KOBE BRYANT
STORIA DI UN EROE DIVENUTO LEGGENDA
“Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te.“
S O M M AR I O : • I PRIMI ANNI
• 20 0 9 I L Q UARTO TI TO LO
• L’I TA L I A
• 201 0 I L Q UI NTO TI TO LO
• LOWE R M A R I O N H I G H S CH O O L
• O L I M P I ADI 201 2
• 19 9 6, S U B I TO L’N BA
• KO B E & M J
• LO S A N G E L E S L A K E R S
• DEAR BASKETBAL L
• P H I L JACKS O N E G L I A N N I DE L L E F I NALS
• 201 6, L’ULTI M O AL L STAR GAM E
• 2 0 0 0 I L P R I M O T I TO LO
• M AM BA O UT
• 2 0 01 I L S E CO N D O T I TO LO
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• 2 0 02 I L T E R ZO T I TO LO
• KO B E D O P O I L RI TI RO
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• B RYANT, UO M O NI KE
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• ADDI O M AM BA
• I N U OV I L A K E R S
• HAL L O F FAM E
• O L I M P I A DI 2 00 8
I PRIMI ANNI
Kobe Bean Bryant nacque il 23 agosto del 1978 a Philadelphia, negli Stati Uniti. Suo padre è l’ex cestista Joe Bryant, mentre sua madre Pamela è sorella di Chubby Cox, anch’egli ex giocatore di pallacanestro; aveva due sorelle più grandi, Sharia e Shaya.
La storia di Kobe fu singolare già da prima che nascesse: i genitori di Bryant si trovavano in un ristorante a Philadelphia quando la madre disse al padre di essere rimasta incinta; Joe, il padre, rimase molto contento di questa notizia e fu anche molto soddifatto dalla bistecca che stava mangiando. Il succulento pezzo di manzo si chiamava Kobe e così decisero di chiamare il figlio come la bistecca. Bryant iniziò a giocare a basket sin dai 3 anni, e proprio da papà Joe ereditò la passione per la pallacanestro.
L’ITALIA Dopo aver giocato per 8 stagioni rispettivamente con Philadelphia, San Diego Clippers e Houston Rockets, nel 1984 Joe Bryant decise di chiudere con l’NBA e di trasfersi in Italia dove avrebbe potuto giocare ancora qualche stagione. Ed è proprio sui parquet del nostro paese, che Kobe iniziò a prendere confidenza con la pallacanestro all’età di appena 3 anni.
A Rieti visse la sua prima esperienza e chi lo conobbe ricorda di lui in particolare la passione precoce per il basket e la totale dedizione a questo sport nonostante la giovane età. Bryant dichiarò sempre che proprio in Italia imparò i fondamentali di questo sport, gettando le basi del grande campione che sarebbe diventato.
Da Rieti a Reggio Calabria, fino a Pistoia e Reggio Emilia, Kobe Bryant trascorse in Italia gli anni tra il 1984 e il 1991. Questo gli permise di imparare molto bene la nostra lingua e di ricordarla anche a tanti anni di distanza da quella esperienza.
Joe Bryant a Rieti
La famiglia Bryant si trasferì quindi inizialmente a Rieti, dove restò nelle stagioni 1984/85 e 1985/86. Kobe seguiva il padre ad ogni partita e in ogni allenamento. Si racconta che ad ogni time-out, il piccolo Kobe prendesse il pallone e inizasse a correre per il campo. Nella stagione 1986/87 si trasferì a Reggio Calabria. In quell’anno trascorso sulle rive dello stretto, Kobe iniziò a giocare e ad allenarsi con i ragazzini della Viola Reggio Calabria. Il suo allenatore di allora, Rocco Romeo lo ricordò così: “Era un bambino molto educato e sempre gioviale, con un sorriso incredibile. Kobe voleva imitare suo padre e
voleva sempre il pallone in mano e non lo passava mai a nessuno. Era inutile dirgli cosa fare, lui voleva il pallone e voleva tirare.” Ad alimentare la sua “fame” di basket e soprattutto di NBA c’erano poi anche le videocassette delle partite più importanti che riceveva dagli Stati Uniti dagli amici del padre. Erano gli anni dei Lakers di Magic e dei Bulls di Jordan; Kobe era tifoso dei Lakers e dello “Show Time” di Magic così dopo ogni partita vista sognava di indossare la maglia giallo-viola e sul campetto provava e riprovava a riprodurre tutte le azioni fatte dai suoi campioni in tv.
1986/87 Kobe Bryant a Reggio Calabria
Dopo Rieti e Reggio Calabria, la terza tappa italiana del piccolo Kobe fu Pistoia. Proprio qui, iniziò a praticare la pallacanestro a certi livelli, iniziando a costruire quella che poi tutti avrebbero conosciuto come Mamba Mentality. Verso fine anni ‘80, a Contigliano (Pistoia) ci fu un camp estivo e tra i partecipanti c’era un ragazzo americano che qualche anno dopo sarebbe divenuto un’icona della pallacanestro. Un’esperienza che Kobe non dimenticò, anzi. Infatti nell’estate 2016 a Milano, durante il “Mamba Mentility Tour”, alla domanda da dove provenisse quella caratteristica a non mollare mai, Kobe rispose così: “Partecipammo ad un camp di pallacanestro, si chiamava Camp Contigliano e imparai questo lì. In una partita ero molto nervoso, non avevo giocato bene e quella sera tornato al camp riflettei sul perché. Questa filosofia iniziò quella sera”. 1988, Kobe a Pistoia
L’ultima città italiana della famiglia Bryant fu Reggio Emilia, forse quella che rimase più nel cuore a Kobe. Negli anni su e giù per l’Italia il piccolo Kobe non solo imparò ad apprezzare l’Italia e la nostra lingua, ma anche le prime nozioni tecniche di quello che sarebbe diventato il suo sport. Lo fece entrando nella squadra degli ‘Aquilotti’ delle Cantine Riunite Reggio Emilia.
“Crescere in Italia mi diede un incredibile vantaggio – dichiarò in un’intervista rilasciata alla FIBA nel marzo 2019 – Non imparai come passarmi la palla sotto le gambe o dietro la schiena, bensì la tattica. Cose come muovermi senza palla, fare passaggi semplici, usare la mano sinistra e quella destra. Come usare l’angolo per appoggiare la palla al tabellone, come muovermi sui blocchi: tutte queste cose. Quando tornai in America, gli altri ragazzi non sapevano come fare quelle cose”.
LOWER MARION HIGH SCHOOL
Nel 1992, quando Kobe aveva 14 anni, il padre decise di smettere di giocare e di tornare in America. KB era un ragazzo diverso dagli altri infatti, arrivando dall’Italia era abituato a passare più ore sullo studio che sul campo da basket. Appena tornato negli USA furono in molti a considerarlo come un giocatore mediocre, che non avrebbe mai sfondato vista la mancanza di preparazione atletica data ai ragazzi dalle High School Americane nei primi 4 anni di corso; anni che lui aveva saltato in quanto si trovava in Italia. Kobe iniziò così a lavorare duramente tutti i giorni per migliorare ogni aspetto del suo gioco.
Dopo aver frequentato dal ‘92 la Bala Cynwyd Junior High, nel 1996 si iscrisse alla High School di Lower Marion dove rimase per 3 anni. Come già detto, all’inizio furono molti a essere scettici su di lui, ma lui zittì tutti diventando il miglior marcatore di sempre delle High School della Pennsylvenia con un totale di 2883 punti, battendo il precedente record detenuto da un certo Wilt Chamberlain! Come se non bastesse in tre anni il bilancio totale di vinte-perse fu di: 77-13.
Ogni anno Bryant migliorò, diventando sempre più forte e completo. Chiuse la sua ultima stagione con 30.8 punti, 12 rimbalzi, 6.5 assist e 4 recuperi. Sempre nell’ultima stagione chiuse con 31 partite vinte e 3 perse, portando Lower Marion a vincere il titolo della divisione. Fu designato come “National High School Player of the Year” da parte di Usa Today e fu anche “Gatorade Circle of Champions High School Player of the Year”. Ovviamente venne anche chiamato a giocare il McDonald’s All Star Game, partita di esibizione giocata ogni anno dai migliori cestisti provenienti dalle high school di tutti gli Stati Uniti.
1996
SUBITO L’NBA
Nel 1996, non ancora diciottenne, decise di fare il grande salto tra i professionisti e si dichiarò eleggibile per il Draft NBA senza passare per il college, nonostante vi fossero state offerte per lui da parte di prestigiose università come Kentucky e Duke. Venne scelto dagli Charlotte Hornets al primo giro come numero 13 assoluto; subito dopo, però, gli Hornets cedettero ai Los Angeles Lakers i diritti su Bryant in cambio del centro serbo Vlade Divac, che dopo sette stagioni lasciò i gialloviola. I californiani infatti non avevano più bisogno di Divac, avendo appena messo sotto contratto il centro più forte sul mercato, Shaquille O’Neal.
I Lakers, prima di orchestrare lo scambio, organizzarono un provino per testare le qualità del giovane Bryant (che tra l’altro sperava di essere scelto proprio dai Lakers) e ne furono conquistati. Lo scambio fu architettato da Jerry West che convinse Divac ad andare a Charlotte nonostante lui non volesse venire scambiato per un giocatore che veniva dal college, minacciando addirittura di ritirarsi.
LOS ANGELES LAKERS Kobe debuttò tra i professionisti il 13 novembre 1996 in una sfida contro i Minnesota Timberwolves, senza segnare punti. All’epoca fu il debuttante più giovane nella storia dell’NBA a 18 anni e 72 giorni. Durante la prima stagione a Los Angeles Bryant partì come riserva di Eddie Jones e di Nick Van Exel. Il proprio minutaggio fu limitato a inizio stagione, ma aumentò nel corso dell’anno arrivando ad una media di 15,5 minuti e 7,6 punti a partita. Nei playoff Bryant mostrò però di essere ancora acerbo: nel finale della partita decisiva della serie contro gli Utah Jazz (persa 4-1) tirò corto tre volte, e il compagno di squadra Nick Van Exel criticò la scelta del coach Del Harris di aver fatto gestire all’inesperto Bryant i possessi palla decisivi. Diversa fu la reazione dell’altro suo compagno di squadra Shaquille O’Neal che prese le sue difese sostenendo che lui “sia stato l’unico ad aver avuto il coraggio di prendersi quei tiri”. Nonostante questo episodio, le sue prestazioni in stagione gli valsero l’ingresso nell’All-Rookie Second Team, diventando il più giovane della storia ad esserci entrato.
1997 All Star Game di Cleveland, Dunk Contest. Bryant ancora era solamente un ragazzino 19enne con la maglia giallo-viola, ma partecipò alla gara delle schiacciate. Era dotato di pregevole elevazione, ottima esplosività e una coordinazione nei movimenti che faceva davvero ben sperare per il futuro. Vinse a sopresa la gara grazie al remake della schiacciata che nel 1994 diede il titolo a Isaiah Rider, eseguita però frontalmente facendosi passare il pallone in mezzo alle gambe. Del giovanissimo n° 8 dei Lakers la lega ne avrebbe sentito presto parlare.
Le critiche dovute ai tiri sbagliati contro i Jazz fortificarono Bryant che nella stagione successiva giocò di più e meglio, partendo col piede giusto segnando 23 punti contro gli Utah Jazz (contro cui un anno prima sbagliò i tiri decisivi) facendo vincere i Lakers per 104-87. Il 14 dicembre 1997 segnò il primo 30ello della sua carriera nel successo per 119-89 contro i Dallas Mavericks. Solo 3 giorni più tardi segnò 33 punti nella sconfitta per 104-83 contro i Chicago Bulls di Michael Jordan che ne segnò 36.
Anche se utilizzato ancora come 6° uomo da coach Harris, a fine anno raddoppiò la sua media, che salì a 15,4 punti a partita. Allo stesso tempo cominciò a mostrare le sue qualità: grazie ai quasi 400.000 voti dei tifosi fu inserito nel quintetto base per l’AllStar Game di New York (record come più giovane titolare nella storia della rassegna), scavalcando giocatori del calibro di John Stockton, Stephon Marbury, Jason Kidd e Clyde Drexler. Inoltre al termine dell’annata arrivò secondo nelle votazioni come miglior 6º uomo dell’anno dietro a Danny Manning. I Lakers si presentarono meglio ai playoff con un record di 61-21, ed eliminarono Portland (4-0) e Seattle (4-1), arrivando sino alla finale di Conference dove però vennero nuovamente sconfitti da Utah per 4-0.
