INCIPIO 1
Stefano Delacroix
IL SESTO
TITOLO / Il Sesto AUTORE / Stefano Delacroix Incipio / Collana diretta da Michelangelo Zizzi Grafica / Paolo Guido Impaginazione / Piera Girardi
©Lupo editore 2008 ISBN 978-88-95861-38-8
Via Prov. le Copertino-Monteroni (km. III°-cp.34) 73043 Copertino (Lecce) • Tel/fax: 0832.931743
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“Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” Arthur Conan Doyle
Prefazione di Michelangelo Zizzi
Difficile fare una prefazione senza il distacco anacoreutico che limiti la passione, l’empatia, il coinvolgimento editoriale. Ché si rischia maggiormente la diffrazione apologetica, la prevalenza dei fatti di campanilismo su quelli di obiettività. Così come è difficile allestire una collana, conducendola nel fiato corto, dispnoico dell’editoria italiana al tempo del postmoderno, per quanto brevemente duri la consumazione del leggere libri respirandoli nella fretta d’anticipazione, e per quanto rarefatto sia in ‘questo’ tempo lo spazio di assimilazione letteraria. Ma noi, che nutriamo l’ambizione al perfezionamento, alle strutture organiche, più che al successo tesserato con le formule dell’arrivismo, della facile captatio, stornando il fuoco fatuo d’ogni intento pro-
pagandistico, rimaniamo nel centro di ricezione ad ascoltare come passa il suono di una prosa; e convinti scendiamo a radicare. È per tanto che ho fortemente voluto che fosse Delacroix a varare con Il Sesto la collana Incipio, da me diretta, e destinata a pubblicare gli autori migliori dei miei corsi di scrittura creativa. La collana, che è stata ideata per ottimizzare l’approccio all’editoria di livello, è in linea di massima orientata a pubblicar esordienti. E tuttavia, se pure in senso bio−bibliografico, questo non è l’esordio di Delacroix, il quale già vanta la pubblicazione di ben due romanzi, mi pregio di riconoscere nel presente testo, un livello di autorialità finalmente certo, maturo, consapevole, sovente organico e definito. Dico che quest’opera può considerarsi l’esordio di Delacroix ad un genere, quello del noir psicologico o meglio “psicotropo”. Ed in questo senso Il Sesto rappresenta un apax, un’opera pressoché unica all’interno del panorama pugliese ed anche, senza troppe eccezioni, italiano. Non dimentico certo la magnificenza del noir “fan-
tastorico” di Evangelisti, lo stile “giallonero” di Lucarelli, di Altieri, né il fenomeno funzionante del thriller poliziesco e giudiziario, di autori anche pugliesi di calibro nazionale, commerciale. Eppure difficile è reperire un genere a sé, come quello del libro di Delacroix, così circostanziato, poco ricalcato dall’esterno, quasi mai sul “conio” delle esperienze di stile o di genere dei suoi contemporanei; un libro, la cui famiglia letteraria è invece ricostruibile con difficoltà e non senza salti generazionali, senza cortocircuiti nella sequenza anamnestica, ricognitiva. In alcune sequenze del libro si riconoscono tratti narrativi o meglio d’atmosfera narrativa che riconducono a Jan Watson per la rarefazione di certe scene di spazio−tempo (ed è in questi tratti che l’autore sembra promettere un futuro certo di scrittore di fantascienza), a Machen nella preferenza accordata ai luoghi (fisici e ultrafisici) del mistero psicostorico se non a tratti paranormale, ma anche all’immenso Tommaso Pincio di Un amore dell’altro mondo, nella intersecazione dei piani narrativi tra osservazione oggettiva del mondo e dilatazione propriocettiva e psicologica del personaggio che agisce. Eppure Delacroix assomiglia molto a se stesso, è
