…e chi più ne ha più ne metta
TITOLO / ATTILA, ADALBERTA E CHI PIÙ NE HA PIÙ NE METTA. TESTI / Chiara LORENZONI ILLUSTRAZIONI / Chiara CRINITI COLLANA: InFabula progetto grafico: Simone MIRI
TUTTI I DIRITTI RISERVATI © Lupo Editore 2009 ISBN 978-88-95861-99-9 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza l’assenzo dell’editore
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Al prode cavaliere con la mosca sul naso, all’intrepido generale dal cuore tenero, all’uomo dei fuochi d’artificio, alla signora delle torte di mele, alla dama degli scialli, all’amica senza venerdì e…a Lambrusco!
Attila e la lucertola Adalberta
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el quartiere quasi nessuno si ricordava il suo vero nome, ma non c’era abitante, negoziante, passante e perfino cane, gatto o pennuto che non conoscesse bene il suo soprannome: Attila. Se l’era guadagnato sul campo, dopo svariati anni di furfanterie e monellaggini che non risparmiavano nemmeno i suoi parenti più stretti. All’inizio, in occasione dei primi esordi di Attila nella promettente carriera di birbante matricolato, il suo papà e la sua mamma ridevano degli “scherzetti” che architettava, perché pensavano che fosse lo sfogo della naturale vivacità di un bimbo intelligente e curioso. Però, man mano che il tempo passava, l’esuberanza di Attila non accennava a mitigarsi e il sorriso dei suoi genitori di fronte all’ennesimo dispetto si faceva sempre più tirato, fino a scomparire del tutto e a rassegnarsi con filosofia all’inevitabile: Attila e i suoi dispetti crescevano insieme! Chi non era mai stato oggetto della fervida immaginazione di Attila nell’architettare bricconate, non avrebbe mai capito di avere a che fare con un professionista della furfanteria, perché il suo aspetto di normalissimo bambino di sette anni non lasciava presagire nulla di tutto ciò: biondo, occhi chiari, riga in parte e sguardo limpido e sincero. Forse l’unico indizio rivelatore poteva essere quella stupefacente collezione di piccole cicatrici sulle ginocchia sbucciate, i tagli in fronte, i denti sbrecciati, e così via: ricordi indelebili di alcuni giochi particolarmente movimentati. Comunque, ad onor del vero, solo una mente pronta ed una intelligenza spiccata come la sua potevano dar vita a scherzi così sofisticati e dispetti tanto ingegnosi.
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Nei suoi giochi non c’era mai un intento vendicativo o una premeditata volontà di far del male, ed infatti fu solo il gusto dello spasso a fargli appiccicare schifosissima e bavosa gomma da masticare sotto le suole di tutte le scarpe dell’intera famiglia: quelle di mamma, papà e perfino quelle ortopediche del nonno. Però a volte, molto raramente a dire il vero, lasciava che un diavoletto ci mettesse la coda. Una volta, durante l’ennesima birbanteria, come castigo la mamma gli tolse la paghetta per tre settimane. Per Attila fu una vera disdetta perché ormai erano mesi che risparmiava per poter comperare l’ultimo modello di skate board, che iella, già immaginava il rumore delle rotelle sull’asfalto e, soprattutto, la faccia che avrebbero fatto i suoi amici vedendolo con lo skate sotto i piedi. Non poteva rassegnarsi a non averlo, non poteva proprio, quello skate doveva essere suo! Così, senza scoraggiarsi di fronte a questa improvvisa difficoltà e dopo una lunga meditazione, gli venne l’idea giusta: un riscatto! La sera aspettò paziente che tutti andassero a dormire e dopo un paio di ore, sicuro che mamma, papà e nonno fossero ormai tra le braccia di Morfeo, si alzò quatto quatto dal letto ed entrò con passo felpato in camera del nonno. Come aveva previsto, il nonno dormiva della grossa e neanche le cannonate l’avrebbero svegliato. Il suo sguardo si fissò non lontano, sul comodino, accanto agli occhiali da vista, dove troneggiava il bicchiere d’acqua in cui galleggiava la dentiera. Con passi lenti e gesti misurati, Attila prese il bicchiere e al suo posto lasciò un biglietto sul quale erano incollate delle lettere ritagliate dalle riviste della mamma, che componevano la seguente frase:
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Certo, furbescamente non mise la firma, ma i disseminati errori d’ortografia erano come una gigantesca freccia luminosa che portava dritto dritto a lui. Inutile dire che l’indomani mattina, al suo risveglio, Attila scoprì che non solo il castigo della paghetta era stato prorogato per altre due settimane, ma anche che era stato nominato dalla mamma come suo aiutante lavapiatti “praticamente volontario” per un mese intero. Questa investitura gli fu appioppata a suon di urli e sotto la minaccia che, se non avesse tirato fuori la dentiera nei cinque minuti successivi, avrebbe immediatamente ottenuto sul campo anche la nomina di annaffia-giardino “praticamente volontario”. Vergognandosi un po’, Attila con lo sguardo fisso al pavimento alzò un braccio e indicò la boccia del pesce rosso. Sul fondo, tra le conchiglie raccolte al mare l’estate prima e i sassolini di fiume, spiccavano i candidi denti finti del nonno. Durante il mese di punizione, Attila, che era una fucina d’idee ma anche un ottimista per natura, non si lasciò fermare da una pila di stoviglie sporche, e perfino con il canovaccio in mano o il braccio insaponato di detersivo per i piatti continuò imperterrito a progettare scherzi sempre più bislacchi. Per fortuna, alcune di queste belle pensate furono stroncate sul nascere da un’occhiataccia con relativa ammonizione della sua mamma, che ormai aveva sviluppato un intuito speciale: quando notava lo sguardo perso nel vuoto del figlio e un sorriso sornione che gli spuntava sulla faccia, capiva al volo che Attila si stava preparando per entrare in azione. Spesso, però, non le restava che metterlo in guardia e rassegnarsi a pensare alla prossima punizione educativa che avrebbe dovuto appioppargli affinché gli passasse il gusto per le bricconate. Ma a volte la vita è più educativa di qualsiasi mamma fantasiosa, anche di una mamma con le antenne capta-guai. Un caldo pomeriggio estivo, mentre i grandi facevano il solito pisolino dopo pranzo, Attila era in giardino seduto a gambe incrociate sul prato: evidentemente anche lui pativa il caldo perché non zompettava pieno di energie da un parte all’altra della casa, ma se ne stava tranquillo sotto l’ombra degli alberi. Tutta quella calma però non era da lui, e infatti appena notò che non lontano, vicino ad un’aiuola di fiori, c’era una lucertola che si stava godendo il sole, qualcosa cominciò a frullargli in testa.
Aveva letto sull’enciclopedia che il nonno gli aveva regalato per Natale che le lucertole, quando sono attaccate da un predatore, per disorientare gli avversari utilizzano una tecnica particolare: lasciano cadere un pezzo di coda. Gli aggressori se ne rimangono così a lottare con un pezzetto di coda che ancora si contorce tra le grinfie, mentre la lucertola sana e salva se la svigna di corsa. Questa cosa aveva affascinato Attila, gli era rimasta impressa in mente, e subito pensò che nessuna occasione era più propizia di questa per vedere dal vivo la magica divisione dell’animaletto; in fondo catturarla non sarebbe stato poi così difficile, visto che doveva essere anche lei intontita dal caldo afoso di quel primo pomeriggio. Forse però Attila non aveva letto tutto quello che c’era da sapere sulle lucertole, perché altrimenti avrebbe imparato che questi rettili sono anche animali molto agili e veloci. Infatti, quando si gettò a corpo morto nel punto esatto dove c’era la lucertolina, rimase sorpreso di ritrovarsi con il naso tra le ortensie dell’aiuola, stringendo nel pugno solo un po’ di terra. Ma la sorpresa più grossa fu quell’urlo furibondo e acutissimo che si levò improvvisamente, rimanendo sospeso per alcuni minuti, e che lo spaventò a morte. Era un suono strano e agghiacciante, sembrava quasi l’urlo di una sirena della polizia, ma aveva qualcosa di soprannaturale. Attila pensò che quel suono spaccatimpani avrebbe creato il pandemonio in tutto il vicinato, ma con grande stupore notò che non si era mossa una foglia e nessuno sembrava aver udito nulla; questo lo terrorizzò ancora di più. Non lontano, dal suo nascondiglio sotto il masso piatto, la lucertolina notò lo sguardo impaurito di Attila e ne sembrò estremamente compiaciuta. Per quanto si sforzasse di dare una spiegazione logica a quello che era appena accaduto, Attila non ne fu capace, e se ne rimase pensieroso e preoccupato per tutto il giorno. Perfino la mamma si inquietò quando notò che durante la cena il suo bambino non spiccicava parola, restandosene stranamente composto, masticando lentamente con il naso sul piatto e finendo addirittura tutto lo sformato di cavolfiore, la verdura che odiava di più. Dopo cena Attila andò quasi subito a letto e, nonostante il pensiero fisso sugli strani eventi di quel pomeriggio, si addormentò rapidamente e molto profondamente. Cominciò a sognare.