L’anno seguente, a causa delle cessioni di Van Exel e Jones, il ventenne Bryant diventò la guardia titolare. Kurt Rambis, ex giocatore dei Lakers, sostituì il licenziato coach Del Harris e, al termine del lungo lockout che posticipò l’inizio della stagione al 5 febbraio, il 31 gennaio Bryant rinnovò il suo contratto per 6
anni a 71 milioni di dollari complessivi. Nonostante la squadra avesse faticato durante l’anno, Bryant disputò una buona annata. Il club nei playoff eliminò al primo turno gli Houston Rockets, con Bryant che nella definitiva gara-4 mise a referto 24 punti e 8 assist in 47 minuti d’impiego con la squadra
che vinse 98-88 chiudendo la serie; il cammino della franchigia terminò al turno successivo nelle semifinali di Conference, dove venne eliminata dai San Antonio Spurs, futuri campioni. A fine anno venne incluso per la prima volta nell’All-NBA Team (precisamente nel terzo).
Walter Loss Jr.
PHIL JACKSON
E GLI ANNI DELLE FINALS La stagione 1999/2000 segnò un cambio radicale sulla panchina giallo-viola. Sebbene già dalla parte finale della stagione precedente Kobe si mise in luce come un potenziale titolare, fu chiaro che il prossimo allenatore dei Lakers avrebbe dovuto plasmare la sua personalità esigente e il vorace appetito di tiro. Così, come nuovo coach, arrivò il leggendario Phil Jackson, reduce dai due three-peats con i Bulls di Michael Jordan. Il maestro zen si rivelò perfetto per quel lavoro, anche se ammise una curva di apprendimento con Bryant. “Kobe era intenzionato a superare Jordan come il più grande giocatore di sempre del gioco”, scrisse Jackson nel suo libro, Eleven Rings: The Soul of Success. “La sua ossessione per Michael era sorprendente. Quando giocammo a Chicago in quella stagione (1999-2000), organizzai un incontro tra le due stelle, pensando che Michael avvesse potuto aiutare a spostare l’atteggiamento di Kobe verso il lavoro di squadra. Dopo aver stretto la mano di MJ, le prime parole che uscirono dalla bocca di Kobe furono: “Sai che posso prenderti a calci in culo in uno contro uno.”
Dopo qualche attrito iniziale, con il beneficio del tempo, Bryant iniziò a comprendere sempre meglio il perchè del duro trattamento ricevuto da coach Jackson sui media: “Ero come un cavallo selvaggio che aveva il potenziale per diventare un purosangue, ma che era semplicemente troppo selvaggio. Quello che faceva era per cercare di domarmi. In effetti mi ha spinto verso un ritmo maniacale. Perché, consciamente o inconsciamente, ha esercitato una pressione tremenda su di me per essere efficiente, essere grande ed esserlo ora.”
2000
IL PRIMO TITOLO
Stagione 1999/2000: l’arrivo di Phil Jackson produsse risultati immediati. I Lakers vinsero 67 partite nella sua prima stagione, guidati da Shaquille O’Neal, miglior marcatore della lega e MVP della stagione, e Bryant che tenne una media di 22,5 punti a partita, nonostante il tempo perso all’inizio della stagione per un infortunio a una mano. Nei playoff, dopo avere eliminato in ordine Sacramento Kings e Phoenix Suns, i Lakers affrontano Portland. Memorabile fu gara-7 delle Finals della Western Conference contro i Blazers. Con la loro stagione sull’orlo del collasso, i Lakers riuscirono a recuperare da uno svantaggio in doppia cifra, chiudendo la partita con un iconico alley-oop Bryant-to-O’Neal. La combo superstar-superstar, visto lo stato di grazia di Bryant e la furia di O’Neal, in quel momento sembrava inarrestabile. La corsa attraverso il campo di O’Neal a indicare la folla, anche se le finali non erano ancora iniziate, lasciava pochi i dubbi sul fatto che il duo dei Lakers fosse destinato a diventare campione. Nelle Finals fu il turno degli Indiana Pacers, contro i quali i gialloviola vinsero in 6 gare. Bryant diede il suo contributo tenendo 15,6 punti di media. In gara-2 subì un infortunio alla caviglia che gli impedì di disputare la gara successiva, ma tornò in campo per gara-4, seppur dolorante, contribuendo alla vittoria della squadra per 120-118 con 28 punti. Quell’anno venne anche inserito per la prima volta nell’All-Defensive Team (divenendo il più giovane a farne parte).
Dopo una serie a sei partite contro i Pacers, Los Angeles conquistò il primo titolo dall’era “Showtime”. Bryant, nel frattempo, vinse il suo primo anello già alla sua quarta stagione, mentre Michael Jordan aveva avuto bisogno di sette stagioni e LeBron James, in seguito, ne avrebbe avuto bisogno di nove. “Questo è qualcosa che ho sempre sognato in tutti i miei 21 anni”, disse Bryant, pensando sicuramente a quanti altri titoli sarebbero potuti arrivare.
All’inizio della stagione 1999/2000 Bryant si ruppe una mano, la destra (l’infortunio lo costrinse a saltare le prime 16 partite di regular season). Ecco come Kobe si presentò il giorno dopo agli allenamenti, in pigiama. Fece tutti gli esercizi con la mano sinistra. Mamba Mentality.
2001
IL SECONDO TITOLO
Nel 2000/2001 Bryant si prese maggiori responsabilità iniziando a superare O’Neal nelle gerarchie della squadra; Shaq non gradì molto e tra dicembre e gennaio iniziarono gli screzi (Derek Fisher definì la dinamica degli spogliatoi “fragile come un uovo”). Dopo l’All-Star Game, in cui Bryant fu il miglior finalizzatore dell’ovest, i due si riappacificarono, ma vi fu un altro problema per Bryant: in marzo venne riportata sul Chicago Sun-Times un’indiscrezione su una presunta frase di Phil Jackson, secondo il quale Bryant non si integrava col suo modo di giocare. Per la prima volta in carriera fu bersagliato dalla stampa per i suoi comportamenti poco sportivi: passava dalla serata in cui non rispettava gli schemi e tirava sempre (mandando in crisi l’attacco di Los Angeles), a quella in cui faceva “lo sciopero dei tiri” e passava sempre e solo la palla. A confermare ulteriormente i problemi nello spogliatoio giallo-viola, ad aprile, Bryant non invitò nessuno dei suoi compagni al suo matrimonio. Oltre a questo i Lakers si piazzarono secondi ad ovest, arrivando ai playoff tra diverse perplessità.
Fortunatamente per L.A. tutto ciò “scomparve” nei playoff e i Lakers spazzarono via tutte le rivali ad ovest senza perdere nemmeno una partita nelle serie della Western Conference: 3 contro i Trail Blazers, 4 contro i Kings e 4 contro gli Spurs. Kobe contro quest’ultimi fu protagonista di una prestazione da 36 punti, 9 assist e 8 rimbalzi in gara-3.
In finale incontrarono i Philadelphia 76ers dell’MVP della regular season Allen Iverson, che vinse il premio nonostante Bryant avesse disputato un’ottima stagione da 28,5 punti e 5 assist di media. I Lakers trionfarono in 5 gare (dopo aver perso Gara-1 con 48 punti di Iverson), per Kobe fu il secondo titolo.
Iconica fu l’immagine di Kobe Bryant seduto nelle docce appena dopo aver vinto le Finals del 2001 con il trofeo in mano e un aspetto totalmente privo di emozioni. Molti però non conobbero la storia dietro quella foto. Una situazione profonda, che coinvolgeva Kobe, la sua famiglia e i suoi genitori. Kobe infatti aveva in quel periodo attriti piuttosto forti con i suoi genitori, principalmente a causa del suo primo matrimonio con Vanessa. I suoi genitori infatti non approvarono quella relazione; ciò causò la separazione tra Kobe e i suoi genitori. Quando Kobe e Vanessa si sposarono, Joe e Pam non parteciparono al matrimonio.
Quando i Lakers giocarono le tre partite a Philadelphia durante le finals del 2001, Joe non c’era. Quando, alla fine di quella serie, i Lakers trionfarono e Kobe fu avvistato mentre teneva il trofeo sotto la doccia e piangeva, tutti presumevano che fosse per gioia o sollievo. Ma in seguito disse al Times: “Riguardava mio padre”. Fu infatti particolarmente doloroso per Kobe che stava giocando le finali a Phila, sua città natale, dove vivevano i suoi genitori, non vederli presenti nemmeno per una sola partita. Nonostante la situazione, Kobe rimase acuto e freddo in campo mentre aiutava i Lakers a vincere un altro campionato. Mamba Mentality.
2002
IL THREE-PEAT IL TERZO TITOLO
Il 2001/2002 fu nuovamente un anno dove le polemiche per i comportamenti di Bryant si accendevano e spegnevano partita dopo partita: un giorno Shaq&Kobe erano “la coppia più bella del mondo”, il giorno dopo il rapporto era rotto per via di una dichiarazione di uno o un comportamento dell’altro. Nel 2002 Bryant vinse per la prima volta l’MVP dell’ASG, in cui segnò 31 punti. In stagione totalizzò 25,2 punti e 5,5 rimbalzi e 5,5 assist. I gialloviola nei playoff, dopo avere eliminato agevolmente i Trail Blazers e gli Spurs, in finale di Conference riaffrontarono i Sacramento Kings dell’ex Vlade Divac e Chris Webber.
Questa volta la serie fu molto combattuta e, dopo un 30ello di Bryant nella vittoriosa gara-1, in gara-2 Bryant giocò male anche per via di un’intossicazione alimentare e i Kings vinsero; Sacramento vinse anche gara-3. In gara-4 i Lakers pareggiarono la serie ma, nonostante i 25 punti di Bryant, fu uno storico tiro da tre punti allo scadere di Robert Horry a decidere la partita. La serie si protrasse fino a gara-7, finita ai supplementari, con i Lakers che passarono il turno grazie anche a Bryant che realizzò 30 e 31 punti nelle ultime due gare della serie.
O’Neal, Bryant e compagni, superato lo scoglio Sacramento Kings, furono pronti per affrontare nelle finals i New Jersey Nets di Jason Kidd, che a loro volta avevano superato in semifinale i Boston Celtics. Per i Lakers fu tutto molto più facile del previsto, come un rullo compressore si abbatterono sui Nets chiudendo la questione con un perentorio 4-0. Fu questo il terzo three-peat per Phil Jackson, dopo i due con i Chicago Bulls. Inoltre proprio con questa vittoria, i Lakers furono l’unica squadra, oltre ai Bulls di Jordan a vincere tre titoli consecutivi durante l’era dei tre punti. Dopo questa dimostrazione di forza, che nessuno sembrava poter fermare, Jack McCallum di Sports Illustrated si chiese: “Quanti titoli di seguito può vincere Los Angeles? Quattro? Cinque? Dieci? E quanto possono diventare bravi Shaq e Kobe? Meglio di Jordan e Pippen?”
GUAI E ACCUSE
Era il 2003 quando all’improvviso il mondo dello sport fu costretto a confrontarsi con una nuova e inaspettata vicenda riguardante Bryant, quando fu accusato di violenza sessuale. Sports Illustrated pubblicò la foto segnaletica di Bryant sulla copertina con il titolo: “KOBE BRYANT: ACCUSATO”.
