gocce, dieci racconti d'acqua

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Giovanni Fares e Alessandro Comandini

gocce Dieci Racconti d’Acqua


Titolo | GOCCE Sottotitolo | Dieci Racconti d’Acqua Autore | Giovanni Fares e Alessandro Comandini Coordinamento editoriale | Donatella Neri Collana | Abat jour Illustrazioni | Giovanni Nori Grafica di copertina | Simone Miri Impaginazione | Rossana Scrimieri

©Lupo Editore 2009 TUTTI I DIRITTI RISERVATI ISBN: 978-88-95861-98-2 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Editore

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1. accadueo la scoperta della molecola


ÂŤUn uomo che medita la vendetta, mantiene le sue ferite sempre sanguinantiÂť. Francis Bacon


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ccomi. Come ora mi presento è come già mi conoscete se avete avuto la volontà di farmi visita in questi ampi corridoi. Non potete chiedermi di ricordare ognuno di voi. Ricevo centinaia di ospiti ogni giorno e ormai non faccio neanche più la fatica di alzare lo sguardo per guardarli in viso. Senza soluzione, da quando la mattina le porte si aprono, a quando la sera l’ultimo turista si affretta ad abbandonare queste sale, sento i vostri occhi poggiarsi sul mio corpo, bramosi di catturare ogni mio più segreto particolare: il braccio esanime poggiato lungo il bordo della vasca, la testa piegata vinta dalla gravità, il corpo ancora immerso nell’acqua sporcata del mio stesso sangue. Vorrei avere ancora la voce per raccontarvi di quando i sensi mi abbandonarono, poco dopo che la lama affondò nel cuore. Con le mie parole, vorrei poter passare ad ognuno di voi il freddo del mio dolore: freddo come l’acqua della vasca nella quale sono e resterò per sempre. Vorrei potervi trasmettere con il mio racconto il caldo della mia passione. Cal-

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da come la rabbia eterna di chi, come me, è stato tradito da colei che in vita consideravo compagna e, in punto di morte, ho scoperto mia carnefice. Se fosse mia questa lettera che mi vedete stringere nella sinistra e non, per beffa del destino, del mio stesso assassino, vorrei che voi tutti poteste leggervi la mia storia e quella del dannato Lavoisier. Ho trascorso gli ultimi anni della mia vita, prima che la mia anima venisse imprigionata per sempre in una tela, costretto a passare buona parte del mio tempo in questa vasca. L’acqua era l’unico rimedio per la mia pelle malata, oltraggiata da una malattia schifosa. I miei peccati sono legati all’acqua come un cane al suo padrone e, con la stessa acqua, ogni giorno li lavo. Sono Jean Paul Marat, una delle menti della Rivoluzione Francese, l’uomo che il popolo scelse come suo amico. L’uomo che, per quel popolo, lottò e fu ucciso. “Marat il sanguinario” raccontano di me ogni giorno gli insegnanti alle scolaresche portate in gita al mio cospetto. Non posso dar loro torto, centinaia di teste furono recise per mia volontà, ma tutte caddero in difesa degli stessi valori per i quali combattevo. Nessuna toccò terra tagliata per mano del mio orgoglio. Nessuna tranne una: quella che cadde un anno dopo la mia morte. Quella del mio peggior nemico: la testa di Lavoisier. Non c’è stato giorno che, immergendomi nella mia

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cura, non abbia pensato che quell’acqua, che in vita chiamavo elemento, Lavoisier chiamò per primo molecola. Un elemento è da sempre stato sinonimo di purezza assoluta. L’oro, ad esempio, si erge ad elemento in quanto composto da soli atomi di oro. La stessa cosa vale per il ferro, l’ossigeno, il piombo ed un’altra novantina di elementi che scienziati venuti dopo di me hanno scoperto e sistemato in quella che chiamate “tavola periodica”. Da ragazzo la purezza dell’acqua era, ai miei occhi, troppo evidente perché semplici esperimenti potessero metterla in dubbio: era concetto filosofico, prima che scientifico. A quel tempo si credeva infatti che l’acqua fosse un elemento formato da atomi di acqua purissima. Questa non era scienza, era fede e come tale non andava provata. Gli antichi filosofi greci ritenevano che l’acqua, insieme ad aria, terra e fuoco, fosse uno dei quattro elementi di cui sono costituite tutte le cose terrene. Sono cresciuto credendolo e sono morto difendendo quello che avevo creduto per una vita. Fu così che quando gli scienziati si trovarono a dover dar conto a prove di laboratorio che confutavano quella teoria, furono in molti a non voler prendere in considerazione la possibilità di stravolgere ciò che gli antichi insegnavano. Cercarono invece di trovare nuove

