW) gli Eames avevano fatto uso di una rondella di gomma incollata allo schienale della sedia e avvitato al supporto lombare. Queste rondelle permettono allo schienale di flettere leggermente. Lo schienale e il poggiatesta sono avvitati tra loro da una coppia di supporti in alluminio. Questa unità è sospesa sul sedile attraverso due punti di connessione nei braccioli. I braccioli sono avvitati sul lato interno del rivestimento dello schienale, e permettono allo schienale e al poggiatesta di flettersi quando

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la sedia è in uso. Altri usi creativi di materiali riguardano i cuscini della seduta che sono cuciti con una chiusura lampo intorno al bordo esterno che li unisce ad una protezione in plastica rigida. Il supporto è affisso ai gusci di compensato con una serie di clip nascoste e anelli. La base della sedia girevole è in alluminio pressofuso. La sedia è composta da cinque strati di legno lamellare curvato. Nella produzione moderna i gusci sono costituiti da sette strati sottili di impiallacciatura di legno incollati tra loro da calore e pressione. Ciò che differenzia le sedie più recenti dall’“originale” (vintage) è che è stata utilizzata un’impiallacciatura in legno di palissandro brasiliano e cinque strati di compensato. La chaise longue e il pouf hanno un’impiallacciatura in palissandro santos, caratterizzato da una patina brillante, con le stesse caratteristiche dell’originale legno di palissandro, sia per colore che per grana. Altra differenza è che nei set precedenti, la chiusura lampo intorno i cuscini era marrone o nera, nei nuovi set le cerniere sono di colore nero. Le conchiglie e i cuscini di seduta hanno essenzialmente la stessa forma: sono composti da due forme curve ad incastro per formare una massa solida. Lo schienale e il poggiatesta sono identici in proporzione, così come il sedile e il pouf. I rivestimenti in pelle sono disponibili in una vasta scelta di colori. Grazie alle sue ampie proporzioni e ai cuscini imbottiti la poltrona si adatta perfettamente alle forme del corpo.

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FONTI:

CAP. 02 – L’INDUSTRIAL DESIGN NEGLI USA

Renato De Fusco – Storia del design, Laterza, Roma-Bari 1998 http://www.loescher.it/librionline/risorse_linguaggioarte/download/w3264_design.pdf https://architettura.unige.it/did/l1/disegnoind/primo0405/storiadisind/dispense/Design%20statunitense.

CAP. 02.1 – LO STREAMLINING

http://www.designindex.it/definizioni/design/streamline.html https://architettura.unige.it/did/l1/disegnoind/primo0405/storiadisind/dispense/Design%20statunitense. http://www.balenalab.com/raymondloewy/

CAP. 02.2 – RAYMOND LOEWY

http://www.balenalab.com/raymondloewy/ https://it.wikipedia.org/wiki/Raymond_Loewy

CAP. 02.3 – 1940. UNA SVOLTA NEL FURNITURE DESIGN

http://www.liceodechirico.it/materiali/DIDATTICO/Storia%20del%20design.pdf Gabriella D’Amato, Storia del design, Parson Italia S.p.a., 2005 http://www.liceodechirico.it/materiali/DIDATTICO/Storia%20del%20design.pdf

CAP. 02.4 – GEORGE NELSON

http://www.arredativo.it/2016/pezzi-storici/storia-del-design-pezzi-storici/design-le-icone-firmate-george-nelson/ http://www.designindex.it/designer/design/george-nelson.html

CAP. 02.5 – CHARLES E RAY EAMES

https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Eames http://www.hermanmiller.it/designers/eames.html http://revolart.it/pane-amore-forme-e-fantasia-lincredibile-storia-di-charles-e-ray-eames/

FOCUS

https://it.wikipedia.org/wiki/Sedia_Tulip http://arclickdesign.com/sedia-tulip-knoll-sedia-tulip-chair-di-knoll-disegnata-da-eero-saarinen/ http://www.arredativo.it/2011/pezzi-storici/lounge-chair-ottoman/ Susie Hodge - Il piccolo libro del grande design, Atlante 66 1


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03.

LA SCUOLA DI ULM

La natura dell’oggetto d’uso, diventato ormai prodotto industriale e bene di massa, si dimostrava sempre più complessa; per questo motivo si avverte la necessità di definire il design come progettazione globale, capace di tener conto di tutte le relative implicazioni estetiche, tecniche, sociali e funzionali. Questo permise di arrivare all’autonomia del disegno industriale e al definitivo distacco di quest’ultimo dall’architettura. La Hochschule für Gestaltung, nota come Scuola di Ulm, nacque nel 1946 per iniziativa di Inge Grete Scholl in memoria dei due fratelli Hans e Sophie Scholl, membri del gruppo di resistenza “La Rosa Bianca”, giustiziati dai nazisti nel 1943. L’idea iniziale era quella di riaprire il Bauhaus, chiuso per volontà di Hitler nel 1933, anche se fin da subito la Scuola di Ulm seguì una strada del tutto autonoma, affrontando il tema dei grandi mercati di massa e della produzione in serie. Nella sua prima fase la Scuola di Ulm fu diretta da Max Bill. Vi predominò lo spirito del Bauhaus, il modello didattico e progettuale fu di impronta razionalista, ma dominato dalla componente soggettiva ed espressiva della progettazione. Max Bill sosteneva il primato della ”gute Form”, ovvero di una forma dell’oggetto che ne preservasse la bellezza nella funzionalità. Il suo formalismo mirava a fare della struttura tecnica il senso profondo che il disegno industriale doveva esprimere nella forma. 70 1


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Esse dovevano essere “forme oneste”, non destinate a incrementare le vendite o assecondare la volubilità delle mode. All’allievo si richiedeva ancora un forte coinvolgimento soggettivo nel progetto: lo studio della forma veniva effettuato indipendentemente dall’identità dell’oggetto, secondo modalità puramente creative. Quando a Ulm arrivarono Tomas Maldonado e Hans Gugelot fu posto il problema del rapporto del design con la scienza e con le moderne tecniche di produzione in serie degli oggetti. Il nuovo scenario industriale e culturale era cambiato, e la progettazione delle cose imponeva una metodologia calcolata e obbiettiva; i nuovi oggetti, dal corpo tecnico complesso, realizzati in serie secondo procedimenti altamente automatizzati, andavano oltre la semplice concezione dei pezzi d’arredo. Così nel 1956 Max Bill abbandonò la direzione della Hochschule für Gestaltung, che fu diretta prima da Aicher e poi da Maldonado. Nella sua seconda fase, la Scuola di Ulm fondò l’insegnamento sulla metodologia del progetto, strutturata secondo principi scientifici. Lo studio della cibernetica, della teoria dell’informazione e di quella dei sistemi, della semiotica, dell’ergonomia, della filosofia della scienza, della logica della matematica prese il posto del vecchio “imparare facendo”. Ciò che si voleva era la trasformazione dell’artista in designer, vale a dire in una figura professionale nuova, capace di riassumere in sé sensibilità, creatività e competenza

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tecnica. A cambiare radicalmente erano state la struttura produttiva dell’industria e le prospettive del mercato, e ciò aveva modificato in profondità lo statuto culturale dell’oggetto. Il consumo di massa aveva imposto il concetto di serialità, che mise in crisi la concezione di “bellezza”, ma fece riaffiorare quella antica di “gusto”, adattata però allo stile moderno, che vedeva nel trionfo della ragione tecnica e scientifica l’espressione più significativa del tempo. Tutto questo si tradusse in forme nuove, ma soprattutto in una nuova presenza dell’oggetto nel panorama quotidiano. Nella Scuola di Ulm la produzione in serie è ritenuta una vera e propria attività di progetto che aveva il compito di capire il rapporto tra l’individuo e l’oggetto d’uso. Negli oggetti della Scuola di Ulm era molto limitata l’invadenza visiva tipica dei prodotti industriali, per concentrarsi invece in maniera scientifica sul loro funzionamento. A differenza del Bauhaus la Scuola di Ulm collaborò con diverse aziende: infatti i progetti del Bauhaus erano principalmente prototipi mai entrati in produzione, quelli della Scuola di Ulm venivano al contrario pensati proprio su richieste di collaborazione di alcune aziende. Molto importanti sono le collaborazioni con la Braun, inizialmente per progetti di radio e in seguito con il famoso rasoio da barba; lo “stile Braun” è caratterizzato principalmente da un funzionalismo rigoroso e da un forte minimalismo geometrico espresso nelle forme squadrate o circolari delle scocche in plastica. Per la Olivetti pensarono a sistemi di riconoscimento dei

segni, per la Lufthansa è stata invece studiata la grafica di tutta l’immagine coordinata, ecc.

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FOCUS

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SGABILLO Designer: Max Bill 1950 Materiali: tre pannelli di betulla verniciata o MDF con incastro angolare; traversino in betulla o MDF


SGABILLO

MAX BILL

Nella serie degli oggetti emblematici della filosofia Zanotta, Sgabillo è un pezzo tra i più coerenti. Progettato nel 1950 dal designer, architetto e artista svizzero Max Bill (cofondatore della prestigiosa Hochschule für Gestaltung, nota come Scuola di Ulm), è tuttora in produzione. Con quel nome buffo che Aurelio Zanotta gli diede, gentile e scherzosa storpiatura della stessa funzione basilare dell’oggetto. Uno sgabello di forma geometrica, in multistrato di betulla essenziale, ancora estremamente attuale, che rappresenta un micromanifesto del pensiero moderno e funzionale, naturale incarnazione dei principi del Bauhaus a cui il designer si ispirò durante la formazione e lungo la sua vita professionale. «Si abusa della forma, facendone un fattore di incremento delle vendite», scriveva Bill. «E se dunque oggi, per motivi estetici, reclamiamo nuovamente delle belle forme, non vorremmo essere fraintesi: si tratta sempre di forme vincolate alla qualità e alla funzione dell’oggetto». Ed ecco dunque Sgabillo: un piccolo pezzo anonimo che vive dell’identità per cui è stato pensato, incarnazione di quella “buona forma” a cui Bill tese durante tutta la sua carriera di progettista e artista poliedrico. Disegnato da Max Bill per lo stesso Istituto di cui fu rettore e docente, lo sgabello entrò nel catalogo Zanotta nei primi anni Settanta (gli stessi della mitica serie Quaderna del Superstudio), nelle

due versioni in multistrato di betulla verniciato naturale e in medium density fiberboard nero con verniciatura antigraffio. Il designer svizzero ideò inizialmente Sgabillo con due altezze, ma oggi è prodotto nell’unica versione h.45 cm, largo 40 cm e profondo 27,5 cm. Un piolo di legno sottile fa da poggiapiedi e ulteriore presa per muoverlo nello spazio, consentendone usi multipli, come tavolino a sè o impilato, o come pratico accessorio porta libri. Sgabillo è diventato ormai un archetipo, un elemento di cult design della nostra epoca, un oggetto icona esposto nelle collezioni permanenti di sei tra i principali musei di design e arte del mondo, come il Die Neue Sammlung di Monaco e l’Israel Museum di Gerusalemme.

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FONTI: CAP. 03 – LA SCUOLA DI ULM http://www.domusweb.it/it/design/2012/02/14/design-dei-sistemi-la-scuola-di-ulm.html Maurizio Vitta – Il progetto della bellezza, il design fra arte e tecnica 1851-2001 Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

FOCUS http://happenings.zanotta.it

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04.

IL DESIGN ITALIANO DEL SECONDO DOPOGUERRA

Al termine della seconda guerra mondiale, quando c’è la consapevolezza di doversi risollevare per poter cancellare tutto ciò che il conflitto ha portato di negativo, che il design italiano inizia a svilupparsi ed affermarsi. Il mondo del progetto partecipa alla ricostruzione morale e fisica del paese e prende coscienza degli orizzonti che la nuova industrializzazione apre al mondo del progetto. Così ben presto si iniziò a produrre in serie e industrialmente mobili. Nascono nuove industrie, come Arflex, Arteluce, Kartell che lavorano in stretto rapporto con giovani architetti e alcune aziende artigianali come Cassina, ben presto si trasformano nella suggestione dell’industrializzazione. Il design anni ‘50 ha segnato veramente una rivoluzione nel costume del nostro Paese, passato velocemente dalle difficoltà del periodo post-bellico a un rinnovato entusiasmo sostenuto dalla crescita economica e da una diffusione generale del benessere. L’industria ha introdotto sul mercato nuovi materiali come la plastica, che ha dato inizio a una rivoluzione del design coniugando funzionalità e nuovi concetti estetici. I progettisti dell’epoca, che oggi definiamo designer, hanno dato il loro contributo stravolgendo canoni sociali e stile di vita, proiettando il nostro Paese verso un futuro migliore. Quelle forme

sono rimaste a testimoniare un’epoca per certi versi irripetibile e piacciono al punto da venire riprese e reinterpretate in chiave contemporanea. Ecco allora i mobili e i complementi d’arredo icona del disegno industriale. Quando si pensa al design anni ‘50 vengono subito in mente gli elettrodomestici che hanno cambiato il volto delle nostre cucine, sovvertendo il classico ruolo di massaia tradizionale. l frigoriferi Smeg ne sono l’emblema, con le loro forme bombate e i colori pastello. Seguono a ruota il tostapane, la moka Bialetti, il robot Moulinex, l’aspirapolvere e tutta una serie di elettrodomestici pronti a sollevare la donna dal faticoso lavoro domestico. Il design anni ‘50 ha lasciato importanti tracce anche su mobili e complementi d’arredo, che per la prima volta si vedono prodotti in serie, e accessibili a una piccola borghesia in crescita inarrestabile. Librerie modulari, lampade, tavolini, sedie e tavoli da pranzo, si liberano degli orpelli del passato privilegiando forme curve ed essenziali, in linea con la nuova filosofia imperante. Ne sono uno splendido esempio il tavolo e le sedie Tulip disegnate da Eero Saarinen per Knoll. I colori decisi, i materiali innovativi, la forma futuristica ne fanno un’icona anni 50 entrato ormai nell’archivio della storia. Sempre nel campo dell’interior design non si 82 1


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può non citare la poltrona Lady Arflex disegnata da Marco Zanuso. E’ la prima poltrona modulare realizzata in metallo e poliuretano espanso con imbottitura in gommapiuma. La transizione dal periodo bellico agli anni del boom è evidente nell’utilizzo della gommapiuma, che viene riproposta come materiale per l’arredamento. Anche nel campo dell’illuminazione certe lampade hanno segnato il design anni 50, come Pendant Lamp di Aalvar Aalto di chiara ispirazione nordica o la lampada da terra Pallone di Azucena dal sapore spaziale. L’elenco non si ferma qui perchè la produzione in serie ha rinnovato prepotentemente gli interni delle nostre case chiudendo definitivamente con un passato contadino e un po’ arcaico. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la progettazione fu estesa a tutte le sfere del quotidiano: la casa e le attività domestiche, la mobilità, gli spazi del lavoro, ricercando negli oggetti la quantità, la qualità e l’accessibilità del prezzo. Non è a caso che l’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale, nasca nel 1956 per volere di Gio Ponti. Il ruolo del designer fu fondamentale nel rinnovamento del processo produttivo. Il suo compito fu quello di progettare la razionale disposizione delle componenti dell’artefatto in modo da esprimere la coerenza tra tecnologia, funzione ed estetica all’interno della produzione in serie. Per questa ragione tra designer e pionieri dell’industria si determinò uno stretto e duraturo legame – per nominare alcuni sodalizi, Marcello Nizzoli e Ettore Sottsass con Adriano

Olivetti, Marcello Nizzoli con Vittorio Necchi, Enzo Mari e Bruno Munari con Bruno Danese, Gino Colombini con Giulio Castelli (Kartell) e Aldo Bai, Pio Reggiani e Aldo Barassi con Marco Zanuso.

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04.1 PIAGGIO E FIAT:

LA MOTORIZZAZIONE DI MASSA

Il boom economico degli anni ’50 e lo sviluppo della catena produttiva favorirono l’industria automobilistica: non si poteva puntare su auto di lusso, per questo ci si indirizzò su mezzi di trasporto che potessero essere alla portata di tutti e il più possibile comodi. Nel 1945, Enrico Piaggio per riconvertire nel dopoguerra la sua industria aeronautica di tipo militare, decide di mettere in produzione la Vespa, un progetto di Corradino D’Ascanio (1891-1981), il quale portò sullo scooter alcuni dei suoi studi fatti in campo aeronautico: la Vespa è uno scooter a scocca portante, il carter non è quindi un semplice strumento per nascondere le parti meccaniche ma ne costituisce anche la struttura portante. Il motore è completamente coperto, per evitare di sporcare i vestiti del pilota e del passeggero; la posizione di guida è la più comoda possibile, le ruote sono facilmente sostituibili, c’è infatti la possibilità di alloggiare a bordo anche quella di scorta, si può finalmente salire con la massima facilità e l’operazione di parcheggio non comporta sforzi. La Vespa ebbe un grande successo divenendo uno degli oggetti del design italiano più conosciuto al mondo. In concorrenza con il prodotto della Piaggio la Innocenti due anni dopo, nel 1947, presentò il suo scooter: la Lambretta. Oltre questi 86 1


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due scooter, diventarono icone del trasporto italiano due automobili, di piccole dimensioni, ma indubbiamente interessanti e apprezzate, progettate da Dante Giaccosa: la piccola utilitaria Fiat 600, lanciata nel 1955, e la Fiat Nuova 500, lanciata nel 1957 (per il cui progetto ricevette il Compasso d’Oro nel 1959). La diffusione dell’auto contribuì ad un forte cambiamento nella fruizione e percezione del territorio da parte delle attività economiche ad esse collegate. Con la Fiat 600 si inaugura l’era della motorizzazione di massa e si identifica persino un genere di produzione automobilistica, l’utilitaria, il loro sviluppo favorì la ricerca nella produzione di vetture di serie: l’auto non veniva più costruita in esemplari limitati all’interno delle carrozzerie, ma in grande numero secondo un processo a catena di montaggio che assemblava componenti serializzate e prodotte a partite (la produzione della Nuova Fiat 500 terminò nel 1975 e raggiunse i 3,6 milioni di unità).

