Da qui tutto è lontano

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PIERLUIGI MELE Da qui tutto è lontano


Titolo | DA QUI TUTTO È LONTANO Autore | Pierluigi Mele Collana | Topkapi N° | 3 Foto | Rafael Mesa Rielaborazione foto e copertina | Paolo Guido Impaginazione | Rossana Scrimieri Coordinamento editoriale | Donatella Neri

Voce audiolibro | Pierluigi Mele

TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©Lupo Editore 2009 ISBN: 978-88-95861-75-3 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Editore

Lupo Editore Via Prov. le Copertino-Monteroni (km. III - cp.34) 73043 Copertino (Lecce) • Tel. 0832.931743 Fax 0832.1819015 www.lupoeditore.com info@lupoeditore.com


Da qui tutto è lontano



Britomarti: Dunque accetti il destino? Saffo: Non l’accetto. Lo sono. Nessuno l’accetta. Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò



Tra poco accenderanno i neon in tutte le stanze e i corridoi. I neon anestetizzano l’umore. A cominciare dall’intermittenza che esalano prima di dar luce. Accendi una candela. Se un novizio si lamenta, accendi una candela, ripetono. Con le luci sparate. Quando parlano così, io vedo come muovono le labbra. Gelidi come i neon. Però non mi offende il loro modo di parlare. Non li ascolto. Non ho opinioni né sentimenti degni di nota. Tutto ciò che ho realizzato nella vita è accaduto senza quasi l’intenzione. Che sciocchezza credere alle storie di uomini esemplari. Con questo spirito ho servito Mezzaluna. è tutto nei taccuini. Una notte, di ritorno dalla scogliera, seduto allo scrittoio, il lume acceso, le parole hanno cominciato a fluire da sole sulle pagine bianche. A riportare tutto ciò che era stato poco prima. Da quella notte sono rimasto il segreto scrivano di Mezzaluna. Ho sempre pensato a lui come ad uno scenario della natura, un luogo incantevole, inutile insieme. Dipendeva dal mio stato d’animo farmelo piacere. Accade, a Torre S. Emiliano. Una baia aspra, selvaggia, su cui le nubi frignano come prefiche e poi 9


ecco, ogni pianta deflagra, nottetempo i colori, i profumi, in un silenzio che scivola in bocca come granita. Il mito qui soffia leggende e s’impasta con le trame dell’oltremare. Approdi d’eroi, decollati dalle scimitarre, arcane pitture, catacombe, caverne. Qui spendevo la giovinezza alla macchia succhiando bacche di salvia, e venivo alla piana dove le donne tessevano bevendo infusi di corteccia contro il veleno di scorpioni. In cerchio nelle corti fra un canto e un parlottio. Le guardavo e non capivo. Quella loro maestria al telaio così semplice e composta, come potesse trasformarsi in possessione, quando deliravano d’un tratto sulle aie, seguite da musici fattori. Immaginavo fosse tutta una finzione addolorata, e forse lo era. Madri e figlie del travaglio a dimenarsi fra la terra, ossesse fino al coma. Non capivo e le guardavo. Oggi non più. Oggi sorveglio l’orizzonte da vecchio guardiano, nel teatro che fu, nell’arena dei miei occhi. Forse abbatteranno la Torre o ci costruiranno attorno uno scempio. Ne è zeppa la piana. Non dovremmo mai nominare i luoghi amati, qualcuno prima o poi li sfregerà. Ricordo una volta Mezzaluna dire: sarebbe bello morire come davanti a una fotografia ritrovata, sorridendo. Ma io non lo seguii. Perché spesso, quando parlava, mi estraniavo. Ripensando per esempio all’uomo che ho amato. Alle sue storie inventate all’ombra della Torre. Aveva capo e coda, ogni storia. Infondeva ogni volta dolcezza. E se nuova o già 10


udita non conta. Mi rapiva la sua voce al mio fianco. Sarà che abbiamo bisogno di qualcuno, fosse pure un’illusione, per dare un senso a noialtri. Soli lo saremo sempre, non anticipiamo i tempi. Fanfaluca, il suo nome. Pensare che quando Mezzaluna mi ordinò di ucciderlo, senza ribellarmi eseguii. Ognuno ha il suo segreto, il mio lo custodisce l’uomo amato che ho ucciso. Ti penso ancora, Fanfaluca. Ti scordo spesso. Mi ritorni nell’anemone, nel timo, la stella di Betlemme. Nel fumo di paglia arsa dall’estate, nell’eco da lontano della trebbia. Nella Torre di S. Emiliano soprattutto. La scalavamo ad arrampicarci per la luna. Ci sembrava a portata di mano lassù, e poi lanciarla lungo i valloni come una biglia di sponda al biliardo. è qui, nella baia, che mi appari e ti eclissi come fanno le farfalle. Pare sviluppino le ali seducenti per beffare i predatori. Dicono: la mia carne è disgustosa, non mangiarla, te lo dico con l’inganno, con la trama dei colori. E così librando scampano alla morte. Devo chiudere il taccuino. L’ultimo. Il neon comincia a tremolare, acido come il cielo di oggi. Da stamani non ho visto un solo granello di sole. Lo avrei voluto però. Lo avrei conservato come un amuleto per proteggermi dagli schiamazzi. Più di qualcuno qui sbraita, e nessuno che venga a chiedere cosa c’è che non va. Poco importa. Io non li ascolto. Trovo sempre un modo per tagliarmi fuori dal loro mondo. Sono stato un servo per questo. 11



