Cosimo Dimastrogiovanni
GLI ANNI DELLA SOLIDARIETĂ NAZIONALE 1976 - 1979 Prefazione di
Enrico Cisnetto
Titolo / GLI ANNI DELLA SOLIDARIETà NAZIONALE 1976 -1979 Autore/ Cosimo Dimastrogiovanni Collana / Di-battiti 2 Copertina / Paolo Guido Progetto grafico e impaginazione/ Rossana Scrimieri
Tutti i diritti riservati © Lupo Editore 2009 ISBN:978-88-95861-57-9 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Editore Via Prov.le Copertino-Monteroni (km. III - cp. 34) 73043 Copertino (Lecce) • Tel. 0832.931743 • Fax 0832.1815019 www.lupoeditore.it • email: lupo@lupoeditore.it
GLI ANNI DELLA SOLIDARIETà NAZIONALE 1976 - 1979
“Il nostro è un Paese senza memoria e verità ed io per questo cerco di non dimenticare” (L. Sciascia)
A Elia, Sara, Lucrezia, Giulia e Claudio
Prefazione
Leggendo il bel lavoro di Cosimo Dimastrogiovanni, la prima impressione che se ne ricava è quella di una grande, inquietante similitudine tra il periodo preso in esame – quello della solidarietà nazionale, che data dal 1976 al 1979 – e la nostra attualità. Una similitudine che riguarda soprattutto il quadro economico del Paese. Il 1973, infatti, è l’anno della prima grande crisi petrolifera che, in quanto fenomeno internazional-congiunturale, si abbatte su un sistema-paese debole e che già allora mostrava tutti i suoi limiti. Agli shock petroliferi dettati dall’Opec, che dettero inizio alla triste stagione dell’austerity e delle domeniche a piedi corrispondeva, come ricorda lo stesso autore, una nazione priva di fonti energetiche alternative, e che priva ne rimarrà sempre, fino ad arrivare allo scellerato referendum del 1987 che metteva fine al nucleare, pietra tombale su qualsiasi politica energetica in mancanza della quale oggi è totale la nostra dipendenza dall’estero. Anche sul fronte dei conti pubblici la situazione era allarmante: allora i problemi riguardavano soprattutto i tassi di interesse, saliti fino al 20%, l’inflazione sudamericana (con punte del 25% tra il 1974 e il 1975), la lira in caduta libera (tanto da dover chiudere più volte il mercato dei cambi a causa delle tempeste valutarie, e con la decisione, nel 1973, di uscire dal “serpente monetario” dello Sme). Èin quegli anni che prende il via la pratica micidiale delle 11
svalutazioni competitive, sorta di doping che ha permesso al sistema industriale italiano di sopravvivere fino ad oggi senza mettere in atto una seria riconversione (solo nel 1973 la lira viene svalutata del 15%). E sono anche gli anni del boom del debito pubblico: l’1 agosto del 1973 il Corriere della Sera titola a nove colonne “Il deficit del bilancio è salito a 8.800 miliardi”. Un dato che oggi non ci dice molto, salvo non si noti che dal 1971 al 1975 il rapporto debito-pil salirà dal 41,2% al 60,3%, innescando una spirale di lungo periodo destinata ad arrivare intatta ai giorni nostri. Ed è anche il momento topico, quello, della crescita abnorme della spesa pubblica: dal 1960 al 1983 essa praticamente raddoppia, passando dal 31,2% al 62,5% del pil. Il 1978, poi, centrale nel libro con la tragica morte di Moro che pone fine all’esperimento del compromesso storico, è anche l’anno in cui il Censis registra per la prima volta i molteplici scricchiolii del modello industriale nato dal boom: la piccola impresa – spesso mini o micro – e i “milioni di spezzoni di lavoro non istituzionalizzati” (vedi il nero e il sommerso che cominciano a farla da padrone), a cui corrispondono gli “spezzoni di redditi” non ufficiali. Èla famosa “fase del cespuglio”, per usare la stessa, fortunata metafora di De Rita, che non rinuncia a denunciare i limiti di un capitalismo caratterizzato dal “familismo, più o meno amorale”, una “dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni, in una sorta di filosofia collettiva dell’ognuno per sé, e dio per tutti”. Un capitalismo, secondo il Censis, di cui “qualcosa sopravviverà, qualcosa andrà potato o abbattuto, qualcosa sopravanzerà o si consoliderà”. 12