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04.2

GIO PONTI

Giovanni Ponti, detto Giò (Milano, 18 novembre 1891 – Milano, 16 settembre 1979), è stato un architetto, designer e saggista italiano conosciuto e stimato in campo internazionale, non solo per la sua produzione progettuale ma anche per la sua visione teorica e per il dibattito di idee che seppe alimentare. Condusse una carriera unica, partecipando attivamente alla rinascita del design italiano del dopoguerra. Nel 1921 consegue la laurea al Politecnico di Milano. A partire dal 1926, aprì uno studio assieme gli architetti Mino Fiocchi ed Emilio Lancia, per poi passare alla collaborazione con gli ingegneri Gioacchino Luigi Mellucci, Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini. Successivamente partecipò alla I Biennale delle arti decorative tenutasi all’ISIA di Monza e fu coinvolto nell’organizzazione delle varie Triennali, sia a Monza che a Milano. Negli anni venti, avviò la sua attività di designer all’industria ceramica Richard Ginori, rielaborando complessivamente la strategia di disegno industriale della società; con le sue ceramiche, vinse il “Grand Prix” all’Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne di Parigi del 1925. In quegli anni, la sua produzione fu improntata più ai temi classici, mostrandosi più vicino al movimento Novecento, esponente del razionalismo. Sempre negli stessi anni iniziò anche la sua attività editoriale: nel 1928 fondò la rivista Domus, testata che diresse 90 1


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fino alla sua morte, eccetto che nel periodo 1941-1948 in cui fu direttore della rivista Stile. Assieme a Casabella, Domus rappresenterà il centro del dibatto culturale dell’architettura e del design italiani della seconda metà del Novecento, indirizzando il gusto della borghesia milanese e italiana verso l’accettazione “nell’ordine” della modernità. Gio Ponti ha disegnato moltissimi oggetti nei più svariati campi, dalle scenografie teatrali, alle lampade, alle sedie, agli oggetti da cucina, agli interni di transatlantici. Inizialmente nelle ceramiche il suo disegno rifletteva la Secessione viennese e sosteneva che decorazione tradizionale e arte moderna non fossero incompatibili. Il suo riallacciarsi e utilizzare i valori del passato trovò sostenitori nel regime fascista, incline alla salvaguardia della “identità italiana” e al recupero degli ideali della “romanità”, che si espresse poi compiutamente in architettura con il neoclassicismo semplificato del Piacentini. Nel 1950 Ponti cominciò a impegnarsi nella progettazione di “pareti attrezzate”, ovvero intere pareti prefabbricate che permettevano di soddisfare diversi bisogni, integrando in un unico sistema apparecchi e attrezzature fino ad allora autonome. Ricordiamo Ponti anche per il progetto della seduta “Superleggera” del 1955, prodotta da Cassina, realizzata partendo da un oggetto già esistente e di solito prodotto artigianalmente: la Sedia di Chiavari, migliorata in materiali e prestazioni. Nonostante questo, Ponti realizzerà nella città universitaria di Roma nel 1934 la Scuola

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di Matematica (una delle prime opere del Razionalismo italiano) e nel 1936 il primo degli edifici per gli uffici della Montecatini a Milano. Quest’ultimo, ha caratteri fortemente personali, risente nei particolari architettonici di ricercata eleganza, della vocazione di designer del progettista. Negli anni cinquanta, lo stile di Gio Ponti si fece più innovativo e, pur rimanendo classicheggiante nel secondo palazzo per uffici della Montecatini (1951), si espresse pienamente nel suo edificio più significativo: il Grattacielo Pirelli in Piazza Duca d’Aosta a Milano (1955-1958). L’opera fu costruita intorno a una struttura centrale progettata da Nervi ed è il grattacielo in calcestruzzo armato più alto del mondo (127,1 metri). Il confronto progettuale diretto con Pierluigi Nervi ebbe come effetto una sublimazione della forma nella riduzione strutturale; l’edificio appare come una slanciata e armoniosa lastra di cristallo, che taglia lo spazio architettonico del cielo, disegnata su un equilibrato curtain wall e i cui lati lunghi si restringono in quasi due linee verticali. Quest’opera anche con il suo carattere di “eccellenza” appartiene a buon diritto al Movimento Moderno in Italia. Dopo aver vinto la cattedra al Politecnico di Milano Gio Ponti pone le basi per la ricerca sull’architettura degli interni, disciplina in cui induviduava la convergenza dei suoi interessi di architetto, designer e artista. Gio Ponti è l’unico architetto cattolico italiano, pur senza una diretta militanza religiosa; l’appartenenza a una sorta di cultura paleocristiana , moderna e creativa,

rappresenta la radice più originale e profonda del suo operato.

“Gio Ponti è uno dei personaggi di spicco dell’architettura e del design italiano; grazie al suo lavoro ancora oggi designer, architetti o semplici appassionati di design hanno la possibilità di consultare riviste come Domus e Stile per poter essere sempre informati e al passo con i tempi. Al di là dei suoi progetti, diventati vere e proprie icone del design, uno dei più grandi meriti che si deve a Gio Ponti è quello di aver dato vita ad un design industriale moderno e di qualità rivolto anche al popolo.”

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04.3

FRANCO ALBINI

Franco Albini (Robbiate, 17 ottobre 1905 – Milano, 1 novembre 1977) è stato un architetto e designer italiano; è stato uno dei più importanti e rigorosi architetti italiani del XX secolo, aderente al Razionalismo italiano e riconosciuto internazionalmente. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico nel 1929, dà avvio alla sua attività professionale nello studio di Gio Ponti ed Emilio Lancia, con i quali collabora per tre anni. Ha probabilmente qui i suoi primi contatti internazionali; all’Esposizione Internazionale del 1929 di Barcellona (dove Gio Ponti cura il padiglione italiano e Mies van der Rohe realizza quello della Germania) e a Parigi dove ha modo di visitare lo studio di Le Corbusier. In quei tre anni, i lavori realizzati sono dichiaratamente di impronta novecentesca. E’ l’incontro con Edoardo Persico a segnare una chiara svolta verso il razionalismo e l’avvicinamento al gruppo dei redattori di “Casabella”. I commenti in parte ironici e in parte molto duri del critico napoletano ad una serie di disegni, realizzati da Albini per il progetto di alcuni mobili da ufficio, provocano in lui un grande turbamento. La nuova fase che quell’incontro ha provocato prende avvio con l’apertura del primo studio professionale in via Panizza con Renato Camus e Giancarlo Palanti. Il gruppo di architetti inizia ad occuparsi di edilizia popolare partecipando al concorso per il quartiere Baracca a San Siro nel 1932 e

poi realizzando i quartieri dell’Ifacp. Ma è soprattutto nel contesto delle mostre che il maestro milanese sperimenta il suo compromesso tra quel “rigore e fantasia poetica” di cui parlò precedentemente Pagano, coniando gli elementi che saranno tema ricorrente in tutte le declinazioni del suo lavoro – architetture, interni, pezzi di design. L’apertura nel 1933 della nuova sede della Triennale a Milano, nel Palazzo dell’Arte, diviene un’importante occasione per esprimere il forte carattere innovativo del pensiero razionalista, una palestra in cui sperimentare in libertà nuovi materiali e nuove soluzioni, ma soprattutto un “metodo”. “Coltivata come laboratorio di comunicazione, l’arte dell’allestimento fu per i razionalisti della prima generazione ciò che la prospettiva era stata per gli architetti dell’umanesimo: il campo aperto a un’ipotesi di spazio che necessitava di profonde riflessioni prima di approdare alla concretezza del cantiere”. Insieme a Giancarlo Palanti, Albini in occasione della V Triennale di Milano allestisce la Casa a struttura d’acciaio (con R. Camus, G. Mazzoleni, G. Minoletti e con il coordinamento di G. Pagano), per la quale progetta anche l’arredamento. Alla successiva Triennale del 1936, segnata dalla prematura scomparsa di Persico, insieme ad un gruppo di giovani progettisti radunati da Pagano nella precedente edizione del 1933, Franco Albini si occupa dell’allesti96 1


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mento della Mostra dell’abitazione, nella quale è presentato l’arredamento di tre tipologie di alloggio. L’allestimento di una Stanza per un uomo, a quella stessa Triennale, ci permette di comprendere l’approccio acuto e ironico che fa parte di Albini, come uomo e come progettista: il tema affrontato è quello dell’existenzminimum e il riferimento del progetto è al mito fascista dell’uomo atletico e sportivo, ma è anche un modo per riflettere sugli alloggi a basso costo, la riduzione delle superfici al minimo e il rispetto del modo di abitare. “Celebrare la bellezza della meccanica fu l’imperativo cui si attennero, per esempio, i sorprendenti allestimenti di Franco Albini che riuscì, nella sottile maniera di uno stile raffinato e rarefatto, a sublimarne il contenuto pratico nella metafisica di ardite nature morte: oggetti volanti che segnavano nel vuoto raffinati telai e intrichi metallici i nodi di una cartografia fantastica dove l’industria finalmente diventava arte libera dallo scopo”. In quello stesso anno Albini e Romano progettano la Mostra dell’Antica Oreficeria Italiana: montanti verticali, semplici aste lineari, disegnano lo spazio. Un tema, quello del “pennone”, che sembra costituire il centro dell’evoluzione del suo processo produttivo e creativo. Il concetto viene rielaborato nel tempo, con la tecnica di scomposizione e ricomposizione propria della progettualità albiniana: nell’allestimento della Mostra di Scipione e di disegni contemporanei (1941) gli affusolati pennoni, su cui sono appesi i dipinti e le teche, sono sorretti da una

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griglia di cavetti d’acciaio; nello stand Vanzetti (1942) assumono la forma a V; nel negozio Olivetti a Parigi (1956) i montanti in mogano lucido sostengono i ripiani per l’esposizione delle macchine da scrivere e da calcolo. La riflessione su questo tema nasce dalla volontà di interpretare lo spazio architettonico, di leggerlo attraverso l’utilizzo di una griglia, di introdurre la terza dimensione, quella verticale, mantenendo un senso di leggerezza e trasparenza. Il pennone si ritrova, però, anche in ambiti differenti da quelli allestitivi. Negli appartamenti da lui progettati, viene utilizzato come perno su cui i quadri possono essere sospesi e ruotati per consentire differenti punti di vista, ma al contempo come elemento capace di suddividere gli spazi. La libreria Veliero, realizzata in un unico prototipo nel 1940, presenta due montanti principali, costituiti da esili barre curvate e accostate, legati da una complessa tensostruttura. Il montante alleggerito si ritrova anche nella libreria LB7, prodotta da Poggi negli anni Cinquanta. Come l’evoluzione del montante, anche la scomposizione e ricomposizione degli elementi architettonici e l’utilizzo del modulo, costituiscono gli elementi di un metodo che tende a semplificare i fenomeni complessi del progettare fino ai nuclei essenziali. Albini è un progettista completo, la cui opera spazia dall’edilizia al design, dagli allestimenti all’urbanistica. Albini lavora incessantemente, sorretto da un codice morale che lo accompagna nel corso di tutta la sua carriera; egli crede fermamen-

te nel ruolo sociale dell’architetto come professione a servizio della gente e lo considera la ragione stessa della sua esistenza. Albini affiancò all’attività di architetto quella di designer, soprattutto di elementi d’arredo, per tutta la carriera. Alcuni degli oggetti progettati da Albini, mobili e altri oggetti, tra cui alcune famose maniglie, sono ancora in produzione e sono venduti in tutto il mondo: fra questi vi è la poltrona Fiorenza, disegnata nel 1952 per Arflex utilizzando materiali allora innovativi per il settore del mobile, la sedia Luisa, dal design rigoroso e minimale, il tavolo Cicognino, ecc. Membro dei CIAM, Franco Albini ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra questi: tre compasso d’oro nel 1955, 1958 e 1964; il premio Olivetti per l’Architettura nel 1957; il premio “Royal Designer for Industry” dalla Royal Society di Londra nel 1971.

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“Il lusso e’ la manifestazione della ricchezza incivile che vuole impressionare chi e’ rimasto povero.” BRUNO MUNARI


04.4

BRUNO MUNARI E IL DESIGN DIDATTICO

Bruno Munari (Milano, 24 ottobre 1907 – Milano, 29 settembre 1998) è stato un artista, designer e scrittore italiano. Munari è stato “uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica del XX secolo”, dando contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco. Gran parte del design italiano degli anni Cinquanta e Sessanta ha fatto riferimento ai bambini come interlocutori ideali dei progetti e dei prodotti: Bruno Munari, Enzo Mari, Marco Zanuso, i fratelli Castiglioni e molti altri introdussero i bambini almeno nell’iconografia del prodotto. Questa tendenza dipendeva in grande parte dall’interesse per le nuove teorie pedagogiche che in Italia e nel resto d’Europa si stavano facendo largo. L’interesse dei designer verso le nuove frontiere della didattica non fu solo occasionale, e soprattutto per Bruno Munari e Enzo Mari rappresentò l’occasione per una profonda riflessione sulla filosofia del progetto. Per Munari il bambino è in realtà un ritratto di se stesso, nell’eterno gioco della vita senza certezze, dall’arte aperta alla certezza infinita. L’infanzia

è vista come una nuova componente liberatoria dalla rigida lezione del razionalismo. Il bambino deve essere il libero interprete del prodotto e del gioco, l’inventore del loro uso, protagonista spontaneo dei meccanismi della propria formazione. In Munari questa interpretazione è molto evidente, perchè dopo aver progettato sullo sfondo del movimento futurista Le Macchine Inutili, dai primi libri per bambini del 1945 alla scimmietta animata “Zizi” della Pirelli (Compasso d’Oro nel 1955), quasi tutte le sue opere hanno come interlocutore ideale il bambino. Bruno Munari entra ed esce dal mondo del design, che rappresenta per lui l’aspetto materiale di una massa di investigazioni sperimentali che interessano ambiti diversi, seguendo le strategie di una ricerca improvvisata e autonoma, la visualizzazione dei cui risultati diventa direttamente gioco per bambini. Per Munari la filosofia del gioco rappresenta il germe di una visione strutturale del mondo che prevede l’errore e l’imprevisto, dove il regno della ragione e del caos non si trovano in contraddizione, ma collaborano e si scambiano vicendevolmente i ruoli. La sua stessa idea di ergonomia non è un dato scientifico preliminare al progetto, ma una variabile aperta che il progetto rimette in discussione, superando le convenzioni formali e favorendo

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invenzioni comportamentali. Per questo Munari prima di utilizzare un meccanismo lo analizza, lo rende improduttivo per capirne nuove possibilità di prestazione, al di là di quelle già previste. Nell’incessante ribaltamento di prospettiva la sua opera di progettista sembra l’applicazione non dell’arte all’industria ma dell’industria all’arte, che della tecnica interpreta le capacità artistiche e dell’arte quelle tecniche. Così arte e tecnica collaborano e si demitizzano reciprocamente, per risolvere contraddizioni quotidiane come inattese occasioni creative. Bruno Munari crede che la cultura non consista nei prodotti fatti, ma nel farli; non nel risultato, ma nel processo creativo. In questo processo la componente ludica è fondamentale per il rinnovamento dei comportamenti sociali. Come libero professionista, Munari ha disegnato dal 1935 al 1992 diverse decine di oggetti d’arredamento come ad esempio tavoli, poltrone, librerie, lampade, posacenere, carrelli, mobili combinabili, ecc., la maggior parte dei quali per Bruno Danese. Proprio nel campo del disegno industriale Munari ha creato i suoi oggetti di più grande successo, come il giocattolo scimmia Zizi (1953), la “scultura da viaggio” pieghevole, per ricreare un ambiente estetico familiare nelle anonime camere d’albergo (1958), il portapenne Maiorca e il posacenere Cubo (1958), la celebre lampada Falkland (1964), l’Abitacolo (1971) e la lampada Dattilo (1978). Oltre alla progettazione di oggetti d’arredamento, Munari realizzò anche allestimenti di vetrine (La

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Rinascente, 1953), abbinamenti di colori per le vernici delle automobili (Montecatini, 1954), elementi espositivi (Danese, 1960, Robots, 1980), e persino dei tessuti (Assia, 1982). A 90 anni, firmò la sua ultima opera, l’orologio “Tempo libero” Swatch, del 1997. La produzione editoriale di Munari si estende per settant’anni, dal 1929 al 1998, e comprende libri veri e propri (saggi tecnici, poesie, manuali, libri “artistici”, libri per bambini, testi scolastici), libri-opuscolo pubblicitari per varie industrie, copertine, illustrazioni, fotografie. In tutte le sue opere, è presente un forte impulso sperimentale, che lo spinge a esplorare forme insolite e innovative a partire dall’impaginazione, dai Libri illeggibili senza testo, all’ipertesto ante litteram di opere divulgative come il famoso Artista e designer (1971). Alla sua vasta produzione come autore vanno aggiunte infine le numerose copertine e illustrazioni per i libri di Gianni Rodari, Nico Orengo e altri.

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FOCUS

SUPERLEGGERA Designer: Gio Ponti 1949-1957 Materiali: struttura in legno di frassino; seduta in canna indiana.


SUPERLEGGERA

GIO PONTI

Nel periodo della grande ricostruzione seguito alla fine della seconda guerra mondiale, Gio Ponti si cimenta nella progettazione di oggetti di uso quotidiano: mobili solidi e leggeri che possano arredare la nuova casa italiana. La Superleggera nasce dall’idea di costruire una sedia con alcune qualità imprescindibili: leggerezza, solidità e convenienza. Rappresenta un’originale reinterpretazione della sedia chiavarina della tradizione ligure. Il grande merito di Ponti è consistito proprio nella capacità di interpretare le esigenze del suo tempo e di dettare uno stile di passaggio tra ante e dopoguerra. Uno stile che è stato imitato e riproposto da tutti gli artigiani del tempo. Le linee strutturali, i materiali economici, la reinterpretazione di modelli, tipologie e tecnologie consuete hanno contribuito al grande rinnovamento che interessò lo stile dellle abitazioni popolari nel dopoguerra. Nel 1949 Ponti realizza il primo di due prototipi della sedia che aveva in mente; in questa fase della progettazione, il designer si concentra sulla parte formale ed ergonomica, la parte superiore dello schienale viene piegata all’indietro, creando anche una sensazione di modernità della linea pur mantenendo la tradizione del modello ispiratrice. Nel 1951 il progetto si evolve con un secondo prototipo, il modello Chiavari viene quindi ridotto ai suoi elementi essenziali e quindi pulito nella forma e allegge-

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rito. In questo prototipo, denominato Leggera ed effettivamente messo in produzione dalla Cassina vengono mantenute le sezioni circolari dei montanti e le gambe. Lo scopo finale però era quello di aumentare ulteriormente le prestazioni della seduta e la tecnologia, sia di assemblaggio che di materiali, ad essa applicata. Nel 1955 viene delineato quello che sarà poi nel 1957 il modello definitivo chiamato Superleggera (codice di progetto 699). L’intera struttura portante viene riprogettata, le gambe e i montanti vengono quindi ridisegnati con una sezione triangolare con spessore di soli 18 mm e viene effettuato un profondo studio sugli incastri, al fine di migliorare non solo la robustezza della sedia ma anche la sua leggerezza. Vengono scelti materiali leggeri ad alte capacità meccaniche pur essendo di origini naturali come il legno di frassino per la struttura e la canna indiana per la seduta. In alternativa, per il rivestimento del sedile, la canna d’India può essere sostituita con un materiale di natura sintetica: del cellophane colorato. Il risultato finale è una sedia altamente tecnologica pur mantenendo una grande fedeltà estetica con il modello artigianale e senza l’utilizzo di materiali compositi o non naturali. In anni successivi la sedia è stata realizzata anche in versione imbottita ed è ancora attualmente prodotta dalla Cassina SpA. La sedia, che è stata segnalata, non vincendolo, al IV Compasso d’Oro ADI (premio ideato dallo stesso Giò Ponti), è stata definita dal suo progettista come una sedia priva di aggettivi, una

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normale sedia che torna alle sue origini, senza nessuna stranezza o caratteristica che la allontani da ciò che una sedia debba essere. Il progetto nasce in modo estremamente razionale: ogni soluzione è stata attualizzata per motivi tecnici e strutturali al fine di migliorare un prodotto culturale italiano molto radicato nel territorio, la sedia di Chiavari. La Superleggera entra nella cultura italiana e si diffonde in essa sia per le sue caratteristiche strutturali sia per le curiose ed originali campagne di comunicazione fatte per promuoverla. La Superleggera, infatti, dotata di prestazioni eccellenti (si tratta di una sedia che pur pesando solo 1,7 kg è estremamente solida e robusta) viene promossa con alcune idee molto originali che ne fanno evincere, cercando di stupire, le proprie caratteristiche. Per la sua presentazione, infatti, Giò Ponti sottopone la sedia ad un bizzarro collaudo: facendola cadere dal quarto piano di un edificio anziché sfracellarsi a terra rimbalza come una palla, senza danni. La sedia viene anche promossa con una simpatica vignetta raffigurante un bambino che la alza con un dito. O performance più recenti come la Superleggera sospesa in aria tirata verso l’alto da un palloncino e tenuta a terra tramite dei tiranti. Viene tuttora identificata come uno degli oggetti di disegno industriale più rilevanti ed influenti nella storia del settore a livello internazionale e fa parte di collezioni di molti musei dedicati al design, alla tecnologia e all’arte moderna di tutto il mondo ed è uno dei simboli più citati del design italiano e della

cultura artigianale milanese legata all’arredamento. Questa evoluzione, che l’ha resa “un classico”, ha portato tuttavia la sedia a una discutibile incoerenza con le concezioni originarie del progettista: da semplice ed economica sedia “per il popolo” la Superleggera è divenuta negli anni un oggetto culturale ricercato, non più rivolto alla massa e con un prezzo di vendita decisamente elevato.