La storia dell’accusa di stupro a Bryant fu uno dei casi giudiziari più noti di sempre tra quelli legati a personalità sportive. Ad accusare Bryant fu una receptionist 19enne di un albergo in Colorado, dove il giocatore trascorse una notte nel giugno del 2003. La donna raccontò che, saputo che Bryant sarebbe stato ospite, si trattenne
oltre il suo orario di lavoro per conoscerlo; che lo portò a fare un tour della struttura e, una volta rimasti da soli nella sua camera, Bryant l’avrebbe baciata e lei acconsentì. Sempre secondo la sua testimonianza, le effusioni proseguirono fino al rapporto sessuale, nonostante i suoi ripetuti rifiuti. La donna denunciò Kobe che all’inizio negò il rapporto, poi lo ammise descrivendolo però come consensuale. Fu accusato di stupro e il caso giudiziario che ne seguì fu raccontatissimo dai media: non si andò però mai a processo, perché la donna si rifiutò di testimoniare. Inoltre emerse in seguito che la donna aveva mentito su alcuni dettagli della sua testimonianza, rendendo ulteriormente fragile l’accusa, dal punto di vista legale. Alla fine il caso penale fu archiviato e la donna ottenne da Bryant un risarcimento civile per i danni provocati dal processo. Bryant sostenne sempre la sua innocenza, ma dopo il processo si scusò con la donna spiegando che “dopo mesi in cui ho riletto le prove e ascoltato il suo avvocato e anche la sua testimonianza, capisco perché lei senta che il rapporto non fosse stato consensuale”. La moglie Vanessa gli restò accanto, ma a causa dello stress di quel periodo abortì il seondo figlio che portava in grembo.
A quel punto, la reputazione e la popolarità di Bryant avevano subito un colpo significativo, perse molti fan e importanti accordi di sponsorizzazione (Nike, McDonald’s e Nutella), i suoi rapporti tesi con i compagni di squadra, in particolare O’Neal, furono spinti ulteriormente all’esasperazione. I Lakers non giocavano più al livello “da campioni” a cui avevano abituato tutti gli anni precedenti. Nonostante gli svariati problemi, quella 2002/2003 fu per Bryant un’ottima stagione a livello di cifre personali. Si ricorda soprattutto un grande mese di febbraio in cui tenne 40,6 punti di media in 14 partite, con una striscia di 13 partite consecutive con 35 o più punti segnati! Inoltre segnò 22 punti all’ASG 2003, passato alla storia come l’ultimo di Michael Jordan.
Proprio in quel periodo, memorabile fu la prestazione del 28 marzo 2003 a Washington contro i Wizards di Michael Jordan, che aveva annunciato il ritiro a fine stagione. Era l’ultima partita contro i Lakers della lunghissima carrira di MJ, sugli spalti c’era un fan che agitava un cartello con scritto “Arrivederci Michael, Ciao Kobe”. Era il momento perfetto per il “cambio delle guardie”. Il 40enne Jordan diede ai suoi fans l’ennesima dimostrazione della sua grandezza segnando 17 dei suoi 23 punti nel primo tempo. Il 24enne Kobe dimostrò a quegli stessi fan il motivo per cui meritava il passaggio di consegne da “His Airness”: segnò infatti 55 punti (di cui 42 nel solo primo tempo).
“Era caldo. Abbiamo cercato di tenerlo sul perimetro; siamo usciti con lui ed era ancora caldo. Li ha tenuti in gioco da solo nel primo tempo“, disse Jordan. Bryant realizzò 9 tiri consecutivi (23 punti) nel secondo quarto. “È stata una dimostrazione incredibile”, disse Phil Jackson. “Eravamo curiosi di capire dove sarebbe arrivato, 80 punti? Sono sicuro che gli sia passato per la testa.“ Bryant terminò la stagione (per la prima volta) a 30 punti di media, superando anche O’Neal, ma nei playoff i gialloviola non riuscirono a ripetersi in quanto vennero sconfitti al secondo turno dai San Antonio Spurs.
Dopo la sconfitta con gli Spurs, per la stagione 2003/2004 i Lakers decisero di rinforzarsi prendendo due fuoriclasse come Karl Malone e Gary Payton, giocatori storici della NBA anche se entrati nella fase calante della loro carriera, che andarono a inserirsi in un team già costruito per vincere l’anello, che non erano riusciti ancora mai a vincere. I loro arrivi coincisero con lo scandalo che riguardò Bryant circa l’ipotesi di stupro e questo rovinò del tutto i rapporti con O’Neal, da sempre
burrascosi. Ad ogni modo, agli occhi di molti osservatori, i rapporti fra i due peggiorarono negli anni anche a causa della crescita di Bryant come giocatore, a cui faceva da contraltare la fine della fase di assoluto dominio di O’Neal, con quest’ultimo accettava sempre meno l’ipotesi di dover lasciare la scena e diventare il “secondo” della coppia, permettendo a Bryant di prendere in mano la squadra nei momenti decisivi e garantendo, probabilmente, il prolungamento di una dinastia vincente a LA.
Bryant si presentò visibilmente scosso per quanto avvenuto in estate, ma ciò non gli impedì di tenere (seppur con prestazioni incostanti) delle buone medie e di entrare nell’All-NBA First Team e nell’AllNBA First Defensive Team. Nei playoff, dopo avere regolato al primo turno gli Houston Rockets in 5 gare, nelle semifinali i Lakers reincontrano gli Spurs; Bryant fu decisivo con 42 punti segnati in gara-4 (dopo essere tornato da un’udienza). La serie però si chiuse per merito dello
storico compagno Derek Fisher con un incredibile tiro a 0,4 secondi dalla fine di gara-6. Dopo avere eliminato in 6 gare i Minnesota Timberwolves in finale di conference, i gialloviola tornarono in finale NBA dove affrontarono i Detroit Pistons; in finale Bryant ebbe molte difficoltà, segnando 33 punti nell’unico successo del team in gara-2, ma soffrì molto l’arcigna difesa di Tayshaun Prince e Rip Hamilton (seppur tenendo di media 22,6 punti), e la squadra perse così l’anello in 5 gare.
ADDIO SHAQ Deluso dalla sconfitta con i Pistons, nell’estate 2004, Bryant decise di testare la free agency, salvo poi decidere a metà luglio di siglare un rinnovo contrattuale della durata di ben sette anni con i Lakers, per la cifra di 136,6 milioni di dollari. Contestualmente, venuto a conoscenza del volere dei Lakers di ri-firmare Bryant, O’Neal chiese di essere ceduto, ponendo fine di fatto a una squadra che aveva dominato l’inizio del millennio. Dopo otto stagioni e tre titoli, Bryant ebbe “finalmente” il possesso dei Lakers. Los Angeles infatti ufficializzò lo scambio del suo centro All-Star con Miami per un pacchetto che includeva Lamar Odom e Caron Butler. “La squadra non stava andando nella giusta direzione, e questo non era qualcosa di cui volevo far parte, quindi ho chiesto di essere scambiato”, disse O’Neal in quel momento.
All’addio di Shaq, si accompagnarono quelli di coach Jackson (che nell’estate 2004 pubblicò un libro dove definì Bryant “inallenabile”), Payton, Malone e di alcuni giocatori del nucleo storico dei Lakers come Derek Fisher e Rick Fox facendo ripartire tutto da Bryant.
Nella stagione 2004/2005, sua prima annata da “solista”, Kobe termino con 27,6 punti, 5,9 rimbalzi e 6 assist a partita. Ma il nuovo corso dei Lakers di Bryant, ovvero quello senza un partner come O’Neal e senza coach Jackson, incontrò più problemi del previsto. Diversi infortuni limitarono sia Kobe che diversi suo campagni (Divac, tornato da Sacramento, non fu mai utilizzato; Brian Grant, arrivato con Odom e Butler da Miami, sceso in campo solamente un paio di volte) e tutto ciò si tradusse con una pessima annata in cui il record
dei Lakers fu addiritura più basso di quello dei Clippers. I Lakers, per la prima volta nella carriera di Bryant, non si qualificarono per i playoff del 2005; si classificarono ultimi per efficienza difensiva e l’allenatore Rudy Tomjanovich fu sollevato dall’incarico di head coach prima della fine della stagione. Per quanto riguarda Bryant, i suoi numeri restarono alti, ma le tante sconfitte lo fecero retrocedere fino alla terzo All-NBA Team del 2005 e il suo approccio “Kobe contro tutti” destò numerosi pareri negativi.
BLACK MAMBA A seguito delle accuse di stupro ricevute nel 2003 e dei vari problemi nati in seguito, Kobe decise di dare una svolta alla sua vita, alla sua carriera e adottare il soprannome Black Mamba. Così dal 2004 si auto-assegnò questo soprannome dopo avere visto Kill Bill: Volume 2, pellicola in cui è presente il pericolosissimo serpente mamba nero e in cui vengono descritte le sue caratteristiche.
Bryant si documentò su questo serpente sostenendo che il suo modo di giocare e di agire fosse simile a quello adottato dall’animale menzionato nel film di Quentin Tarantino. La protagonista del film Beatrix Kiddo, in una delle scene clou, elenca le caratteristiche di questo terribile rettile nelle quali Kobe si rispecchiava: “La lunghezza, il serpente, il morso, il colpo, il temperamento. Si sono proprio io.”
Nuovamente affrontata in Finale di Conference, Chicago surclassa Detroit con un cappotto (4-0) che spingerà i Pistons ad abbandonare il campo qualche secondo prima della fine di gara-4 per non poter sopportare una tale umiliazione. Ad Ovest c’è Portland con il miglior record in regular season, ma è battuta nella Finale della Western Conference dagli esperti Los Angeles Lakers: la finalissima sarà Michael contro Magic, il meglio che questo sport potesse offrire. Pagato lo scotto dell’inesperienza in gara-1, vinta all’ultimo secondo dai Lakers, in gara-2 i Bulls, capitanati da Jordan, esprimono tutto il loro potenziale e travolgono i Lakers con il maggiore distacco in una Finale NBA.
NUMERI INCREDIBILI A sorpresa nella stagione 2005/2006, nonostante le sue dure critiche a Bryant di un anno prima, Phil Jackson tornò ad allenare i losangelini, che oltre a Bryant avevano poche sicurezze nel roster, in pratica solamente Lamar Odom. E il ritorno di Jackson coincise con il miglior anno statistico della carriera di Bryant, una stagione da libro dei record. Per la prima volta guidò la classifica marcatori con 35,4 punti a partita, la media più alta di qualsiasi giocatore, non chiamato Michael Jordan, dagli anni ‘60. Inoltre quell’anno ha superato per sei volte i 50 punti, il massimo dal Jordan del 1987. Bryant era completamente scatenato. Il 20 dicembre 2005, Bryant segnò l’incredibile cifra di 62 punti contro i Dallas Mavericks (di cui 30 nel solo terzo quarto), cosa ancora più incredibile fu che Phil Jackson, avendo la vittoria al sicuro, lo fece riposare per tutto l’ultimo periodo. Al momento di andare in panchina, senza più rientrare per l’ultimo quarto di gioco, Bryant aveva segnato appunto 62 punti contro i 61 dell’intera squadra avversaria, cosa mai accaduta in precedenza dopo tre quarti di gioco.
L’allenatore di Dallas Avery Johnson disse: “Non c’è stato nulla da fare con lui. Abbiamo provato a raddoppiarlo, abbiamo cercato limitarlo, abbiamo cercato di intrappolarlo con la difesa a zona, ma niente ha funzionato. Stasera ha fatto di noi ciò che voleva.” I 62 punti segnati quella sera rappresentarono il nuovo career-high per Bryant, ma non lo sarebbero stati a lungo.
81 POINTS GAME
Il 22 gennaio 2006 stabilì il secondo miglior punteggio di tutti i tempi in una singola partita nella storia NBA, segnando 81 punti contro i Toronto Raptors, guidando i Lakers alla vittoria per 122-104. Significativo il fatto che i Lakers stessero perdendo di 18 punti nel terzo quarto: ciò valorizza ancor di più la prestazione di Bryant. Le sue cifre dal campo furono 21/33 da due punti, 7/13 da tre e 18/20 ai tiri liberi, ai quali aggiunse 6 rimbalzi, 2 assist, 3 palle recuperate e 1 stoppata. Segnò 14 punti nel primo quarto, 12 nel secondo, e rispettivamente 27 e 28 punti nei due quarti finali. La sua prestazione fu seconda solo a quella storica di 100 punti messi a segno da Wilt Chamberlain il 2 marzo 1962 con i Philadelphia Warriors contro i New York Knicks.
Fu anche grazie a questa prestazione che nel mese di gennaio tenne la spaventosa di 43,4 punti a gara, la migliore nella storia per un giocatore dei Lakers. Chiuse la stagione con la miglior media della sua carriera (35,4 punti a partita), risultando essere il migliore marcatore dell’intera NBA e portando i Lakers ai playoff. Entrò a far parte della top 10 per punti a partita segnati in una stagione, dietro solamente a Michael Jordan, Elgin Baylor e Wilt Chamberlain. Fu il settimo giocatore in assoluto per marcature in una stagione (2.832).