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giustificazioni per quelle vecchie credenze. Per questo dalla mente di scienziati che ingabbiarono nel loro sapere l’idea dell’acqua come elemento, furono partorite squallide rappresentazioni della realtà, come il flogisto, o sogni impossibili come quello della pietra filosofale. Al contrario la mia di mente restava libera dal pregiudizio. Amavo la scienza, la studiavo e mi sentivo fortunato di poter vivere quegli anni di fermento. In breve però le cose cambiarono e mi coprii della colpa più grande: scagliai il mio orgoglio ferito contro la scienza. Difesi con cieca veemenza le vecchie teorie, pur sapendole sbagliate e anacronistiche. Lavoisier mise in ridicolo il sapere del tempo. Disprezzai quell’uomo e quel suo modo di stravolgere il conosciuto. Era un chimico come me, ma questo era l’unico aspetto ad avvicinarci. Che l’acqua non fosse costituita da atomi tutti uguali aveva già provato a dimostrarlo un altro scienziato: sir Henry Cavendish. Aveva ottenuto acqua facendo scoccare una scintilla in un recipiente che conteneva idrogeno ed aria. Non era riuscito a scoprire di cosa fosse realmente costituita l’acqua ma, essendo il chiaro risultato della combinazione dell’aria con l’idrogeno, l’idea della sua purezza come elemento venne messa seriamente in pericolo. In molti provarono a screditare le teorie dello scoz-

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zese e ci sarebbero riusciti, se non fosse intervenuto l’odioso Lavoisier. Poco tempo più tardi egli riuscì infatti a rompere l’acqua per mezzo della corrente elettrica, ottenendo due gas. Questi gas erano gli elementi di cui l’acqua stessa è composta. Li studiò ed in breve scoprì trattarsi di Ossigeno ed Idrogeno. Acqua, dunque, come molecola e non più come singolo atomo purissimo. H2O. Due atomi di Idrogeno e un atomo di Ossigeno per ogni molecola di acqua. Non crediate che il suo esperimento fosse così complicato. Al contrario, potreste ripeterlo anche voi nelle vostre case con due matite ed uno di quei marchingegni che chiamate pile. Immergete due mine di matita in un bicchiere pieno di acqua salata e collegate la parte di ogni mina che resta fuori dall’acqua ad un polo della vostra pila. Inizieranno a formarsi bollicine di gas sulla superficie di ciascuna delle due mine immerse nell’acqua. Se riusciste a raccogliere in due provette i gas che si formano, notereste che il volume del gas che si forma nella provetta collegata al polo negativo è doppio rispetto a quello che si libera nell’altra. Il doppio di Idrogeno rispetto all’Ossigeno. H2O appunto. Il leggero gorgoglio del gas che si formò quando anch’io tentai l’esperimento non accese in me la fiamma della conoscenza ma piuttosto la voglia di vendetta. Passai gli anni che precedettero la mia morte ten-

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tando di distruggere quanto Lavoisier creava. Ogni idea partorita dalla sua mente doveva essere annientata. Ero vicino al mio intento quando Charlotte, la mia compagna di ideali, divenne la mia assassina. Avrei voluto vedere da vivo la testa del mio nemico cadere ai miei piedi, ma non fu così. Lavoisier, oltre a dare un corpo all’acqua, enunciò la prima versione della legge di conservazione della massa, riconobbe e battezzò l’ossigeno, confutò la teoria del flogisto ed aiutò a riformare la nomenclatura chimica. Arrivati a questo punto vi chiederete perché odiassi tanto l’uomo che faceva grande e migliore quella scienza che io stesso amavo. Sapevo della correttezza delle teorie di Lavoisier: il flogisto per anni aveva dato l’illusione di comprendere il mondo ma, mentre la conoscenza delle cose cresceva, il flogisto diventava una coperta troppo corta perché potesse coprirla interamente. Ad ogni mente illuminata apparve chiaro l’idea dell’acqua come elemento dovesse essere abbandonata. Ma il mio odio era davvero troppo grande per lasciare al mio nemico il campo della ragione, la mia rabbia troppo prepotente per potersi fermare di fronte alla scienza. Lavoisier, con i soldi del padre, aveva comprato la “Ferme Géneralé”, un’impresa per la riscossione delle

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imposte. Con le tasse del popolo pagò gli alambicchi che distrussero e azzerarono il sapere del tempo. Esattore delle tasse e, dunque, nemico del popolo e, prima ancora, mio nemico. Quando ero ancora uno scienziato di buone speranze, Lavoisier rigettò con disgusto la mia domanda di accesso all’Accademia delle Scienze. Il mondo non mi conobbe come scienziato per sua decisione. Avrei accettato le sue teorie, le avrei studiate e difese, se solo avesse dimostrato interesse per i miei studi, invece di considerarli carta straccia. Con i suoi colleghi rise di me, dei miei lavori, del mio mondo. Il mio sogno per la scienza troncato dalla sua arroganza. Decisi che, se quel facoltoso rampollo dell’Ancien Règime non mi voleva con sé, mi avrebbe avuto contro. Se la scienza era davvero quella di Lavoisier, e non la mia, tanto valeva sbarazzarsene. Gli giurai vendetta e mantenni la mia promessa. Il popolo mi amava e poco ci volle per montare contro di lui il pensiero della piazza. Fui così bravo a corrompere le menti dei giudici che, sulla condanna del tribunale, fu scritto che la Francia mandava Lavoisier a morire perché non sapeva cosa farsene dei dotti come lui. I miei compagni giacobini infierirono su ogni simbolo della cultura. Confiscammo e distruggemmo il laboratorio di Lavoisier come fosse