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Stava camminando lungo il vialetto di casa sua, ma anche se riconosceva il posto provava una sensazione di estraneità, come se in realtà quel luogo non gli appartenesse. In fondo al viale, invece della sua bella casa bianca c’era un gigantesco masso muschioso che aveva una profonda spaccatura alla base, tanto da formare una larga e buia caverna di cui non si poteva vedere la fine. Vicino all’imboccatura si levavano tronchi verdi arcuati che facevano ombra alla roccia. Una strana e impellente curiosità lo spingeva a camminare in quella direzione, per vedere cosa mai quella grotta potesse nascondere. Arrivato all’ingresso della caverna Attila appoggiò una mano sul tronco che ne incorniciava l’apertura, e fu allora che notò qualcosa di strano: quell’albero era freddo, aveva la corteccia morbida e… pulsava. Alzò lo sguardo e, invece della chioma frondosa che si aspettava di vedere, si ritrovò a fissare due enormi occhi gialli e una gigantesca bocca aperta da cui si intravedeva la lingua rosa e bavosa che si muoveva modulando un urlo stridente e assordante che non gli era nuovo. Attila era talmente impietrito che non un solo muscolo rispondeva all’ordine di fuga immediata che il cervello stava gridando alle sue gambe. Un formicolio di puro terrore gli era salito dai piedi e, correndo su per la schiena, gli era arrivato alla nuca, fino a fargli letteralmente rizzare i capelli. Era lì, immobile, e fissava con gli occhi spalancati quel drago verdastro che assomigliava così tanto a… una gigantesca lucertola! Solo dopo aver formulato questo pensiero, dentro la sua testa si accese una luce accecante: quello non era un drago, quella era davvero una lucertola!!! «Vedo che hai capito cosa sono» disse il rettilone gigante smettendo di emettere quel suono spaventoso, «ma mi domando se hai capito anche chi sono…» «Lo so chi sei. Sei quella lucertola che volevo catturare» balbettò Attila articolando a fatica le parole, «anche se proprio non capisco com’è che sei così gigantesca. Chi sei davvero?» «Sono compiaciuta che almeno ti ricordi di me. Il mio nome è Adalberta. Per rispondere alla tua domanda, direi che proprio non ho la più pallida idea del motivo perché tu mi veda a dimensioni sproporzionate, quando in realtà non sono più grande di cinque centimetri… forse non sono io quella che si è ingrandita, ma è qualcun altro che si è rimpicciolito.» Attila prontamente si guardò le mani e il corpo, ma non vedeva niente di diverso in sé, nulla intorno a lui lasciava supporre che il suo corpo si fosse ristretto.
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«Oh, no Attila, vedo che proprio non hai capito!» disse Adalberta sorridendo e scuotendo dolcemente la testa. «Non è il tuo corpo ad essere più piccolo, ma il tuo cuore, e forse anche la tua coscienza. Forse. Ma è anche possibile che non sia troppo tardi, tutti hanno un’altra occasione per imparare, e questa è la tua, piccolo Attila.» La lucertola, senza lasciare ad Attila il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo, levò il muso al cielo e, come rapita, intonò questa cantilena:
“Realtà e sogno, sogno o realtà, Attila una bella lezione imparerà, non sarà più un bimbo insolente, ma un’altra creatura vivente che con coscienza sceglierà e la sua vita viver saprà”. Nel pronunciare queste parole, Adalberta alzò la coda tozza e cominciò ad agitarla mollemente, fendendo l’aria e producendo un lieve fischio che si innalzava in un continuo crescendo. Quasi impercettibilmente l’aria mossa dalla coda si tinse di giallo, prima un giallo tenue che rischiarava tutto intorno, e poi sempre più intenso fino a confondere tutte le cose dentro una nebbia dorata e a cancellarle progressivamente. Rimaneva visibile solo la figuretta tremante di Attila che era rimasto completamente, e insolitamente, senza parole. Intorno a lui tutto era svanito, anche la calda luce era stata sostituita da un buio impenetrabile; per quanto si sforzasse non vedeva niente e non udiva niente, provava solo una sensazione di leggerezza assoluta e di improvvisa solitudine. Nel buio pesto Attila si ricordò che forse, nella tasca dei pantaloni, aveva la