Trent’anni dopo, nel tessuto imprenditoriale italiano, molto è sopravanzato, molto è stato abbattuto, quasi niente si è consolidato. All’alba del 2010, infatti, l’Italia è un paese rimasto praticamente sfornito di grandi imprese (o, se vogliamo, di “campioni nazionali”), con un capitalismobonsai in cui il 94,9% delle aziende ha meno di dieci dipendenti (ma la media è di 3,8) e le “grandi” (quelle oltre i 250 dipendenti) rappresentano solo lo 0,07% del totale. Se i problemi valutari e la pratica dopante delle svalutazioni competitive sono stati neutralizzati dallo scudo dell’euro, la moneta unica non è comunque riuscita a renderci virtuosi in materia di conti pubblici: il rapporto debito-pil, dalla firma del Trattato di Maastricht (1992), è rimasto, infatti, sostanzialmente invariato al 108% nonostante la stagione delle privatizzazioni; la spesa delle pubbliche amministrazioni continua a salire, così come la pressione fiscale. Nel frattempo il gap energetico, che già rappresentava fenomeno emergenziale all’epoca degli shock petroliferi, non è stato colmato, e anzi l’Italia ha perso per strada il know how nucleare fino ad esporci oggi alle conseguenze sia macroeconomiche (con un’inflazione “importata” dal gas e dal petrolio) che geopolitiche (visibili nelle ormai consuete “crisi del gas” tra Russia ed Ucraina che si susseguono ad ogni inverno) del caso. Il declino, oggi, è davanti agli occhi di tutti: come segnala l’Ocse, nel quinquennio 2001-2006 la penisola è stata ultima per la crescita della produttività del lavoro e soprattutto per quanto riguarda la produttività “multifattoriale”, che comprende l’innovazione tecnologica e organizzativa e misura il grado di competitività di un sistema-Paese. E 13
se l’Italia rimane, sulla carta, la sesta potenza economica mondiale, sempre secondo l’Ocse siamo ormai scivolati al ventesimo posto se si considera il pil pro-capite, e siamo ultimi per crescita del pil negli ultimi anni tra i paesi più industrializzati. Questo il quadro economico. Sul piano politico, invece, emerge una totale, ma ugualmente inquietante, discontinuità. Da una parte, infatti, la cosiddetta Seconda Repubblica sì è evoluta – o, per meglio dire, involuta – secondo uno schema inimmaginabile agli stessi Moro e Berlinguer. Il progetto dello statista assassinato dalle Br prevedeva, infatti, tre fasi per arrivare a una democrazia compiuta, per giungere cioè ad “allargare il più possibile le basi di rappresentanza del sistema democratico”: prima una strategia del confronto; poi le “comuni assunzioni di responsabilità” per fronteggiare la gravissima situazione economica e sociale dell’epoca; e infine una terza fase che prevedeva l’alternanza tra due forze simmetriche e mature. Totalmente inimmaginabili dovevano essere allora quelle che oggi possiamo definire come la quarta e la quinta fase (involontarie e patologiche) di questo progetto, ovvero la fine per via giudiziaria della Prima Repubblica e l’affermazione di una Seconda che forse i libri di storia battezzeranno un giorno come il “ventennio berlusconiano”. Quale che sarà il giudizio degli storici su questa Seconda Repubblica – il mio è negativo, tanto da aver fondato un movimento d’opinione che esplicitamente si pone come obiettivo la Terza Repubblica – è chiaro che si tratta di un esperimento che ha ormai esaurito il suo compito. Dal punto di vista ideologico, sono venute meno, infatti, le “grandi illusioni” che 14
hanno costituito il collante di questo quindicennio: quella del “partito azienda” e del poter fare a meno della politica, fortemente collegata a quella, non meno fallimentare, del leader carismatico e del partito padronale. Poi, l’illusione della semplificazione maggioritaria: nata come panacea di tutti i mali, ci si è affidati a questa semplificazione senza ricordare un concetto-base della politologia, e cioè che non esistono sistemi politici buoni o cattivi in generale, bensì sistemi più o meno adatti a una determinata nazione e a un certo momento storico. Il risultato è che oggi ci troviamo in un paese in cui la complessità non è scemata, anzi: semplicemente, essa non trova più adeguata rappresentanza parlamentare. Con un bipartitismo coatto, che non include ma esclude, con un’alternanza “obbligata”, per cui ad ogni maggioranza di governo ne succede inesorabilmente una di segno opposto, con un elettorato sottoposto a un referendum perpetuo non sui “pro” ma sui “contro”. Anche l’illusione del federalismo mostrerà presto la corda: un federalismo d’accatto, che moltiplica i centri di spesa e di in-decisione, che separa e moltiplica verso il basso, molto diverso da quello “nobile” immaginato da Adenauer, Shumann, De Gasperi e La Malfa, che aggrega verso l’alto e aspira agli Stati Uniti d’Europa. Infine, è stata travolta dalla storia anche l’illusione del mercato come deus ex machina della società. È difficile credere, oggi, nel mezzo di una débâcle economica senza precedenti, che solo fino a qualche mese fa il pensiero unico liberista la facesse da padrone. Oggi che ci si è riscoperti tutti keynesiani, dopo decenni in cui il pensiero unico era quello monetarista e reaganiano, secondo cui “government is not the solution, but the problem”. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. 15
Ma, se da una parte è venuto meno il contenitore ideologico, dall’altra anche la sostanza scricchiola fortemente. Il “ventennio berlusconiano” finora ha dimostrato di non essere in grado di gestire la complessità. Caratterizzato da un decisionismo di facciata, in realtà, pur dotato di maggioranze parlamentari schiaccianti, si è contraddistinto per un’azione di governo “balneare”, non nel senso che gli si attribuiva nella Prima Repubblica ma in quello della navigazione a vista. Le grandi riforme, così necessarie, sono accantonate per far posto a una “sondaggiocrazia” che risponde giorno per giorno agli umori del popolo invece che indirizzarli e gestirli. Ma se questa navigazione a vista poteva reggere nei momenti di bonaccia, adesso che il mare è in tempesta, il combinato disposto della crisi delle ideologie che la sostenevano e della recessione che sta mettendo in crisi lo stesso modello di vita degli italiani, rischiano di troncare anzitempo l’esperienza della Seconda Repubblica. Nonostante un ottimismo “di regime” che intenderebbe negarli, gli effetti della crisi economica saranno, infatti, sempre più pesanti nei prossimi mesi: fabbriche costrette a chiudere, boom della cassa integrazione, interi distretti in ginocchio. E questo, in un paese tradizionalmente sprovvisto di ammortizzatori sociali, finirà per far esplodere disagio sociale – con nuove, pericolose tensioni sociali pronte a sfociare nella piazza, non avendo più adeguata rappresentanza parlamentare – e rabbia politica. Uno stato d’animo così diffuso che innescherà processi implosivi all’interno della maggioranza di governo, già divisa tra pulsioni stato-centriche e assistenzialiste e un fronte del Nord che tenderà sempre più a recuperare 16
la faccia feroce del partito di lotta man mano che la recessione esploderà. Insomma, una situazione potenzialmente esplosiva, che ci porta ad un altro grande parallelo col periodo 19761979 esaminato in questo libro. Con la grande differenza che oggi, nonostante ve ne sia una uguale, pressante necessità, non vi è traccia di quello spirito costituente che aveva portato, allora, al tentativo del compromesso storico da parte delle migliori personalità dell’epoca (pur con tutti i limiti e le contraddizioni politiche che lo avevano contraddistinto). Un tentativo che era nato proprio dalla consapevolezza della crisi economica e delle sue possibili conseguenze sociali e politiche. E che aveva fatto dire allo stesso Aldo Moro una frase che dovrebbe illuminare i politici di oggi: “noi non siamo più in grado di gestire un Paese in queste condizioni. Non da soli”. Enrico Cisnetto
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Premessa
Nelle prime ore dell’11 settembre del 1973, la marina cilena si impadronì del porto di Valparaiso arrestando circa 3000 cittadini. Alle ore 7.00 dello stesso giorno la radio annunciava che una “Giunta militare” sotto la guida del generale Augusto Pinochet, aveva sostituito il governo costituzionale in carica, circa mezz’ora dopo, alle 7.30, una schiera di carri armati apriva il fuoco sulla Moneda il Palazzo Presidenziale. Nelle prime ore del pomeriggio il Presidente del Cile Salvator Allende e molti dei suoi compagni erano già morti, altri vennero assassinati subito dopo l’irruzione dei militari all’interno del palazzo. Fu questa la fine angosciosa dell’esperimento cileno di socialismo democratico alla cui caduta concorsero una complessa serie di eventi: da un’intensa attività della Cia volta ad indebolire il nuovo governo, come è stato ampiamente dimostrato in seguito da alcune inchieste promosse dal Congresso degli Stati Uniti, ad una serie di errori politici e tattici commessi dello stesso Allende. Se l’azione degli Stati Uniti e di alcune grandi multinazionali, fra cui la ITT, è certamente una delle cause che hanno portato alla fine tragica dell’esperienza cilena dopo mille giorni di governo, questa considerazione non deve far trascurare il fatto che il sogno rivoluzionario di Allende nasce già debole, in un paese diviso sia da un punto 19