sui generis, cioè autore del “proprio” genere, e questo è il suo grande vantaggio, la sua qualità migliore. Ma cos’è questo noir psicotropo? È il noir che si fonda su di una gestalt di psicoproiezione, più che su di una fondazione palesemente “nera” dell’avvenimento narrativo, inteso sic et sempliciter. In tutti gli otto racconti del libro la cifra comune che assolve alla nozione di organicità testuale è data dall’aleggiare di un dubbio percettivo. E quindi psicologico. Non è evocato nulla che non sia inferenziale rispetto al o ai protagonisti. Se vi è noir ne Il Sesto, esso è dentro la mente di ogni personaggio, e si affaccia nei racconti nella forma di un incubo endogenico che assume spesso l’esitazione del dubbio, che, tuttavia, invece di rarefare, rende solido e drammatico l’exitus delle varie storie. I racconti si fanno leggere per questa suspence che sincronizza la facoltà di percezione e ricognizione dei personaggi al progressus della fabula. Ne Il Sesto si aboliscono le differenze tra mondo esterno e mondo interno, tra memoria e attesa del futuro: il tempo non scorre se non nel flusso circolare del percepire−ricordando, eppure le vicende av-
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vengono: suicidi determinati da una falsa percezione dell’altezza; errate letture del mondo che si riconducono alla fatalità di un nome e che conducono a costruire la propria morte, apparentemente accidentale; smarrimenti spaziali o temporali che divengono irreversibili e coincidono col cambiamento irreversibile della propria collocazione nel mondo. Il noir di Delacroix è psicotropo, ma non psicotico ed è inscritto sul fatto leggero, ma ineluttabile, che la follia è una distrazione della percezione. Lo sfondo quasi costante di tematiche amorose, rende il genere ancora più idiopatico, irresistibilmente identificante. L’amare, ne Il Sesto rimane la cosa più reale ed unicamente significante, a dispetto del suo dissolvimento. Così si ama ancora la donna della propria vita (come nel bellissimo “Il volgere del tempo”) senza poterla, a causa di fatti inspiegabili, più rivedere (nel racconto il protagonista torna indietro nel tempo, ma realmente, fisicamente, mantenendo tuttavia coscienza del fatto, fino al giorno in cui vede la donna − che avrebbe amato nel corso regolare del tempo − nascere nel grembo della madre); così si dà, per lettera abbandonata allo spazio, l’addio al figlio lontano
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anni luce (in senso letterale del termine, come avviene nel racconto che dà il titolo al libro), mentre si va incontro a una rivelazione ontologica o forse, ancora una volta, solo percettiva, neuronale. A dispetto della sua agilità, questo libro possiede una possanza non indifferente ed anche dimostra un cambiamento certo di velocità e definizione narrativa in uno scrittore che viene dal romanzo di formazione e dalla sperimentazione forse inattuale del pulp. L’ambizione di chi scrive è quella di orientare con decisione gli autori verso una fisionomia di scrittura, un’identità reale, e non quell’altra commerciale che si esaurisce nella stampa, nel lancio di libri di esordienti. L’ambizione della collana è quella di individuare tra le miriadi di scrittori promettenti, quelli che sapranno scrivere non solo l’alfa del loro linguaggio interno, fino a costruirsi con coerenza nel centro, insensibili alla “copisteria” del postmoderno, capaci di stare nella “respirazione” agente del fatto letterario, che se non diventa vita, realtà, sangue, rimane, come sempre, solo una citazione. Il dado è tratto, ora, ed io che amo il gioco − anche d’azzardo − punto su Stefano Delacroix.