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mini torcia del kit di sopravvivenza guadagnato con i punti del giornalino. Fece per mettersi le mani in tasca e con orrore scoprì che non solo non aveva i pantaloni, ma non aveva nemmeno mani, gambe, pancia, braccia, viso, testa: per farla breve, non aveva più un corpo! Gli veniva da piangere, sì! proprio da frignare e da implorare la mamma di aiutarlo, ma non aveva neanche le corde vocali… poi, però una certezza lo fulminò: stava pensando! Quindi il suo cervello funzionava lo stesso, ed era il caso di metterlo subito all’opera prima che la situazione potesse peggiorare, anche se proprio non si immaginava niente di più terribile di quello che gli stava succedendo. Con la mente passò in rassegna tutto quello che gli aveva detto Adaberta, provando una fitta di vergogna al ricordo del cattivo giudizio che aveva formulato su di lui, sentì che la chiave per risolvere il problema stava nella cantilena… proprio nelle parole di quella stramba filastrocca. Aveva a che fare con una persona diversa da se stesso, forse poteva scegliere di essere qualcun altro… beh, se era proprio così, e lui non aveva dubbi, voleva essere un grandissimo mago, voleva essere come il mitico Harry Potter. Allora chiuse gli occhi, o meglio immaginò di chiuderli, ed espresse questo pensiero: «Voglio essere Harry Potter». Nulla. Silenzio assoluto. Neanche un mignolino di Harry Potter era comparso. «Oddio, e adesso cosa faccio» piagnucolò dentro di sé Attila. «Un attimo… la lucertola ha detto altra creatura vivente, non altra persona! Forse, forse significa che devo scegliere di essere un animale… Ti prego no, un animale no…» pensò, tra le lacrime e il moccio che sicuramente gli sarebbero colati giù se avesse avuto occhi e naso. Passò qualche minuto, ma la risposta alle sue suppliche fu solo silenzio e oscurità, quindi rassegnato Attila prese la sua decisione: «Se proprio hai deciso che devo essere uno schifoso animale, allora sarò un coniglio! Ma non un coniglio qualsiasi, uno forte, coraggioso e furbo.» Poi tra sé e sé pensò che in fondo poteva anche essere divertente scorazzare per i prati affondando le zampe nel fresco trifoglio e di tanto in tanto rubacchiare qualche carota.
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Uno sbuffo di fumo vermiglio squarciò le tenebre. La prima cosa che Attila poté vedere con l’occhio sinistro, visto che il destro era coperto da una lunga pelosa orecchia cascante, fu una coda a pon pon bianca soffice e spiritosa. Ma non fece in tempo a guardare con calma il resto del suo nuovo corpo, perché sentì una mano ruvida che gli afferrò le orecchie e lo sollevò di peso lasciandolo penzolare a corpo morto. Da quella scomoda posizione potè guardare ciò che lo circondava. Luci accecanti, tende stinte e polverose, un centinaio di persone sedute che lo fissavano applaudendo. Così a prima vista gli sembrò di essere in un polveroso teatrino, ma cosa ci faceva un coniglio a zampe all’aria in un teatro? Poi sentì sopra di sé una voce squillante che proclamava con soddisfazione «Sim Salamin, et voilà mon cher!!!» Di sguincio vide che il proprietario di quella voce era un omino basso e tarchiato in frac nero, dalla cui manica faceva capolino un groviglio di foulard di seta colorata, mentre sotto le sue zampe intravide l’altra mano che reggeva un vecchio cilindro un po’ sformato. Ora Attila si poteva definire in molti modi: peste, monello, a volte maleducato… ma senz’altro anche molto intelligente. Infatti, con una profonda fitta di angoscia capì di essere appena uscito dal cilindro di un prestigiatore!
Ancora appeso per le orecchie in quella posizione poco dignitosa, vide a lato del palcoscenico, dietro le quinte, quelli che dovevano essere i ferri del mestiere dell’omino: un carrello sgangherato sul quale erano posati un mazzo di carte, una serie di spade e coltelli, una sfera di vetro, tre grossi anelli di ottone e una gabbietta minuscola che immaginò essere “la gabbia del coniglio”, ovvero la sua nuova dimora. Era davvero piccola e sporca, sul fondo c’era della segatura che aveva l’aria di puzzare molto. Altro che tenero trifoglio e carote croccanti! Qui l’unica prospettiva che Atti-
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la poteva aspettarsi era quella di fare la vita del coniglio in scatola sballottato tra un teatrino cadente e un night club d’infimo ordine, dove negli unici momenti di libertà dalle sbarre della gabbia avrebbe dovuto esibirsi in modi molto poco coniglieschi. Ma forse non tutto era perduto, forse poteva ancora tirarsi indietro, in fondo era coniglio da poco meno di cinque minuti e magari poteva scegliere con più buon senso, sì, avrebbe scelto un altro animale, qualcosa di meno banale… Strinse forte gli occhietti, mosse il naso velocemente scoprendo i dentoni e pensò intensamente: «Rondine, voglio essere una rondine!»