A fine stagione, nonostante i gialloviola si piazzarono settimi a ovest, Bryant arrivò quarto nelle votazioni per l’MVP della stagione regolare, vinto da Steve Nash. Fu proprio contro i Suns di Nash che i gialloviola si scontrarono ai playoff; Bryant disputò una grande serie segnando il tiro decisivo a 2 centesimi di secondo dalla fine in gara-4, mentre in gara-6 segnò 50 delle 118 marcature dei gialloviola.
Tuttavia la sua prestazione fu vanificata in quanto i Suns di punti ne segnarono 126 portando la serie sul 3-3, e nella decisiva gara-7 non bastarono 24 punti di Bryant; i Suns vinsero con un netto 121-90 eliminando i californiani.
24
SVOLTA, MATURAZIONE, CONSACRAZIONE
Un intervento chirurgico al ginocchio destro nel corso dell’estate 2006 gli impedì di proseguire il suo impegno con Team USA, impegnato con i mondiali in Giappone. Bryant approfittò così per completare la sua “metamorfosi”, che aveva cominciato con il definirsi “Black Mamba”. Il tocco finale fu la decisione di cambiare anche il numero di maglia, passando dall’8 al 24 per inaugurare, disse, un nuovo capitolo della sua carriera.
Furono tante le voci riguardanti il vero motivo dietro alla scelta del nuovo numero. ● 24 UN NUOVO CAPITOLO Bryant disse che “Il ‘24’ è un nuovo libro da scrivere ogni giorno. Quando invecchi, i tuoi muscoli cominciano a fare male, il corpo stesso ne risente; ti presenti per allenarti tutti i giorni e devi continuamente ricordare a te stesso ‘Ok, oggi è il giorno più importante di tutti. Devo spingere nonostante il dolore. Ma bisogna andare avanti perché oggi è il giorno più importante’. Per questo il 24 mi ha aiutato dal punto di vista della motivazione: è una tavola bianca, un nuovo inizio, concentrandomi su un numero che per me vuol dire tantissimo”. ● 24 UN TAGLIO AL PASSATO Qualcuno sostenne che il cambio di numero della maglia fu fatto anche per dare un taglio netto col passato, soprattutto con la vergognosa caccia alle streghe di cui fu vittima Kobe per la famosa storia delle accuse di stupro. ● 24 COME LE ORE DEL GIORNO Kobe in quella estate, su consiglio di Phil Jackson, seguì un corso di auto-motivazione, per fare punto e a capo nella sua carriera e cominciò a seguire le idee di un “motivatore” il cui motto era “vivi per 24 ore al giorno”, come a dire, non sprecare nemmeno un attimo della tua vita, perchè quando è passato potresti pentirtene. ● 24 COME I SUOI TITOLI x IL VECCHIO NUMERO Altra ipotesi è che Kobe abbia scelto il 24 moltiplicando per tre (il numero degli anelli vinti con i Lakers) il suo vecchio numero. ● 24 COME A LOWER MARION HIGH SCHOOL ● QUESTIONE DI MARKETING (?) In un certo senso qualcuno la vide anche come una trovata di marketing, considerato l’hipe che la cosa generò sui suoi fans.
Bryant ed i Lakers, senza effettuare stravolgimenti durante i mesi estivi, iniziarono il 2006/2007 come una delle rivelazione del campionato perchè fino a metà febbraio furono in grado di tenere il passo delle altri “grandi” della Western come Spurs e Suns. In questa prima fase di stagione regolare, Kobe trovò un giusto mix fra punti, rimbalzi ed assist guadagnandosi così l’ennesima chiamata per l’All Star Game dove concluse come l’MVP della serata.
La seconda parte di campionato per i Lakers però, fu prevalentemente negativa a causa di infortuni a giocatori chiave come Odom. KB24 una volta visto il record abbassarsi pericolosamente verso il 50%, si caricò letteralmente il team sulle proprie spalle trascinandolo, a suon di prestazione di altissimo livello, ai playoff. Il 22 marzo 2007 diventò il quarto giocatore nella
storia a segnare almeno 50 punti in 3 partite consecutive (insieme a Wilt Chamberlain, Michael Jordan ed Elgin Baylor), il primo a riuscirci dal 1987, quando ci riuscì Jordan. Superò anche questo record due giorni dopo, segnando altri 50 punti che lo portarono a essere il secondo giocatore NBA dopo Chamberlain a fare un poker over 50 (65/50/60/50, in ordine contro Trail Blazers, Timberwolves, Grizzlies e New Orleans Hornets).
Però Bryant non era ancora felice. Sorprendentemente, nonostante avesse segnato 65, 50, 60, 60, 43, 23 e 53 punti in sette partite consecutive, non era ancora soddisfatto. Una delle cause scatenanti questo malessere nel Black Mamba fu la mancata acquisizione di Jason Kidd per non privarsi del giovane ma acerbo centro Andrew Bynum.
Nel marzo 2007 Bryant richiese nuovamente la cessione. Citando il piano di rebuilding dei Lakers disse in un’intervista di ESPN Radio: “Si, vorrei essere scambiato. Per quanto sia difficile arrivare a quella conclusione, non c’è altra alternativa, sai?” In seguito però tornò indietro sulle sue idee e riconsiderò il suo futuro, con i Lakers ovviamente d’accordo, che oltretutto lo rassicurarono circa i rinforzi alla squadra in arrivo.
A fine stagione fu nuovamente il miglior realizzatore della lega con 31,6 punti portando i Lakers ai playoff ancora da settimi; ma in post-season i californiani reincontrarono i Suns, e questa volta, nonostante i 32,8 punti di media di Bryant, uscirono a gara-5.
I NUOVI LAKERS Nella stagione 2007/2008, nonostante i malumori e le voci di trade, Bryant rimase e fu tra gli artefici della bella stagione della squadra, vincendo per la prima e unica volta in carriera il premio di MVP della regular season, tenendo una media di 28,3 punti. Dopo meno di un anno dalle questioni di mercato, il GM dei Lakers Mitch Kupchak concluse un accordo che cambiò il corso della carriera di Bryant. Nel febbraio 2008 infatti, Los Angeles acquisì il big man Pau Gasol da Memphis. Il centro spagnolo iniziò a collaborare con l’altro centro Andrew Bynum e la versatile ala Lamar Odom, formando così per i Lakers una frontline alta, fisica e talentuosa, perfetta da integrare con Bryant.
All’inizio della stagione 1999/2000 Bryant si ruppe una mano, la destra (l’infortunio lo costrinse a saltare le prime 16 partite di regular season). Ecco come Kobe si presentò il giorno dopo agli allenamenti, in pigiama, e fece tutti gli esercizi con la mano sinistra. Mamba Mentality.
Proprio la trade che portò a Los Angeles Pau Gasol, diede una nuova spinta ai Lakers, che conclusero l’ultima parte di regular season con un record di 22-5. Quella striscia di risultati nel finale di stagione contribuì a far si che Bryant fu eletto MVP, per la prima e unica volta nella sua carriera. Ai playoff affrontarono in successione Nuggets, Jazz e Spurs, prima di raggiungere le finals, dove tornarono per la prima volta dopo la sconfitta del 2004. Tornato sul più grande palcoscenico della NBA, Bryant segnò per due volte nella serie più di 30 punti, ma ciò non fu sufficiente a superare i formidabili “Big 3” di Boston di Kevin Garnett, Paul Pierce e Ray Allen. Quell’estate Bryant disse ai giornalisti di aver ascoltato “Don’t Stop Believing” dei Journey come motivazione per il futuro, perchè i tifosi di Boston cantavano quella canzone durante i festeggiamenti per il titolo. “Ho ascoltato la canzone ogni singolo giorno perché mi ha ricordato quella sensazione”.
OLIMPIADI PECHINO 2008
Ma l’offseason di Bryant passò rapidamente dal dolore al trionfo. Infatti quell’estate, sotto la guida dell’allenatore di Duke Mike Krzyzewski, disputò i Giochi Olimpici di Pechino 2008 nonostante dei problemi al mignolo della mano destra. Infatti vinse l’oro con il Team USA battendo in una combattuta finale la Spagna del compagno di squadra Pau Gasol (segnando 20 punti, di cui 13 nel secondo tempo). Il Daily News di Los Angeles riferì che all’inizio della stagione successiva, Bryant posizionò la sua medaglia d’oro sull’armadietto di Gasol per motivarlo in vista della futura post-season 2009: “Non puoi finire secondo anche a giugno di quest’anno”, gli disse.
La stagione 2008/09 confermò i Lakers come una delle migliori squadre della lega, tanto che nella regular season ottennero il 2º record assoluto, solamente una partita dietro i Cleveland Cavaliers. La stagione partÏ molto bene sia per Kobe che per la squadra, i Lakers vinsero 17 delle prime 19 partite, con il Mamba che tenne 24,7 punti di media.
Il 2 febbraio 2009 realizzò una prestazione da incorniciare al Madison Square Garden contro i New York Knicks mettendo a referto 61 punti, record nella lunga storia dello stadio della Grande Mela (prima che Carmelo Anthony ne realizzasse 62, proprio con la canotta dei Knicks, il 25 gennaio 2014).
Bryant diventò anche co-MVP dell’All Star Game 2009 di Phoenix a pari merito con l’ex-compagno di squadra Shaquille O’Neal, riproponendo per una gara la coppia del three-peat vista tra il 2000 e il 2002 con Phil Jackson in panchina. Al termine della stagione regolare i Lakers si piazzarono al primo posto a ovest grazie e soprattutto al contributo di Kobe.
2009
IL QUARTO TITOLO
Sette lunghi anni dopo il suo terzo titolo, sette anni pieni di distrazioni fuori dal campo, cambi alla base della squadra, l’addio e il ritorno di Phil Jackson, le sconfitte precoci nelle varie postseason e la bruciante sconfitta a Boston, Bryant riuscì finalmente a rivendicare il suo dominio, conquistando il quarto titolo della sua carriera contro gli Orlando Magic di Dwight Howard, sconfitti nelle serie di finali per 4-1. Il 14 giugno 2009 Bryant vinse per la prima volta il premio di MVP delle finals, in parte grazie ad una grande prestazione da 40 punti in gara-1. Diventò così il primo giocatore dai tempi di Jerry West nel 1969 a mantenere una media di almeno 32,4 punti e 7,4 assist in una serie e il primo dopo Michael Jordan ad avere una media di almeno 30 punti, 5 rimbalzi e 5 assist per una squadra che abbia vinto il titolo. I 162 punti totali lo collocarono al 4º posto assoluto nella storia per punti segnati da un singolo giocatore in una serie di finale a 5 partite. In tutti i playoff tenne invece di media 30,2 punti.
Forse cosa ancora più importante, Bryant dimostrò di poter vincere un titolo anche senza O’Neal, proprio come O’Neal vinse un titolo senza di lui con il Heat nel 2006. Grazie a questo trionfo furono definitivamente cancellate tutte le insinuazioni che ancora lo consideravano solo l’aiutante, il braccio destro nei trionfi del three-peat di qualche anno prima. Lo stesso Bryant dichiarò riguardo la questione della necessità di O’Neal per vincere: “È stato fastidioso. Per rispondere a chi diceva che non avrei potuto farlo senza di lui, mi sento così bene, perché ho dimostrato che si sbagliavano“.
2010
IL QUINTO TITOLO La stagione 2009/2010 vide in apertura un Bryant in gran forma, che segnò 40 punti in 4 delle prime 11 partite (con Gasol assente per infortunio, ma con l’inserimento del nuovo arrivo Ron Artest). Il 17 novembre 2009 contro i Detroit Pistons, mise a referto proprio 40 punti: fu quella la centesima volta nella sua carriera che realizzò almeno 40 punti; meglio di lui avevano fatto solo Michael Jordan (173) e Wilt Chamberlain (271 volte). Il 1º febbraio 2010, Bryant diventò il miglior marcatore dei Los Angeles Lakers con 25.208 marcature in carriera, sorpassando lo storico Jerry West. Durante l’annata, elogiandone le capacità gestionali, Kobe rafforzò anche il rapporto da sempre un po’ burrascoso con coach Phil Jackson. In quella stagione però Bryant iniziò ad avere dei problemi fisici: in dicembre rimediò una frattura dell’indice, mentre a febbraio fu un problema alla caviglia che lo costrinse a stare fermo.