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quello di una strega e noi terribili inquisitori. Nel volgere di un anno abolimmo ogni università, accademia e centro di ricerca. Lavoisier fu dunque condannato a morte, ma io fui ucciso prima di veder completato il mio disegno di vendetta. Morii accoltellato nel Luglio del 1793. Nell’anno successivo al mio assassinio, la mia anima vagò in cerca di un posto dove riposare. Da fantasma vagabondai assistendo come spettatore curioso al dramma della Rivoluzione francese. In vita avevo mandato a morte centinaia di persone ed ora altre teste cadevano per ordine di chi aveva preso il mio posto. Prima di trovare riposo, continuai ad osservare il trascorrere degli eventi del quale io stesso ero stato causa. Così, l’8 maggio del 1794 mi trovai a pochi passi dalla lama della ghigliottina che stroncò, a cinquant’anni, la vita di Antoine de Lavoisier. La sua testa mozzata ruzzolò tra le mie gambe. Le gambe di un fantasma che in vita non era riuscito a placare la sua sete di sangue. Avevo accanto il più noto matematico del tempo: Lagrange. Forte del mio essere spirito invisibile, mentre il sangue ancora colava copioso dal collo di Lavoisier, avvicinai il mio viso a quello del matematico fermandomi a pochi centimetri dai suoi occhi. L’espressione di pena e disgusto per il collega scienziato ghigliottinato valeva

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per me più di ogni altro tesoro. Lagrange non disse nulla ma il suo volto, segnato dalla scienza sconfitta dal mio potere, parlò per lui. Mi giunse più tardi notizia che, quando la testa di Lavoisier toccò terra, Lagrange avesse esclamato: «È occorso solo un istante per tagliare quella testa, ma la Francia potrebbe non produrne un’altra simile in un secolo». Bella frase. Di quelle che passano alla storia. Ma chi ha assistito ad una decapitazione in piazza vi può dire come in quelle occasioni non ci sia spazio per le belle frasi. Le urla della folla che si muove scomposta come un branco di porci intorno ad un mucchio di mele marce toglie la voce a chi vorrebbe dire ed orecchie a chi vorrebbe ascoltare. Lo avrà pensato e forse avrà scritto quelle parole nei giorni successivi, ma vi assicuro che in quel momento, in quell’aria sporcata dall’odore del sangue, non una parola uscì dalla sua bocca. Di lì a poco il luogo dove lasciar riposare la mia anima fu completato: Jacques-Louis David terminò in quello stesso anno il ritratto che oggi è il mio riparo. Da allora non mi sono più allontanato da qui, intrappolato in questa tela come un animale in una tagliola. Solo di rado, quando il museo chiude e il buio inghiotte le sue sale, esco da questo dipinto, faccio pochi passi

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in avanti per poi voltarmi rapido. Prima di guardarmi riflesso in questo specchio dannato, mantengo per pochi secondi gli occhi chiusi immaginando, ed a volte sperando, che qualche cosa in me possa essere cambiato. Quando li riapro scopro ogni volta quanto abbiano ragione quelle guide che raccontano ai visitatori come il tratto dell’artista abbia voluto rappresentarmi quasi fossi un santo. Il primo santo laico, dicono. Un santo cui non manca una corona di spine. Quell’acqua che rinnegavo come molecola è, oggi, mia eterna compagna. La mia condanna non è l’acqua che mi bagna, bensì il sangue che ne insudicia l’assoluta purezza. Oggi immerso in miliardi di molecole, oggi che so quanto Lavoisier avesse ragione ed io torto, oggi che l’acqua è accadueo, oggi, disteso di fronte a voi, ammaino la bandiera del mio orgoglio. L’orgoglio per il quale tradii la scienza. Non mi separerò più da quest’acqua ed anzi, con la stessa forza con la quale in vita combattei la sua molecola, ne difenderò ogni goccia da chi non avrà l’infinito rispetto che merita chi, come lei, può portare la vita e dare la morte. Eccomi. Guardatemi. Esaltatemi. Giudicatemi. Offendetemi. Sono io, Marat, l’amico del popolo, il compagno dell’acqua.

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La morte di Marat: dipinto olio su tela realizzato nel 1793 dal pittore Jacques-Louis David. È conservato al Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles.

Nel dipinto Jean-Paul Marat, una delle menti della Rivoluzione francese, è riverso nella vasca (dove si immergeva costantemente a causa di una malattia della pelle), pugnalato a morte da Charlotte Corday D’Armont. La lettera, con la quale la giovane era andata da lui, è tra le mani di Marat. In questa gli chiedeva una grazia ma lei, consegnata la missiva, lo uccise.



2. fuoco amico le reazioni di combustione


ÂŤDesertum fecerunt et pacem appellaveruntÂť. Publio Cornelio Tacito


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