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FONTI: CAP. 04 – IL DESIGN ITALIANO DEL SECONDO DOPOGUERRA

http://www.designmag.it/articolo/design-anni-50-i-mobili-e-i-complementi-d-arredo-icona-del-disegno-industriale/27227/ https://architettura.unige.it/did/l1/disegnoind/primo0405/storiadisind/dispense/designitalianodel2dopoguerra.pdf Valentina Croci, Il boom economico italiano e la produzione in grande serie, in Design Italiano del XX secolo, Art e Dossier, Inserto redazionale allegato al n.244 maggio 2008, Giunti

CAP. 04.1 – PIAGGIO E FIAT: LA MOTORIZZAZIONE DI MASSA

https://architettura.unige.it/did/l1/disegnoind/primo0405/storiadisind/dispense/designitalianodel2dopoguerra.pdf Valentina Croci, Il boom economico italiano e la produzione in grande serie, in Design Italiano del XX secolo, Art e Dossier, Inserto redazionale allegato al n.244 maggio 2008, Giunti

CAP. 04.2 – GIO PONTI

http://www.leonardo.tv/articoli/gio-ponti-la-storia-e-la-biografia-del-grande-designer/ https://it.wikipedia.org/wiki/Gio_Ponti http://www.chiarapecorelli.com/it/gio-ponti/ Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

CAP. 04.3 – FRANCO ALBINI

https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Albini http://www.fondazionefrancoalbini.com/franco-albini/

CAP. 04.4 – BRUNO MUNARI

https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Munari Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

FOCUS

https://it.wikipedia.org/wiki/Superleggera_(sedia) Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

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05.

GLI ANNI ‘60 E I MAESTRI DEL DESIGN ITALIANO

Nel fecondo passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta si produssero in Italia una serie di cambiamenti imprevedibili in campo sociale ed economico, fenomeni che portarono il design italiano su posizioni del tutto autonome e originali rispetto al design europeo. Negli anni Sessanta infatti avvenne il decollo del design italiano e la conquista di quella leadership internazionale che fu consacrata da una grande mostra al MoMA di New York. Il cambiamento sociale e culturale stava prendendo una miriade di forme. Una classe di piccoli imprenditori, nati e cresciuti fuori da qualsiasi previsione, che disponevano di capitali di origine familiare e agricola, decise di investire non più nelle industrie di base ma nell’industria dei beni di consumo che garantivano una più immediata redditività. La crisi delle ideologie e del razionalismo moderno determinò un vuoto che fu riempito da quella febbrile energia creativa che vide nel Beatles e nell’album Sergent Peppers il suo momento esplosivo. La colorata e festante creatività che investì tutto il continente europeo determinò l’assunzione di nuovi comportamenti, ispirati appunto dalla moda e dalla musica soprattutto inglesi. La liberazione sessuale, comportamentale e politica andava ad occupare lo scenario problematico di un’Europa che iniziava a

entrare nella logica del consumismo di massa. I consumi aumentavano notevolmente e per la prima volta le famiglie italiane avevano accesso ad un universo di oggetti che prima era tipico solo di un’élite, questo grazie soprattutto al nuovo sistema di produzione capitalistica, che consentiva di realizzare in grande serie gli stessi oggetti che prima erano prodotti artigianalmente, rendendone i costi più accessibili e rispondendo a esigenze variabili di spesa. L’Italia era entrata a pieno titolo nell’epoca dei consumi di massa, in cui si acquistava non più solo ciò che era strettamente necessario, ma si lasciava un margine di spesa per ciò che un tempo era considerato superfluo. La pubblicità sfruttava ogni mezzo, fino a coinvolgere gli studi psicologici per convincere il consumatore ad acquistare prodotti nuovi o nuovi modelli. Quello della pubblicità era un mezzo tramite il quale non solo si spingeva il consumatore ad acquistare, ma lo si “educava” anche, formando in esso una maggior consapevolezza del bello e dell’utile, tanto che nel corso del tempo questi avrebbe iniziato a manifestare esigenze tecniche e pratiche sempre più sofisticate. I designer operanti in quest’epoca avrebbero compreso appieno tale mutamento e, come giustamente affermava Vittorio Gregotti: “La seconda generazione dei designer

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italiani entra in campo quando le battaglie per il moderno sono state vinte e una sedia ed una poltrona non sono cimenti di cultura ma oggetti di mercato, nel senso attivo della parola, elementi di aggancio al mondo della produzione”. Nel mondo della produzione di quegli anni si stavano formando numerose aziende, che nascevano o si rinvigorivano e che da lì a poco sarebbero diventate le icone del decennio: Cassina (che dal 1965 iniziava la raffinata operazione storica di rieditare i classici del design moderno a partire dai mobili disegnati nel 1929 da Le Corbusier e Charlotte Perriand e a tale attività affiancava anche la produzione di oggetti all’avanguardia disegnati dai designer italiani più giovani), Arflex, Artemide, C&B (nata dalla collaborazione tra Cesare Cassina e Piero Busnelli, che si occupava per lo più della produzione di imbottiti), Boffi, Gavina, Gufram, Kartell, Olivetti, Poltronova, Zanotta, solo per nominarne alcune. I casi di Olivetti e di Kartell presentavano alcune particolarità. Olivetti aveva già iniziato da qualche anno la collaborazione con Ettore Sottsass, che per questa aveva già disegnato nel 1959 il primo grande calcolatore elettronico Elea 9003 e nel 1964 la macchina da scrivere Tekne 3, quando Roberto Olivetti gli proponeva di entrare stabilmente in azienda divenendo direttore del settore dedicato al design. La soluzione trovata da Sottsass sarebbe stata del tutto peculiare, infatti, egli proponeva l’apertura di un atelier in cui i collaboratori, selezionati da lui, secondo le necessità dell’amministrazione

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aziendale, sarebbero stati dei freelance pagati da Olivetti. Questo consentiva ai designer di lavorare in autonomia senza essere totalmente assorbiti dall’ambiente industriale, oltre alla possibilità di una maggiore circolazione di idee. Un modello totalmente diverso rispetto a quello degli altri paesi europei che tendevano, invece, ad integrare il designer nel sistema industriale. Olivetti si serviva anche di una serie di collaboratori che la assistevano nella realizzazione degli uffici, dei negozi, degli showroom e delle mostre, tramite le quali l’azienda promuoveva, anche al di fuori dei confini nazionali, la propria immagine e quella dell’architettura, del design e dell’arte italiani: Bruno Munari, per esempio, avrebbe coordinato a Milano la “Prima mostra sull’arte cinetica e programmata”, promossa da Olivetti nel 1962; Louis Kahn avrebbe realizzato gli uffici e la fabbrica in Pennsylvania (1967 – 1970); Kenzo Tange il Centro Olivetti a Yokohama (1969 – 1972); i BBPR, dopo la realizzazione dello store newyorkese nel 1954, avrebbero collaborato ancora con Olivetti, realizzandone gli uffici a Barcellona nel 1964. Per quanto riguarda invece Kartell, l’azienda era stata fondata nel 1949 dall’ingegnere chimico Giulio Castelli a Noviglio in provincia di Milano. L’azienda a partire dagli anni sessanta si consolidava grazie, soprattutto, alla produzione di pezzi di design d’arredamento in plastica. Non bisogna dimenticare che gli anni sessanta non avrebbero visto solo la celebrazione dei nuovi materiali e dei colori vivaci dallo spi-

rito democratico, ma sarebbero stati anche gli anni della breve seppure intensa esperienza del neoliberty italiano, che da qualche tempo stava intraprendendo un gruppo di architetti milanesi e torinesi. Il decennio si era aperto con la mostra “Nuovi disegni per il mobile italiano” tenutasi nel 1960 presso l’Osservatorio delle arti industriali di Milano, con la quale si intendeva dare slancio a quel movimento di reazione al razionalismo che trovava un punto di riferimento nell’opera di architetti quali Charles Rennie Mackintosh, Frank Lloyd Wright, ecc. Le forme, come avrebbe detto Gillo Dorfles, sarebbero passate “da un’era di geometricità rettangolistica ad una sinuosità enveloppante”. A questo movimento si potevano ricondurre ad esempio: la poltrona in legno curvato Cavour, disegnata da GregottiStoppino- Meneghetti, per Sim ed insignita nel 1960 del Premio Compasso d’oro; la poltrona Sanluca, disegnata da Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Gavina nel 1960, caratterizzata da forme dinamiche, concepita in vari elementi stampati e, poi assemblati; la poltrona Nastro (1965) di Joe Colombo, realizzata con bastoni di malacca curvati e giuntati tra loro, i mobili disegnati da Gabetti e Isola; la poltrona a dondolo in legno di faggio curvato, Sgarsul, di Gae Aulenti, realizzata nel 1962 da Poltronova.

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05.1

LE MATERIE PLASTICHE: KARTELL

La maggior parte delle innovazioni tecniche e merceologiche di questi anni fu possibile grazie all’introduzione delle plastiche nella produzione di massa. Nella produzione delle materie plastiche la natura delle cose visse il suo mutamento più radicale: con essa il prodotto indutriale non vide mutare soltanto la propria organizzazione funzionale delle componenti e la sua conseguente configurazione, ma la struttura stessa della propria materia. Materia inerte, amorfa, indecifrabile, la plastica sostituì i materiali naturali e li imitò fedelmente: fu legno, ferro, pietra pur restando irriducibilmente se stessa; e in questa sua continua metamorfosi assicurò leggerezza e resistenza, igiene e indistruttibilità, duttilità e capacità mimetiche infinite. Le prime applicazioni delle materie polimeriche in scala industriale risalgono agli studi di Giulio Nata (Nobel per la chimica nel 1963) che realizzò composti applicati da aziende quali Pirelli ed Eni. La rivoluzione apportata da questi materiali è comprensibile anche solo pensando in quanti prodotti di prima necessità furono introdotti: dai prefabbricati per l’edilizia, ai mobili, ai casalinghi. Rispetto ai materiali tradizionali, come il legno e i metalli che vengono trasformati per dare vita a un oggetto, il “compound” plastico e la relativa tecnica di lavorazione nascono insieme all’oggetto stesso. Ciò significa che il design degli artefatti influenza la ricerca nel processo

produttivo e viceversa – si prenda per esempio la sedia Selene di Vico Magistretti per Artemide (1969), costituita da un unico foglio di resina in poliestere stampato, le cui gambe con sezione a S rendono il materiale autoportante. Le plastiche trovarono largo impiego per la sfida progettuale che presentavano ma anche per il loro valore simbolico. L’accessibilità e il basso costo produttivo le resero il simbolo della democrazia e della trasformazione del quotidiano: per esempio, l’introduzione della plastica nei casalinghi ha accelerato la scomparsa di alcuni utensili ( la lattiera o i recipienti in peltro per la conservazione del cibo) e la trasformazione del settore produttivo dei casalinghi in alluminio, ceramica o rame. Tra le aziende italiane che intuirono subito le possibilità offerte dalle materie plastiche per la produzione di oggetti dotati di dignità formale si distinse subito la Kartell, fondata nel 1949. Quando nel 1955 il secchio in polietilene modello KS1146, disegnato da Gino Colombini, ottenne il Compasso d’Oro, lo statuto culturale dell’oggetto e del design si pose in una nuova luce: il più modesto degli utensili divenne, con la metamorfosi della sua materia, espressione di un profondo cambiamento. La Kartell avviò così un lungo processo di sviluppo, attraverso il quale tanto la ragione progettuale quanto quella produttiva si nutrirono di una cultura industriale avanzatissima. La sua

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strategia aziendale coinvolse sia i produttori dei materiali, sia le strutture di trasformazione, sia il sistema di distribuzione. A trionfare fu il design in quanto rappresentazione della nuova realtà delle cose: sul filo di una rielaborazione che seppe sfruttare tutte le possibilità offerte dalla tecnologia e dalle nuove filosofie aziendali, perfino lo spremiagrumi in plastica KS1481 disegnato da Colombini nel 1959 potè proporsi come oggetto quotidiano dotato di una autonoma personalità. Il caso di Kartell non era unico nell’Italia di quel tempo, infatti, molte aziende erano interessate alla produzione in materie plastiche. Le stesse aziende operanti nel settore della produzione e sperimentazione dei materiali polimerici, come Pirelli, Montecatini, Anic, Eni, si dimostravano sempre più interessate ai problemi del design. A partire da quegli anni, la plastica non era più sinonimo di prodotto atto a sostituire materiali nobili e naturali, ma veniva privilegiata per le sue virtù di resistenza, serialità e possibilità cromatiche. Addirittura si notava allora un ribaltamento di percezione e identità: i materiali naturali venivano camuffati da artificiali, esemplare in questo senso era il caso delle sedute Saratoga, disegnate nel 1965 da Lella e Massimo Vignelli per Poltronova, in cui il legno della struttura di base venne laccato in poliestere, e quelli artificiali diventano ricercati, come il Moplen (marchio registrato dalla Montecatini con cui si indicava il polipropilene isotattico) che invadeva le case degli italiani in piccoli oggetti d’uso quotidiano, dalle sto-

KARTELL, KS1146

KARTELL, KS1481

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viglie ai giocattoli, e perfino alcune componenti d’arredo venivano realizzate in plastica. Aziende come Kartell e Olivetti sono alcuni esempi di una cultura industriale che fece in quegli anni della chimica e dell’elettromeccanica i punti di forza di una produzione tesa a ridisegnare l’intero panorama dell’attività quotidiana attraverso la trasformazione della materia, del funzionamento e della forma dei suoi strumenti. Il contributo del design italiano fu in ciò cruciale. Questa sorta di rivoluzione industriale iniziò la sua parabola discendente nella seconda metà degli anni Sessanta, in seguito alla crisi economica e al calo della produzione. Tra i fattori ci furono la congiuntura internazionale, i debiti progressivi dell’industria pubblica, la mancanza di programmazione, la crescita del carovita e soprattutto il rincaro delle materie prime e delle fonti di energia. Il calo della produzione segnò l’inizio della frattura tra design e industria e, come sottolinea Vittorio Gregotti, la produzione industriale andò verso la specializzazione ingegneristica, mentre il design verso una forma di creatività più artistica e sperimentale – il design radicale degli anni Settanta, volto a superare la pratica standardizzante del progetto industriale.

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“Io ho sempre costruito piu’ applicando dei procedimenti a un’idea, ma un’idea non e’ necessariamente una forma, la forma e’ una delle conseguenze.” MARCO ZANUSO


05.2

MARCO ZANUSO

Marco Zanuso (Milano, 14 maggio 1916 – Milano, 11 luglio 2001) è stato un architetto, designer e urbanista italiano. È considerato tra i padri fondatori del design industriale italiano. Insieme al gruppo dello studio BBPR, ad Alberto Rosselli, a Franco Albini, a Marcello Nizzoli e ai fratelli Livio, Pier Giacomo e Achille Castiglioni, ha contribuito al dibattito nel dopoguerra sul “movimento moderno” nell’architettura e nel design. Zanuso è stato uno dei primissimi ad interessarsi ai problemi dell’industrializzazione del prodotto e all’applicazione dei nuovi materiali e tecnologie agli oggetti di uso comune. Nel 1939 si laurea al Politecnico di Milano e qualche anno più tardi apre uno studio suo. Tra il 1946 e il 1947 è stato direttore di Domus e successivamente tra il 1947 e il 1949 di Casabella. Nel 1948 è stato incaricato da Pirelli di studiare l’utilizzo della schiuma di lattice nelle imbottiture e il risultato si è avuto nel 1951 quando disegnò la poltrona Lady per Arflex che lo consacrò simbolo del design moderno. Nel 1964 progetta la Radio TS502 per Brionvega e altri prodotti, che anche oggi vantano di fama e successo sul piano internazionale. Nella sua lunga carriera di progettista ha sempre sperimentato nuovi materiali e tecnologie. La chiave di lettura dei prodotti di Marco Zanuso è rappresentata essenzialmente dalle linee pulite che ricordano la belle époque del design milane-

se. Un tratto distintivo che gli appartiene è sicuramente l’originalità che gli ha permesso di vincere la grande sfida del tempo che passa, dato che la maggior parte dei suoi oggetti è ancora in produzione. Ricerca, sperimentazione, tecnologia, progettazione, passione sono le parole d’ordine di Marco Zanuso; egli appartiene a quel design italiano che si potrebbe dire caratterizzato dal “problem solving”, dove la soluzione è abbracciata solo se elegante, signorile e comoda. Si tratta di uno dei pochi designer che conosceva a fondo l’industria, poichè apparteneva alla stessa classe dirigente, di cui perciò conosceva la logica, le energie, il gusto dei prodotti, i compromessi e le ambizioni. Il progetto di Marco Zanuso si svolge tutto dentro il perimetro delle tipologie collaudate; ciò significa che l’energia del suo lavoro non si disperse mai nell’invenzione d’uso o nello sforzo di modificare le relazioni dell’oggetto con il suo utente o con lo spazio circostante. L’innovazione, come nei casi del telefono Grillo e del televisore Black, è nell’analisi delle componenti del prodotto, nella loro riorganizzazione fino ad ottenere come risultato finale una configurazione del tutto nuova. Progetti sorprendenti come il divano Lombrico, costituito da una serie infinita di elementi base fino a raggiungere una dimensione paradossale, non hanno origine in una filosofia nuova dell’abitare ma nella razionalizzazione

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di un modo di costruire una specifica tipologia di divano. Nella sua personale visione era determinante una rivoluzione delle tipologie di prodotto senza alterare i massimi sistemi della politica e della filosofia. Si ispirano a questa convinzione anche i suoi piĂš famosi prodotti, come la poltroncina Lady, la prima in pannelli rinforzati in gommapiuma, oppure il tavolo Cornice, il primo caso di incollaggio diretto tra gambe metalliche e piano di cristallo, applicazione del metodo Fiat per incollare ai deflettori le manopole di chiusura.