I Lakers per loro fortuna ritrovarono Kobe per il finale di stagione e per i playoff. Dopo aver superato OKC (4-2) e gli Utah Jazz (4-0), in semifinale affrontarono ed eliminarono i Phoenix Suns con il punteggio di 4-2. In quest’ultima serie Bryant segnò un canestro decisivo a 35 secondi dalla fine di gara-6; un fadeaway impossibile che decise la serie nonostante l’ottima marcatura di Grant Hill, e che Kobe festeggiò correndo verso la propria panchina mimando il gesto di un aereo, come per dire “si vola in finale!” “Il migliore che ci sia mai stato, il migliore che mai ci sarà”
In finale si presentò per Bryant e tutti i Lakers la grande occasione di “vendetta” tanto attesa dalle finals del 2008, infatti gli avversari dei giallo-viola furono proprio i Boston Celtics. La serie fu combattutissima, tutto si decise in gara-7, con il recupero dei Lakers dopo il vantaggio Celtics sul 3-2. Nell’ultimo atto delle finals la spuntarono proprio i Lakers con il punteggio di 83-79 anche grazie ai 23 punti del Black Mamba (seppur con un 6/24 dal campo). Bryant vinse così il suo quinto titolo, superando così O’Neal nel conteggio degli anelli vinti di carriera (5-4). Si aggiudicò inoltre il secondo trofeo di MVP delle finali, in cui tenne la media di 28,6 punti a partita. Quando gli fu domandato in una recente intervista quale fosse tra i 5 vinti, il suo titolo preferito, lui disse: “Penso che la risposta standard dovrebbe essere, ‘No, sono tutti uguali.‘ Ma non è vero.Quando battemmo Boston nel 2010... per me, quello è il numero uno.”
Anche nella stagione 2010/2011 i Lakers ovviamente figurarono tra i favoriti per la vittoria finale, tutti si aspettavano la finale contro i nuovi Miami Heat di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh. Il 20 febbraio 2011 durante l’All Star Game, giocato proprio a Los Angeles, conquistò il suo quarto titolo di MVP della gara delle stelle, grazie a una prestazione da 37 punti e 14 rimbalzi in 29 minuti di gioco; lo stesso giorno diventò il primo giocatore ancora in attività a entrare a far parte della Hollywood Walk of Fame di Los Angeles e secondo giocatore di sempre dietro a Magic Johnson. I Lakers si presentarono ai playoff dopo aver chiuso una buona regular season al 2º posto a ovest dietro i San Antonio Spurs (a cui Bryant contribuì con 25,3 punti di media).
Quello che successe nei playoff però era difficile da ipotizzare. Era difficile infatti immaginare che i Lakers non arrivassero in fondo alla post-season, eppure andò proprio così. Dopo aver superatono al primo turno i New Orleans Hornets per 4-2, i giallo-viola furono prematuramente eliminati in semifinale di conference, con un nettissimo 4-0 ad opera dei Dallas Mavericks, futuri campioni NBA. Clamoroso quello che accadde in gara-4, forse una delle pagine più buie della storia degli ultimi Lakers, quelli dell’era Phil Jackson per intendersi, perché i quasi 40 punti di scarto (finale 122-86) che subirono furono una batosta difficile da dimenticare, e che forse suggerì al più titolato allenatore NBA della storia di ritirarsi dopo 33 anni di onorata carriera. Incredibili le percentuali dei Mavs, che tirarono con oltre il 60% dal campo. Strepitosa fu la prova di Jason Terry, che mise a referto 32 punti con 9/10 da tre punti e 11/14 dal campo, mentre il compagno Peja Stojakovic chiuse con il 100% (6/6 da tre, 7/7 dal campo, per un totale di 21 punti). Con queste medie fu impossibile battere Dallas, che così chiuse la serie e continuò la strada che l’avrebbe portata a vincere il titolo.
Kobe Bryant in quella stagione si ritrovò nuovamente nella bufera a causa di ciò che avvenne in un match dell’aprile 2011 contro i San Antonio Spurs. La stella dei Los Angeles Lakers, dopo un fallo tecnico, andò a sedersi in panchina visibilmente arrabbiato e dopo aver preso a pugni una sedia e gettato via l’asciugamano si rivolse all’arbitro Bennie Adams, con un insultò omofobo. Quelle parole furono catturate dalla tv in diretta nazionale e il comportamento di Bryant fu immediatamente stigmatizzato da diverse associazioni che condannarono pubblicamente il comportamento “discriminatorio” del giocatore. Il commissario NBA David Stern rispose all’incidente multando Bryant di 100.000 $ e rilasciando una dura dichiarazione. “Sono pienamente consapevole che il basket è un gioco emotivo, ma termine così sgradevole non può mai essere tollerato”, disse Stern. “Kobe e tutti coloro che sono associati all’NBA sanno che i commenti insensibili o dispregiativi non sono accettabili e non hanno posto nel nostro gioco o nella nostra società.” Negli anni successivi ci fu per Bryant una sorta di redenzione social, infatti nel 2013 rimproverò pubblicamente un suo fan su Twitter, che utilizzò la parola ‘gay’ come insulto. “Solo per farti capire che usare quel termine solo per offendere qualcuno, non va bene! Non è figo. Eliminalo dal tuo vocabolario.” Un tweet, che venne ampiamente condiviso dalla comunità LGBT d’America, con Bryant che pubblicamente chiese perdono per quanto detto e fatto due anni prima, sul campo di basket: “Non è stato bello, è stato ignorante da parte mia. Ne sono consapevole, ho imparato da quell’errore e ora mi aspetto lo stesso dagli altri“.
A fronte della bruciante eliminazione della stagione precedente i Lakers tentarono di rivoluzionare la squadra: il lockout posticipò l’inizio della stagione 2011/2012 a dicembre, ma prima dell’inizio i gialloviola tentarono di prendere Chris Paul da New Orleans in una trade a 3 squadre che avrebbe portato CP3 a
LA, con la franchigia losangelina che avrebbe ceduto due suoi pilastri come Pau Gasol agli Houston Rockets e Lamar Odom a New Orleans; tuttavia la trattativa venne annullata dall’allora commissioner dell’NBA David Stern per “ragioni cestistiche”. Questa vicenda fece tanto scalpore e creò molte discussioni, lo stesso Bryant si arrabbiò molto per la decisione di Stern, così come anche per la trade che portò Lamar Odom ai Dallas Mavericks, con lo stesso Odom che chiese la cessione perché deluso dal comportamento della dirigenza gialloviola che tentò di cederlo. La sua stagione, nonostante questi dissapori e un problema al polso, partì comunque bene; a gennaio infatti segnò oltre 40 punti in 4 gare consecutive. Anche in questa stagione raggiunse traguardi prestigiosi: il 6 febbraio
2012 diventò il 5º miglior marcatore della storia NBA, superando in classifica Shaquille O’Neal, mentre all’All-Star Game segnò 28 punti superando Michael Jordan come miglior realizzatore di sempre all’All-Star Game. Proprio all’ASG All’All-Star Game di Orlando, Bryant si ruppe il naso dopo un fallo di Dwyane Wade. L’infortunio, uno dei tanti che Bryant subì durante la sua carriera, lo costrinse ad indossare per diverso tempo delle maschere protettive. Bryant utilizzò intelligentemente la sua popolarità mettendo all’asta le sua maschere autografate aggiudicandone una addirittura per 67.100 $, cifre ovviamente devolute in beneficenza.
Nonostante alcuni problemi fisici, con una media di 27,9 punti a partita, contribuì alla qualificazione ai playoff dei Lakers. Anche questa stagione però si chiuse con un’eliminazione alle semifinali di conference contro gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant e Russell Westbrook, nonostante Bryant avesse segnato 116 punti (36+38+42) nelle ultime 3 partite della serie chiusasi a gara-5; vide così sfumare la possibilità di vincere il 6º titolo, suo obiettivo dichiarato, così da poter eguagliare Michael Jordan.
OLIMPIADI LONDRA 2012
Nell’estate del 2012 Bryant fu impegnato con il Team USA alle Olimpiadi di Londra. Dopo un inizio in sordina con 9,4 punti di media, a partire dai quarti con l’Australia, nei quali realizzò 20 punti (la maggior parte dei quali segnati nel 4º quarto), andò in doppia cifra prima nella semifinale contro l’Argentina (13 punti) e poi con nella vittoriosa finale (107100) contro la Spagna, dove realizzò 17 punti. Ottenne così la sua seconda medaglia d'oro con il Team USA. Al termine della manifestazione, annunciò il proprio ritiro dalla nazionale.
Nel 2016 s’intravide per lui la possibilità di concludere la carriera con un terzo oro olimpico; tuttavia declinò l’invito. Con la nazionale disputò complessivamente 37 incontri, di cui 16 alle Olimpiadi e 10 ai FIBA Americas Championship, mettendo a referto in totale 504 punti (con una media di 13,6 punti a partita).
La stagione 2012/2013 si aprì con grandi aspettative per i Lakers: arrivarono a LA le stelle Dwight Howard e Steve Nash per aiutare Bryant a vincere il 6º anello. Tuttavia le cose non andarono come previsto e dopo sole 5 partite, coach Mike Brown venne esonerato per fare spazio a Mike D’Antoni, con cui Bryant però non ebbe un rapporto idilliaco. In stagione Bryant dovette giocare infatti molti più minuti del previsto, soprattutto da marzo in poi, per consentire al team di raggiungere i playoff. Il 12 aprile 2013 pagò gli sforzi profusi nel match contro Golden State nel quale subì un grave infortunio, la rottura del tendine di Achille, a seguito di un contrasto falloso con Harrison Barnes, che lo costrinse a chiudere anzitempo la stagione e che mise a rischio la sua carriera; tra l’altro Bryant, nonostante l’infortunio, segnò ugualmente i 2 tiri liberi conquistati poi uscì dal campo sulle sue gambe senza l’ausilio della barella. Non c’era modo migliore di quello per riassumere la sua forza e mentalità competitiva. Mamba Mentality. Bryant disputò comunque un’ottima annata che, in seguito, definì addirittura la migliore della sua carriera. In un’emozionante intervista post-partita negli spogliatoi, definì quell’infortunio di la più grande delusione della sua carriera.
“Tutto l’allenamento e il sacrificio sono volati fuori dalla finestra con un movimento fatto milioni di volte! La frustrazione è insopportabile”, scrisse Bryant in un memorabile post di Facebook. “La rabbia è tanta. Perché diavolo è successo? Non ha dannatamente senso. Ora dovrei tornare da questa condizione ed essere lo stesso giocatore o addirittura migliore a 35 anni? Come diavolo dovrei farlo? Non ho idea. Ho la volontà di superare questa cosa? Forse dovrei aprire la sedia a dondolo e ricordare la carriera che è stata. Forse è così che finisce il mio libro... Ma forse no!” Nei playoff, col Black Mamba assente, la squadra venne eliminata per 4-0 al primo turno dai San Antonio Spurs futuri finalisti.
L’infortunio lasciò il segno, e non solo negli inserti della scarpa che gli dedicò Nike, la Kobe XI Achilles Heel (la scarpa destra presentava una stilizzazione grafica di Achille con il tipico elmo, mentre quella sinistra quattro bande orizzontali parallele a simboleggiare i 4 piedi, circa 120 cm, di filo necessario per ricostruire il tendine lesionato di Bryant). Il gioco di Bryant infatti non si riprese mai completamente. Nella stagione 2013/2014 giocò solamente 6 partite; la stagione successiva, 2014/2015, ne giocò 31, venendo nuovamente limitato dagli infortuni e giocò la sua ultima partita il 21 gennaio 2015 contro i New Orleans Pelicans, in cui Bryant tentò di rimanere in campo nonostante un forte dolore alla spalla destra. Purtroppo si iniziò a capire quale andamento stesse prendendo la sua carriera.
