UniversitĂ degli studi di Firenze c.d.l. in Pianificazione e Progettazione della CittĂ e del Territorio Politiche Urbane e Territoriali Prof.ssa Camilla Perrone a.a 2012/2013
La partecipazione come policy instrument: Problemi, sfide, efficacia. di Luana Giunta
«Un buon design di processo decisionale prende le mosse dalla domanda: “chi deve essere incluso?” e non da “cosa dobbiamo fare?”. Questa seconda domanda sottovaluta quanto è delicato, complesso e cruciale decidere “chi conta”, chi deve essere parte del processo. Un buon processo decisionale che mira alla costruzione di terreni comuni in situazioni di crisi, deve dedicare tutto il tempo necessario alla valutazione delle necessarie inclusioni». Marianella Sclavi
Abstract Nel testo sono esposte le considerazioni sull’utilizzo della partecipazione come strumento delle politiche, su come essa possa favorire un miglioramento della gestione, progettazione e governo del territorio, puntando sull’efficacia di una strategia che oggi cerca di farsi spazio nello scenario politico-amministrativo. L’intero paper è stato concepito come un percorso che attraverso la metodologia di analisi delle politiche definisce la partecipazione come policy instrument. Il suddetto percorso è stato articolato in fasi: la prima, di carattere introduttivo, spiega e definisce la partecipazione partendo dal significato etimologico del termine e dal binomio società - istituzioni ; la seconda fase mette in evidenza le potenzialità ed i limiti dell’uso della partecipazione nei processi decisionali, evidenziandone i problemi che ne seguono e le sfide che essa mette in gioco; la terza ed ultima fase definisce la partecipazione come policy instrument descrivendone il campo d’azione, le buone ragioni e alcuni accorgimenti (le “istruzioni per l’uso”) nell’utilizzarla come strategia d’azione e di indagine, facendo riferimento all’efficacia e ad alcune questioni ancora aperte.
Pars e capere1: unità minima di base del processo partecipativo Le considerazioni sull’utilizzo della partecipazione come policy instrument non possono che trarre origine dal suo significato profondo e letterario. “Pars” e “capere” sono l’unità minima di base che regolano il principio della partecipazione come il prendere parte ad un’ impresa di comune interesse e stabilire quindi una relazione con altri (interazione) su un tema specifico. Collocando la partecipazione, intendendola nel suo valore più intimo, all’interno della sfera delle politiche, in questo caso urbane, si ha un cambiamento della composizione dell’arena decisionale. Più precisamente, gli elementi che costituiscono il network di attori con l’apertura (pars e capere), di quella che era un’arena costituita da politici, tecnici ed esperti, ad altri attori che possono essere i cittadini, attori locali e attori portatori di interesse (stakeholders). Il processo decisionale è orientato e riguarda il raggiungimento del comune interesse; ma solo attraverso la partecipazione esso riesce ad includere una più ampia opinione pubblica e gli attori interessati stabilendo un confronto, un arricchimento e uno scambio di saperi (interazione) su un tema specifico. Negli ultimi vent’anni sono state sperimentate diverse metodologie e strumenti per coinvolgere i cittadini nella formulazione di politiche pubbliche. Alla base di questa sperimentazione diffusa c’è una profonda crisi del sistema rappresentativo nell’affrontare temi e problemi, soprattutto di carattere urbano, che siano di interesse collettivo e condivisi dalla collettività: «il principale difetto della democrazia rappresentativa consiste nella pretesa di affidare a un’arena stabile e delimitata la trattazione di qualsiasi problema, senza riuscire a garantire che tutte le posizioni più rilevanti sul tema in discussione siano effettivamente presenti nel dibattito con la medesima intensità con cui si esprimono nella società» (Bobbio e Pomatto, 2007). Inoltre nell’ambito delle politiche urbane si è diffusa una certa consapevolezza che problemi complessi, come ad esempio quello della riqualificazione urbana, possono essere risolti attraverso l’utilizzo di approcci integrati mediante processi che si fondano sull’interazione, sul pars e capere da parte di tutti quei soggetti portatori di usable knowledge2 sulla quale fondare il processo decisionale.