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1. Il volgere del tempo
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2 marzo 1985
M
I INCAMMINO SU PER LE SCALE, VELOCEmente, schivando la ressa davanti all’ascensore, mentre m’intrudo dell’odore di ascella marcia e di degenza abbrutita e strascicata noiosamente, ma gli ospedali sono così. Se poi prendi l’ascensore rischi seriamente di restarci secco per quell’odore. Non che le scale siano uno splendore al confronto ma, se non altro, il puzzo di disinfettante è leggermente più tollerabile e non ti serve trattenere il fiato fino a che non si aprano le porte scorrevoli, quantunque potrebbe trattarsi di una fermata intermedia dove imbarcare altra ascella marcia e puzza di corpi in disfacimento. Ora ho quattordici anni, ma tra quattro mesi do-
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vrò compierne tredici. No, non sono pazzo, è proprio così, almeno per me. Giungo al terzo piano, al reparto maternità, e m’infilo tra i corridoi affollati di persone dai cui visi traspaiono emozioni contrapposte, alcune sono gioiose, altre visibilmente ansiose nell’attesa di qualcosa che sta per accadere e sento una profonda invidia per quella particolare ansia che non proverò più. La stanza è la numero ventitré, quanto sa essere ironico il destino! Lari aveva giusto ventitré anni quando me ne andai, anzi… quando me ne andrò tra ventitré anni. Mi affaccio nella stanza e sono tutti lì, io li conosco ad uno ad uno, so molte cose di loro e delle loro vite, ma non possono riconoscermi, per loro sono soltanto un ragazzino di quattordici anni che, con ogni probabilità, ha infilato la porta sbagliata. Mi rimane ancora poco tempo. Loro non sembrano prestarmi troppa attenzione, ad eccezione di zio Piero, cui accenno un sorriso impacciato. Lui abbozza un qualcosa che non è né un sorriso né una smorfia e mi sembra di leggere tra i suoi pensieri il tentativo di associare il mio viso di ragazzino a qualcuno o qualcosa.
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Tranquilli, posso spiegarvi tutto o, quanto meno, provarci, sebbene sia tutto così assurdo anche per me che dovrei esserci abituato. Ho detto “abituato”… ma l’abitudine è assuefazione e non ci si può assuefare a ciò che è inadeguato e irragionevole, perché non è la mancanza di qualcosa o qualcuno, che presto rimpiazzerai con altro, e non è una droga che ti consuma fino ad annullarti, perché in entrambi i casi non puoi rimpiazzare e sei perfettamente consapevole. Finisci per essere “qualcos’altro”, un alieno in mezzo agli uguali. Sorrido guardando quella splendida bambina nata soltanto poche ore fa, e che è la mia donna.
La rivelazione Era la notte tra il nove ed il dieci giugno dell’anno 2008, avevo mangiato e bevuto troppo e, come se non bastasse, ero dilaniato da un eritema che m’aveva trasformato la pelle in canocchia. Non riuscivo a prender sonno, proprio non riuscivo. Me ne stavo lì sul letto e con gli occhi sbarrati, come un crucco di vedetta. Incidevo solchi lucenti tra gli astri, nella fetta di cielo seppiata e senza canone, tra-
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smessa sullo schermo della finestra ricavata sul tetto di legno spiovente dell’attico in campagna di Lari. Una qualunque infausta notte del mio insonne sprofondare, una notte qualunque, questo almeno è quanto credevo, così, semplicemente perché ero abituato a considerare la realtà come qualcosa di prevedibile, d’immutabile. Forse fu quella la mia colpa e fui punito per la mia indifferenza. Presi sonno senza accorgermene e dormii non più di un’ora, poi mi svegliai ed osservai la proiezione sul muro del mio orologio radio−controllato, impeccabile quanto l’orologio atomico cui era collegato. Indicava le 00:40, ovvero una cinquantina di minuti prima rispetto a quando mi ero addormentato! Pensai che il suo meccanismo interno fosse partito, alla pari del meccanismo regolatore del mio ciclo tra sonno e veglia, ma non solo quello. Mi alzai per andare a prendere un po’ d’acqua fresca dal frigorifero in cucina e mi accorsi che la casa era pervasa di una luce vivida e innaturale, credetti di sognare ancora e mi stropicciai gli occhi umidi e gonfi. Tutti gli orologi segnavano la stessa ora: quello sulla mensola, il cucù ed anche il cellulare che avevo lasciato in carica poche ore prima.