KOBE & MJ
AMMIRAZIONE E RISPETTO
Dopo un’intera carriera trascorsa a idolatrare Michael Jordan e poi a confrontarsi con lui e i suoi record, Bryant ottenne la sua più grande vittoria nei confronti della ex stella dei Bulls nel Dicembre 2014. Segnando due di tiri liberi contro i Timberwolves, Bryant superò MJ nella classifica dei marcatori all-time della NBA, conquistando la terza posizione con un totale di 32.292 punti. Anche se Bryant impiegò quasi 200 partite in più rispetto a Jordan per superarlo, il risultato sottolineò ancora una volta la longevità e l’evoluzione del gioco di Kobe, per non parlare della determinazione necessaria a tornare a quell’età dall'infortunio al tendine di Achille. “È un grande onore, è stato un lungo viaggio”, disse Bryant a ESPN in un'intervista post-partita. “Sta passando molto velocemente però, è bello essere a questo punto. Ho cercato di imparare molto da Jordan; lui ha avuto un ruolo molto importante nel mio successo e nella mia carriera, offrendomi consigli e supporto. Questa relazione ha significato tutto per me”. Da allora Bryant superò i 33.000 punti carriera e si ritirò come capocannoniere di sempre della lega tra le guardie, mentre a livello assoluto dietro solo a Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone. Perfino Jordan gli rese onore: “Mi congratulo con Kobe per aver raggiunto questo traguardo. È un grande giocatore, con una forte etica del lavoro e una passione altrettanto forte per il gioco del basket”.
DEAR BASKETBALL Il 29 dicembre 2015, tramite una lettera su The Player’s tribune, Kobe annuncia al mondo il suo addio al basket.
“Cara pallacanestro, sin dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzettoni di mio papà e a immaginare tiri decisivi per la vittoria al Great Western Forum, mi è subito stata chiara una cosa: mi ero innamorato di te. Un amore così grande che ti ho dato tutto me stesso, dalla mia mente, al mio corpo, al mio spirito e alla mia anima. Nelle vesti di un bambino di 6 anni innamorato non ho mai visto la luce in fondo al tunnel. Mi vedevo soltanto correre al di fuori. E così ho corso. Ho corso su e giù per ogni campo, rincorrendo ogni pallone per te. Mi hai chiesto il massimo sforzo, io ti ho dato il mio cuore. Ho giocato quando ero stanco e dolorante, non perché fossero state le sfide a chiamarmi, ma perché tu mi hai chiamato. Ho fatto qualsiasi cosa per te, perché questo è ciò che fanno le persone quando qualcuno le fa sentire vive come hai fatto tu con me. Hai dato a un bimbo di 6 anni il sogno di essere un giocatore dei Lakers e ti amerò sempre per questo. Ma non posso amarti in maniera ossessiva per molto tempo ancora. Questa stagione è tutto quel che mi rimane da darti. Il mio cuore può reggere il peso, la mia mente pure, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci. Ma va bene così. Sono pronto a lasciarti andare. Volevo che tu lo sapessi, cosicché potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare assieme. Le cose belle e quelle meno belle. Ci siamo dati l’un l’altra tutto quello che avevamo. Ed entrambi sappiamo che, qualsiasi cosa io farò, sarà sempre quel bambino con i calzettoni, il cestino della spazzatura nell’angolo e 5 secondi ancora sul cronometro, palla in mano, 5… 4… 3… 2… 1. Ti amerò sempre. Kobe”.
Con il suo annuncio Kobe diede inizio ad un farawell tour di applausi, con le arene di tutta l’America a tributare il giusto riconoscimento a un giocatore capace di influenzare due generazioni di appassionati e professionisti. Standing ovation ovunque, da Philadelphia sua città natale, fino a Boston, squadra e tifoseria storicamente rivale.
Indimenticabile quello che accadde in occasione di gara-5, rinominata anche “The Flu Game”. MJ fu colpito da una forte intossicazione alimentare nelle ore prima del match, dovuta presumibilmente a una pizza ordinata nel cuore della notte. Nonostante questo Jordan chiuderà la partita con 38 punti, 7 rimbalzi, 5 assist e 3 palle rubate. Soprattutto realizzò la tripla del +3 a 25 secondi dal termine che diete la vittoria ai Bulls. Poi si lasciò cadere stremato tra le braccia del compagno-amico Scottie Pippen.
Durante la lunga passerella d’onore della sua ultima stagione, tanti giocatori e amici di Kobe gli hanno voluto tributare un gesto o un abbraccio nelle sue varie ultime apparizioni sui campi delle diverse franchigie NBA. Campioni di sempre come Tim Duncan, Dwayne Wade, Pau Gasol o coach Popovich, ma anche tanti giocatori ancora contemporanei come LeBron James, Steph Curry, Kevin Durant, James Harden e Giannis Antetokounmpo.
2016
L’ULTIMO ASG
Quello del 2016 a Toronto fu l’ultimo All-Star Game della lunga carriera di Kobe, che lo vide protagonista per ben 18 edizioni della partita delle stelle. Il risultato finale fu 196-173 a favore dell’Ovest, guidato da Gregg Popovich e con Ettore Messina nello staff tecnico. Finì quindi in trionfo per Bryant, che dopo essere risultato il giocatore più votato, si congedò con 10 punti, 7 assist e 6 rimbalzi.
MAMBA OUT Il 13 aprile 2016 giocò la sua ultima partita in NBA contro gli Utah Jazz, firmando una straordinaria prestazione da 60 punti, tirando con il 44% dal campo e stabilendo un nuovo record per punti segnati nell’ultima partita in carriera.
CIFRE E RECORD Kobe Bryant dopo qualche anno di assestamento nella lega, passò tutto il resto della sua carriera, a migliorare i propri numeri e a battere record NBA. Ebbe una media di 25 punti a partita, da aggiungere a uno score di 4,7 assist, 5,3 rimbalzi e un totale di oltre 1800 palle rubate. Nel 2003 stabilì il record NBA di triple realizzate in una sola partita (12), detenendolo fino al 2016, quando venne superato da Stephen Curry. Per via della sua mentalità e professionalità fu d’ispirazione per molti cestisti: giocatori come Kevin Durant, Dwyane Wade, Kawhi Leonard e Derrick Rose più di una volta definirono Bryant “il Michael Jordan della loro generazione”; anche LeBron James ammise di essersi ispirato a lui, oltre ad aver sostenuto a inizio carriera di “volere essere come lui”. Bryant fu d’ispirazione anche per tanti altri sportivi, tra cui Neymar, Roger Federer, Novak Djokovic e Serena Williams
Ecco un elenco di tutti i record battuti e di tutti i premi (di squadra e individuali) ottenuti da Kobe Bryant durante la sua lunga carriera: • Vincitore di cinque titoli NBA: 2000, 2001, 2002, 2009, 2010 • Membro della Nazionale degli Stati Uniti che vinse l’oro alle Olimpiadi del 2008 e del 2012 • Membro della Nazionale degli Stati Uniti che vinse l’oro ai FIBA Americas Championship del 2007 • 1 volta MVP della stagione: 2007/2008 • 2 volte MVP delle Finali: 2009, 2010 • 2 volte miglior marcatore della NBA: 2005/2006, 2006/2007 • Convocato per 18 volte al All Star Game: 1998 e dal 2000 al 2016 • Più giovane giocatore convocato all’All Star Game (19 anni e 175 giorni) • 4 volte MVP dell’All Star Game: 2002, 2007, 2009 (a pari merito con Shaquille O’Neal), 2011 • 1 volta Slam Dunk Champion dell’All Star Game: 1997 (giocatore più giovane a 18 anni e 175 giorni) • 11 volte inserito nell’All-NBA First Team: 2001/2002, 2002/2003, 2003/2004, 2005/2006, 2006/2007, 2007/2008, 2008/2009, 2009/2010, 2010/2011, 2011/2012, 2012/2013 • 2 volte inserito nell’All-NBA Second Team: 1999/2000, 2000/2001 • 2 volte inserito nellAll-NBA Third Team: 1998/1999, 2004/2005 • 9 volte inserito nell’All-NBA Defensive First Team: 1999/2000, 2002/2003, 2003/2004, 2005/2006, 2006/2007, 2007/2008, 2008/2009, 2009/2010, 2010/2011 • 3 volte inserito nell’All NBA Defensive Second Team: 2000/2001, 2001/2002, 2011/2012 • 1 volta inserito nell’All-NBA Rookie Team: 1996/1997 • Punti realizzati: 33.643 (quarta posizione assoluta) • Punti realizzati nei play-off: 5.640 • Punti realizzati negli NBA All-Star Game: 290 • Punti realizzati in una partita di regular season: 81 (contro i Toronto Raptors il 22 gennaio 2006) • Uno dei due giocatori della storia ad aver segnato 50 o più punti in 4 gare consecutive (l’altro è Wilt Chamberlain arrivato a 7 gare consecutive).
• Unico giocatore nella storia NBA a segnare almeno 600 punti nella post-season per tre anni consecutivi (2008, 2009, 2010). • Inserito dalla NBA nella lista dei 50 giocatori più forti di tutti i tempi. Record nei Los Angeles Lakers • Miglior realizzatore di sempre dei Los Angeles Lakers avendo superato Jerry West (contro i Memphis Grizzlies il 2 febbraio 2010) • Miglior record di punti segnati: 5.640 (il record precedente di 4.457 apparteneva a Jerry West) • Punti segnati in una stagione: 2.832 (2005/06) • Punti in una partita: 81 (Contro i Toronto raptors il 22 gennaio 2006, seconda prestazione NBA di sempre dopo i 100 punti di Wilt Chamberlain) • Punti segnati in un tempo: 55 (contro i Toronto Raptors il 22 gennaio 2006) • Punti segnati in un quarto: 30 (in due occasioni) • Punti segnati in un overtime di play-off: 12 (contro i Phoenix Suns il 4 maggio 2006) • Più alta media punti in un mese: 43,4 (gennaio 2006) • Più partite con 60 o più punti in carriera: 6 • Più partite con 50 o più punti segnati in una stagione: 10 (2006/07) • Più partite con 40 o più punti in carriera: 121 (terzo all-time dopo Wilt Chamberlain con 271 e Michael Jordan con 173) • Più partite con 40 o più punti segnati in una stagione: 27 (2005/06) • Più partite consecutive con 40 o più punti segnati: 9 (febbraio 2003)
Il 18 dicembre 2017 Kobe Bryant diventò il decimo giocatore della storia dei Lakers a vedere ritirata la propria maglia; ma il primo a vedere appese sul soffitto dello Staples Center non una ma ben due maglie: la 8, indossata per la prima parte della propria carriera, e la numero 24, vestita nella seconda decade. Kobe, sorridente, guardando le sue maglie illuminate nel soffitto disse: “Jerry Buss e Jerry West hanno creduto tanti anni fa in questo ragazzo pelle e ossa da Lower Marion HS, ho sempre amato i Lakers, questa è una città speciale con dei tifosi speciali. Ogni mattina, quando mi allenavo all’alba con il buio fuori, le motivazioni e le aspettative che la gente aveva mi portavano a migliorare. Oggi provo a trasmettere questi valori ai miei figli. Sono molto orgoglioso di essere qui con la mia famiglia. È bello per un padre avere la propria famiglia al fianco in un momento come questo”. La conclusione fu perfetta: “Ero un bambino che aveva un sogno e lo ha realizzato”. Mamba out, per l’ultima volta.
KOBE DOPO IL RITIRO L’IMPEGNO EXTRA-CAMPO
“Spero che tra vent’anni si ricordino di me più come investitore e uomo d’affari che come giocatore di basket. I campionati NBA vanno e vengono. Pensi solo a vincere, vincere, vincere. La vera sfida se vuoi lasciare un’eredità alle nuove generazioni è costruire qualcosa con il lavoro che duri nel tempo. E a me gli affari piacciono come la pallacanestro”.