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“Design e’ anche guardare gli oggetti di tutti i giorni con occhio curioso.” VICO MAGISTRETTI


05.3

VICO MAGISTRETTI

Ludovico “Vico” Magistretti (Milano, 6 ottobre 1920 – Milano, 19 settembre 2006) è stato un designer e architetto italiano. Costretto a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali, studia allo Champ Universitaire Italien di Losanna, dove insegnava Nathan Rogers; nel 1945 consegue la laurea in Architettura al Politecnico di Milano. La lezione di Rogers fu particolarmente importante per Magistretti, come per un’intera generazione di architetti milanesi, perchè tendeva a mettere al centro della riflessione e dell’attenzione non tanto il progetto quanto il progettista. Figlio di un noto architetto milanese, Magistretti iniziò a praticare la professione con grande naturalezza nello studio del padre: essere designer per lui non significava reinventarsi il mondo e il proprio lavoro, ma operare all’interno di una disciplina fatta di relazioni e gesti già consolidati. Magistretti operò sulle tipologie di prodotto esistenti rinnovandole esclusivamente attraverso il suo straordinario stile personale, per garantire una normalizzazione del prodotto, realizzando progetti che uno dopo l’altro ottennero nel mondo uno straordinario successo commerciale e di critica. Tra il 1949 e il 1959, nella Milano della ricostruzione, Magistretti progetta e realizza in collaborazione con altri architetti circa 14 interventi per l’INA-Casa. Con Mario Tedeschi partecipa all’impresa collettiva del QT8 con i progetti delle case per

i reduci d’Africa e della chiesa di Santa Maria Nascente (1947-55). Nel 1946 partecipa alla mostra della R.I.M.A. (Riunione Italiana per le Mostre di Arredamento), tenutasi presso il Palazzo dell’Arte, con alcuni piccoli mobili quasi self made e successivamente, nel 1947 e nel 1948 , insieme a Castiglioni, Zanuso, Gardella, Albini e altri, partecipa alle mostre organizzate da Fede Cheti, creatrice di tessuti per l’arredamento, nel proprio atelier. Gli anni ‘50 sono densi d’iniziative e di proposizioni innovative da parte del giovane architetto che, in breve tempo, si conferma come una delle più brillanti presenze fra gli esponenti della “terza generazione”, anche grazie alla realizzazione di due significativi edifici a Milano: la Torre al Parco in via Revere (1953-56, con Franco Longoni) e il palazzo per uffici in corso Europa (1955-57). Nel 1956 è tra i soci fondatori dell’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale, e nello stesso anno fa parte per la prima volta della giuria del Premio Compasso d’Oro. Nel 1960 è di nuovo tra i giurati del premio dell’ADI. La particolare attenzione rivolta al tema della casa e dell’abitare finirà per monopolizzare, a partire dagli anni ‘60, la sua attività di architetto, facendogli mettere a punto un linguaggio estremamente espressivo che, seppur talvolta polemicamente criticato, avrà molta presa sulla cultura architettonica lombarda del periodo, permettendogli di divenirne uno dei protago-

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nisti. Magistretti è uno dei padri del cosiddetto Italian Design, fenomeno che lui stesso definisce “miracoloso” e che si è potuto verificare solo grazie all’incontro di due componenti essenziali: gli architetti e i produttori. A partire dalla fine degli anni ‘60 inizia a collaborare con produttori d’eccezione, tra cui Artemide, Cassina e Oluce, realizzando per loro oggetti che rimarranno dei “classici” della produzione contemporanea. Il decennio successivo vede l’attività architettonica di Magistretti sempre più affiancata a quella di designer. Se il primo prodotto disegnato da Magistretti risale al 1960 - la sedia Carimate, pensata per arredare il golf club progettato da lui nel medesimo anno e messa in produzione da Cassina - negli anni successivi, sempre per la stessa azienda, si aggiungono numerosi altri oggetti tra cui, i più noti, sono il divano Maralunga (1973, premio Compasso d’oro nel 1979), il divano Sindbad (1981) e la poltrona Veranda (1983). Per Artemide disegna anche una serie di lampade, tra cui Mania (1963), Dalù (1969), Chimera (1969), la famosissima Eclisse (1966, premio Compasso d’oro 1967), Teti (1970) e Impiccato (1972). Tra gli oggetti di arredo, dopo i tavolini Demetrio (1966), progetta la sedia Selene (1969), che, con Panton Chair e Universale di Joe Colombo, si contende il primato della prima sedia in plastica al mondo. Per molti anni Magistretti è anche art director e principale designer di Oluce, imprimendo nella produzione dell’azienda una traccia inconfondibile. Trai suoi capolavori, icone riconosciute

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nel mondo intero, le lampade: Snow (1974), Sonora (1976), soprattutto Atollo (1977, premio Compasso d’oro 1979), Pascal (1979), e Kuta (1980). Alla fine degli anni ’80 si afferma anche il sodalizio con un editore d’eccezione: Maddalena De Padova, premiata con il Compasso d’Oro alla carriera in occasione della XX edizione del premio. Dopo la cessione, alla fine degli anni ’70, del marchio ICF con la licenza di produzione della Herman Miller, Maddalena dà vita a una linea di mobili e oggetti a marchio De Padova, poi “è De Padova”, per la quale collaborano grandi designer come Achille Castiglioni e Dieter Rams, ma soprattutto Vico Magistretti. La collezione “è De Padova” firmata da Magistretti comprende tra i classici: la sedia Marocca (1987), il tavolo Vidun (1987), la sedia Silver (1989), la sedia in vimini Uragano (1992), la sedia Incisa (1992), il più recente tavolo Blossom (2002). Per Flou inventa nuove tipologie di letti, tra cui, dopo il letto Nathalie (1978), primo letto interamente imbottito, nel 1993, un altro letto innovativo, Tadao, la cui base insieme alla testata è una rivisitazione essenziale della struttura a doghe. Anche nella collaborazione con Schiffini Mobili Cucine, Magistretti non si accontenta delle tipologie tradizionali. Con la cucina Campiglia (1990) modera l’uso dei pensili con l’introduzione di mobili alti tipo credenza. Con Solaro (1995) trasforma le tradizionali ante degli elementi base in pratici e ampi cassettoni. Con Cinqueterre (1999) utilizza invece un semilavorato industriale, un estruso di lamiera ondu-

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lata in alluminio, che determina formalmente ogni elemento. La collaborazione con Kartell dà infine vita ad un’altra sedia industriale Maui (1996) - con un’unica scocca in plastica, che, per il successo internazionale che ottiene, non ha nulla da invidiare alla precedente sedia Selene. Nel 1997, il Salone del Mobile di Milano dedica a Vico Magistretti una mostra monografica, accanto a quella di Gio Ponti, curata da Vanni Pasca. Progettisti dell’allestimento sono Achille Castiglioni con Ferruccio Laviani. Le sue opere di design sono esposte presso la collezione permanente del MoMA di New York, del Victoria & Albert Museum di Londra, del Die Neue Sammlung di Monaco e presso numerosi altre istituzioni museali in America e in Europa. In seguito alla sua scomparsa nel settembre del 2006, lo studio, sede della Fondazione Vico Magistretti, viene convertito in un museo dedicato allo studio e alla divulgazione del suo lavoro. “Partendo da “semplici” schizzi Vico Magistretti è riuscito a dare vita ad oggetti cosi singolari da rivoluzionare la concezione dell’arredo italiano e il gusto degli italiani. La sua grande capacità è stata quella di partire dagli oggetti di tutti i giorni e farli diventare vere e proprie opere di design, mantenendo comunque intatta la funzione di ogni singolo oggetto.”

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“Un buon progetto non nasce dall’ambizione di lasciare un segno, il segno del designer, ma dalla volonta’ di instaurare uno scambio anche piccolo con l’ignoto personaggio che usera’ l’oggetto da noi progettato.” ACHILLE CASTIGLIONI


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I FRATELLI CASTIGLIONI

Livio (1911-1979), Piergiacomo (1913-1968) e Achille Castiglioni (1918-2002) sono tre architetti e designer milanesi, di cui il più conosciuto è il più giovane dei tre, ovvero Achille Castiglioni. Figli dello scultore Giannino, i tre fratelli si sono tutti laureati in architettura al Politecnico di Milano e sono protagonisti indiscussi fin dagli anni ’50, e per oltre mezzo secolo, del design italiano e della storia del costume del nostro Paese. Piegiacomo Castiglioni, dopo essersi laureato in architettura nel 1937, collaborò dall’anno successivo con il fratello Livio e Luigi Caccia Dominioni alla progettazione di apparecchi radio per Phonola. Dal 1944, anno della laurea di Achille Castiglioni, i tre fratelli aprirono uno studio in Piazza Castello, dove si dedicarono insieme alla realizzazione di progetti di urbanistica e architettura e al product design fino al 1968, anno in cui Achille Castiglioni decise di continuare da solo la propria attività per concentrarsi sul furniture e sull’industrial design. Achille e Piergiacomo Castiglioni hanno collaborato insieme in molteplici occasioni riuscendo a farsi portatori di un’inventiva unica unita alla capacità di cogliere le esigenze del marketing e del pubblico. Nel periodo della ricostruzione, sono attivi principalmente nel restauro di edifici e nella progettazione di nuove costruzioni. Ma sono gli oggetti che più interessano la creatività di Livio, Achille e Pier Giacomo Ca-

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stiglioni. Dall’invenzione più diffusa sebbene meno nota, l’interruttore rompitratta, all’icona assoluta, la lampada Arco, il loro design si caratterizza per una grande libertà di progetto applicata con intelligente ironia. Molti di questi oggetti prendono vita da una geniale intuizione: trasformare un ordinario oggetto quotidiano in un progetto di design. Così i Castiglioni regalano una nuova vita al sedile delle macchine agricole (lo sgabello Mezzadro), al faro per le automobili (le lampade Luminator), ai fili per la pesca (lampada Toio), e molto altro. Quasi unici per la capacità di mediare tra un immaginario fantastico e le strette esigenze di marketing, progettano oggetti e ambienti con forme continuamente diverse, geometriche o organiche, irreali o rigorosamente funzionali, ma sempre ottenute con la tecnica dello stravolgimento che ricorda molto le esperienze surrealiste e dadaiste. Profondamente impegnati a coniugare espressività e funzionalità dell’oggetto, con i loro lavori hanno traghettato il design italiano dalla dimensione dello stile legato al gusto e al costume a quella di un progetto stabile nel tempo. Senza rinunciare alla ricerca sulle tecnologie, i materiali, i processi produttivi, hanno saputo dare al prodotto industriale significati completamente diversi, ironia, divertimento ma anche invenzione ed estrema praticità. Questa loro attenzione e capacità di interpretazione li ha condotti a realizzare prodotti che gli hanno permesso di vincere numerosi premi, di stringere importanti collaborazioni, come: Kartell, Zanotta,

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Flos, Bernini, Siemens, Knoll, Poggi, Lancia, Ideal Standard, Arflex, Alessi e quindi di ottenere una fama internazionale. Alcune delle opere più importanti dei fratelli sono lampade, aspetto per il quale Achille e Pier Giacomo Castiglioni sono conosciuti come tra i più grandi designer della luce. Un esempio sono la lampada Tubino del 1951, che rappresenta la prima applicazione da tavolo di una luce fredda, la Lampadina per le luci del 1957, che ha una dimensione maggiore rispetto a una lampadina normale e che per questo motivo costringe a ripensare il senso dell’uso della lampadina stessa e la lampada da terra Toio, che richiama i motivi artistici del ready-made di Marcel Duchamp avendo come base un trasformatore e un faro d’automobile per lampada. Tra le lampade più importanti ve ne sono poi due progettate per Flos, azienda italiana di illuminazione e di arredamento. La prima è la lampada Arco, che, progettata nel 1962, rappresenta un oggetto icona del design italiano e fa parte delle collezioni permanenti del Triennale Design Museum di Milano e del MoMA di New York; la seconda invece è la lampada Parentesi, che, progettata da Achille Castiglioni con Pio Manzù nel 1969, venne premiata col Compasso d’Oro nel 1979. Di altri oggetti progettati dai due fratelli si ricordano anche i design di sedie come Mezzadro e Sella (1957), la poltrona Sanluca (1959), il sedile Allunaggio (1962), i bicchieri Ovio e Paro (1983). Le loro opere principali si trovano al MOMA di New York, ma anche in molte altre importanti gallerie di tutto il mondo.

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FOCUS

SELENE Designer: Vico Magistretti 1969 Materiali: Reglar


SELENE

VICO MAGISTRETTI

Prodotta da Artemide nel 1969, la sedia Selene è uno dei pezzi di design progettati da Vico Magistretti più famosi al mondo. Il tema della sedia in plastica stampata in un unico pezzo è una sfida progettuale che percorre tutti gli anni Sessanta e la soluzione di Magistretti si distingue per eleganza e invenzione. È una delle prime sedie interamente in plastica degli anni sessanta, priva delle mastodontiche gambe che caratterizzavano le sedie di allora. Si tratta di una seduta dalla decisa impronta modernista, estremamente leggera e maneggevole, adatta sia per interni che per estrerni. Realizzata in materiale plastico Reglar®, è ottenuta attraverso un processo di stampaggio ad iniezione, e la sua sagoma particolare ne permette una perfetta impilabilità. La strutturalità delle gambe era il vero nodo del problema, in quanto è una delle parti più sollecitate o perlomeno sono destinate a reggere la seduta, la trovata geniale sta proprio nella soluzione trovata, risolta per forma con un ghirigoro, riconoscibile solo nel disengno della sezione, la cui forma a “S” premette alla sedia di resistere bene agli sforzi di compressione. Delineata nelle tipiche forme morbide e arrotondate della Space Age degli anni ‘70, si caratterizza specialemente per la struttura a spirale delle gambe. Simbolo eclatante della vivace stagione d’oro del design italiano, la sedia Selene è esposta nei più importanti musei e collezioni

di design del mondo, come il MOMA di New York e il Vitra Design Museum. Malgrado abbia perso il primato di prima sedia a quattro gambe in plastica in un unico pezzo - vinto nel 1967 dalla sedia “Universale” di Joe Colombo per Kartell - è vero però che la sedia Selene capita ancora oggi di trovarla nelle case, in qualche bar, mentre quella di Joe Colombo si è fortunati ad incontrarla in qualche museo del design, di quei pochi puntigliosi al mondo.

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FOCUS

PANTON CHAIR Designer: Verner Panton 1967 Materiali: Polipropilene rinforzato con vetroresina


PANTON CHAIR

VERNER PANTON

L’inserimento di questa sedia (che non ha che fare con il design italiano) all’interno di questo capitolo è dovuta unicamente alla prensenza del paragrafo sulle plastiche. La Panton Chair è la prima sedia ad essere costruita da un unico pezzo di materiale continuo. Senza dubbio è uno dei più noti prodotti di design del XX secolo, la sua forma, tanto inusuale quanto sorprendente, ha fatto della Panton Chair un’icona del design; questo insieme alle innovazioni e alla tecnologia di produzione che portarono alla realizzazione di questo pezzo di arredamento lungo un arco di tempo di quasi dieci anni. Panton iniziò a sperimentare l’idea di una sedia a sbalzo realizzata in un unico pezzo di materiale già nel 1956, in occasione di un concorso da parte della società di WK-Möbel come testimoniano degli schizzi del 1958/59 che già chiaramente prefiguravano la Panton Chair. Da qui a poco tempo Verner Panton aveva già un modello in scala del suo concetto di sedia in polistirene, che non era adatto ad una seduta, ma lo avrebbe aiutato a trovare un produttore. Oggi questo stesso modello, che viene spesso erroneamente descritto come un prototipo, è parte della collezione del Vitra Design Museum e mostra delle differenze significative rispetto alla Panton Chair. Nei primi anni Sessanta Panton entrò in contatto con Willi Fehlbaum, l’amministratore delegato della Vitra, che diede la sua disponibilità per

sviluppare la sedia portandola alla fase di produzione in serie. Tuttavia, tra il 1965 e il 1967 sviluppò intensamente il lavoro sulla sedia fino al mese di agosto 1967 quando la Panton Chair è stata presentata al pubblico per la prima volta. Da allora la sedia è stata prodotta in quattro versioni diverse con quattro diversi tipi di plastica e con l’aiuto di diversi tipi di tecnologie di produzione. Furono motivi finanziari ed estetici che portarono al cambiamento dei materiali. Tutte le versioni vennero sviluppate in stretta collaborazione tra il produttore e Verner Panton. La storia della produzione della Panton Chair fu piuttosto complessa: tra il 1967 e il 1968 i produttori furono Herman Miller/Vitra per quanto rigurda la produzione della serie iniziale che venne stampata a freddo, in fibra di vetroresina e poliestere dipinta in vari colori. Tra il 1968-1971 il modello della seconda serie venne realizzato in schiuma di poliuretano rigido e verniciata in vari colori, ancora il produttori erano la Herman Miller/ Vitra. Il modello della terza serie venne realizzato tra il 1971-1979 in polistirolo colorato termoplastico (Luran S). Le sedie fatte di questo materiale possono essere identificate dalle dorsali sotto la curvatra, la superficie di seduta e la base. I produttori in quel periodo furono ancora per l’Europa Vitra e per gli Stati Uniti, solo fino al 1975, Herman Miller. La produzione della sedia Panton dal 1979 al 1983

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venne interrotta e riprese solo nel 1983 realizzando una seconda versione della sedia in poliuretano espanso rigido verniciato. Questa serie (la terza) venne dotata della firma identificativa Panton’s sulla base. Successivamente tra il 1983 al 1990 il produttore fu Corno, a nome del gruppo WK, solo dal 1990 tornò in produzione da Vitra. Dal 1999 venne messa in produzione da Vitra il modello della quarta serie in polipropilene colorato, questo modello venne commercializzato con il nome Panton Chair Classic. L’ultima novità in fatto di produzione è datata 2005 con la produzione da Vitra della Panton Junior in polipropilene colorato (una versione più piccola della Panton Chair in scala per i bambini dai tre anni in su). Per i più piccoli esiste la PANTON KIDS: in polipropilene, superficie opaca e finitura satinata nei colori Bianco, Rosso, Arancio, Rosa, Azzurro o Verde lime. Uno dei principali progetti in cui compare la Panton chair è il Varna Restaurant del 1971 in cui Panton ebbe l’incarico appunto presso il ristorante Varna a Arhus di progettare gli interni. Disegnata per seguire l’anatomia del corpo, è pratica perchè impilabile fino ad un massimo di cinque elementi, la Panton Chair è disponibile oggi nella classica finitura lucida e nella versione satinata della new edition. Adatta ad ambienti domestici, ufficio e outdoor, la celebre seduta, che negli anni Novanta è stata protagonista di una copertina di Vogue UK, nel corso di 50 anni si è modificata nei materiali, nei colori e nella fantasia, ma la sua forma è rimasta iden-

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tica e riconoscibile da tutti. L’attuale produzione della sedia vede la versione CLASSIC con la scocca interamente realizzata in materiale espanso rigido (polipropilene rinforzato con fibra di vetro tinto in massa con stampaggio ad iniezione) superficie laccata lucida nei colori Bianco, Nero o Rosso oltre alla variante PANTON RE-EDITION, con superficie opaca e finitura satinata nei colori: Bianco, Nero, Rosso, Giallo, Blu, grigio ghiaccio, mandarino, rosso, chartreuse. La Panton Chair ha vinto diversi premi di design a livello mondiale ed è presente nella collezione di molti musei di fama mondiale. Icona di design la sedia offre grande confort grazie alla sua forma anatomica e ai materiali flessibili. Può essere utilizzata da sola o in gruppo e anche all’aperto in quanto la scocca è trattata anche per prevenire il precoce sbiadimento.

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FONTI: CAP. 05 – GLI ANNI ‘60 E I MAESTRI DEL DESIGN ITALIANO

http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1711/825991-126302.pdf?sequence=2 Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007 http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1711/825991-126302.pdf?sequence=2

CAP. 05.1 – LE MATERIE PLASTICHE: KARTELL

Valentina Croci , Il boom economico italiano e la produzione in grande serie, in Design Italiano del XX secolo, Arte Dossier , Inserto redazionale allegato al n. 244 maggio 2008, Giunti Maurizio Vitta – Il progetto della bellezza, il design fra arte e tecnica 1851-2001

CAP. 05.2 – MARCO ZANUSO

http://creativepeoplelab.blogspot.it/2013/04/marco-zanuso-il-mercoledi-dautore.html https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Zanuso Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

CAP. 05.3 – VICO MAGISTRETTI

https://it.wikipedia.org/wiki/Vico_Magistretti http://www.vicomagistretti.it/it/la-vita/biografia Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

CAP. 05.4 – I FRATELLI CASTIGLIONI

https://www.milanofree.it/milano/personaggi/i_fratelli_castiglioni_il_design_milanese_di_fama_internazionale.html http://www.arte.rai.it/articoli/libertà-e-ironia-il-design-dei-fratelli-castiglioni/16467/default.aspx

FOCUS

http://www.eyeondesign.it/sedia-selene-di-vico-magistretti-per-artemide/ http://catalogo.living.corriere.it/catalogo/prodotti/Artemide/Selene.shtml http://magazine.designbest.com/it/design-culture/oggetti/panton-chair/

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06.