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Il tempo stava scorrendo al contrario. E quell’ipotesi delirante s’impadronì di me, quanto la successiva certezza di vivere un sogno lucido, dove ero io stesso a manovrare il tempo, dove ero io stesso ad invertire il normale fluire della vita per allontanare da me l’angoscia della fine. Al mattino seguente svegliai Lari, ancora avvolta ed intorpidita nel lenzuolo bianco che le aveva protetto il sonno dalla fresca brezza notturna. «Vado al lavoro, le sussurai piano all’orecchio.» «Al lavoro? Di domenica?» «A dire il vero oggi sarebbe mart…», guardai l’orologio sulla cassettiera accanto al letto e c’era scritto Sunday «… edì…», conclusi con evidente sconcerto. «Stai bene?» «Non lo so, ci devo pensare.» Corsi a consultare il mio cellulare, poggiato sulla mensola accanto al computer di Lari, ma anch’esso suffragava curiosamente l’erroneità di quel che supponevo essere una radiosveglia infallibile. Non può essere domenica, perché domenica è stata due giorni fa, oggi è martedì e devo andare a lavorare, come ogni cazzo di martedì della mia vita. «Continua a dormire tesoro, io vado in bagno a
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restituirmi un aspetto accettabile. Quando torno rimetterò a posto l’orologio.» La baciai sulla guancia, scostandole alcune ciocche di capelli biondi che le nascondevano il viso ancora teneramente adolescenziale, affondato morbidamente nel cuscino che le ricopiava i ricami sulla pelle delicata. Si era riaddormentata, sembrava un angelo. Mi affrettai per essere pronto nei tempi giusti onde inforcare la provinciale prima della bagarre, quella migratoria dei lavoratori sempre in ritardo, verso la città. Scesi le scale e feci rombare la mia vecchia, fedelissima diesel che si tiene insieme per metafisica inerzia meccanica e salii su per il vialetto che ricongiungeva alla via catramosa e portatrice di sangue sistemico alle gonadi della città. Immaginavo la morte somatica del traffico, come sangue coagulato lungo le arterie di collegamento e sino al mio ufficio in Via dei Martiri 7 ma… la strada semideserta, gli svincoli silenziosi, tutto accadeva in un’atmosfera surreale, fantasmica. Anche l’ufficio era deserto. Era deserto perché domenica. Domenica… In preda allo sconforto, considerai la drammatica eventualità che fossi ammattito del tutto.
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Era pure sparita la mia recensione sul nuovo videogame, quello sull’invasione di omini verdi dallo spazio che, tra l’altro, avevo denigrato pesantemente per la scarsa giocabilità e l’inconsistenza della trama − nel gioco accadeva che gli alieni s’impadronivano delle più grandi città, a cominciare da una Roma spettrale, fino a giungere ad una New York ridotta ad ammassi di ruderi, dove Simon, il protagonista, raccoglieva un manipolo di superstiti per un’improbabile battaglia finale, insomma il solito cliché di inutilità per dementi. Avevo impiegato tutta la giornata di lunedì per scriverla e due alienanti pomeriggi alla consolle, combattendo virtualmente degli insulsi omini verdi con la faccia da tonno. Un banalissimo sparatutto talmente privo di genialità da ritenere sprecata anche una sola pallottola. Ma, la cosa che mi dava maggior sconcerto, non era tanto la scomparsa del file, quanto il fatto che pure il mio computer indicasse la data di domenica, maledetto traditore! Spensi tutto e ripresi la via di casa, immettendomi in un riconoscibile traffico di gitanti domenicali che dalla città partivano in direzione del lago. «Dove sei corso tanto affannosamente stamatti-
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na?», mi domandò Lari vedendomi rientrare in casa. «Ho fatto un salto in redazione.» «Di domenica?» «Sì… sai, sto scrivendo la recensione su quel gioco idiota degli omini verdi con la faccia da tonno.» «Anche tu hai un po’ la faccia da tonno. Non potevi scriverla domani quella recensione?» «È ciò che ho fatto. L’ho scritta domani.» «Come scusa?» «Scherzavo.» «Non mi starai mica nascondendo qualcosa?» «Tranquilla, amore.» «Oggi pranziamo su in cascina, vengono anche Marco e gli altri.» «Sì, lo so.» «Come fai a saperlo? Mi hanno avvisata solo cinque minuti fa. Oggi sei proprio strano.» Sfilai gli abiti da lavoro ed indossai un paio di jeans, le shox e la maglietta Jack Daniel sempre più stinta. «Lari?» «Dimmi Step.» «Non avverti come la sensazione che il tempo stia scorrendo al contrario?» Si mise a ridere.