…PUFFF FF F FFFFF! Chissà perchè la prima cosa che vedeva sempre era la coda, questa volta lucida, nera e biforcuta. Si stiracchiò per prendere confidenza col suo nuovo corpo e dispiegò le ali che frullarono facendo un fruscio lieve e leggero. Attila osservò incantato il colore del suo piumaggio così nero da avere riflessi blu, in perfetto contrasto con le piumette più soffici e bianche della pancia e quelle rosso fuoco della gola. Già si sentiva più sollevato perché poggiava le zampe sul ramo di una betulla, poteva sentire lo stormire del vento tra le foglie e vedere l’azzurro del cielo. Una sottile euforia s’impadronì di lui, cominciò a saltellare sul ramo, ad osservarsi le zampe da vicino, ad aprire e chiudere le ali in continuazione per sentire quel fruscio dolce, anzi decise senza indugio che quello splendore di ali poteva anche provarle seduta stante. Stava raccogliendo tutto il suo coraggio per spiccare un salto nel vuoto, quando una violenta beccata lo colpì sull’ala: era un’altra rondine che da un ramo vicino aveva osservato lo strano comportamento di Attila. «Ma che fai, non ti sbrighi? Stai lì impalato a fare la danza della pioggia invece di darti una mossa? Non vedi che sei rimasto l’unico sulla betulla? Vedi di aprire in fretta quelle ali, amico, o saranno le piume del tuo sedere a rimetterci!» Detto questo si levò in volo. Attila non ebbe il tempo di replicare perché la rondine se n’era andata, ma pensò che quando le piume del sedere sono in pericolo, l’unica cosa da fare è scappare, così decise di seguirla.
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Volare in fondo non era tutta quella pacchia, bisognava calibrare bene la forza delle correnti d’aria, non distogliere mai l’attenzione dall’orizzonte, coordinare i movimenti e poi, fondamentale, tenere il becco chiuso. Era concentratissimo e cercava di non guardare in basso perché rischiava di perdere l’equilibrio, quando si rese conto che era giunto il momento di atterrare. Infatti la rondine che lo precedeva si era posata su un traliccio del telefono. Attila sporse in avanti le zampe e cercò di rallentare remando nell’aria al contrario con le ali; non appena le sue zampe toccarono il filo si chiusero a scatto, ma la sua tecnica evidentemente non era quella corretta, poiché mentre le zampe arpionavano il filo, il suo corpo fece una giravolta completa fino a fermarsi ad un palmo di becco dall’altra rondine, che lo guardava attonita mormorando «Ragazzi, mai visto una rondine più strana!» Dopo che ebbe ripreso fiato, passato lo spavento del suo burrascoso atterraggio, Attila si rivolse alla sua compagna: «Vorrei proprio sapere perché mi hai fatto volare a rotta di collo come se avessimo il diavolo alle calcagna. Ma sono scherzi da fare questi?» Era un po’ innervosito per la figuraccia che supponeva di aver fatto «Beh, ragazzo, un ringraziamento sarebbe gradito visto che ti ho salvato le piume, e anche una presentazione ufficiale sarebbe gradita!» rispose sarcastica la rondine. «Io sono René, la rondine più anziana della betulla, ma visto la tua maleducazione credo proprio che la prossima volta mi farò gli affari miei, e ti lascerò affumicare dalla ciminiera.» «Quale ciminiera?» chiese brusco Attila, continuando a dimenticare le buone maniere. «Quella della fabbrica che sorge dietro il boschetto di betulle. Sputa cenere, fumo e vapore» rispose la rondine. Attila rifletté un istante e poi aggiunse un po’ sbruffone: «Io veramente non ho visto né sentito niente, né rumore né puzza.» «Si vede che sei nuovo da queste parti, perché tutti gli uccelli che abitano il boschetto sanno che all’imbrunire devono trovarsi un altro posto, se non vogliono essere affumicati con quelle schifezze! Ed ora, ragazzo di cui non so ancora il nome, non mi fare più perdere tempo che devo mettere qualcosa sotto i denti prima di morire di fame!» E, un po’ seccata, René spiccò il volo. Attila si pentì di averla trattata in quel modo e le urlò dietro «Grazie René di avermi aiutato, io mi chiamo Attilaaaa!!!» La sua voce si perse nell’aria della sera e nel cielo, in quello stesso cielo dove ora René piroettava e volava, dando quasi l’impressione di ballare con ele-