GLI ANNI ‘70 E IL DESIGN RADICALE

Dalla fine degli anni Sessanta incominciò a farsi strada l’idea che il linguaggio delle cose costituisse, al di la degli aspetti strutturali, la reale frontiera di una cultura progettuale inserita nella dinamica sociale con connotazioni più o meno negative. In opposizione all’equilibrio, alla misura, alla sottigliezza formale che avevano caratterizzato l’opera dei moderni progettisti italiani, ci si avventurò verso un fascinoso disordine calcolato. Ci si ispirò alla Pop Art americana e al gigantismo dei suoi oggetti quotidiani; si lessero i manifesti della nuova estetica architettonica, come “Learning from Las Vegas” di Robert Venturi e Denise Scott Brown del 1972; si ricercarono nella cultura di massa le nuove ideantità degli spazi, delle cose e delle immagini. Da un lato si invocò il principio dell’antiserialità e dell’anticonsumismo; dall’altro la polemica contro il consumismo si trasformò nell’esaltazione dell’oggetto come puro elemento di consumo. L’origine del Radical design va cercato nell’esperienza di alcuni giovani designer di “opposizione” che, in linea con le lotte politiche e studentesche ha animato il 1968, cercando di emergere attraverso la progettazione di oggetti ironici ed eccentrici nei linguaggi e nelle forme e innovativi nelle funzioni d’uso. Oggetto della contestazione è la produzione del desi-

gn Razionalista, dominante in questo periodo, rappresentata dai grandi nomi dell’italian style che vanno affermandosi nel mondo. Il Radical design, detto anche Anti-design, si diffonde inizialmente a Firenze con i gruppi Archizoom e Superstudio, si espande influenzando Milano, l’Europa ed infine tutto il panorama internazionale. Spunti e modelli di riferimento sono la Pop art, le avanguardie artistiche (cui il design Radicale riconduce, almeno nella sua prima fase) e il lavoro di Ettore Sottsass che fa della materia e del colore strumenti essenziali del progetto, chiamato a comunicare emozioni. Dal 1970 il design radicale trova ampio spazio nelle pagine della rivista Casabella, diretta da Alessandro Mendini che aderisce al movimento. Tra gli altri designer che sposano la vocazione sperimentale e il compito di trasformazione dei modelli culturali dei radicali anche Gaetano Pesce, Buti, Strum, Dalisi e Raggi, tutti presenti alla mostra Italy: the new domestic landscape allestita al MoMa di New York nel 1972. Il movimento si esaurisce infine verso la fine degli anni Settanta, quando Alchimia ed in particolare il gruppo Memphis, con Sottsass e Andrea Branzi (già fondatore del gruppo fiorentino Archizoom) opereranno nel design del mobile una rivoluzione epocale.

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“Dei bravi ragazzi, abbastanza cattivi per non Lasciarsi inibire dai vecchi discorsi .” ETTORE SOTTSASS


06.1 ARCHIZOOM ASSOCIATI Archizoom Associati è un gruppo costituito a Firenze nel 1966 da 4 architetti: Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi che opera nel campo della cosiddetta “architettura radicale”. Archizoom firma una ricca serie di progetti di design, abiti, architettura e di visioni urbane a scala territoriale. Nel 1968 si aggiungono i designer Dario e Lucia Bartolini. Nel 1967 progettano la mostra “Superarchitettura” a Pistoia e nel 1968 a Modena e sempre nello stesso anno alla Triennale di Milano, diretta da Giancarlo De Carlo, progettarono il “Center of Eclectic Cospiracy”. La loro esperienza inizia presso la Facoltà di Architettura di Firenze, quando si delineano molte delle problematiche che caratterizzeranno le loro opere successive, dalla megastruttura alla città utopica, ad un tipo di design che contesta quello convenzionale insegnato in facoltà. L’analisi di inediti schizzi di studio, progetti, modelli, prototipi e oggetti dimostra come, in un arco di tempo brevissimo, gli Archizoom abbiano saputo farsi interpreti originali di alcune delle istanze fondamentali del dibattito internazionale. Il gruppo incarna l’idea di un’architettura e di un design policromi e festosi, definibili come “Pop”, che si affermano alla mostra della “Superarchitettura” del 1966, e la successiva ricerca di altri orizzonti culturali e figurativi. A partire dal 1967 gli Archizoom iniziano a produrre immagini molto

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diverse da quelle della “Superarchitettura”. Infatti, i riferimenti pop diventano più espliciti e si mescolano ad uno spiccato avvicinamento all’opera dei giovani artisti dell’Arte Povera. I due gruppi, infatti, avevano in comune la passione per i ready made di Duchamp. Passione confermata dall’interesse per gli oggetti di scarto, impuri e volgari, tratti dalla banale cronaca quotidiana, usati per realizzare oggetti e complementi di design. In quel periodo gli Archizoom tendevano a creare pattern che rimandassero all’aspetto del marmo o delle pietre preziose, ed in generale iniziavano ad esplorare le qualità del falso. Era infatti falsa anche la pelle di leopardo di cui era rivestito il divano Safari (Poltronova, 1967), che già da quegli anni veniva riconosciuto come un pezzo cult del design per la sua linea provocatoria e accattivante. Ancora una volta qui veniva ripresa l’idea dell’onda, dal cui profilo derivava la forma dello schienale. Si trattava anche in questo caso, come in Superonda, di una seduta multipla, divisa in quattro parti, componibile in circolo o con le sedute rivolte verso l’esterno, come veniva mostrato su “Domus”. Sulla sua reclame gli stessi Archizoom lo descrivevano come: “Un pezzo imperiale nello squallore delle vostre pareti domestiche. Un pezzo più bello di voi che non meritereste. Sgombrate il vostro salotto! Sgombrate anche la vostra vita!”. Safari era effettivamente un pezzo di design notevole, appariscente e volgare, un vero “cavallo di Troia”. Il cavallo di Troia secondo loro non era altro che quell’og-

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getto talmente accattivante che a prima vista colpiva l’acquirente, il quale lo portava a casa, ignaro del fatto che questo non avrebbe fatto altro che sconvolgere il suo soggiorno borghese e le sue stesse abitudini. Questa messa in crisi non sarebbe stata utile se non a stimolare l’interlocutore ad avere un approccio creativo verso l’oggetto. Le qualità della seduta venivano comprese subito dalla critica, che scriveva: “Sedendocisi prima si ride, poi si fantastica, poi si gioca al teatro. II mobile è infatti un piccolo palcoscenico e in esso ognuno può cercare quel personaggio che più aderisce ai suoi riposti desideri senza complessi di colpa, poiché il mobile li cancella tutti nel momento in cui offre la dimensione dell’ironia e si presenta nelle vesti di questa”. In questi progetti gli Archizoom iniziavano i loro tentativi di mescolanza di riferimenti iconografici, tendenza che avrebbero soprannominato eclettica e che avrebbe fatto largo uso del kitsch, visto dai componenti del gruppo come realtà culturale e sociale di grande importanza, con la quale era necessario confrontarsi. L’attività di Archizoom abbraccia molti settori della creatività e della progettazione, dal disegno di oggetti, all’abbigliamento, dal design del mobile alle grandi proposte a scala urbana, un patrimonio che interpreta gli ideali di una generazione che crede in una umanità liberata dai vincoli dell’architettura, la lotta per affermare concetti culturali alternativi, sperando in uno stile di vita anticonformista e di totale libertà. La ricerca di Archizoom culmina nella

«No-Stop-City», una delle visioni più enigmatiche e radicali della città del futuro, senza confini, illuminata artificialmente e areata dall’aria condizionata. Per utilizzare e popolare Nostop-City, Archizoom hanno ideato e realizzato mobili multifunzionali e abbigliamento per gli abitanti dell’ambiente altamente artificiale. Con i loro progetti architettonici, Archizoom volevano dimostrare, tra l’altro, che se il Razionalismo veniva portato agli estremi diveniva illogico e di conseguenza anti-razionale.

“Archizoom sono stati la dimostrazione pratica di una rottura definitiva con il passato, ovvero con il funzionalismo e l’estetica razionalista. Con i loro progetti hanno saputo portare l’arte nei singoli pezzi di design e di conseguenza nelle case della gente. Hanno rotto gli schemi riprendendo stili superati o aboliti dalla scuola razionalista come l’animalier e il kitsch, mixando forme, fantasie e colori per ribellarsi alla staticità del movimento moderno.”

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“La fine dell’architettura non e’ nella ‘architettura sull’architettura’, ne’ nelle possibili evasioni di metaprogetto o di ritiri spirituali. La fine dell’architettura e’ solo quella di un’alba, che ormai sappiamo possibile, con un gran fungo luminoso.” SUPERSTUDIO


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SUPERSTUDIO

Superstudio fu fondata nel Dicembre 1966 a Firenze da Adolfo Natalini (1941) e Cristiano Toraldo di Francia (1941) inizialmente per condurre ricerche teoriche sull’urbanistica e la progettazione di sistemi. L’anno della sua costituzione coincise con la più grave inondazione del fiume Arno a memoria d’uomo, due eventi che in un certo senso diventarono simbolo della fine della cultura tradizionale. Superstudio, infatti, mise in discussione la validità del Razionalismo nel design e cercò di sostituire alla città come sistema di gerarchie sociali un “nuovo stato libero ed egalitario”. I suoi provocatori progetti di “super strutture”, come “il Monumento Continuo” (1969), rimandavano a un mondo ideale senza prodotti di consumo in cui l’architettura sarebbe stata funzionale, autodistruttiva, oppure simbolica. Il gruppo partecipò alle due mostre di “Superarchitettura” tenute a Pisa e a Modena, rispettivamente nel 1966 e 1967, e nel marzo 1970 collaborò con il gruppo 9999 all’apertura della Scuola separata per l’architettura concettuale espansa (o Scuola senza spazio). All’inizio degli anni ‘70 si unirono al gruppo Alessandro Magris (1941-2010), Roberto Magris, Piero Frassinelli e Alessandro Poli. Nel 1972 Superstudio partecipò alla mostra “Italy: The New Domestic Landscape” tenuta al Museum of Modern Art di New York, nella sezione “Counterdesign as Postulation”. L’opera di Superstudio, che usò

spesso motivi a griglia simboleggianti l’infinito, ha svolto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del Radical Design. “Il Superstudio è stato un movimento situazionista che ha usato gli strumenti classici dell’architettura (disegni e progetti) per esercitare la critica non solo all’architettura e alle sue idee correnti, ma anche alla società. Il Superstudio ha usato gli artifici retorici della metafora e dell’allegoria e gli strumenti dell’ironia e dell’immaginazione muovendosi nella terra di nessuno tra arte e architettura per tentare incursioni nel campo della politica, sociologia e filosfia. Per questo è stato una vera avanguardia, usando questo termine militare nel senso che gli è proprio: un gruppo che avanza distruggendo le prime difese dei nemici, sacrficandosi per aprire la strada al grosso dell’esercito. Cercavamo di distruggere il sistema esistente per preparare le condizioni per l’instaurazione di un nuovo sistema libero dalle divisioni, dal colonialismo culturale, dalla violenza e dal consumismo. Inseguivamo l’utopia di un mondo liberato e di una vita liberata dal lavoro, una “vita senza oggetti”. I nostri lavori come il Monumento Continuo e Le Dodici Città Ideali usavano l’utopia negativa, altri come gli Istogrammi additavano una via di razionalità e minimalismo, altri, come gli Atti fondamentali erano una meditazione esistenziale. Nel 1973 abbiamo ritenuto concluso il nostro compito d’avan-

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guardia. Non avevamo vinto la guerra ma solo qualche battaglia. Abbiamo pensato che era finito il tempo della distruzione e che doveva iniziare quello della ricostruzione. Così con i nostri amici e con gli studenti dell’Università (la facoltà di Architettura di Firenze aveva già 13.000 studenti il 60% dei quali provenivano da altri paesi fuori dalla Toscana) abbiamo iniziato un tentativo di rifondazione antropologica dell’architettura, indagando gli oggetti semplici della vita di ogni giorno e la cultura materiale extra-urbana. Abbiamo cercato le radici della creatività e quelle della necessità. Abbiamo indagato i bisogni elementari e i desideri (i sogni). In fine nel 1979 ho pensato che il tempo dell’apprendistato, della ricerca e dello studio fosse finito (avevo 38 anni) e ho deciso di diventare un architetto normale. Il Superstudio è esistito come gruppo fino al 1986, quando ha celebrato i suoi vent’anni (un tempo lunghissimo per un gruppo di avanguardia) sciogliendosi. E’ impossibile restare giovani per sempre.” (Adolfo Natalini, Superstudio a Middelburg: dall’avanguardia alla resistenza, 18.09.04)

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“Le mie esperienze di design tentano un collegamento evolutivo tra la realta’ attuale e quella futura.” JOE COLOMBO


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JOE COLOMBO

Joe Colombo (Milano, 31 luglio 1930 – 31 luglio 1971) è stato un designer e architetto italiano. Nei primi anni Cinquanta entra nel gruppo di pittura nucleare con Enrico Baj. Studia all’Accademia di Belle Arti di Brera e al Politecnico di Milano. Nel 1961, abbandonata la professione di scultore e pittore, apre uno studio di design a Milano. Nel 1964, alla XIII Triennale di Milano ottiene la Medaglia d’Oro. Partecipa alla XIV Triennale di Milano, in cui in uno spazio interamente dedicatogli, espone nuove proposte di design d’interni, tra cui il celebre Sistema programmabile per abitare. Joe Colombo è una figura italiana, tra le più importanti del panorama internazionale di design, profondamente proiettata verso futuro. Un progettista inarrestabile e iperproduttivo. Mobili polifunzionali, sedie, lampade, macchine fotografiche, bagni, cucine, auto, orologi, bicchieri, stand pubblicitari, città nucleari sotterranee…nulla si sottrasse alla sperimentazione di Colombo. Morto prematuramente (a soli 41 anni), Joe Colombo è considerato come il genio del design; un visionario che definiva il proprio lavoro così: “Le mie esperienze di design tentano un collegamente evolutivo tra la realtà attuale e quella futura“. Un connubio tangibile in tutti i suoi prodotti, soprattutto se pensiamo ai modelli abitativi multifunzionali (che all’epoca trascendevano da qualunque logica progettuale) volti a rendere superflui gli

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arredi convenzionali e combinarli per produrre una nuova forma di “equipaggiamento” capace di offrire il massimo confort e la massima funzionalità. Ricerca dei materiali, flessibilità e modularità sono alcune delle caratteristiche chiave delle opere di Colombo, elementi ben riconoscibili nelle poltrone Tube Chair e Multi Chair che, attraverso semplici combinazioni si prestano ad infiniti usi. Tube Chair (1970), in particolare, è una delle sedie progettate da Joe Colombo, interessanti anche dal punto di vista del packaging, definibile quasi sostenibile. E’ infatti costituito da un unico “tubo”, all’interno del quale sono infilati gli altri tre tubi che formano la sedia. Minimo ingombro, per una sedia morfologicamente camaleontica. Forse la seduta che più lo rappresenta sarà, purtroppo, una delle sue ultime creazioni. Moltissimi dei suoi prodotti, all’epoca futuribili, oggi, a trentasette anni di distanza, continuano ancora a vivere nel nostro quotidiano, carichi di storia, di emozioni, di stile e di vita.

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FOCUS

TUBE Designer: Joe Colombo 1969 Materiali: struttura in PVC; imbottitura in poliuretano espanso; rivestimento in tessuto elastico.


TUBE

JOE COLOMBO

La Tube chair è una seduta progettata dal designer italiano Joe Colombo nel 1969 e attualmente prodotta dall’azienda italiana Cappellini Cap Design s.p.a. Si tratta di uno dei primi e più famosi esperimenti di modularità e flessibilità applicati all’arredamento e uno dei più rilevanti oggetti di disegno industriale degli anni sessanta e del design italiano. La poltrona fa parte della collezione permanente di diversi musei fra cui il Triennale Design Museum di Milano, il MoMA e il Metropolitan Museum of Art di New York. La seduta nasce in un periodo di forte cambiamento e rivoluzione nella storia della progettazione e incarna pienamente lo spirito creativo, libero e spregiudicato degli anni sessanta. In questo elemento d’arredo s’incarna completamente la filosofia anticonformista di Joe Colombo, autodefinitosi “anti-designer”; il concetto di seduta viene completamente destrutturato: schienale e sedile hanno la stessa forma e ogni elemento è intercambiabile a discrezione di chi la utilizza. La seduta prende quindi del tutto le distanze dal design razionalista italiano e abbraccia pienamente una nuova corrente di pensiero che stava esplondendo proprio in quegl’anni nel Bel Paese: il design radicale. Tube Chair è composta da quattro cilindri concentrici cavi di diverso diametro, realizzati in PVC e imbottiti in gommapiuma a sua volta rivestita in tessuto elastico, similpelle o pelle, i tubi

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vengono assemblati fra loro tramite dei ganci a morsetto. Si tratta di una poltrona componibile formata da quattro moduli cilindrici cavi di diverse dimensioni che possono essere posizionati a piacere al fine di ottenere una seduta idonea alla posizione pensata dall’utilizzatore. L’imballaggio è pensato per minimizzare al meglio gli ingombri; la poltrona, infatti, si presenta con i quattro moduli uno dentro l’altro; una volta sfilati i moduli e posizionati nel punto desiderato, questi vengono fissati attraverso dei ganci. Originariamente i cilindri venivano venduti all’interno di un sacco in tela chiudibile con una corda (come quella dei sacchi a pelo) al fine di poterla trasportare ovunque. La seduta non solo permette una notevole personalizzazione (unendo più poltrone si possono ottenere anche soluzioni molto articolate) ma coinvolge anche l’utilizzatore nella creazione della stessa, aumentando il rapporto di affinità fra l’oggetto e l’indivuduo ma anche fra quest’ultimo e l’ambiente in cui vive.

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FOCUS

PRATONE Designer: Gruppo Strum (Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso) 1971 Materiali: poliuretano espanso rivestito in vernice lavabile Guflac.


PRATONE

GRUPPO STRUM

Pratone è un oggetto di disegno industriale progettato dai designer italiani Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso nel 1971 e messa in produzione nello stesso anno dall’azienda italiana Gufram. Si tratta di un prodotto molto rilevante nella storia del design italiano, è esposto in moltissimi musei d’arte moderna e di design (come per esempio al MART di Rovereto ma anche al PLART di Napoli), fa parte della collezione permanente del Triennale Design Museum di Milano, dove è stato esposto durante la 4ª edizione di quest’ultimo “Le fabbriche dei sogni” nel 2011. Si tratta di un oggetto che ruota attorno al concetto di massima espressione di creatività, eccentricità e creatività a discapito anche di esigenze funzionali. Non a caso Pratone oltre ad essere un’insolita seduta, dove l’utilizzatore si abbandona sdraiandosi in modo del tutto non convenzionale tra gli enormi morbidi fili d’erba che la compongono, è principalmente un’opera d’arte contemporanea decorativa, che racchiude quindi tutto il concetto di inutilità che porta con sé il termine “arte”. La seduta è comunque funzionale nel suo scopo, permette quindi di raggiungere una posizione comoda anche se insolita. Pratone rappresenta una dissacrante idea progettuale, lontano anni luce dalle tipologie usuali dell’arredamento borghese degli anni ’70 è diventato a sua volta un parametro di riferimento nella storia

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del design. Lunghi steli verdi tra cui sprofondare e sdraiarsi, una seduta non convenzionale, una chaise longue fuori dagli schemi, una porzione di giardino volutamente fuori scala. Pur essendo stato concepito con una precisa attitudine seriale tanto da essere modulabile e componibile per ricreare un intero e spensierato campo verde tra le grigie mura domestiche, Pratone a tutti gli effetti è un progetto radicale, icona della rivoluzione culturale dell’anti-design. Si tratta di un oggetto per il riposo singolo e collettivo, momentaneo, instabile, sempre da conquistare per l’elasticità del materiale. Partendo da due misteri contrapposti, l’erba come riferimento biologico e il materiale di produzione industriale come presenza artificiale, questa seduta, si pone nell’ambito delle ricerche formali volte a liberare la gente da alcuni condizionamenti del suo comportamento abituale. Pratone è realizzato in un unico materiale, si tratta infatti di un unico pezzo in poliuretano espanso, schiumato a freddo e rivestito in vernice lavabile brevettata dalla Gufram stessa, denominata “Guflac”. Il materiale ha una densità tale che permette agli steli di avere ottime proprietà meccaniche soprattutto per quanto riguarda la loro deformazione elastica. Gli steli infatti riprendono facilmente la forma iniziale dopo l’utilizzo. Si presenta come una grande porzione di prato i cui lati ondulati permettono di accoppiare più pezzi creando un vasto prato verde artificiale di grandi dimensioni; dalla base quadrata di ogni singolo pezzo si innalzano spessi fili d’er-

ba sagomati orientati in modo diverso gli uni rispetto agli altri con una certa logica. Di colore verde molto vivace, Pratone è diventato presto un’icona dell’arredamento “pop” degli anni settanta e seguenti. Nel 2016 Gufram presenta il suo primo ed ultimo prodotto scandinavo: Il Nordic Pratone, in edizione limitata di 50 esemplari, rientra nella serie di progetti speciali realizzati da Gufram proprio in occasione del suo cinquantesimo compleanno.