1
dal latino pars, parte, e capere, prendere, significato etimologico di partecipazione: il prender parte, il concorrere e il collaborare a un'impresa di comune interesse, lo stabilire una relazione con altri su un tema specifico. 2 Fa riferimento ai tre tipi di conoscenza utilizzabile individuati da Lindblom e Cohen (1979): Usable scientific Knowledge, Usable interactive Knowledge, Usable ordinary Knowledge.
Se la partecipazione nasce per colmare il vuoto di esperienze e conoscenze che il sistema di rappresentanza non ha se non include nel processo la società, allora che rapporto c’è tra istituzioni e cittadini? e soprattutto perché la partecipazione non è già uno strumento istituzionalizzato delle politiche? Umberto Allegretti definisce la partecipazione come “il relazionamento della società con le istituzioni che comporta un intervento di espressioni dirette della prima nei processi di azione delle seconde”, ma la domanda di partecipazione, intesa nell’approccio topdown, deriva spesso dalla motivazione politica e quindi la democrazia partecipativa diventa «una tattica consapevole, finalizzata e strumentale alla costruzione preventiva del consenso e all’appianamento dei conflitti, per ragioni di maggiore efficienza e di efficacia dell’azione politica amministrativa» (Gelli e Morlino, 2007). Fulcro fondamentale è che molte amministrazioni propongono i processi partecipativi per dare l’impressione di adottare per la città o territorio in questione una visione democratica del processo decisionale, includendo così le opinioni di tutti. La democraticità si ottiene a priori, intendendo che il processo partecipativo non ha esclusivamente come fine ultimo la giustizia sociale ma mira a costruire, mediante il confronto e l’interazione, un percorso interattivo basato sulle conoscenze diverse che ogni attore può portare. Quindi all’“apprendimento trasformativo”3, «che è forse l’obiettivo principale di una progettazione interattiva che valorizzi il ruolo trasformativo della partecipazione come strumento delle politiche pubbliche» (Perrone, 2010). Partecipazione: alcuni problemi, altre potenzialità, molte sfide… Nel delineare la fase centrale della questione sulla partecipazione come policy instrument non possono essere escluse le considerazioni sui limiti e sulle potenzialità che i processi partecipativi presentano. Non vuole essere una lista di aspetti negativi e positivi, ma un’esposizione di ciò che attraverso la metodologia di analisi delle politiche emerge come problema o limite e come possa trasformarsi in sfida per il raggiungimento dell’efficacia della partecipazione nella creazione di politiche urbane. Uno dei pilastri portanti della partecipazione è l’interazione tra gli attori coinvolti. Il modello di interazione caratterizza il processo partecipativo fin dalle prime fasi. L’interazione ruota attorno ad una componente fondamentale della politica: la posta in gioco, ovvero «ciò attorno a cui si decide nell’ambito di una politica pubblica» (Dente, 2009). La metodologia di analisi delle politiche mette in evidenza tutte le caratteristiche della posta in gioco 4 e insegna che l’interazione dipende dalla posta in gioco e dalla percezione che hanno gli attori di questa. Schelling descrive con giochi a somma zero e giochi a somma positivi questo rapporto tra interazione, posta in gioco e percezione di quest’ultima, spiegando inoltre che i vantaggi derivanti dalla posta in gioco possono essere volti nell’uno o nell’altro senso a seconda della capacità e volontà degli attori di mutare il processo e di scendere a compromessi. Dentro questa cornice si inserisce il primo limite/potenzialità, individuato per i fini sopra elencati, dei processi di policy ed in particolare dei processi partecipativi: il conflitto. In generale questo si manifesta quando gli attori principali si contrappongono nel tentativo di prevalere l’uno sull’altro e di affermare i propri obiettivi senza scendere a compromessi. Nella partecipazione questa caratteristica del conflitto potrebbe accentuarsi ancora di più, poiché vi sono molti più attori nel processo e le chances di creare conflitto sono maggiori, ma per molti subentra il pregiudizio