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ganti movenze. Attila osservava rapito le sue impennate e le discese raso terra verso il campo incolto sotto di lui, immaginava che lì ci fossero nugoli di zanzare ed altri insetti che potevano essere una succulenta cena da rondine. Ma lui non aveva fame fino a tal punto, e non era certo sua intenzione riempirsi il becco di zanzare o altro, per il momento come cambiamento di vita era abbastanza, al cambiamento di dieta ci avrebbe pensato un’altra volta, ora voleva solo trovare un posticino tranquillo per riposarsi un po’. In lontananza vide un filare di vigna e decise che quello sarebbe stato il posto migliore per schiacciare un pisolino. Ma non fece neanche in tempo a posarsi tra i viticci, che apparve all’orizzonte la sua amica. Non appena si avvicinò abbastanza perché Attila potesse vedere lo sguardo di rimprovero che gli lanciò, capì seduta stante di avere sbagliato qualcosa anche questa volta. «Non puoi stare qui ragazzo Attila!» gli intimò René. «Ok, l’avevo capito, ma non vedo ciminiere nei paraggi, mi sembra un posto tranquillo» obiettò Attila. «Mi sa che devo proprio tenerti d’occhio, non solo sei una rondine stramba, ma sembra che ti abbia allevato una stupidissima oca! Vedi là, quel contadino lungo il filare?» chiese, indicando con un movimento d’ala un omino tutto intabarrato che avanzava lentamente. «Sì che lo vedo.» «Beh, allora sappi che quel contadino ama talmente tanto le sue vigne da non permettere che neanche il più piccolo dei bacilli si avvicini alla sua uva,
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perciò periodicamente cosparge tutto di pesticidi e disinfettanti. Ora se non sei proprio tanto tonto, capirai bene che…» «Va bene, va bene» la interruppe Attila rassegnato. «Mi troverò un posticino nel sottotetto della cascina del contadino.» «Ohi ohi, ragazzo Attila, non so se ridere o disperarmi» disse sorridendo con dolcezza René. «Quello è un altro luogo da non frequentare perché il contadino ha spruzzato un veleno potentissimo per impedire che le vespe facciano il nido sotto le tegole. Sai che ti dico? Per stanotte ti ospito io, seguimi!» Detto ciò René volò in tondo sopra la testolina di Attila e si indirizzò verso un gruppetto di costruzioni piuttosto lontane, forse stalle. Attila era sfinito, gli sembrava che la sua vita da rondine fosse un continuo scappare da qualcosa, e poi non gli era mai piaciuto essere rimbrottato nemmeno da sua mamma, figuriamoci da una rondine. Forse poteva ancora cambiare le cose, ci era già riuscito una volta, poteva almeno provarci, così serrò gli occhi e disse «Tigre, scelgo di essere una tigre!»
…PUFFF FF F FFFFF! Le zampe che gli apparvero sembravano colonne, tanto erano grosse e potenti; gli artigli, poi, erano affilatissimi come bisturi. Attila ne fu felice. Stavolta ci aveva pensato bene, non aveva scelto una creaturina indifesa, ma un animale pericoloso e temuto. Ora avrebbe potuto difendersi da qualsiasi altro animale della foresta asiatica. Con la lingua si tastò i denti. «Che forza» pensò, «sono sciabole in miniatura, mi piacerebbe guardarmi allo specch…» SCIAFF… Dapprima percepì solo il rumore violento, e poi un dolore atroce lo morse sulla groppa, sentì come se una scia di fuoco gli avesse attraversato la schiena. Si guardò intorno e una terribile certezza gli gelò il cuore. Ecco ciò che vide. Un grande tendone circolare, numerosi spalti sui quali era assiepata una piccola folla, grosse sbarre di ferro che recintavano uno spiazzo polveroso e maleodorante al centro del tendone dove si trovava. Poco più in là un omone corpulento con una ridicola giacca di lustrini viola reggeva un grosso cerchio con una mano, mentre con l’altra fendeva l’aria con una frusta gigantesca, la stessa con cui l’aveva colpito brutalmente, senza una ragione. SCIAFF.