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FOCUS

CAPITELLO Designer: Studio 65 1972 Materiali: poliuretano espanso rivestito in vernice lavabile Guflac.


CAPITELLO

STUDIO 65

Cosa capita se una maestosa colonna greca cade e si frantuma in diversi pezzi? La risposta è ovvia: si trasforma in un salotto Gufram. I resti infatti sono reperti archeologici contemporanei che danno vita ad un sistema di sedute componibili dall’estetica neoclassica e dall’attitudine Pop che possono esistere come elementi singoli o da combinare tra loro. Questo antico archetipo dell’architettura realizzato in poliuretano diventa così una serie di oggetti di design industriale dalla consistenza morbida e dall’ergonomia accogliente. La voluta ionica, parte superiore della colonna, chiamata non a caso Capitello, diventa una sontuosa chaise longue. La sezione trasversale prende il nome di Attica, l’irriverente poltroncina con il cuscino a pois bianco e nero. Il tronco che sta alla base con la sua forma cilindrica rastremata è il tavolino Attica TL con piano bifacciale in vetro, da un lato opaco e dall’altro finito a specchio. Se poi per il gusto di un’autoironica autocelebrazione volete esibire in casa un reperto archeologico di design, grazie alla leggerezza dei singoli pezzi, potete impilarli di nuovo uno sull’altro e ricomporre così la Colonna intera nella sua monumentale e giocosa fierezza.

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FONTI: CAP. 06 – GLI ANNI ‘70 E IL DESIGN RADICALE

http://design.repubblica.it/timeline/nasce-il-radical-design/ http://www.ca.archiworld.it/riviste/riviste/rivista_arch/anno_2004/luglio/pag%2026-28.pdf Maurizio Vitta – Il progetto della bellezza, il design fra arte e tecnica 1851-2001

CAP. 06.1 – ARCHIZOOM

http://www.designindex.it/designer/design/archizoom-associati.html http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1711/825991-126302.pdf?sequence=2

CAP. 06.2 – SUPERSTUDIO

https://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/1463_2015_406_23241.pdf https://it.wikipedia.org/wiki/Superstudio http://www.domusweb.it/it/dall-archivio/2012/02/11/superstudio-progetti-e-pensieri.html

CAP. 06.3 – JOE COLOMBO

https://it.wikipedia.org/wiki/Joe_Colombo http://www.architetturaedesign.it/index.php/2008/01/17/joe-colombo-design-italiano.htm#more-882

FOCUS

https://it.wikipedia.org/wiki/Tube_Chair https://it.wikipedia.org/wiki/Pratone http://www.gufram.it/it/gufram-pratone-ceretti-derossi-rosso.php http://www.gufram.it/it/gufram-capitello-attica-atticatl-studio65.php

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07.

IL POSTMODERNO

Il Postmodernismo viene identificato come il periodo storico compreso tra gli anni ‘70 e ‘90, un periodo segnato dai controversi tentativi di definire i nuovi scenari culturali dopo le grandi stagioni delle avanguardie moderne. Il concetto di Postmodernismo nasce a partire dai primi anni Settanta nel dibattito architettonico europeo, per giungere poi a influenzare ogni settore della cultura, e in particolare le arti visive, l’industria musicale e cinematografica, la grafica e la moda italiani. Nel Postmoderno o Postmodernismo nascono una serie di idee radicali sviluppate in forte contrapposizione alle ortodossie del Modernismo: un ribaltamento dei concetti di purezza e semplicità, da sostituire con nuove forme e cromatismi, citazioni storiche, parodie, ma soprattutto con un nuovo senso di libertà associato all’architettura e al design. La corrente postmoderna rappresentò una svolta rispetto al determinismo delle idee moderne, ne mise in discussione le certezze assolute e aprì maggiori possibilità di alternative ideologiche rispetto al progetto architettonico. Il contatto con il razionalismo rimaneva comunque inevitabile: la differenza risiedeva nell’impiego delle forme stereometriche ereditate. Nell’ambito dell’architettura radicale, per esempio, le forme di Ettore Sottsass ebbero una grande influenza ma rispetto a contenuti diversi dal geometrismo moderno. La rivoluzione della

funzione simbolica del progetto diventa negli anni Ottanta uno dei motivi principali della riaffermazione del design italiano. Sono proprio gli ex designer dell’avanguardia radicale (Branzi, Deganello, De Lucchi, Mendini, Sottsass, ecc.) a fornire nuovi incentivi alla produzione industriale e alle vendite. L’idea è quella di abbandonare il razionalismo per dare possibilità alternative che trovino una vera e propria applicazione; non ci si vuole fermare a sole proposte di ricerca ma arrivare anche alla produzione di oggetti ad alto contenuto tecnologico. Nello stesso tempo è sollecitata una nuova unione tra ornamento e progetto, la poltrona Proust di Mendini è un esempio di questi tentativi (il Razionalismo aveva espulso l’ornamento dall’architettura e dal progetto in generale). Negli anni ’80 una mostra itinerante – Memphis – che raccoglie numerosi pezzi di design italiano postmoderno è esposta nei maggiori musei d’arte contemporanea del mondo ed ottiene un grande interesse di pubblico. È la definitiva messa in crisi del codice funzionalista. Il nuovo design italiano non si rifà alla citazione classicheggiante, come avviene nell’architettura americana, ma guarda alla tradizione moderna delle avanguardie, dal futurismo al Bauhaus. Fondamentale è l’esperienza di gruppi come Alchimia e Memphis e di artisti che sposano in modo decisamente provocatorio la causa del kitsch.

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“L’arredamento della nostra casa diventa il teatro della vita privata, quella scena dove ogni stanza permette il cambiamento, la dinamica degli atteggiamenti e delle situazioni: e’ la casa palcoscenico.” ALESSANDRO MENDINI


07.1 ALESSANDRO MENDINI E LO STUDIO ALCHIMIA

Alessandro Mendini (Milano, 16 agosto 1931) è un architetto, designer e artista italiano. Nel 1959 si laurea in architettura e lo Studio Nizzoli Associati è il suo primo luogo di lavoro. Nel 1970 abbandona la progettazione architettonica per dedicarsi al giornalismo specializzato in architettura e design. Dirige la rivista Casabella dal 1970 al 1976 e l’anno successivo fonda “Modo” che guida fino al 1979. E’ Giò Ponti, quello stesso anno, a consegnargli la direzione di Domus, incarico che prosegue sino al 1985. A distanza di 25 anni, da marzo 2010 ha ripreso per un periodo la direzione della rivista. Negli anni Settanta Mendini prende parte a gran parte delle esperienze di radical design che vedono la luce in questo periodo. Nel 1973 è tra i fondatori di Global Tools, un gruppo che fa parte del controdesign e si oppone con forza alla tradizione. Nel 1979 entra nello Studio Alchimia, che punta alla creazione di oggetti con riferimenti alla cultura popolare e al kitsch, al di fuori della produzione industriale e della loro funzionalità. Mendini dalla fine degli anni settanta è tra i rinnovatori del design italiano sia come intellettuale e autore di scritti, sia come membro autorevole del gruppo Alchimia. Molto conosciuti sono anche i suoi mobili tra i quali la collezione “Museum Market” del 1993 e la

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poltrona Proust esposta in diverse collezioni permanenti quali il triennale Museum design e il Museo delle arti di Catanzaro. Riceve per la sua attività di designer molti premi tra cui tre volte il Compasso d’oro nel 1979, nel 1981 e nel 2014. Ha diretto molte riviste di primaria importanza di architettura tra le quali Domus, Casabella. Per il valore della sua opera è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres in Francia. Ha ricevuto l’onorificenza dell’Architectural League di New York , la laurea honoris causa al Politecnico di Milano e the European Prize for Architecture Awards nel 2014. Nel 1989 apre, con il fratello Francesco, l’Atelier Mendini a Milano. Realizza oggetti, mobili, ambienti, pitture, installazioni, architetture. Collabora con aziende internazionali come Magis, Alessi, Philips, Cartier, Bisazza, Swatch, Hermès, Venini ed è consulente di varie industrie, anche nell’Estremo Oriente, per l’impostazione dei loro problemi di immagine e di design. Ha collaborato con l’azienda Samsung con lo scopo di creare alcune watchfaces per il loro smartwatch di punta: il Gear S2. Nel 1976 Alessandro e Adriana Guerriero fondano a Milano lo Studio Alchimia, primo esempio di progettisti produttori. Nel 1978 e 1979 presentano le collezioni Bau haus e Bau haus II. Lampade, poltrone, sedie, tavolini, armadi, eccetera. Autori coinvolti: Alessandro Mendini, Ettore Sottsass, Bruno e Giorgio Gregori, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, UFO, Paola Navone, Daniela Puppa, Franco Raggi. Materiale decorativo prevalen-

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ALESSANDRO MENDINI, Proust Geometrica


te il laminato plastico. La cultura dello studio Alchimia, derivata da quella del contro-design italiano (rivista Casabella) modifica alla base tutte le precedenti teorie del design, provocando un cambiamento radicale e profondo della mentalità degli architetti. Alfabeti Visivi, Redesign, Design Banale, Cosmesi, Robot Sentimentale sono gli slogan che sottendono alla esuberante e vastissima produzione della Città Alchimia. Nel Manifesto teorico del gruppo, Alessandro Mendini scrive “Per Alchimia le discipline non interessano in quanto sono considerate all’interno delle loro regole. Anzi, è importante indagare nei grandi spazi liberi esistenti fra di esse. Per Alchimia vale l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione confusi, dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali.” Sono oggetti artigianali, di recupero, di massa, improbabili, provocatori, Kitsch, tutti molto carichi di teoria. Si lavora e si sperimenta su molti settori: la Pensione Ideale (Franco Raggi), le Copertine di Domus (Occhiomagico), l’Abito Sonoro e la performance di Persone Dipinte (Anna Gili), lo Stilismo della moda (Cinzia Ruggeri). Nasce il design Neo-moderno, il nuovo design italiano. Il Mobile Infinito nel 1981 annulla per eccesso sia le tipologie che la firma stessa dei progettisti, entrando con i Magazzini Criminali nella sperimentazione teatrale. Le attività emozionali, psichiche e antropologiche si espandono ai libri, didattica, video (Metamorfosi) e suoni (Matia Bazar). Nel 1982 Alessandro Guerriero è

socio fondatore di Domus Academy e nel 1984 inizia una Nuova Alchimia con il marchio Zabro. E’ Aurelio Zanotta che favorisce questa collezione di carattere post industriale. Nel 1992 la romantica attività di Alchimia viene conclusa.

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“Memphis non era il prodotto di artisti, in Memphis non si parlava mai di arte, si parlava di design... che poi le cose che disegnavamo non servissero a nessuno,e’ un’ altro problema, perche’ forse sognavamo delle vite diverse da quelle che normalmente si vivono. O forse pensavamo di produrre energia intorno, energia intellettuale, che so io...” ETTORE SOTTSASS


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GRUPPO MEMPHIS

Memphis, noto anche come Gruppo Memphis, Memphis Design o Memphis Milano, è stato un collettivo italiano di design e architettura fondato da Ettore Sottsass, attivo tra il 1981 e il 1987. Il gruppo emerse come uno dei massimi esponenti della scena postmodernista degli anni 1980, grazie a progetti audaci che traevano spunto dal design passato e presente; suoi tratti distintivi furono il ricorso a colori vivaci e forme geometriche, con un sapiente recupero del kitsch. La genesi di Memphis affondò le sue radici nell’approccio sperimentale al disegno industriale che Ettore Sottsass e Michele de Lucchi avevano portato avanti, alla fine degli anni 1970, durante la loro esperienza all’interno dello Studio Alchimia e la contemporanea vicinanza ai concetti del design radicale. Il collettivo vero e proprio nacque da un incontro informale organizzato da Sottsass nella sua casa milanese l’11 dicembre 1980, per discutere generalmente di nuove forme espressive legate al design; assieme a de Lucchi, parteciparono all’invito i colleghi Aldo Cibic, Matteo Thun, Marco Zanini e Martine Bedin. Insieme, decisero di creare un gruppo di lavoro come reazione allo stile di design che aveva caratterizzato gli anni ‘70, molto minimalista, ritenuto senza personalità e contraddistinto da un aspetto patinato nonché da colori poco brillanti, nero in primis. Il nome del gruppo venne ispirato

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da una canzone di Bob Dylan, Stuck Inside of Mobile, più volte ascoltata nella serata, e che durante la riproduzione si era inceppata sulla frase «with the Memphis Blues Again»; questo venne scelto per le sue diverse implicazioni, dato che era sì il nome della città natale di Elvis Presley (Memphis) ma anche della capitale dell’Antico Egitto (Menfi), evocando così delle ironiche suggestioni tra alta e bassa cultura. Al successivo incontro, avvenuto nel febbraio 1981, i membri del gruppo si presentarono con un centinaio di disegni di mobili e altri oggetti, tutti con linee audaci e molto colorati. L’ispirazione venne da movimenti come l’art déco e la pop art, il kitsch degli anni 1950 e da temi futuristici, oltre che dalla cultura di massa e dalla vita quotidiana: i loro concetti erano in netto contrasto con il cosiddetto “good design”. Contro il minimalismo degli anni ‘70, il Gruppo Memphis mise al centro della sua opera un’espressione insieme pop e concettuale dell’arredo: attraverso oggetti concreti, forme geometriche e colori accesi, utilizzando nuovi materiali e sperimentando nuovi pattern, il Gruppo Memphis riuscì a ribaltare i limiti imposti dalle logiche industriali allora dominanti. Del gruppo facevano parte, tra gli altri, architetti e designer quali Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Nathalie du Pasquier, Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shiro Kuramata, Javier Mariscal e George Sowden, oltre alla giornalista Barbara Radice. Memphis, che intanto aveva eletto Ernesto Gismondi suo presidente, entrò quindi

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in contatto con aziende produttrici di mobili e ceramiche e, il 18 settembre 1981, tenne la sua prima mostra alla galleria d’arte Arc ‘74 di Milano, in cui vennero esposti orologi, mobili, lampade e oggetti in ceramica; tra i più noti, le librerie Carlton e Casablanca nonché l’armadio Beverly dello stesso Sottsass, le sedie Oberoi di Sowden e la lampada Super lamp di Bedin. Nello stesso anno il gruppo pubblicò anche un libro, Memphis, The New International Style, che ne illustrava l’attività e la filosofia, e contestualmente iniziò a esporre in mostre organizzate in tutto il mondo da Radice, nel frattempo divenuta direttore artistico del gruppo. Molti degli oggetti erano rivestiti in laminato plastico, materiale considerato povero e scelto appositamente per la sua “mancanza di cultura”; il collettivo faceva anche ampio uso di vetro, e combinava il tutto con colori accesi e vivaci, texture e decorazioni volte a generare ottimismo. I suoi oggetti erano volutamente “non intellettuali”, ma una celebrazione invece della normalità e della banalità in una società di massa. Tra gli addetti ai lavori, il percorso intrapreso da Memphis produsse reazioni contrastanti, mentre il pubblico accolse positivamente le sue manifestazioni postmoderniste, in perfetta sintonia con la cultura post-punk dei primi anni 1980 che trovò germinazione anche nell’arte e nell’architettura di quel decennio. A differenza del freddo “buon gusto” fin lì imperante col modernismo, il nuovo e vivace linguaggio di Memphis colpì l’opinione pubblica, guadagnandosi l’atten-

zione e le copertine delle maggiori riviste del pianeta. Nonostante il successo, il movimento era già stato concepito come un qualcosa di fugace e senza futuro. Sottsass lasciò il collettivo da lui fondato già nel 1985 e, esaurito il suo scopo — ovvero quello di contrastare con uno stile molto aggressivo il design minimale dell’epoca, influenzando lo sviluppo di quello moderno — il gruppo si sciolse definitivamente nel 1988. La breve esperienza di Memphis rimane comunque come una tappa importante nel processo d’internazionalizzazione del postmodern, avendo dato il “la” a un’intera generazione di designer che è poi rimasta alla ribalta nei decenni successivi. Gli oggetti prodotti dal collettivo sono tuttora ambiti dai collezionisti, tra cui lo stilista Karl Lagerfeld, e il disegno dei suoi oggetti continua a essere fonte d’ispirazione nei più svariati campi, in particolare nel design della moda — come accaduto per le collezioni di Christian Dior (2011), Missoni (2015) e Valentino (2017).

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“Volevo soltanto dire che al di la’ delle “istruzioni per l’uso”, gli strumenti e le cose sono, nella vita degli uomini, i mezzi con i quali essi compiono o cercano di compiere il rito della vita e se c’e’ una ragione per la quale esiste il design, la ragione – l’unica ragione possibile – e’ che il design riesca a restituire o a dare agli strumenti e alle cose quella carica di sacralita’ per la quale gli uomini possano uscire dall’automatismo mortale e rientrare nel rito.” ETTORE SOTTSASS


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ETTORE SOTTSASS

Ettore Sottsass junior (Innsbruck, 14 settembre 1917 – Milano, 31 dicembre 2007) è stato un architetto, designer e fotografo italiano. Figura eclettica e poliedrica, difficilmente inquadrabile secondo i canoni di un’estetica, più volte messa in discussione, in sessant’anni di carriera Ettore Sottsass è stato designer, architetto, urbanista, pittore, viaggiatore, fotografo. La sua ricerca artistica, etica ed esistenziale, l’ha portato a contatto col Razionalismo, il Movimento Arte Concreta, lo Spazialismo e la cultura Pop. Laureato in architettura al Politecnico di Torino nel 1939, inizia la sua attività a Milano, dove nel 1947 apre un proprio studio di design, campo nel quale opera, quasi esclusivamente, dal 1958. In questi anni inizia la sua collaborazione con la Olivetti (con quattro macchine da scrivere Olivetti ottiene il Compasso d’oro nel 1970), per la quale, nel 1972, progetta un sistema di mobili e di attrezzature per uffici, funzionalmente correlato all’uso delle varie macchine esistenti. Artista di molteplici interessi, svolge la sua ricerca e le sue esperienze in campi diversi dell’espressione. Pittore, fa parte del MAC (Movimento Arte Concreta), partecipando nel 1948 alla prima rassegna collettiva a Milano. Nello stesso anno è tra i promotori della mostra tenuta a Roma sull’Arte astratta in Italia; quindi, aderisce allo Spazialismo. Attivo nel settore della ceramica, dello smal-

to su rame, del gioiello, del vetro, nel 1975 ha disegnato originali forme di vetro colorato, eseguite, in limitata tiratura, dalla vetreria muranese Vistosi (per Artemide). È soprattutto nella progettazione dei mobili che la forza innovativa dell’ingegno di Sottsass non conosce ostacoli, facendo dell’architetto una figura centrale del design internazionale. In anticipo sugli anni della contestazione, egli aveva indicato il design come strumento di critica sociale, aprendo la via alla grande stagione del radical design (1966 - 1972) e all’affermazione della necessità di una nuova estetica: più etica, sociale, politica. Deluso da un’industria sempre più vorace, Sottsass programma l’unione delle coeve suggestioni avanguardiste, Pop, poveriste e concettuali, con l’idea di un design “rasserenante”, sostenitore di un consumismo alternativo a quello imposto dalla “società della pubblicità”. Dopo i lavori a forte carattere sperimentale per Poltronova - i Superbox, per esempio: armadi con grosse basi, rivestiti in laminato Print a righe, come segnali stradali o distributori di benzina - la vena utopica di Sottsass ha il suo apice in Italy: the new domestic landscape (1972), mostra del MoMA in cui la sottsassiana Micro Environment - casa ambiente” futurista e grigia - vuole “neutralizzare” una cultura regolata sui canoni del razionalismo: volevo che la casa diventasse un ambiente unico, dice