Primo taccuino

Il

palazzo dove vivo poggia su caditoie

e torrette in rovina, ma stranamente resta in piedi, con noialtri all’interno. Per un oscuro calcolo, siamo incollati da una pece alla sorte, in attesa. Nel frattempo sorveglio cortigiani, mandatari, trappeto, cantine e mulino. Tutt’intorno muricce e pietraie a perdita d’occhio. A sbalzo sul mare la gariga del timo e dei merli. Querce spinose e ailanti incamminano alla valle. A occidente le borgate delle ricamatrici e dei pescatori. Provengono da lÏ le guardie, vecchie e senza armatura, che poltriscono ora nella sala del trono. Dominano la sala quattro seggi malmessi e lo scanno regale in pietra fulva, lambita da muschi. Dalla volta a squadro pende una lama in forma di mezzaluna, destinata a ghigliottina. Ai lati, soglie e finestre dai lisi tendoni. Sul fondo una scala immette ai piani alti; lastroni di selce guidano a cucina e interrati. Il pavimento sboccia in geometrie di mattoni a decoro con sabbia di mare e colori di bianco, indaco e rosso; ai bordi, fregi in ocra. Incassato sulla sinistra un largo camino. Ivo, Guido, Vincenzo e Arturo sono i quattro 13


consiglieri. Degli impiastri simili in tutto o pressappoco. Ivo, il nano del gruppo, suscita un’istintiva simpatia e il sospetto che non gli importi nulla del prossimo. Sulla sua faccia olivastra spunta l’eccelsa ignoranza di chi ha capito tutto della vita, ma senza saperlo. Ivo nasce da un padre mai conosciuto, casaro dell’Idro, e da una donna bellissima, un dono che la terra non meritava. Capelli cremisi, occhi liquidi da perdere i sensi e nivea pelle di porcellana. Rosa D’Augusta, senza pensarci troppo, un giorno come un pane spezzò in due la sua vita. Da una parte lo stuolo di depravati del suo corpo liscio, rotondo, dall’altra la voglia di un rifiorire. Però a nessuno, in paese, Rosa si concesse davvero. A quelli che le promettevano poderi e fortune non credette un istante. Era lei a tenerli in pugno come lupini. Diceva: “Ho avuto molti uomini, ma soltanto uno è quello che voglio dimenticare. Ricomincio dal mare”. E prese a gestire dietro il duomo un emporio, traboccante dai corredi alle terrecotte. Qui, sul mare, Rosa sognò di ricucire i suoi giorni. C’era, nel cielo, come una rete che avvolgeva le ore. Nell’aria, sui varchi, le doline, una rete sottilissima, ammaliante di purezza. Dal palazzo, la contea oggi appare la controfigura di quel sogno. è rimasto l’imbroglio, la fiacchezza, la zavorra per le vie. La messinscena di se stessa. Ma quando Rosa D’Augusta credette di rifiorire, questo era il 14


luogo giusto per il sogno. Anche piccolo, sbagliato. Impossibile ma vero. Ivo non sa come Rosa abbia potuto cedere a quel farabutto del padre. Sa ciò che lei disse una volta: di quell’uomo s’era innamorata sino a sfiorire, un giorno dopo l’altro sfiorire. L’amore accade, non c’è logica dietro che tenga. Rosa continuò a fare il bucato col ceneraccio alla foce, far la spola tra le Vigne e l’emporio senza più parlare del padre di suo figlio. E se un senso hanno i nomi, quello di Ivo è di tagliare col passato nel modo più veloce voluto da Rosa D’Augusta. Degli altri cortigiani c’è poco da dire. Ne ho conosciuto i padri, uomini seri. Sarebbero orgogliosi dei figli per il solo fatto di non averli tra i piedi. Ora eccoli, i consiglieri, girellare per il salone come topi nel pattume. E una ragione per farlo l’avrebbero anche: Mezzaluna li tiene a dieta regolarmente, senza ricavarne però i frutti sperati. Arturo, per primo, s’intrufola in cucina a ingozzare tutto quello che trova. S’intrufolava, ad essere esatti. Perché da tempo ci sono dei cani a fare da guardia. Ma lui continua a gonfiare senza pietà. Mezzaluna discende la scala suonando un’armonica. Ne viene fuori una specie di richiamo per la caccia. I consiglieri difatti si riconciliano sui propri scanni. «Dov’è finita la volgare signorina?» chiede interrompendo la sonata. 15