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Altro segno di fuoco sulla sua potente schiena. Attila intuì quello che avrebbe dovuto fare: attraversare con un lungo balzo il cerchio metallico. Il pubblico stava aspettando, l’omone cominciava a farsi nervoso. Attila guardò la frusta che roteava sopra la sua testa e seppe che niente, né le sue sciabole, né suoi artigli, né la forza che sentiva erompere dentro i muscoli l’avrebbero aiutato, l’avrebbero difeso. Niente poteva restituirgli la dignità di animale bello e maestoso che quegli stupidi uomini, pubblico e ammaestratore, gli stavano sottraendo. Chiuse rabbiosamente gli occhi e prima che un’altra scudisciata lo raggiungesse, pensò ad un animale particolare, uno di quelli che non si trovavano nei circhi, che non conoscono il dolore della frusta… ecco, aveva trovato! «Panda minore, un bel panda rosso!» NIENTE!!! Non successe proprio nulla: né zampe, né coda, né naso, né vibrisse, ammesso che i baffi del panda minore si chiamino così. Sentì solo una voce metallica che ripeteva in continuazione una cosa. Assomigliava a quegli annunci che fanno alla stazione dei treni, preceduti dal glin glon di un campanello, quando si deve annunciare il cambiamento di binario perché il treno arriverà in ritardo. Attila si concentrò per capire cosa dicesse la voce e finalmente acchiappò la frase «GLIN GLON, siamo spiacenti di informare il Sig. Attila che la scelta da lei effettuata non potrà essere soddisfatta in quanto l’animale indicato è in via di estinzione. Se lo riterrà opportuno potrà effettuare un’altra scelta, o potrà iscriversi alla lista d’attesa dei panda minori non ancora nati, nel qual caso non saremmo in grado di dirle quando potrà essere evasa la sua richiesta. La ringraziamo per la cortese attenzione. GLIN GLON, siamo spiacenti di informare il Sig. Attila che…» Forse, pensò Attila, avrebbe dovuto scegliere un animale meno esotico, ma ora proprio non sapeva che fare, era certo solo di una cosa: tutto quel buio cominciava ad innervosirlo. Fu così che senza tanto riflettere disse con voce ferma «Anatra, voglio essere un’anatra.»
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Stavolta vide una nuvola che galleggiava davanti a lui. Era a mezz’aria, con le ali spiegate, ma non aveva la sensazione di instabilità nel volo come quando era rondine, questa volta si sentiva sicuro, padrone del cielo. Magnifico, magnifico librarsi in un azzurro spazio infinito, bucare le nuvole e sentire le goccioline di umidità che ti scivolano sulle piume come perle leggere, fendere l’aria con il becco, formare perfette geometrie di volo con lo stormo compatto di anatre. Al colmo dell’eccitazione Attila guardò giù. «Ciao ciao» canticchiò allegro, «tanti saluti a voi piccoli uomini, poveri uomini con solo due gambe, due braccia e due insulsi piedi piantati per terra. Niente ali per voi, nessun cielo in cui perdersi volando, solo dura terra!» BENIG, FIUUU, BANGBANG! Eh sì, i poveri piccoli uomini avevano solo due piedi, due gambe, due braccia e certo non potevano volare, ma quelle che senza dubbio volavano perfettamente erano le pallottole sparate dai fucili da caccia che imbracciavano. Una rosa di pallini investì in pieno lo stormo, e furono colpite in quattro. Attila quasi non se n’accorse, semplicemente l’anatra che lo precedeva nella fila indiana formata durante il volo sparì dalla sua vista; con gli occhi sbarrati seguì la caduta a corpo morto della sua compagna, giù, giù, sempre più giù, mentre una lenta e fluttuante scia di piume la seguiva. Attila era attonito, l’euforia di pochi istanti prima era del tutto svanita, provava solo un profondo smarrimento, tanto da non trovare nessuna consolazione nel fatto di essere stato risparmiato, e mentre il vento gli portava le voci giubilanti dei cacciatori, chiuse gli occhi e con un filo di voce disse «Volpe.»
…PUFFF FF F FFFFF! Un lucidissimo nasino nero contornato da setose vibrisse. Questo fu ciò che vide. Poi girò la testa e lo splendore di una vaporosa coda fulva, lunga, morbida, di un folto e lucido pelo ramato, lo abbagliò. Non poteva che esserne orgoglioso. Le sue quattro agili e forti zampette affondavano in una distesa di foglie autunnali accartocciate.