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Sottsass, e non diverse stanze come momenti diversi dell’esistenza. Quindi Sottsass passa all’esperienza del gruppo Alchimia, che concretizza il lavoro ideologico e progettuale svolto negli anni del radical design: un’alchimia di forma, colori, materiali che sconvolge i canoni estetici e il modo di concepire il design contro l’ornamento. Tra i mobili presentati nella prima mostra del gruppo, al Design Forum di Linz, nel 1979, si ricordano: la Seggiolina da pranzo (in ferro cromato e laminato Abet Print), la lampada da terra Svincolo (con neon rosa e azzurro), il tavolino Le strutture tremano (in legno, laminato, metallo smaltato e cristallo). E ancora l’esperienza straordinaria di Memphis, gruppo che Sottsass fonda con Hans Hollein, Arata Isozaky, Andrea Branzi, Michele de Lucchi ed altri architetti di caratura internazionale che cambiano il volto del mobile contemporaneo. “Memphis dona agli oggetti uno spessore simbolico, emotivo e rituale. Il principio alla base di mobili assurdi e monumentali è l’emozione prima della funzione”. È il caso della sottsassiana Carlton, una libreria che si pone a metà strada tra un totem e un video game. Una “risposta ludica alla necessità di avere forme solide e godibili: un modo per raccordare, non senza ironia, il sacro e il profano, la storia e l’attualità, l’archetipo e le sue manifestazioni”. Questi mobili - Beverly, Casablanca, ecc - disegnati tra il 1981 e il 1985 sono tra i suoi progetti più noti, vere icone della modernità. L’attività successiva di Sottsass è rivolta esclusivamente

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alla collaborazione con Gallerie d’Arte ed ormai lontana dalle problematiche dell’industrial design contemporaneo; esempi sono i mobili realizzati per la Galleria Blum Helman di New York e per la Galleria Mourmans. L’attività di Ettore Sottsass architetto va dai primi lavori in collaborazione con il padre agli inizi degli anni Cinquanta, al periodo dell’”architettura radicale” - momento di forte critica nei confronti del contesto culturale contemporaneo, in cui il progetto di architettura tradizionale viene sostituito da progetti concettuali e utopici, dalla forte carica ironica - sino ai progetti realizzati con lo studio Sottsass e Associati e a quelli attualmente in corso. Quella di Sottsass è un’architettura disegnata attorno all’uomo: una creatività e una progettazione antropocentrica - pensiamo a Casa Wolf, Casa Olabuenaga, Casa Cei, Casa Bischofberger, Il Museo dell’Arredo Contemporaneo a Ravenna, Casa degli Uccelli, ecc. - tesa a stabilire un contatto organico tra la natura e la costruzione, seguendo un’ideale di saggezza contadina ed interpretando i dettami del genius loci. “È quasi riduttivo considerare Ettore Sottsass soltanto un designer, preferisco descriverlo come un artista che si è saputo esprimere in svariati campi come l’architettura, la fotografia e il design. Le numerose collaborazioni con le aziende avvenute nel corso della sua carriera lo hanno reso riconoscibile da grandi e piccoli. Ogni suo progetto racconta già a primo impatto lo stile e la forte creatività del designer che lo ha firmato.”

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FOCUS

PROUST Designer: Alessandro Mendini 1978 Materiali: legno per la struttura e tessuto colorato per il rivestimento.


PROUST

ALESSANDRO MENDINI

La poltrona Proust è una poltrona di design postmoderno disegnata e progettata da Alessandro Mendini nel 1978, tra le più note al mondo. Già nel 1976 Mendini aveva iniziato a pensare alla realizzazione di un “tessuto Proust”, un tessuto cioè che nascesse dalle sollecitazione letterarie e pittoriche (impressionismo, divisionismo e puntinismo) legate allo scrittore francese. L’idea non ebbe seguito, ma si sviluppò due anni dopo nell’idea della “poltrona di Proust”. In un viaggio in Veneto viene trovata una poltrona in stile settecentesco: un finto in stile, la cui struttura è decorata a mano a pennello in colori acrilici, assieme al tessuto, con una texture ripresa da alcuni particolari dei quadri di Paul Signac (1863-1935). La prima Poltrona Proust esordì nel 1978 a Palazzo dei Diamanti a Ferrara per la mostra “Incontri ravvicinati di architettura” a cura di Andrea Branzi ed Ettore Sottsass: era uno dei vari elementi di arredo e design presenti nella “Sala del Secolo”, poi traslata alla Biennale di Venezia organizzata da Paolo Portoghesi. Questo primo esemplare fa parte da vari anni della collezione di Guido Antonello a Milano. Nei seguenti dieci anni ne furono realizzate, tutte a mano e personalmente controllate da Mendini, che ne ha anche firmate alcune, una quindicina. Alcune di queste sono in collezioni private o gallerie d’arte, altre sono esposte in musei: una è al Museo

d’Arti Applicate di Gand in Belgio, due sono al Groninger Museum in Olanda, una è al Museum Kunstpalast di Düsseldorf, una al Museum für angewandte Kunst di Vienna, una al Vitra Design Museum di Weil-am-Rhein, una al Die Neue Sammlung di Norimberga. Dopo una breve interruzione, dovuta all’impossibilità di Mendini di sovrintendere ad ogni pezzo, nel 1989 riprende la produzione. Da allora la produzione è continuata, anche con singole poltrone realizzate in materiali diversi come bronzo e ceramica. Da alcuni anni è Claudia Mendini, nipote di Alessandro, a dipingere le singole poltrone, sempre in collaborazione e con la supervisione dell’autore. Ne esistono alcune varianti, approntate da aziende di design. Cappellini nel 1993 commercializza la Proust Geometrica: sono mantenute le forme originali e la lavorazione a mano, ma il tessuto è rinnovato nella decorazione e nei colori, ottenendo due versioni cromatiche (multicolor azzurro/grigio/giallo e multicolor nero/ verde/rosso). Per il marchio Magis Mendini ne ha progettata una interamente realizzata in polietilene, a tinta unita e disponibile in sei colori base, adatta anche agli ambienti esterni. Proprio per questo è stata prevista tra la seduta e lo schienale una piccola fessura in modo che l’acqua piovana possa scolare.

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FONTI: CAP. 07 – IL POSTMODERNO

http://www.raiscuola.rai.it/articoli/alessandro-mendini-e-il-postmoderno-lezioni-di-design/7108/default. aspx http://www.designindex.it/definizioni/design/postmoderno.html http://www.oilproject.org/lezione/design-in-italia-alessandro-mendini-spiega-lo-stile-postmoderno-2248. html

CAP. 07.1 – ALESSANDRO MENDINI E LO STUDIO ALCHIMIA

https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Mendini http://www.magisdesign.com/it/elenco_designers/alessandro-mendini/ http://www.designdesign.it/cat279.php?n=1

CAP. 07.2 – GRUPPO MEMPHIS

https://it.wikipedia.org/wiki/Memphis_(design) http://www.bernicontract.it/news/gruppo-memphis-futurismo-pop-moderno-2/

CAP. 07.3 – ETTORE SOTTSASS

https://it.wikipedia.org/wiki/Ettore_Sottsass http://www.archimagazine.com/ettore-sottsass.php?refresh_ce

FOCUS

https://it.wikipedia.org/wiki/Poltrona_Proust

http://catalogo.living.corriere.it/catalogo/prodotti/Cappellini/Proust.shtml

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08. IL DESIGN GIAPPONESE Fino agli anni Ottanta del secolo scorso in Giappone non esisteva un fenomeno del design comparabile a quello italiano. Mentre proseguiva immutata con le sue regole e i suoi canoni estetici la produzione degli oggetti tradizionali, l’attività di design dei prodotti avveniva tutta all’interno delle grandi aziende, e soprattutto nei “design center” delle grandi compagnie di prodotti elettronici e nel settore automobilistico. In conformità con l’assetto sociale, faceva parte della cultura aziendale del Giappone il fatto di mettere le proprie capacità al servizio dell’azienda all’interno della quale ogni dipendente trascorreva gran parte del proprio tempo. Non era neppure concepibile che una persona esterna all’azienda potesse condividere le esperienze che si realizzavano al suo interno; tutto era condiviso da una équipe e molto difficilmente, quindi, emergevano personalità di spicco nell’elaborazione dei progetti. Alcune figure di spicco del design giapponese, considerati anche i “padri” di quest’ultimo, sono Isamu Noguchi, Shiro Kuramata e Shigeru Uchida.

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08.1 SHIRO KURAMATA Shirō Kuramata ( Tokyo, 29 novembre 1934 – 1 febbraio 1991) è stato la prima vera figura di designer giapponese. È considerato uno dei più importanti designer giapponesi del XX secolo. Il suo stile unisce la raffinatezza delle arti decorative tradizionali del Giappone con l’essenzialità propria del design moderno. Notevole anche il suo apporto nella ricerca di nuovi materiali, in particolare per ciò che riguarda il polimetilmetacrilato trasparente. Studiò nel liceo politecnico di Tokyo, quindi dopo un’esperienza presso un produttore di mobili, dal 1956 frequentò la scuola di design di Kuwazawa. Estimatore di Ettore Sottsass venne da questi coinvolto nel progetto collettivo Memphis nei primi anni ottanta. Dal 1987 fu chiamato dalla famosa firma italiana Cappellini a ricoprire l’incarico di progettista di punta, consacrandosi definitivamente a livello internazionale. In seguito all’apertura nel 1965 del Kuramata Design Office, Kuramata è la prima figura che svolge una attività da professionista non legato a una azienda, conducendo un lavoro di ricerca e di nuovi linguaggi diventa un affermato architetto d’interni e designer di elementi di arredo. Seguendo la propria poetica, si è comunque aperto allo scambio di idee con alcuni designer italiani come Ettore Sottsass jr e Andrea Branzi, entrando a far parte del gruppo dei designer di Memphis. La realizzazione dei pezzi autoprodotti è stata affida-

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ta ad artigiani e tecnici di altissimo livello, il cui lavoro ha permesso di dare una forma di qualità altissima ai suoi pensieri, come nel caso della poltrona Miss Blanche (1988), in cui il designer fermava nello spazio le rose artificiali cinesi, o dell’installazione di luce per Spiral. Kuramata ha progettato inoltre i primi negozi per Issey Miyake, altra figura fondamentale per la definizione dell’anima del Giappone moderno. Morto nel 1991, ha lasciato un segno profondo, come dimostra la sua presenza nelle collezioni permanenti del Museo di Arti Decorative di Parigi, del MoMA di New York, del Metropolitan Museum, del Vitra Design Museum e del Museo d’Arte Moderna di Toyama.

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FONTI: CAP. 08 – IL DESIGN GIAPPONESE Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

CAP. 08.1 – SHIRO KURAMATA https://it.wikipedia.org/wiki/Shirō_Kuramata Andrea Branzi - Capire il design, Giunti Editore, 2007

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IL DESIGN MINIMALISTA

Dopo la fase appariscente del Postmoderno fu la volta del Minimalismo. In ogni attività creativa con il termine minimalismo si è soliti riferirsi ad una estrema scarnificazione dei mezzi espressivi e ad una conseguente sobrietà formale. Le opere appartenenti a questa corrente hanno come caratteristica l’utilizzo di un lessico formale essenziale, composte da pochi elementi, i materiali in alcuni casi derivano da produzioni industriali; alcune delle matrici formali sono la geometria, il rigore esecutivo, il cromatismo limitato, l’assenza di decorazione. Oggetti geometricamente definiti, formati dalla ripetizione e variazione di elementi primari, forme pure e semplici. Se il Pop Design si ispirò alla Pop Art, il design minimalista si ispirò alla Minimal Art (americana degli anni ’60), che aveva come artisti Judd, Morris e Flavin. Le ipotesi più diffuse che hanno condotto all’affermarsi nel design del minimalismo e di una nuova semplicità sono tre: l’esistenza di un filone minimalista che attraversa tutta la storia delle forme, la reazione all’estetismo degli anni Ottanta, la crisi economica degli anni Novanta. Quando si parla di un filone minimalista, non ci si riferisce unicamente al movimento emerso nel 1960, della minimal art, ma anzi se ne possono trovare tracce anche molto prima, si pensi ad esempio ai mobili degli Shaker, uno degli episodi più affascinanti della storia del mobile dell’Ottocento, op-

pure alla riduzione all’essenza dei decori nei pezzi di colui che è ritenuto al giorno d’oggi il primo industrial designer, lo scozzese Cristopher Dresser; o alla riduzione all’essenza che Mies van der Rohe riassume nel suo manifesto “less is more”, che diviene poi lo slogan per antonomasia del Movimento Moderno. Un oggetto minimalista è essenziale, vi è uno svuotamento materico, possiede anche un’aura di purificazione, per la riduzione degli sprechi e si presenta come un archetipo, l’essenza. L’oggetto minimalista è bello in sé anche se può essere inutile o meno, non ha bisogno di null’altro, infatti nelle gallerie si trova da solo, spesso su fondo bianco, isolato dal resto. Il minimalismo si esprime nella forma più semplice, trova una forma cristallina coincidente con la funzione d’uso. L’intera storia del design presenta episodi razionalistici, il Minimalismo che emerge negli anni ’90 ha delle specificazioni sue che lo allontanano dal funzionalismo. Il Minimalismo idealmente favorisce un approccio al progetto attento all’ecosistema, per la tendenza alla riduzione, incontra prodotti più sostenibili con operazioni di riciclo e riuso. Il minimalismo trae spunto dal Razionalismo italiano del secondo dopoguerra con Magistretti, Munari, Fronzoni e i fratelli Castiglioni, che furono punti di riferimento fondamentali. Per Magistretti progettare vuole dire andare al nocciolo delle cose, all’essen-

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za dell’oggetto, ovvero la funzione. Si pensi a oggetti che scaturiscono dalla geometria elementare dei solidi platonici, come Dalù, Eclisse, Atollo. Vi sono anche i fratelli Castiglioni autori di molti oggetti, tra cui Luminator, Ipotenusa, oppure le lampade Toio e Lampadina, composti da parti già fatte alla maniera dadaista (ready-made), che trasformano in un prodotto di successo un prodotto che è già presente sul mercato. Un altro maestro pre-minimalista è Munari, per lui la soluzione più semplice è la più efficace, il suo metodo prevede minimo costo, minimo materiale, minimo impatto, minima presenza dell’oggetto e minima invadenza, uno dei suoi progetti è Cubo un posacenere con lamierino in alluminio piegato all’interno per sostenere la sigaretta . La tendenza minimalista fu un fenomeno in generale, si diffuse nel design degli abiti e dei tessuti. Di minimalismo si parlò anche a proposito di aspetti più materiali, dei processi produttivi in direzione ecosostenibile: la ricerca del minimo caratterizzò le attività industriali per ridurre il consumo di materie prime, dalla messa a punto di prodotti semplici, all’immagine aziendale. Il Minimalismo diventò la tendenza dominante degli anni ’90, oltre ad assumere rilievo mass-mediatico si risolse in prodotti appetibili, che ancora oggi si vendono bene. L’oggetto minimalista quindi piace ed è facile da produrre industrialmente, ma il suo prezzo supera di molto quello di un altro oggetto che compie la sua stessa funzione, infatti non è meno costoso di

un oggetto non minimalista. Inoltre, a volte, non corrisponde alla materializzazione della sua funzione d’uso, la sua purezza formale non lo rende necessariamente funzionale né ergonomico. L’oggetto minimalista invita alla contemplazione, ma non all’uso, così assume una sorta di aura che lo rende puro, e viene venduto prima di tutto perché piace e in secondo luogo perché serve.

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GLI SHAKERS

Gli Shakers sono un gruppo religioso specializzato in design che svolge la propria attività nella produzione artigianale di mobili, strutture di arredamento, contenitori, cesti, tessuti e macchine per tessitura. Chiamati anche col nome di United Society of Believers in Christ’s Second Appearing (Coloro che credono in una seconda apparizione di Cristo), fra le società comunitarie che si stabilirono negli Stati Uniti nel periodo del 1700 del 1800, sono una di quelle di maggior successo. The Shakers erano una setta religiosa fondata in Inghilterra alla fine del 1700. Fondata da Jane e James Wardley credevano nella proprietà comune dei beni e nella vita in comunità. Perseguitati per la loro fede, nel 1774 emigrarono in America, dove fondarono il primo villaggio Shakers dove conducevano una vita di astinenza e celibato. La filosofia Shakers era che ogni oggetto di casa avrebbe dovuto avere una propria funzionalità, essere semplice, senza decorazioni inutili e di qualità. I mobili prodotti dagli Shakers erano quindi progettati e realizzati per adempiere ad un compito, l’utilità come motto preferito. La qualità del lavoro era vista come una testimonianza di Dio, per questo motivo ogni realizzazione era curata maniacalmente. Lo stile era quindi semplice e ordinato, prediletti gli open space. I colori maggiormente utilizzati erano rosso, blu, giallo e verde e il materiale utilizzato era il legno, prediletto il ci-

liegio e l’acero. Il lavoro era eseguito esclusivamente a mano, “le mani per lavorare e il cuore a Dio”. Nel corso della storia, ovunque si stabilirono, lo stile degli Shakers venne influenzato dalle tradizioni artistiche popolari. Le tinture utilizzate erano vegetali naturali, sempre opache e non lucide per non alterare la realtà. All’interno della casa si tendeva ad appendere ogni cosa. Se un oggetto poteva essere sollevato, veniva sollevato. Questo rendeva gli spazi ordinati e più facilmente pulibili (sedie appese alle pareti). Gli armadi erano a tutta parete, le maniglie tutte allineate, i tessuti naturali, le assi del pavimento naturali con la possibilità di essere verniciate. Gli Shaker non credevano nel disordine e non sopportavano gli oggetti non necessari, tuttavia, piccoli dettagli come le candele di cera d’api, sacchetti di lavanda e giocattoli di legno potevano completare l’aspetto generale. I mobili Shaker erano realizzati per uso proprio ma venivano anche venduti. Molti esempi di mobili Shaker sopravvivono tutt’oggi conservati in musei storici sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, così come in numerose collezioni private. I principi alla base della progettazione Shaker hanno dato ispirazione ad alcuni dei migliori progettisti di mobili moderni. La firma del Designer Shaker non esiste, gli Shakers non credevano nell’attribuzione di meriti individuali.

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CHRISTOPHER DRESSER

Christoper Dresser (Glasgow, 4 luglio 1834 – Mulhouse, 24 novembre 1904) è stato un designer scozzese. Fu tra i maggiori interpreti del movimento estetico Arts and Crafts, teorico del design, e tra i primi in assoluto ad interpretare la professione del designer in maniera moderna e indipendente. Nato e cresciuto a Glasgow, in Scozia, sin dai suoi primi studi il suo interesse si rivolse alla botanica. Giovanissimo, entrò a Londra nella neonata Government School of Design di South Kensington (che poi diverrà il Royal College of Art), pensata proprio per dare all’industria progettisti con una preparazione specifica. In quest’ambiente crebbe conoscendo e confrontandosi con designer e personalità che influenzarono enormemente il loro tempo: Henry Cole, Richard Redgrave e il suo mentore, Owen Jones. Nel 1857 vendette le sue prime creazioni e stese le prime teorie sul design, incentrate sul rapporto tra la botanica e l’arte manifatturiera. Agli inizi si occupò soprattutto di ornamento e arte decorativa, che espresse su tessuti, carte da parati, tappeti, ceramica, legno, vetro, ecc. Nel 1862 pubblicò l’opera chiave del suo pensiero artistico, The Art of Decorative Design. Tra i designer della sua generazione è probabilmente l’unico a poter vantare pezzi ancora oggi in produzione e soprattutto ancora associabili ad oggetti contemporanei: la semplicità e il rigore del suo servizio da tè non hanno nul-

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la da invidiare alle loro controparti attuali. Potrebbero facilmente essere scambiati per l’ultima novità del catalogo Alessi piuttosto che repliche di un design storico ormai vecchio di cento anni. Dresser era un esperto conoscitore delle tecniche di lavorazione del metallo. Fu anche uno dei primissimi designer europei a visitare il Giappone. La semplicità del design nipponico lo orientò verso un gusto minimalista e lo spinse alla ricerca di un connubio tra estetica e funzionalità. Dresser abolì così qualsiasi ornamentazione superficiale lasciando che fossero le caratteristiche più essenziali dell’oggetto – come per esempio i giunti o il materiale stesso – a definirne le qualità estetiche. Una lezione semplice eppure di fondamentale importanza per tutto il design moderno e contemporaneo, ancora fortemente imperniato proprio su questi stessi concetti. Il servizio da tavola di Dresser ha potuto così arrivare ai giorni nostri dimostrandosi un oggetto ancora idoneo e perfettamente fruibile ancora oggi e di cui pochi saprebbero indovinare la vera età. Alessi ha rimesso in produzione gli oggetti di Dresser a partire dal 1991 e continua a riproporne repliche in argento, prodotte rigorosamente a mano e in edizione limitata.