di vista politico che da quello delle condizioni sociali ed economiche, una fragilità, in qualche modo congenita, che accompagnerà sempre l’esperimento di Allende e di Unitad Popular. Il 23 Settembre 1973, pochi giorni dopo quel feroce colpo di stato, il Segretario del PCI Enrico Berlinguer iniziò su Rinascita (la rivista settimanale del Pci) la pubblicazione di un saggio che proseguì nei successivi numeri del 5 e del 12 ottobre. La riflessione aperta da quel saggio, dove Berlinguer indica esplicitamente, per la prima volta, “la prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica”, provocò modifiche profonde nell’assetto della politica italiana dell’epoca segnando l’atteggiamento del più forte partito comunista europeo per tutti gli anni 80. Il punto di partenza nel ragionamento di Berlinguer era la necessità di impedire che in Italia si ripetesse quanto appena accaduto in Cile dove il governo democratico e socialista di Salvador Allende era stato rovesciato con le armi, questo perché anche in Italia, per il deteriorarsi della situazione politica ed economica, le forze reazionarie stavano tentando di creare “un clima di esasperata tensione” che aprisse la strada ad un governo autoritario o perlomeno ad una svolta durevole di destra. Scrive il segretario del Pci: “Sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica esperienza cilena, che questa reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quando le forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del potere nello Stato e nella società”. Per contrastare questa tendenza, ecco allora la propo20
sta di una nuova, grande alleanza che sostanzialmente richiamava quella creata dalle forze antifasciste negli anni 1943-1947 e che aveva ora alla base il consolidamento di “un esteso e robusto tessuto unitario” (esemplare la spinta verso l’unità sindacale). Insomma, Berlinguer è consapevole che comunisti e socialisti insieme non possono sperare di governare il Paese neppure con il 51% dei voti, e che in ogni caso occorrerà coinvolgere in un’eventuale progetto di governo la Democrazia Cristiana. Egli afferma infatti: “…Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico. …L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia Cristiana italiana, e anzi tutti i partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibile che a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla Dc che ci viene data da gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire a tutti lezione di marxismo. …Noi abbiamo sempre avuto ben presente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti della borghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante, sulla politica della Dc. Ma nella Dc e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e socia21
li, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e dalle aspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o meno avvertibile nel corso della vita e della politica della Dc e possono essere portati a contare sempre di più”. È l’inizio della strategia del “compromesso storico” che persegue, nel disegno berlingueriano, due obiettivi, porre il PCI al centro della scena politica italiana, avviando, sia pure molto lentamente l’opera di sganciamento dall’influenza sovietica, e contribuire a salvaguardare la democrazia italiana, aiutando la DC ad isolare alcuni settori e ceti sociali, presenti secondo Berlinguer al suo interno, da qualsiasi tentazione autoritaria. Come sostiene Paul Ginsborg, considerato il carattere esplosivo della crisi italiana negli anni ’70 non fu un risultato di poco conto. Questo progetto avrà nella DC di Aldo Moro l’interlocutore naturale e privilegiato ed il suo culmine tre anni più tardi, con l’avvio della VII legislatura, il 5 Luglio del 1976.
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