positivo che vede nella partecipazione esclusivamente uno strumento di costruzione del consenso. Queste considerazioni non sono errate o perfettamente corrette, ma aiutano a capire il duplice carattere del conflitto come limite e come potenzialità. Se si dovessero elencare i limiti del conflitto l’incipit sarebbe un’affermazione su come questo potrebbe portare al fallimento del processo e alla paralisi decisionale. In realtà non è il conflitto in sé che causa la paralisi ma la messa in atto di strategie errate da parte degli attori per superare tale conflitto. Un’altra delle cause comuni che possono includere il conflitto nella sfera dei limiti all’efficacia della partecipazione è la percezione della posta in gioco e in particolare quando gli attori avvertono di trovarsi in un gioco a somma zero. In questo caso gli attori percepiscono che hanno più costi che benefici e quindi il conflitto diventa molto più animato e difficile da gestire. Specificatamente in questo aspetto subentra il carattere positivo del conflitto come potenziale del processo partecipativo, poiché lo sviluppo di relazioni conflittuali può contribuire positivamente all’avanzamento del processo decisionale: il conflitto può essere un indicatore della mobilitazione di una consistente quantità di risorse da parte di attori diversi; può generare interesse attorno al
3
Riferito all’approccio di Forester sulla teoria trasformativa dell’apprendimento sociale che « esplora non soltanto il modo in cui in un processo dialogico e negoziale cambiano le argomentazioni, ma anche e soprattutto il modo in cui gli attori possono cambiare o costituirsi come tali, in un ‘gioco’ interattivo, sia esso un processo di policy making o una pratica di community planning» (Perrone, 2010). 4 «La posta in gioco non è né unica né stabile»: non è unica perche è legata alla percezione che ne hanno gli attori, non è stabile poiché durante lo svolgimento del processo decisionale si può ridefinire l’oggetto della decisione a causa di fattori nuovi e/o diversi (Dente, 2009).
trattamento dei problemi collettivi; può essere una strategia di indagine5 per capire le posizioni degli attori poiché il conflitto li spinge a definire meglio le loro posizioni. Parlando di conflitto è inscindibile il nesso con l’approccio di Marianella Sclavi dell’ascolto attivo e la gestione creativa dei conflitti. Il suo metodo si basa su una visione completamente diversa e astratta del conflitto che diventa un modo per conoscere e intendere le esigenze della società tramite le sette regole dell’arte dell’ascoltare6. Ascoltando e facendolo in modo “attivo”7 si possono risolvere i conflitti in modo completo e conoscitivo di tutti quelli che sono i problemi, le percezioni, le sensazioni e le soluzioni proposte dai partecipanti e, ritornando alle affermazioni di Schelling, si può trasformare un gioco a somma zero in un gioco a somma positiva dove tutti i partecipanti facendo un passo indietro sono finalmente pronti alla negoziazione. L’ascolto attivo dovrebbe essere una componente principale dei processi partecipativi ed è sicuramente uno dei fattori che contribuiscono all’efficienza e all’efficacia della partecipazione come policy instrument. Analizzando ulteriormente i limiti e le potenzialità si evidenzia un altro punto importante da esporre che è il reframing: la ristrutturazione, ovvero la capacità di mettere in una cornice diversa gli avvenimenti. Per parlare di esso è necessario fare un passo indietro, precisamente sulla definizione del problema come domanda del processo decisionale e soluzione come scopo del processo. Tutti i processi decisionali, che siano partecipativi o non, nascono per risolvere un problema, che nel caso delle politiche pubbliche è un problema di tipo sociale mentre nel caso delle politiche urbane può essere anche un problema sociale ma legato strettamente ai problemi che derivano dalla città e dalle sue componenti. Le soluzioni nascono durante il processo decisionale e vengono proposte dagli attori che compongono il network. Nei processi partecipativi ogni attore propone una soluzione che rispecchia il suo modo di vedere il problema, le sue conoscenze di base e