Kobe Bryant, oltre ad essere stato un fuoriclasse del basket, condusse fuori dal campo un’altra vita, quella di imprenditore e investitore. Era il 2013, l’annuncio del ritiro dalla NBA sarebbe arrivato solo dopo tre anni, ma Bryant poneva già le basi per un nuovo progetto imprenditoriale che sabbe poi stato svelato ufficialmente solo nel 2016: un fondo da 100 milioni di dollari nato per fornire supporto ad aziende specializzate nei settori di alta tecnologia, dati e media. Una piattaforma che unisse la “visione creativa di un’icona sportiva” come Kobe Bryant con le capacità e l’esperienza dell’imprenditore Jeff Stibel. La società investì in diversi colossi del tech, da Alibaba a Dell, fino a Epic Games, sviluppatore e produttore di Fortnite. Il suo portfolio conta nel complesso, tra vecchi e nuovi investimenti, almeno 28 diverse aziende. Tuttavia la passione per il business di Kobe non si esaurì con la Bryant-Stibel. Nel marzo del 2014, investì infatti sei milioni di dollari per comprare il 10% della società BodyArmor, una bevanda energetica statunitense, pubblicizzata come un’alternativa più salutare al Gatorade. Un affare in cui, quattro anni dopo, volle entrare anche Coca-Cola, acquistando una quota maggioritaria del marchio: questa operazione fece crescere il valore dell’investimento di Bryant fino a 200 milioni di dollari.
Nel 2016 arrivò il momento della fondazione dei Granity Studios, una media company che produce contenuti multimediali, specializzata nell’unire l’amore per lo sport con quello per lo storytelling. Sul sito ufficiale dell’azienda si può infatti trovare la mission aziendale, che è quella di “creare nuovi modi per raccontare storie incentrate sullo sport. Storie pensate per divertire, mettendo insieme la componente educativa e d’insegnamento con quella di essere fonte di ispirazione”. Granity è una parola immaginaria, coniata dallo stesso Bryant dalla fusione della frase “greater than infinity“, più grande dell’infinito: come le storie che la sua straordinaria mente creativa avrebbe continuato a sfornare. Un termine, inoltre, in grado di evocare consistenza e solidità, come il granito.
Dalla fucina di Granity Studios sono usciti alcuni libri per ragazzi che uniscono lo sport con la fantasia, su tutti la saga The Wizenard Series (in Italia dell’ottobre 2020). Lo scrittore Wesley King sviluppò un’idea di Kobe creando il personaggio di Coach Wizenard, un allenatore in grado di guidare una squadra di ragazzi al riscatto e alla vittoria, insegnando loro a crescere e a maturare attraverso lo sport, con autorevolezza, motivazione e magia. Grazie a Granity, Kobe Bryant pubblicò anche la propria autobiografia: “The Mamba Mentality: How I Play.”
Bryant siglò negli anni tanti accordi commerciali con Nike; il primo fu risalente al 2003 e da allora la collaborazione continuò, passando dalle scarpe al lancio nel 2017, insieme al Los Angeles Boys and Girls Club, di un campionato di basket giovanile chiamato “Mamba League”, per dare ai giovani un accesso libero e gratuito al mondo dello sport. Parallelamente sviluppò centri di atletica e allenamento, che formarono la Mamba Sports Academy: una struttura pensata per offrire diversi p rogrammi sportivi ad atleti di ogni età e categoria.
L’accademia, conta già più di 50 mila atleti e comprende cinque campi da basket, cinque campi da pallavolo, due campi da beach volley, un campo da football, una struttura per gli E-sport e una scuola di jiu-jitsu. L’impegno dell’academy è concentrato su 3 aree: sportiva, finanziaria e umanitaria, con la creazione di una fondazione di beneficenza chiamata MAMBA Sports Foundation. Bryant parlò cosi del suo progetto: “L’accademia vuole perfezionare l’arte e la scienza della preparazione atletica partendo dai ragazzi più piccoli fino ad arrivare ai giocatori d’elite. MAMBA Sports Academy è una naturale espansione del mio impegno per educare e responsabilizzare la prossima generazione di bambini attraverso lo sport.“ Nel video di presentazione dell’accademia, Kobe descrisse la “Mamba Mentality” come passione, lavoro duro e voglia di migliorarsi ogni giorno.
Nel 2018 arrivò il momento per l’ennesimo business per Kobe; anche questa volta lo fece senza voler abbandonare il mondo dello sport e per farlo decise di cercare successo con “Art of Sport”, una sua linea di prodotti per la cura del corpo, specificamente per gli atleti. In un’intervista spiegò: “Quando giocavo, tra una partita e l’altra scrivevo, pensavo e creavo storie, alcune delle quali erano legate a un brand. Raccontare storie è sempre stato una parte centrale della mia vita. Con AOS, la parte entusiasmante è stata proprio decidere come avremmo usato il nostro messaggio per connetterci con gli atleti in giro per il mondo. Stiamo parlando all’atleta e ci stiamo mettendo in contatto con lo spirito del gioco. La cosa importante nella costruzione di un brand per gli atleti è assicurarsi che il messaggio e la storia che raccontiamo tocchino la sfera emotiva e lo spirito relativo a una grande partita di calcio o di pallacanestro. Il prodotto non dovrebbe avvantaggiarti solo sul piano fisico, dovrebbero esserci anche dei benefici dal punto di vista emotivo e motivazionale.” Tra gli atleti che Kobe scelse per promuovere la campagna di lancio della linea spiccano l’MVP 2018 James Harden, il ricevitore dei Pittsburgh Steelers JuJu Smith-Schuster e l’interno degli Chicago Cubs Javier Baez.
BRYANT, UOMO NIKE
Un rapporto lungo 17 anni, un marchio storico e la più importante collezione di “signature shoes” del mondo del basket (ovviamente dopo MJ).
Nel 2002 Kobe non riuscì a firmare un nuovo accordo con Nike a causa di una clausola presente nelle regole di uscita del suo precedente contratto con Adidas. Nonostante la sua crescente grandezza stesse consacrando un’indiscussa posizione nell’olimpo del basket, alcuni esperti ancora dubitavano sulla capacità del fuoriclasse a mettere a segno colpi importanti nel campo delle sneakers. Come spesso si è verificato nella storia di Kobe Bryant, gli scettici furono però messi presto a tacere; nel 2003 infatti firmò un contratto di quattro anni per un valore di 45 milioni di dollari.
Kobe e Nike intrapresero una delle relazioni più felici nella storia della NBA, seconda solo alla partnership tra l’azienda dello swoosh e Michael Jordan. Spingere Nike a fare una scarpa con una silhouette adatta ai professionisti avrebbe cambiato per sempre la forma delle sneakers da basket. Al centro del successo della linea di sneakers di Kobe ci fu la scelta stilistica del designer di Nike, Eric Avar, che guidato dall’intuizione dello stesso Kobe, reintrodusse tra i professionisti la scarpa da basket bassa.
KOBE’S SHOES
Ecco una fotografia di tutte le scarpe indossate in carriera da Kobe Bryant, inizialmente legato ad Adidas e successivamente a Nike con cui creò la famosa collezione “Kobe”. A partire dalla prima storica Adidas Elevation EQT, la scarpa con cui vinse la gare delle schiacciate al suo anno da rookie; passando per la Adidas “THE KOBE”, iconica, innovativa ma molto controversa. Poi ancora tantissimi modelli ancora attuali come le mitiche Jordan IV; le indimenticabili Kobe V, VI e VIII, scarpe proposte in tantissime colorazioni, calzate quasi sicuramente da ogni giocatore di basket; concludendo poi con la Nike Kobe XI, l’ultima indossata da Kobe nella sua storica ultima partita in carriera con i Lakers, quella da 60 punti..
Adidas Elevation EQT
Adidas Kobe Bryant KB8
Adidas Kobe Bryant KB8 II
Adidas Kobe Bryant “THE KOBE”
Air Jordan IV
Air Jordan VIII
Nike Air Zoom Huarache 2k4
Nike Air Zoom Huarache 2k5
Nike Zoom Kobe I
Nike Air Zoom Kobe II
Nike Air Zoom Kobe III
Nike Zoom Kobe IV
Nike Zoom Kobe V
Nike Zoom Kobe VI
Nike Zoom Kobe VII
Nike Zoom Kobe VIII
Nike Kobe 9 Elite
Nike Kobe X
Nike Kobe XI
I NUMERI DI KOBE Come è noto la carriera NBA di Kobe Bryant è strettamente legata a soli quattro numeri, gli unici che ha indossato durante la sua lunga militanza sul parquet. Il 33 utilizzato a Lower Marion High School. Lo storico 8, scelto agli esordi in onore di Mike D’Antoni, suo idolo cestistico da quando viveva in Italia e che lo vide affermarsi sul panorama della pallacanestro mondiale per poi trionfare nello storico three-peat. Poi dal 2006/2007 il 24, che stava a significare il taglio con il passato, con le vicende extra-campo, un nuovo capitolo della sua carriera. Anche con questo numero continuò a vincere e trionfare fino al ritiro del 2016. Infine il 10, numero che indossò nelle due apparizioni olimpiche di Pechino 2008 e Londra 2012, dalle quali torno con altrettanti ori.
Bryant scelse di utilizzare il 33 a Lower Marion High School in onore del padre che utlizzava lo stesso numero quando era al liceo. Qui vediamo le prime maglie di Kobe: quella della High School di Lower Marion e le storiche canotte dei Los Angeles Lakers, con l’inconfondibile numero 8 nelle tre colorazioni classiche della prima, seconda e terza divisa piÚ due colorazioni Hardwood Classic.
A partire dalla stagione 2006/2007 Bryant indossò la maglia n° 24. Un cambio drastico, un taglio con il passato per proiettarsi verso la seconda parte della sua carriera. Qui le classiche colorazioni gialla, viola e bianca più la divisa nera utilizzata saltuariamente dai Lakers nella seconda metà della carriera di Bryant.
Le divise del Team USA che Bryant indossò nella sua breve ma vincente carriera in Nazionale. Dopo avere rifiutato le convocazioni alle Olimpiadi 2000 e 2004 (la seconda per problemi giudiziari) e ai Mondiali 2002, saltò i Mondiali 2006 per infortunio. La carriera in nazionale di Kobe Bryant ebbe inizio nel 2007 in un’amichevole in preparazione ai FIBA Americas Championship 2007. Continuò e si concluse poi con le Olimpiadi del 2008 e 2012.
Alcune delle divise indossate da Bryant durante i 18 All Star Game a cui prese parte. Edizioni del 2003, 2004, 2012 e 2016.
BRYANT E LA PUBBLICITÀ
Il suo sponsor principale in campo fu Nike, dopo le prime stagioni in cui il Mamba fu legato ad Adidas da un rapporto poco fortunato. Oltre a questi due colossi di abbigliamento sportivo, legò la lunga carriera ad una lunga serie di marchi famosi. I primi anni le collaborazioni con McDonald’s, Sprite e Nutella; poi Hublot, Nubeo, Turkish Airlines, Nintendo, Mercedes-Benz e tanti altri.
DEAR BASKETBALL,
KOBE DA OSCAR Anche dopo la fine della sua straordinaria carriera, Kobe Bryant non potè fare a meno di continuare a vincere. Il 4 marzo 2018 il cinque volte campione NBA aggiunse un altro trofeo alla sua bacheca, sicuramente il più inaspettato, la statuetta degli Oscar. Quello che lo portò sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles fu la versione animata della lettera con cui diede l’addio alla pallacanestro, la celeberrima “Dear Basketball”, realizzata insieme all’animatore della Disney Glen Keane, premiata come miglior cortometraggio animato alla 90^ cerimonia degli Academy Awards. Bryant dopo aver ricevuto il premio, faticò a trovare le parole giuste, continuando a guardare la statuetta incredulo.
Al momento dei ringraziamenti Kobe si rivolse a tutte le persone coinvolte nel progetto e infine alla sua famiglia, la moglie Vanessa e le tre figlie, con una frase in italiano, “Ti amo con tutto il mio cuore”, e dicendo loro “Voi siete la mia ispirazione”. In conferenza stampa, poi, rivelò ai giornalisti presenti: “Vincere questo premio mi fa sentire meglio che aver vinto un titolo. Giuro che è così. Quando dicevo alle persone che volevo scrivere e raccontare storie dopo essermi ritirato, mi dicevano che sarei stato depresso dopo la fine della carriera. Essere qui e avere questa statuetta è davvero pazzesco”.
ADDIO MAMBA Erano circa le 20:30 del 26 gennaio 2020 quando in Italia iniziò a diffondersi sui social e sui gruppi whatsapp dei tantissimi giocatori e appassionati di basket una notizia terribile... È morto Kobe. Tutti speraroro ad uno scherzo o ad un errore, ma così non fu. Kobe Bryant, sua figlia di tredici anni Gianna e altre sette persone, erano decollate dall’aeroporto della Contea di Orange-John Wayne, in California, a bordo dell’elicottero Sikorsky S-76B N72EX di proprietà del giocatore. Il velivolo precipitò a Calabasas, alle 9:47 (ora locale), prendendo fuoco. I vigili del fuoco della contea di Los Angeles spensero l’incendio alle 10:30, confermando la morte di tutti i passeggeri. Secondo i primi rapporti l’elicottero si schiantò a causa della fitta nebbia.