«Non è stato di tuo gradimento il boccheggio?» si rammarica Arturo, seguito dai colleghi. «Storpi, voi avete un lombrico piantato per verga» risponde il re, imperturbato. «Il servizio era proprio un bijou, ma la signorina è già esperta. Avevo chiesto una ragazza, non una baldracca. Guardie, riportatela qui». I soldati si avviano con dedizione al richiamo. Più che altro zavorrano come somari. Mezzaluna beve il suo vino e risuona l’armonica. I cortigiani attendono così la navigata peccatrice. Arturo, l’audace della compagnia, suda fregando le belle mani di strozzino. Vincenzo e Guido ostentano la prudenza dei moderati, quelli che stanno bene dovunque e dovunque trovano posto come voltabandiera. Quelli che se bevessero il proprio sudore, il cianuro non sarebbe letale. Ivo resta saldo all’ombra del trono, come se Mezzaluna fosse quel padre ignoto con cui riparare oggi un’assenza. Ma è un capriccio che il nano avverte in silenzio, comprendendone senza dubbio l’assurdità. Ed ecco i soldati introdurre un’impassibile ragazza, Violetta. Gli occhi pigri, il passo scialbo. Non un gesto o un’ingiuria contro la corte. La fanno inginocchiare al centro del salone, reclinare il capo ed azionano la lama. Una discesa sicura senza cigolio. I consiglieri a bocca aperta sono prossimi all’estasi. Compreso Ivo, che trangugia pasta di mandorla. Inaspettatamente la lama si ferma a filo della giovane nuca. 16


«Vuol dire che i posti all’inferno sono esauriti» dice il re guadagnando il suo trono. Una figura in nero velluto su quella che fu pietra biondastra. La pietra madre della contea, estratta dall’utero di cave sterili ormai, su cui disseccano i roveti. L’intero palazzo fu eretto con questa pietra a suo tempo abbagliante, oggi velata. Una pietra che come il corpo intristisce. Guarda il re, Violetta. A lungo, silenziosa, come assente. Uno sguardo indifeso come di neve. Lui sorride. Di un sorriso già vissuto: ero occupato a snidare un gatto dalla legnaia, un dicembre di alcuni anni fa. Risalito al salone, Mezzaluna sorrideva ad una ragazza dopo la stessa condanna di oggi. Le guardie e la giovane uscivano, mentre il pendolo risuonava in colpi gravi. Il fuoco si smorzava nel camino, lo raggiungevo per sistemare i ceppi appena tratti, ma con la coda dell’occhio su Mezzaluna. Il quale veniva al focolare e accendeva una sigaretta con un tizzo. Poi andava a un finestrone con un solco sulle guance, morbido e beffardo come ora. “Forse” diceva inspirando “forse domani non saremo soli”. “Perché?”. “è un desiderio, Masì”. “Un desiderio” ripetevo a me stesso.

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Sono giornate di gelo a coltello, di cupi latrati. Qualche frotta di gazze a sbrogliarsi sui lecci, finché il vento non le riannoda come matasse. Anche il mare sparecchia da sé qualunque ondata di romanticheria. La contea resta battuta da inedia e cani affamati. Si sa della presa musulmana lungo la piana, secoli fa. Quella vicenda ha infuocato i costumi, i poeti, la storia. Ha innescato invenzioni a dismisura. La favola della giovane martire, fra gli ottocento la più luminosa, del sarto decapitato per primo, del boia convertitosi a Cristo. L’architettura di focolari e bicocche, i ponti e i torrioni, le salite e le chine, tutto sembra evocare quella carneficina. Da secoli è questa la matrona delle storie. E allora penso che avremmo bisogno di un nuovo assalto dal mare per risvegliarci da un lungo sopore. Avremmo bisogno dei turchi daccapo. E la contea intorpidisce, arrendevole in casa. Anche se Mezzaluna facesse scorrere vino nell’acquedotto, spingendola alla rivolta, la contea resterebbe a imputridire come le bestie, senza bere e lavarsi. Reagirebbe all’affronto del vino con la consueta euforia, delegando. 18