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“Prima di tutto bisogna “saper vedere”: saper vedere la bellezza quotidiana attorno a noi.” JASPER MORRISON


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JASPER MORRISON

Jasper Morrison nasce a Londra nel 1959, si laurea in Design presso la Kingston Polytechnic Design School di Londra nel 1982 e consegue due master: uno presso la stessa Kingston Polytechnic Design School, l’altro presso il Royal College of Art a Londra nel 1985. Nel 1986 apre il suo primo studio e inizia poco dopo una lunga e interessante collaborazione che lo lega a Cappellini; oggi lavora fra Londra e Parigi per importanti nomi come Flos, Alessi, Rowenta, Sony e Samsung. Ogni suo progetto ha un’eleganza minimalista che lo rende estremamente moderno pur essendo una sorta di archetipo essenziale legato al passato, anteponendo sempre la funzione all’espressione. Al giorno d’oggi è una delle firme più quotate nel mondo del design, ma la verità è che spicca per una qualità di cui non si sente mai parlare: la sua rassicurante normalità. Ciò che professa coerentemente da anni è racchiuso in una sua frase: “La maniera migliore di vivere con i nostri oggetti è renderli capaci di rappresentare noi e il nostro modo di essere con semplicità, così che cessino di essere status symbol per diventare dei buoni amici”. Più che un designer nel senso attuale del termine, Morrison è un ricercatore, un curioso esploratore che guarda con rinnovata meraviglia alle innumerevoli protesi di cui si dota l’inconsapevole Robinson Crusoe, sbalzato dalla civiltà dei consumi a quella del

riciclo necessario. Da buon inglese, Morrison è soprattutto un viaggiatore che percorre il mondo con lo stupore di trovarlo ogni volta singolare, se non meraviglioso, per i quotidiani miracoli dell’evoluzione della vita. Come Darwin, sembra infatti sempre alla ricerca dei principi per cui le cose si trasformano lentamente sotto la logica dell’uso, assumendo forme inaspettate che hanno il sapore forte di piccole “verità”, mille miglia lontane dai sofisticati gusti di quegli oggetti sorti solo da una curiosità intellettuale o, peggio ancora, dal desiderio infantile di affermarsi a colpi di forma, destinati ad abitare nella protezione patinata delle riviste o a proteggersi dalle contaminazioni nel chiuso delle gallerie d’arte. La pila di vasi in terracotta in una ferramenta di Berlino gli suggerisce l’ispirazione per la base del Flower-pot Table; delle comuni bottiglie di vino l’idea di alterazioni minime del “becco” o ancora un catalogo di componenti per veicoli commerciali suggerisce, a facile portata di mano, il profilo della maniglia ideale. In quasi trent’anni di carriera, Morrison è stato capace di realizzare di tutto: dalle sedie alle scarpe, dagli elettrodomestici ai mezzi pubblici, sperimentando materiali come legno, metallo, plastica. A partire dalla sua iconica Thinking Man’s Chair del 1986 per Cappellini, rielaborazione di una poltrona trovata per strada, è stato capace di creare forme sempre diverse.

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Si pensi alla Plywood Chair per Vitra del 1988, alla Tate per Cappellini del 2000 fino alla serie Air sviluppata con Magis nel 2009. Gli oltre 200 oggetti ideati – dagli utensili di cucina per Alessi alle lampade per Flos, dai telefoni e le fotocamere per Samsung e Sony, ai sanitari per Ideal Standard, dalle sveglie per Punkt ai piccoli elettrodomestici per Rowenta – hanno guadagnato riconoscimenti internazionali. A lui si devono anche gli arredi della nuova Tate Modern Gallery a Londra e le sedie per il convento La Tourette di Le Corbusier. L’arte di Morrison è accompagnata da una cura maniacale per il dettaglio che è talmente studiato da sembrare inesistente, e forse sta proprio in questo il suo segreto. Lo stesso Morrison ha dichiarato di aver sempre voluto disegnare cose che funzionassero nella vita reale e non soltanto alle mostre o sulle riviste, in questo modo, il suo design no frillis, il rifiuto degli eccessi – dal lusso al decorativismo fino all’ipertecnologia – l’hanno portato ad una assoluta discrezione, con un approccio normale certo ma sicuramente non ordinario. Per Morrison il vero industrial design deve poter essere democratico, e perciò rivolto a tutti, senza limitazioni: “Non sono per nulla interessato all’idea di lusso. L’idea di godere di qualcosa che esclude altre persone è terribile, non credete? Credo che il lusso sia stato inventato per gente che non ha modo migliore di godersi la vita che sentirsi superiore agli altri”.

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FOCUS

AIR CHAIR Designer: Jasper Morrison 2000 Materiali: polipropilene caricato di fibra di vetro stampato in air moulding.


AIR CHAIR

JASPER MORRISON

La sedia impilabile Air Chair, opera del designer inglese Jasper Morrison, a prima vista non appare particolarmente originale o innovativa: è una sedia colorata in materiale plastico, caratterizzata da una linea molto semplice e pulita. Si tratta invece, di un progetto più volte premiato per l’utilizzo efficace di una tecnologia innovativa denominata AIR MOULDING, con un ottimo esito a livello funzionale ed estetico. Un’analisi approfondita premette di rilevare le caratteristiche distintive della sedia, costituita da un pezzo unico (il così detto “monoblocco”) in polipropilene, caricato al 20% con fibra di vetro. Come abbiamo visto, sedie monoblocco in materiale plastico furono realizzare già nella seconda metà del secolo scorso, ma con metodi ed esiti assai differenti. Il corpo di questa sedia ha infatti uno spessore molto sottile e sembra piegato dolcemente, senza alcune irregolarità e senza spigoli: la superficie è perfetta, ogni curvatura tra un piano e l’altro appare assolutamente naturale. Le proporzioni sono ergonomiche. Lo schienale presenta una lieve curvatura, e da esso partono le gambe posteriori, leggermente inclinate, anch’esse sottili. Purezza formale e cura del dettaglio sono favorite dalla tecnologia air moulding, che consiste nell’introduzione nello stampo di un gas inerte insieme alla massa plastica, in questo modo si crea un vuoto che permette di utilizzare una qua-

tità minore di materiale, alleggerendo notevolmente la sedia ed evitando la formazione di segni di ritiro sulla superficie. Nella progettazione della sedia, elaborazione formale e tecnologia produttiva sono state sviluppate in contemporanea e quindi appaiono perfettamente integrate. Air Chair è quindi una sedia “bella e intelligente”: semplice, lineare ed economica, capace di risparmiare materiale sfuttando tecnologie innovative guadagnando in leggerezza, effettiva ma anche visiva.

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FONTI: CAP. 09 – IL DESIGN MINIMALISTA

http://www.docsity.com/it/25-minimalismo/405253/ http://design.repubblica.it/glossario/minimalismo/ Renato de Fiusco, Made in Italy: Storia del design italiano. Nuova edizione, Altra linea edizioni (anteprima libro di Google.Books)

CAP. 09.1 – GLI SHAKERS

http://digilander.libero.it/Arredi_Shakers/shakers-oggetti-design.htm http://www.cattolicaeuropadesign.it/Designers/the-shakers/

CAP. 09.2 – CHRISTOPHER DRESSER

https://it.wikipedia.org/wiki/Christopher_Dresser http://www.lacasainordine.it/2016/11/icone-del-design-christopher-dresser/

CAP. 09.3 – JASPER MORRISON

http://www.cappellini.it/it/designer/jasper-morrison http://www.flos.com/it/designers/jasper_morrison http://living.corriere.it/tendenze/design/libro-jasper-morrison-30532124347/?refresh_ce-cp http://designlarge-d.blogautore.repubblica.it/2015/07/13/jasper-morrison-intervista-interview/

FOCUS

http://www.architetto.info/news/interior-design/la-sedia-air-di-jasper-morrison/ http://www.magisdesign.com/it/elenco_prodotti/air-family/air-chair/

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“Nulla e’ bello. Tutto dipende da chi guarda, la bellezza e’ versatile.” PHILIPPE STARCK


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DESIGN - STAR SYSTEM: PHILIPPE STARCK

Philippe Starck, nato a Parigi nel 1949, è considerato il numero uno dei designer europei, oltre a svolgere anche l’attività di architetto, progettando numerosi locali a Parigi, New York e Tokyo. Ancora studente alla Notre Dame of Saint Croix in Neully, crea una società di strutture gonfiabili finanziata dall’attore francese Lino Ventura. Nel 1970 crea il sistema luminoso “Easy Light”, prima delle sue realizzazioni ad essere edita. Nel 1981, l’incontro con Jean-Louis Costes, permette a Starck di occuparsi, tre anni dopo della ristrutturazione del famoso Café Costes, in Place des Innocents, nella prima circoscrizione di Parigi. Geniale autodidatta, l’uomo che ha in definiva creato il design francese (prima di lui non vi erano grandi nomi in questo settore), ha detto di se stesso e della sua formazione: “…mio padre era un inventore, disegnava aerei e la sola eredità che mi ha lasciato non è stata una grande somma si danaro, come generalmente avviene con l’aviazione – per me è stato il contrario – mi ha lasciato l’idea che uno dei mestieri più belli che si possa fare è un mestiere creativo. Con la creazione si può effettuare una ricerca interiore e lavorare su sé stessi . E creando degli aerei, mi ha insegnato delle cose preziose: per far volare un aereo occorre crearlo, ma per non farlo cadere occorre

essere rigorosi”. Dopo un ottimo ingresso nel mondo del design e dopo essere riuscito a farsi conoscere dagli addetti ai lavori, Starck è venuto all’onore delle cronache più popolari per aver collaborato nel 1982 alla realizzazione dell’arredamento di alcune stanze degli appartamenti privati del Presidente Mitterrand al Palazzo dell’Eliseo. Ma, a parte questo lavoro che si aggiunge a molti altri progetti ed allestimenti, Starck è noto e stimato in patria e fuori per le sue qualità di designer, di intelligente e colto autodidatta, di poetico creatore libero da conformismi, considerato “enfant terrible”, ma dalla controllatissima professionalità. Le migliaia di progetti, completati o in corso, la sua fama internazionale e la sua versatile e instancabile inventiva non dovrebbero mai distrarre dalla visione fondamentale di Starck: la creazione, a prescindere dalla forma che assume, deve migliorare le vite del maggior numero di persone possibile. Starck crede appassionatamente che il proprio compito poetico e politico, ribelle e filantropico, pragmatico e sovversivo, debba essere condiviso con tutti e riassume questo concetto con il senso dell’umorismo che lo ha contraddistinto sin dall’inizio: “Nessuno deve essere un genio ma tutti devono partecipare”. La sua precoce consapevolezza delle implicazioni ecologiche,

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il suo entusiasmo nell’immaginare nuovi stili di vita, la determinazione a cambiare il mondo, il suo amore per le idee, la sua preoccupazione di difendere l’intelligenza dell’utilità (e l’utilità dell’intelligenza) lo hanno accompagnato da una creazione iconica all’altra; dai prodotti di tutti i giorni, ad arredi e spremiagrumi, a mega yatch rivoluzionari, hotel che stimolano i sensi, luoghi di ritrovo fantasmagorici e caratteristiche turbine eoliche: non ha mai smesso di ampliare i limiti e i criteri del design contemporaneo. Dal modo di concepire di Starck, si comprende che non ha senso dare un’età ai suoi mobili ed ai suoi oggetti di design. Opere recenti derivano da disegni magari rimasti in gestazione per anni. Un oggetto di Starck è leggero, economico in materia ed energia dalla produzione al consumo, passando dal packaging al trasporto. Starck ha piena consapevolezza di essere diverso, di aver “sfondato” per un puro bisogno di esprimersi. Sue caratteristiche sono il gusto del gioco e del divertimento; ama meravigliarsi e meravigliare gli altri, anche tramite le sue opere architettoniche. In una intervista, parlando del suo lavoro ha tenuto a precisare: “…Questo lavoro fatto per ragioni prettamente estetiche o culturali non ha senso. Le sedie belle si possono trovare dovunque, le belle lampade sono dovunque, i bei tavoli sono dovunque, ce ne sono già abbastanza. Non può essere diversamente. Oggi tutto il lavoro estetico e culturale è diventato inutile, l’urgenza di agire non è più là. Oggi l’urgenza è di tipo politico, occor-

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re lavorare sulla ridefinizione della produzione, sulla ridefinizione del rapporto tra uomo e materia perché l’uomo possa ritrovare il proprio spazio senza essere attanagliato, asfissiato, ricoperto da un mucchio di cose futili, generalmente portatrici di simbolismi estremamente dubbi [...] Le case generalmente vengono costruite per dimostrare che nella vita si è raggiunto il successo, piuttosto che per vivere felici al loro interno. Ci sono miriadi di cose come queste da decifrare. E questo è un po’ il mio lavoro”. Tra i suoi numerosi lavori come disegnatore d’interni si ricordano: gli appartamenti privati dell’Eliseo (1982-84) e il Café Costes (1984), entrambi a Parigi; i ristoranti Manin (1987) e Asahi Beer Azumabashi Hall (1990) a Tokyo, Le Lan (2007) a Pechino; gli hotel Royalton (1988) e Century Paramount (1990) a New York, il Delano (1995) a Miami, il Mondrian (1997) a Los Angeles, il St. Martins Lane (1999) a Londra e Le Meurice (2008) a Parigi; la Maison Baccarat (2009) a Mosca; ha disegnato gli edifici Nani Nani (1989) a Tokyo, Le baron vert (1992) a Osaka. Tra i suoi numerosi prodotti divenuti punti di riferimento del design contemporaneo, presenti nei più importanti musei del mondo, si ricordano infine: spremiagrumi Juicy Salif (1990) e bollitore Hot Bertaa (1990) per Alessi; motocicletta Móto 6,5 (1995) per Aprilia; letto Sæur Jeanne (1999), sedie e divani della Collection Prievé (2007) per Cassina; sedute Serie Lang (1987), poltroncina Toy (1999) e tavoli Jelly Slice (2001) per Driade; spazzolini da denti (1989)

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per Fluocaril; lampade Arà (1988), Archimoon (1998), Miss Sissi (1990), Rosy Angelis (1994), Archimoon classic (2005), Miss K (2006) e della Collection Guns (2008) per Flos; sanitari Edition 1 (1994), Edition 2 (1998) e Starck X washbasin (2004) per Duravit; accessori da bagno Linea Starck (1999) per Hansgrohe; sedie Mr. Glob (1990), La Marie (1998), Ero|s| (2001) per Kartell; televisore Jim Nature (1994) per Saba; sedia Louis XX (1992) per Vitra; orologio da polso LED digital limited edition (2006) per Fossil; sedute e librerie per XO, accessori da viaggio per Samsonite.

“Considerato dal pubblico un “Super-Designer” di fama internazionale, il successo di Philippe Stark è dato dal suo modo esclusivo di progettare; in molti dei suoi oggetti c’è una riconoscibilità formale, un modello che riesce a stupire e far amare ogni prodotto. Ogni singolo progetto nato dalla mano di Philippe Starck ha un forte valore simbolico; infatti la sua grande capacità è da sempre quella di creare progetti innovativi ispirandosi a pezzi storici come ad esempio per la sedia Louis Ghost per la quale Starck si ispira allo stile Luigi XVI, creando così un prodotto riconoscibile da tutti, giovani e meno giovani. Altra caratteristica che lo ha portato a diventare una star del mondo del design è stato quello di comunicare se stesso come se fosse un brand, affiancato dal suo stile esclusivo e inconfondibile.”

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FOCUS

LOUIS GHOST Designer: Philippe Starck 2002 Materiali: policarbonato.


LOUIS GHOST

PHILIPPE STARCK

La sedia Louis Ghost è stata disegnata da Philippe Starck nel 2002 per Kartell; è un’interpretazione della classica poltrona in stile barocco. La sedia è trasparente, ma stabile, duratura e anche molto comoda. La sua forma classica e il materiale moderno la rendono adatta a vari arredamenti e usi, ad esempio sia come sedia per il tavolo da pranzo che per la scrivania. La sedia Louis Ghost è impilabile fino a 6 pezzi ed è adatta all’uso in ambienti esterni. La sedia Kartell Louis Ghost è una confortevole poltroncina in policarbonato trasparente e colorato dal design Luigi XVI: l’ideotipo del barocco della Louis Ghost di Kartell rivisitato per stupire, emozionare, affascinare. Nonostante l’immagine evanescente e cristallina, Louis Ghost è stabile e resistente, a prova di urti, graffi ed agenti atmosferici. Un prodotto dal forte carisma e dal notevole appeal estetico, da inserire in ogni contesto abitativo o spazio collettivo con eleganza ed ironia. Si può anche scegliere di personalizzare la propria Louis Ghost. Kartell propone 4 soggetti standard ma si possono realizzare anche altri soggetti su richiesta specifica del cliente. Louis Ghost è una celebre seduta prodotta da Kartell, ormai diventata uno degli oggetti cult del design del ‘900, amata, nota e molto desiderata, caratterizzata da un forte carisma e un notevolissimo appeal estetico. La particolarità e la grandezza di questa pol-

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troncina sta nei reinventare stilemi classici in un linguaggio contemporaneo. La classicità si esprime attraverso le linee e il design particolare della seduta – in particolare lo schienale a medaglione – mentre la contemporaneità sta nel minimalismo determinato in gran parte dal materiale: policarbonato trasparente, colorato o glossy. Il materiale tecnologico è scelto anche per i suoi vantaggi di praticità, stabilità e confortevolezza; il policarbonato è poi antiurto e antigraffio, un bel passo avanti rispetto ai materiali originali delle sedute ancient regime a cui la Louis Ghost si richiama, esplicitamente, nel layout. Il risultato della coraggiosa mescolanza tra classicità e contemporaneità,

design e tecnologia, antico e moderno, è un oggetto ironico ed essenziale, che ancor prima di diventare il “mito del design” che conosciamo oggi si rivela un arredo estremamente versatile, adatto a infondere una personalità decisa ma non urlata in un’abitazione come in un ufficio. Particolarmente originale risulta poi l’inserimento delle sedie Ghost in un ambiente arredato con mobili antichi e classici. Louis Ghost si è anche conquistata un posto al Moma, e viene considerata il più ardito esempio al mondo di iniezione in policarbonato in un unico stampo, più ancora della precedente sedia La Marie, sempre creata da Philippe Stark per Kartell.

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FONTI: CAP. 10 – DESIGN STAR SYSTEM: PHILIPPE STARCK

http://living.corriere.it/case/a-casa-di/philippe-starck-burano/ http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=401&biografia=Philippe+Starck http://www.flos.com/it/designers/philippe_starck http://www.designindex.it/designer/design/philippe-starck.html http://www.treccani.it/enciclopedia/philippe-patrick-starck/

FOCUS

https://www.myareadesign.it/it/sedie-e-tavoli/sedie-e-sgabelli/sedie-con-braccioli/kartell-sedia-louisghost.1.1.115.gp.19.uw https://www.finnishdesignshop.it/mobili-sedie-kartell-louis-ghost-sedia-louis-ghost-trasparente-p-7765. html http://www.pansiniarredamenti.it/i-miti-del-design/louis-ghost-e-victoria-ghost/

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Interior Design Elle


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