Il mondo intero fu sconvolto. Lo Staples Center, la “casa” dei suoi amati Lakers si trasformò per giorni in una immensa veglia funebre, con tantissime persone che inizarono a riversarsi nel piazzale del palazzetto con canotte, sciarpe e messaggi per Kobe e Gianna. Nella notte, la città di Los Angeles fu illuminata di gialloviola per rendere omaggio alla sua superstar.
Il 7 febbraio, al Pacific View Memorial Park di Corona del Mar in California, Kobe e la figlia Gianna vennero sepolti con un funerale strettamente privato; mentre la commemorazione pubblica si tenne il 24 febbraio allo Staples Center di Los Angeles, dove si riunirono persone comuni, tante personalità del mondo del basket NBA e amici di Bryant. La data del 24/2 non fu scelta a caso, quelli infatti erano i due numeri simbolo che portavano sulle spalle Kobe e la piccola Gianna. Durante la cerimonia, molto toccante, si susseguirono tributi a Bryant, ricordi e dichiarazioni dei tanti amici del Mamba. Su tutti la moglie Vanessa, Michael Jordan e Shaquille O’Neal.
Vanessa e gli amici possono dirlo: lui sapeva come toccarti in modo personale, anche se a volte era un grande rompipalle. Aveva quel senso di amore che non potevi non ricambiare perché lui sapeva tirare fuori il meglio di te. Un paio di mesi fa mi ha scritto un messaggio dicendo: “Sto cercando di insegnare a mia figlia alcune mosse” e mi ha chiesto cosa ne pensassi. Gli ho chiesto “Quanti anni ha?”, “12!”. Io a 12 anni cercavo di giocare a baseball! Mi risponde che stava crepando dal ridere, tutto ciò alle 2 del mattino. Michael Jordan, in lacrime, pronunciò parole a dir poco toccanti, a Nella vita, è difficile trovare amici con cui avere le conversazioni che avevamo noi. testimoniare lo straordinario rapporto che c’era tra i due: La sua voglia di migliorare me lo ha fatto amare, il fatto che lui mi vedesse come una sfida. È difficile vedere persone con la sua voglia di migliorare giorno dopo giorno “Forse potrà sorprendere qualcuno, ma io e Kobe eravamo molto amici. come padre, persona, amico. Io sono ispirato per quello che ha fatto, per cosa ha Kobe era come un fratello minore per me. fatto con Vanessa e le figlie. È quello che continueremo ad amare di lui. Le domande, la voglia di conoscere nel dettaglio tutto. Kobe mi chiamava, A Vanessa, a Natalia, a Bianka, a Capri: ci saremo sempre per voi! mi mandava messaggi, all’1:00 di notte, alle 2.30, alle 3:00 del mattino. E voglio dare il mio sostegno a tutte le famiglie toccate dalla tragedia. Mi parlava del gioco in post, del gioco di gambe e a volte anche del triangolo. Kobe ha dato ogni goccia di sudore per tutto ciò che ha fatto. Inizialmente la cosa mi irritava ma poi è diventata una passione, perché Dopo il suo ritiro sembrava davvero felice. Era un papà fantastico, un marito questo ragazzo ne aveva a livelli impossibili da capire. fantastico che si è dedicato alla famiglia e amava le sue figlie con tutto il suo cuore. La cosa straordinaria della passione è che quando ami qualcosa, se hai una Non ha mai lasciato niente e ha dato tutto. forte passione per qualcosa, ti spingi all’estremo per capire e raggiungerla. Nessuno sa quanto ci resta da vivere, per cui cerchiamo di passare più tempo Kobe per me è stata l’ispirazione per capire che qualcuno davvero teneva a possibile con le persone che amiamo. Godiamoci tutte le persone con cui veniamo come giocavo, voleva diventare il miglior giocatore di basket possibile. a contatto. Con la morte di Kobe è morto un pezzo di me, e se guardo le vostre E quando ho imparato a conoscerlo, ho cercato di diventare il miglior reazioni posso dire lo stesso per voi. Vi prometto che da questo giorno in avanti fratello maggiore possibile per lui. Per farlo, devi saper sopportare la rabbia, vivrò col ricordo e la consapevolezza che avevo un piccolo fratello che ho cercato le chiamate a tarda notte, le domande stupide. Ero orgoglioso del fatto che di aiutare come potevo. tramite me stesse cercando di diventare un uomo e una persona migliore. Riposa in pace fratellino mio.”
Qualche giorno dopo, alla prima partita in casa dei Lakers dopo la sciagura, fu la volta dell’altro grande amico di Kobe, LeBron James, di esprimere le sue emozioni. Maglia numero 24 e lo Staples riempito di canotte gialle con i numeri di Bryant in silezio in attesa delle sue parole: “Stanotte celebriamo il ragazzo che è arrivato qui a 18 anni e che si è ritirato a 38, e che è diventato il miglior padre che abbiamo visto negli ultimi tre anni. Kobe è un fratello per me. Il fatto che io sia qui ora vuol dire tantissimo per
me: insieme ai miei compagni vogliamo portare avanti la sua eredità non solo per questa stagione, ma fino a quando potremo continuare a giocare a basket perché è quello che amiamo ed è quello che Kobe avrebbe voluto. Perciò, nelle parole di Kobe Bryant: Mamba out; ma nelle nostre parole: noi non lo dimenticheremo mai. Vivrai per sempre fratello. Vi amo tutti”.
Incredibile come il destino sia stato preciso e crudele al tempo stesso. Infatti proprio la sera prima della tragedia, Kobe era stato superato da LeBron James nella classifica marcatori all-time dell’NBA come terzo miglior marcatore della storia. “Tanto rispetto per mio fratello”, questo l’ultimo messaggio social del Mamba, un tweet che ora, per tutti, suona ancor di più come un passaggio di testimone, da Laker a Laker. Proprio mentre rientrava in aereo da Philadelphia, LeBron James ricevette la notizia della morte di Kobe: le immagini del numero 23 in lacrime all’aeroporto fecero il giro del mondo.
La morte di Kobe Bryant non poteva non lasciare il segno e sui parquet delle partite NBA in programma il 26 gennaio 2020, data del tragico incidente, numerosi atleti indossarono le scarpe della linea prodotta dal Black Mamba o le proprie scarpe scrivendo un messaggio dedicato a Bryant e alla piccola Gianna. Trae Young, Kyle Lowry, Bradley Beal, Lonzo Ball, Ben Simmons, Montrezl Harrell, Austin Rivers, Tyson Chandler, Julius Randle, Elfrid Payton, Marcus Morris, Josh Hart, Kelly Oubre Jr, PJ Tucker, Jaxson Hayes sono solo alcuni dei giocatori che hanno voluto rendergli onore sul campo.
Anche nel mondo dello spettacolo fu un susseguirsi di tributi e manifestazioni d’amore per Kobe Bryant. Proprio la sera dell’incidente, allo Staples Center erano in programma i Grammy Awards 2020. La presentatrice, Alicia Keys, sconvolta come tutti gli altri dalla terribile notizia, volle ricordare il campione NBA in quello stesso luogo in cui il Mamba scrisse la storia dei Lakers, con un toccante omaggio musicale. “Siamo incredibilmente tristi stasera. Oggi, Los Angeles, l’America e il mondo intero hanno perso un eroe. Siamo qui col cuore spezzato nella casa che Kobe Bryant ha costruito”. La cantante ha intonato inizialmente a cappella il brano dei Boys II Men “It’s So Hard to Say Goodbye to Yesterday” per poi essere raggiunta sul palco dalla band che l’ha supportata nel toccante omaggio a Bryant. “Volevamo fare qualcosa che potesse provare a descrivere come ci sentiamo tutti stasera. Kobe, ti amiamo”, la conclusione tra gli applausi commossi del pubblico
Anche sul red carpet degli Oscar su Hollywood Boulevard a Los Angeles si rese omaggio a Kobe Bryant. Spike Lee, indossò uno smoking color viola e giallo con il numero 24 applicato sulla giacca e ai piedi un paio di Nike Kobe 9 Elite High. Spike Lee, grande amante della pallacanestro, nel 2009 diresse “Kobe: Doin’ Work”, un documentario sulla celebre etica del lavoro della star dei Lakers. “Tributo, onore, omaggio. Ci manca a tutti” disse il regista.
La Mamba Sports Foundation, associazione fondata da Kobe e Vanessa Bryant, impegnata nel sociale ed in particolare nel sostegno dei bambini meno fortunati, che vivono in condizioni economiche difficili fu il canale con il quale, dopo la tragica morte di Kobe e di sua figlia Gianna, si raccolsero donazioni provenienti da tutto il mondo per sostenere le famiglie colpite nell’incidente in elicottero. Inoltre il nome dell’associazione venne cambiato, cosÏ da onorare per sempre la memoria anche di Gianna Bryant, in Mamba & Mambacita Sports Foundation. Mambacita, piccola Mamba, era infatti il soprannome che l’ex leggenda dei Lakers aveva dato alla figlia Gigi, sua erede naturale in campo.
Anche Los Angeles, sua città adottiva, iniziò a rendere omaggio a Kobe. Inizialmente con una vera e propria processione verso il famoso murales “4.13”, dedicato all’ultima partita giocata da Kobe il 13/4/2016, la cui immagine è realizzata dall’artista JC.Ro utilizzando 413 triangoli (foto a destra), riempito dai fans con post-it contenenti i loro pensieri; poco dopo iniziarono a comparire sempre più una serie di murales dedicati a Kobe e Gianna nella famosa zona di Melrose Avenue, famosa per la street art e cuore pulsante del quartiere di Hollywood.
HALL OF FAME
Il nome di Kobe Bryant entrò ufficialmente nella Hall of Fame del basket 2020, aggiungendosi alla lista dei giocatori che hanno fatto la storia della NBA come Michael Jordan. La notizia venne condivisa su Instagram dalla moglie Vanessa Laine Bryant che commentò orgogliosa: «Ti amo e mi manchi tantissimo, Papi». “Un incredibile traguardo e un grande onore, di cui siamo estremamente orgogliosi: l’elezione nella Hall of Fame è il picco della carriera di Kobe, perché ogni vittoria era solo un piccolo passo per arrivare fin qui. Ovviamente avremmo voluto che fosse qui con noi a festeggiare. Noi siamo orgogliosi di quello che ha fatto, c’è un briciolo di conforto nel vedere il nome di Kobe nella classe 2020”. Anche la squadra di Los Angeles commentò: “Non ci sono parole per descrivere che cosa abbia significato Kobe Bryant per i Lakers. Non è stato solo un vincente e un campione, ma una persona che ha dato tutto alla pallacanestro. La voglia di competere, l’etica del lavoro e la spinta che lo animava non hanno paragone: queste qualità lo hanno portato a vincere 5 titoli NBA e ora a entrare nella Hall of Fame, insieme ai più grandi campioni di questo gioco. Nessuno lo merita più di lui”. Con Kobe Bryant entrarono nella Basketball Hall of Fame del museo di Springfield, in Massachusetts, anche Tim Duncan e Kevin Garnett.
HEROES COME AND GO, BUT LEGENDS ARE FOREVER.
KOBE BRYANT STORIA DI UN EROE DIVENUTO LEGGENDA
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I testi sono provenienti quasi interamente dalla rete; in parte da www.wikipedia.org, in parte dalle innumerevoli pagine internet contenenti articoli riguardanti Kobe Bryant. Parte dei testi è edita da me stesso. Le immagini sono state interamente reperite dalla rete. Non è stato possibile contattare i detentori dei diritti d’autore del materiale incluso nel presente volume, spesso proprio per mancanza di informazioni relative al copyright delle foto stesse. Prodotto non destinato alla vendita con fini di lucro.
“Fare quello che ti piace di più. Farlo al massimo. Farlo cercando di essere il migliore di tutti, sempre. E seguire tutte le strade lecite per diventarlo. Quando fai la cosa che ami di più, l'ossessione è naturale.“