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Quando Attila ebbe terminato l’inventario dei suoi nuovi connotati, con fare guardingo scrutò i dintorni di quello che a prima vista appariva un bosco tranquillo e deserto. Con cautela e circospezione si aggirò qui e là zampettando e divertendosi a far scricchiolare le foglie secche, ma sempre con le orecchie dritte e gli occhi ben aperti sui possibili pericoli in cui un animale come lui sarebbe potuto incappare. Per sua fortuna nessun tendone da circo si stagliava all’orizzonte, nessuno sparo di cacciatore rompeva il silenzio del bosco, nessun fumo industriale o altra puzza chimica corrompeva l’aria frizzante… ma quanto a prestigiatori, beh, Attila non avrebbe potuto giurare sulla loro assenza, visto che da dietro un masso non lontano spuntavano due lunghe orecchie grigie e tremolanti che Attila riconobbe subito come appartenenti al leprotto il cui sederino, con tanto di coda a palla, spuntava dall’altro lato del masso. «Ehi tu!» lo chiamò Attila. Silenzio. «Ehi tu dietro quel sasso!» Battere di denti. «Ehi, dico a te… con quelle orecchie non puoi certo essere sordo.» Un piagnucolio si levò, e con incerti saltelli il leprotto venne allo scoperto tremando come una foglia. «Hai mica visto un prestigiatore nei dintorni?» chiese Attila a voce bassa guardandosi intorno. Il leprotto, che ormai era rassegnato ad una lotta all’ultimo sangue, a quella domanda rimase proprio di stucco. Ripresosi dallo stupore, e sospettando che quella fosse una tecnica per distrarlo e poterlo colpire di sorpresa, si allontanò un poco e gli domandò: «Scusa Signora volpe, ma a cosa ti serve un prestigiatore?» Attila prontamente rispose: «Beh, io non me ne faccio niente, ma se per caso ce n’è uno nei paraggi me la batto di filata… possono essere pericolosi quei tipi lì!» A quelle parole bizzarre, il leprotto sorrise e capì all’istante di avere a che fare con una volpe alquanto bislacca, così bislacca che ai suoi occhi un leprotto selvatico non rappresentava un pasto, ma semplicemente un ufficio informazioni. «Magari» pensò tra sé il leprotto, «è una volpe vegetariana.» Con quel pensiero in testa il suo sorriso si trasformò rapidamente in una sonora e rilassata risata: si teneva la pancia e picchiava furiosamente il piede per terra, le orecchie gli tremolavano e lacrime d’allegria gli rigavano le guanciotte.
«Hi, hiii, una bislacca volpe vegetariana!» E giù altre risate. Attila lo guardò offeso finché non sbottò: «Hai poco da sghignazzare, anche tu dovresti guardarti le spalle, per noi animali il mondo è pieno di pericoli, ci sono i prestigiatori, i fucili, i cacciatori, le ciminiere, gli zoo…» «Calma amico!» disse il leprotto. «Quanto a fucili e cacciatori non posso certo darti torto, ma una volpe come te dovrebbe stare attenta ad altre cose più pericolose di un ometto con cilindro, armato di carte da gioco e fazzoletti colorati.» Attila drizzò le orecchie, forse il leprotto era davvero una buona fonte di informazioni utili, così, accovacciandosi su di un letto di foglie scricchiolanti, lo esortò a elencargli tutti possibili pericoli in cui sarebbe potuto incorrere nel suo girovagare per il bosco. E il leprotto cominciò. Sgranò un rosario di pericoli assortiti, rischi e minacce. «Ok, carino, sentimi bene e drizza le orecchie: guardati dai cacciatori senza fucile ma con le reti; non ti spareranno, ovvio, non ti torceranno un pelo, certo, ma ti metteranno in una gabbia robusta nutrendoti molto, finché non sarai cresciuto abbastanza per diventare un bel collo di pelliccia da signora. Guardati dai bocconi di carne lasciati in bella mostra sui sentieri del bosco, perché potrebbero essere avvelenati. Guardati dalle bocche dentate di acciaio nascoste tra le invitanti foglie secche. Si chiamano tagliole e hanno la brutta abitudine di serrarsi con forza sulle zampette degli animali incauti. Credimi, non ti lasciano speranze, moriresti tra dolori atroci prima che possa arrivare qualche cacciatore a finirti. E se vuoi andare in vacanza, beh, se fossi in te girerei al largo dall’Inghilterra, lì hanno uno strano sport che si chiama caccia alla volpe, e rischieresti di essere inseguito da un’orda di cani ululanti con al seguito una massa di uomini a cavallo, tutti a darti la caccia. Te o immagini? Tutti dietro ad una sola piccola volpe… è da non credere questo sfoggio di codardia e viltà, 100 contro uno… neanche il più misero dei conigli sarebbe così meschino.» Attila era sempre più allibito, non avrebbe mai pensato che la vita di un animale potesse essere così rischiosa, ma il leprotto non aveva ancora terminato, e sempre più infervorato continuava: «Guardati dai fiumi di acqua dura e grigia, sono le strade, gli uomini di solito le percorrono a bordo di enormi macchine colorate, sfrecciando a tutta velocità, e se ti passano sopra sei più che spacciato… sei una polpetta di volpe. Guardati dalle…» Il leprotto continuava a parlare e Attila era sempre più abbattuto, si sentiva
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