le aspettative che ha del processo decisionale; questa cornice che ruota attorno alla costruzione della soluzione è il frame. Fareri ci insegna che «il momento chiave del processo progettuale, più che il disegno della soluzione, è la costruzione del problema»; se accettassimo il problema come un dato “non oggettivo” la trasformazione di esso potrebbe essere «una delle principali strategie che è possibile utilizzare per giungere a decisioni innovative ed efficaci» (Dente, 2009). Questo ragionamento è la base del passaggio fondamentale dal problem solving al problem setting, passaggio che riassume la metamorfosi del problema che da carattere oggettivo assume un carattere di costrutto sociale. Inoltre Fareri sostiene che riconoscendo il carattere di costrutto sociale dei problemi riconosciamo la legittimità di definizioni diverse che possono portare sicuramente ad una visione vasta e dettagliata della soluzione ma anche più complessa. E’ in questo momento che i conflitti che nascono durante la fase del problem solving non riescono a trovare una via di uscita e un punto comune risolutivo, questo perché nella fase in cui si confrontano nell’arena le diverse definizioni del problema «una è quella giusta e le altre sono sbagliate» (Fareri, 2009). Per uscire da questo tunnel perverso dove tutte le soluzioni si accalcano l’una all’altra cercando di prevalere è necessario fare il re-framing, ovvero ristabilire l’attenzione degli attori non sulla soluzione ma bensì sulla strutturazione dei problemi. In altre parole si passa direttamente all’approccio problem setting in cui «la diversità delle definizioni è una componente necessaria del processo progettuale» (Ivi, 213). Il nocciolo della questione è che i problemi non sono indipendenti rispetto al processo che li tratta ma sono legati ad esso che dal momento che include la collettività diventa un processo di “definizione collettiva” (Blumer, 1971), quindi i problemi che riguardano la collettività e sono fatti dalla collettività (problemi sociali e per il sociale) sono da considerare un prodotto sociale (Crosta, 1982). Se si accetta il carattere di costrutto sociale dei problemi di policy si può affermare che: la “definizione collettiva” di un problema è un’attività “che si fa” nel corso dell’azione e la partecipazione non fa altro che stimolare la ri-definizione dei problemi e degli obbiettivi che s’intende raggiungere, pertanto la partecipazione diventa una “strategia d’indagine” (Blumer, 1971; Fareri, 2009; Perrone, 2010). La partecipazione come policy instrument Definire la partecipazione come strumento delle politiche è un’operazione che va fatta elogiando l’efficacia che essa può portare al processo decisionale per la progettazione di una politica interattiva. I ragionamenti fin’ora esposti descrivono la partecipazione sotto diversi aspetti sottolineandone i limiti, le potenzialità e le sfide. Definire adesso la partecipazione come policy instrument diventa una proposta, un’alternativa e una via “nuova” che le politiche di nuova generazione tentano e devono includere. La partecipazione intesa come «strategia di management dei processi decisionali basata su un ampio coinvolgimento di tutti gli attori rilevanti» (Fareri, 2009) si pone come strumento alternativo per la risoluzione di problemi complessi proprio perché complesso e vasto è il suo campo di azione. L’ampio coinvolgimento e la molteplicità di soluzioni diverse, come esposto prima, sono le determinanti del conflitto che nella partecipazione diventa un passaggio 5
è una metodologia proposta da Mitroff ed Emshoff (1979) per il «trattamento di quelli che definiscono illstructured organization problems che vede nel conflitto il meccanismo generativo del processo progettuale» (Fareri, 2009). 6 In: Sclavi M. (2003), Arte di Ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano. 7 Riferito alla terza regola dell’arte dell’ascoltare: “se vuoi capire quello che un altro sta dicendo o facendo devi assumere che ha ragione, devi assumere che quella persona che non capisci è intelligente e dunque chiederti e chiederle come vede il mondo e perché quella posizione le sembri giusta” (in Sclavi, op. cit. 2003).