Una guardia pazienta alla soglia prima di interrompere il re, preso a vaneggiare sui mattoni della sala. «Mezzaluna, fuori premono». «Portami da bere». «Aspettano da troppo». «S’impicchino, si stancheranno di meno». «Mezzaluna, le autorità». «Bene, si comincia». «Mezzaluna, cosa?». «Vieni qui, al mio posto». «Mezzaluna, al tuo?». «Mezzaluna Mezzaluna una fava! Vieni qui» e invita la guardia ad occupare il trono. «Sveglia, soldato, non hai più l’età per la timidezza». «Mezzaluna, ma potrei essere tuo padre!». «Lo ha già occupato per troppo tempo, il mio trono. Forza, vieni qui». Il milite adempie perplesso: «Mezzaluna, e ora?». «Ora tu sei l’autorità» dice il re, e batte le mani a tempo incitando il malcapitato. «Discorso, discorso! Forza, vecchietto, discorso, discorso!». «Veramente...» tartaglia il soldato. «Eh no, non s’inizia un discorso con “veramente”. Coraggio, bada d’essere convincente senza balbettare». Il soldato spera nel soccorso dell’ispirazione. Irreperibile. Prova perciò a dire la prima cosa che gli salta alla mente con un dito nel naso: 19


«C’era una volta un re seduto...». «... un re col dito nel naso!» lo blocca Mezzaluna. «Resta in questa posizione, ora sei un capolavoro». «Devo proprio, col dito nel naso?». «E dove sennò?». «Va bene, va tutto bene» reagisce a sorpresa la guardia. «Ti ho visto crescere e invecchiare. E mi inchino ai tuoi capricci anche stavolta. Per me tu sei un figlio sventurato al quale, in fondo, non si fa mancare la pietà». «Lino, perché sei così arrogante? Ti chiamo per nome, va bene. Ora che tu mi accusi, io con te sono gentile. È vero, mi hai visto crescere e invecchiare. Dovresti quindi stare al gioco. E invece mi rattristi. Ecco, guardandoti, ora mi vedo così decrepito. Infelice come te. Sei orribile, Lino. Sei uno specchio immondo. La tua infelicità è la mia. Mi fai disprezzare la mia stessa carne. Mi fai odiare questa mia voce. Non voglio ascoltarmi! Parlami! Te ne prego, parlami. Tu che mi conosci, sai che ora non sto più giocando. Io adesso non sono più il re. Puoi deridermi, schiaffeggiarmi, maledirmi, tu puoi qualunque cosa. Sono il figlio sventurato a cui non si risparmia nulla. Te ne prego, Lino, parlami». Gli occhi bigi, le dita nocchiute, il corpo gracile, incerto: il soldato si congeda lanciandomi un saluto col dito nel naso. Mi ricorda qualcuno. Rivedo sempre, negli altri, parvenze della mia 20


vita. Incrociando la guardia, mi rivedo ventenne ad oziare per le campagne ed il mare. Fu allora che conobbi Tore il farfallone. Portava un dito nel naso e camminava tremante. Voleva morire in una botte di vino. “Là ritroverò mia moglie” diceva “là dov’è finita quella notte che io non c’ero. Dov’ero non lo ricordo, è da troppo che bevo per ricordarlo. Bere però non m’imbroglia. Annebbia la mente, fiacca le forze, poi mi riprendo e so che Vittoria mi aspetta. Mi chiama dal vino. è come se ti chiamasse il mare d’estate nel primo mattino. Non puoi raccoglierlo dentro un bicchiere, devi tuffarti, quando ti chiama, devi andare da lui. Io voglio essere forte perché devo raggiungerla proprio nel vino, prima che il vino mi rubi la vista. Questi occhi ci vedono ogni giorno di meno e scambiano due stupide noci con certi bastardi. Sembra che io non distingua, quando mi sale la rabbia di stritolare quegli uomini tra queste mani. Bevo ma non sono un minchione. Lo so che non sono stupide noci, quelli che vorrei stritolare. Sono i sicari che hanno strappato le budella a mio figlio per un motivo che ignoro. Lo hanno scannato col ventre aperto così, lasciando che i cani facessero il resto. Abbiamo cominciato a bere da allora, io e Vittoria. Due spugne. Sono passati tanti anni, non so conteggiarli, vedo doppio quando ci provo. Con gli anni sono proprio un minchione. Vittoria adesso è nel vino. Io non ho la forza di dare 21


a quegli assassini la fine che hanno dato al mio Lele. Ci provo, e mi sembra di averli nel pugno come due noci! Non so se uccidere è un gesto che impari o che sconti per non saperlo mai fare. Allora mi resta una preghiera che prego ogni giorno, finché non rivedrò la donna che amo. Voglio morire nel vino”. Gironzolava con una fiasca di vino e una sacca sdrucita sulle spalle. E tutti a deriderlo con la storia dei gatti che avrebbe ucciso per poi cucinarli nella sua catapecchia. Tore manteneva gli occhi strutti, sinceri, e scoppiava a bestemmiare contro tutti a più non posso. Ogni paese ha il suo Tore. Quando i paesi non sanno cosa fare, mirano a qualcuno e lo chiamano lo scemo. Nessuno sa nulla più di Tore.

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