fondamentale più che un problema del processo decisionale, che fortifica le basi di un modello di interazione strutturata basata sul confronto reciproco delle soluzioni. Rivisitando i ragionamenti fatti fin’ora la capacità di fare il re-framing (il setting) e la considerazione dei problemi come costrutto sociale fanno della partecipazione uno strumento efficace e in grado di superare gli ostacoli, che sono determinati sia dalle paralisi decisionali che dal superamento della routine. Quest’ultima vista appunto come incapacità di portare avanti un processo partecipativo proprio perché può portare il rischio di un’«inerzia cognitiva» o di un «apprendimento limitato» (Lanzara 1993, Perrone 2010). L’efficacia della partecipazione come policy instrument quindi non può che dipendere dalla sua proprietà intrinseca, multi sfaccettata di strategie che fondano sull’apertura del processo decisionale una rivoluzione del “fare policy” completamente diversa dalle metodiche ereditate dai modelli decisionali8 e che fa della modalità di interazione strutturata la sua arma migliore. Proporre la partecipazione come strumento delle politiche è un’impresa che richiede la descrizione di valide motivazioni, di buone ragioni e di “istruzioni per l’uso” per rafforzare un ragionamento condiviso da molti policy analists e ancora poco dalle istituzioni. Una delle buone ragioni per usare la partecipazione all’interno della progettazione di politiche è la capacità di mettere a sistema diversi tipi di conoscenze che contribuiscono sia ad arricchire il processo con diversi punti di vista sia a garantire uno scambio di esperienze e quindi una crescita dei saperi degli attori che ne fanno parte. Questa è anche una ragione per incentivare ed avvicinare la partecipazione (intesa come pars e capere) ad attori “nuovi” o estranei al mondo della progettazione di politiche, soprattutto urbane. Pensiamo a quanto potrebbe arricchirsi la progettazione urbana e territoriale di tutti quei saperi ed esperienze che sono intrinseche nel territorio, quanto sarebbe facile per gli urbanisti e pianificatori rispondere alle esigenze della collettività quando essa stessa si presenta in modo chiaro e trasparente con tutti i problemi che si riscontrano nel vivere quotidianamente in quel luogo. Riguardo le “istruzioni per l’uso”, queste richiamano il concetto della partecipazione come “strategia d’indagine”, proposto da Paolo Fareri, per proporre il superamento della visione riduttiva che vede nel rapporto tra conoscenza e decisione un’attività esclusiva dell’esperto come “portatore unico” di conoscenza all’interno del processo di policy. In un processo partecipativo la pluralità di attori determina una pluralità di conoscenze diverse che possono essere utilizzate sia a fini decisionali, sia a promuovere uno scambio di conoscenza e quindi a favorire quella che prima è stata accennata come “apprendimento trasformativo”. Se considerassimo la conoscenza, definita da Lindblom e Cohen (1979), come parte imprescindibile e fondamentale del processo partecipativo, quindi utilizzabile ai fini del processo, che sia proveniente da diverse fonti e di diversa entità (scientifica, interattiva, ordinaria) la partecipazione potrebbe essere: una “politica intelligente” che mette in relazione i saperi, uno “strumento completo” che sfrutta i diversi input di conoscenza per dare una soluzione (risultato del processo) che soddisfi in toto la collettività e quindi risolva in modo equo ed univoco il problema sociale (e urbano), una “strategia consapevole” che metta in relazione i reali bisogni della società poiché ognuno possa esprimere i propri desideri e i propri disagi. Una delle questioni ancora aperte della partecipazione è la legittimazione nei confronti dei soggetti ai quali essa si rivolge: i cittadini e gli attori locali. La partecipazione come strumento delle politiche è oggi «un’iniziativa degli attori responsabili, un’opportunità offerta agli attori locali, uno strumento bottom up che segue un percorso top down» e quindi presenta dei seri problemi riguardo la legittimazione (Fareri, 2009). Una via possibile potrebbe essere quella dell’istituzionalizzazione della partecipazione con delle leggi che ne regolano l’entrata in gioco, le modalità, gli strumenti. Una valida proposta in questo senso è la legge regionale della Toscana 69/2007 sulla partecipazione che delinea l’esigenza di pratiche partecipative come forma integrativa della governance territoriale. Di seguito sono riportati alcuni degli obiettivi principali delineati nell’art. 1 comma 3: a) “contribuire a rinnovare la democrazia e le sue istituzioni integrandola con pratiche, processi e strumenti di democrazia partecipativa; b) promuovere la partecipazione come forma ordinaria di amministrazione e di governo della Regione in tutti i settori e a tutti i livelli amministrativi; c) rafforzare, attraverso la partecipazione degli abitanti, la capacità di costruzione, definizione ed elaborazione delle politiche pubbliche; d) creare e favorire nuove forme di scambio e di comunicazione tra le istituzioni e la società; e) contribuire ad una più elevata coesione sociale, attraverso la diffusione di una cultura della partecipazione e la valorizzazione di tutte le forme di impegno civico; f) contribuire alla parità di genere; g) favorire l’inclusione dei soggetti deboli e l’emersione di interessi diffusi o scarsamente rappresentati; h) sollecitare e attivare l’impegno e la partecipazione di tutti alle scelte e alla vita delle comunità locali e regionale; 8
Mi riferisco ai modelli decisionali “classici” utilizzati nella progettazione di politiche pubbliche ovvero: il modello razionale (Simon, Benfield, Meyerson e altri, 1945-), il modello a razionalità limitata (Simon, 1947), il modello incrementale (Lindblom, 1959), il modello bidone della spazzatura (March, Olsen, 1976).
i) valorizzare i saperi, le competenze e l’impegno diffusi nella società; j) promuovere la diffusione delle migliori pratiche di partecipazione e dei relativi modelli; k) valorizzare le esperienze partecipative in atto.” In Italia purtroppo sono pochissime le regioni che si sono dotate di una legge sulla partecipazione, sulla base di questo esempio è necessario affermare la partecipazione come policy instrument mediante l’istituzionalizzazione di una strategia e la legittimazione di tutto quell’insieme di crescita culturale, scambi conoscitivi, proposte dal basso e interazione di una società pensante e per una società che merita voce.
BIBLIOGRAFIA Allegretti U. (a cura di, 2010), Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Itali e in Europa, Firenze University Press. Bobbio L. , Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n. 4 vol. 44, 2006, pp. 11 - 26. Bobbio L. e Pomatto C. , Modelli di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche, 2007 (documento redatto per conto della provincia autonoma di Trento, nel quadro di una ricerca sulla qualità della democrazia coordinata da Sergio Fabbrini). Fareri P., Giraudi M. (2009), Rallentare. Il disegno delle politiche urbane, Franco Angeli, Milano. Gelli F., Morlino L. (2008), Democrazia locale e qualità democratica. Quali teorie, Congressoo annuale della società italiana di scienze politiche, Università degli studi di Pavia, www.sisp.it. Perrone C. La partecipazione come policy instrument. Rituali deliberativi, incontri, apprendimento sociale, in Contesti. Città, Territori, Progetti; rivista del dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio, Università degli studi di Firenze, n. 1/2010, pp. 49 - 59. Scalvi M., Ascolto attivo e seconda modernità sul discutere i pro e i contro e sulla gestione creativa dei conflitti, in Rivista di psicologia analitica, n. 19, 71/2005, Milano, pp. 137 - 159. Sclavi M. (2006), La signora va nel Bronx, Bruno Mondadori, Milano. Zetlaoui-Leger J., L’implication des habitants dans des micro-projets urbain: enjeux politiques et proposition protiques, in Les cahiers de l’école d’architecture de la Cambre, Bruxelles, Gennaio 2005.