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La domenica trascorse tale e quale alla domenica che ero certo di aver già vissuto − ma che probabilmente avevo solo sognato − al punto di indurmi a credere che avessi sviluppato delle doti metapsichiche sorprendenti, qualcosa tipo chiaroveggenza onirica. Ci fu un momento in cui ritenni la cosa persino divertente, dopotutto un tale potere, sempre che non si fosse trattato di una semplice casualità, avrebbe potuto rivelarsi straordinariamente utile per il futuro, qualora me ne fossi servito per migliorare la mia vita, e quella della mia Lari. «Sono contenta che oggi ti sia divertito, disse Lari baciandomi sulle labbra, un attimo prima di addormentarsi ed io, per la prima volta nella mia vita, mi sentii rincuorato per l’approssimarsi del lunedì.» II Il raglio disperato di Cico, nella stalla di fianco al casolare, preluse al sorgere del sole. Ammirai, attraverso il lucernario, le tonalità argentine del cielo scupito dalle luci rifratte, la vita che
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riemerge silenziosa ed assorta dal suo torpido giaciglio, con occhi semichiusi in quell’attimo di sopore. Poi il cicalìo della sveglia avvertiva che era giunto il momento di tirarmi in piedi, così mi infilai nel bagno e scostai la tendina sulla finestra per guardare la strada che scendeva in paese. Lo scorazzare vivace delle auto comprovò il definitivo dileguarsi d’ogni timore, era lunedì! Prima di scendere, baciai Lari sulla fronte, per non svegliarla. «Ti amo piccola.» «Anch’io.» Era tutto perfetto, persino il traffico che ogni mattina odiavo e per il quale imprecavo fino a Via Dei Martiri 7, e fino alla sosta − caffè di decompressione nel bar che fa angolo, sotto la redazione, dove perpetuare il rito irrinunciabile della brioche calda alla crema e del caffè bevuto amaro. Ricomparve il ritmo confortante delle cose sempre uguali, ma che amavo fare. «Ehi Step, è arrivato il materiale che aspettavi, disse Alena sollevando il capo dalla consolle del suo computer.» «Il materiale…?, ok ma devo scrivere prima la re-
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censione su quel gioco insulso degli omini verdi con la faccia da tonno.» «Cosa…? Di che gioco parli?» «Lo sparatutto per dementi, quello sugli invasori.» «E come pensi di scriverne la recensione se prima non ci giochi?» «Ma se ci ho giocato due giorni fa.» Ad un tratto mi sentii pervadere da quello stesso smarrimento, misto a terrore, di cui ero stato vittima il giorno precedente. Corsi nel mio ufficio, dove il gioco giaceva ancora incelofanato e poggiato sulla scrivania. Accesi il computer. Era giovedì della scorsa settimana! Sulle prime pensai all’ennesimo déjà vu o un altro sogno lucido del cazzo ma, quanto più mi ostinassi a cercare una spiegazione plausibile, tanto più venivo trascinato sul fondo di una realtà tanto assurda quanto inevitabile: il tempo della mia vita si stava riavvolgendo al contrario, come la pellicola di un vecchio super otto! Sprofondai sulla sedia in metacrilato con sollevamento a pistone, emettendo un gemito di sconforto che arrivò sino alle orecchie di Alena, che mi raggiunse nel mio ufficio.
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«Va tutto bene, Step?» «Non lo so. Mi porteresti dell’acqua per favore?» Tornò dopo un minuto, porgendomi il bicchiere che reggeva nella sinistra. «Scusami… ho ricominciato a soffrire d’insonnia e talvolta mi prende il panico.» «Non ti preoccupare, se hai bisogno di qualcosa chiamami. A proposito, Andrea vuole la recensione del gioco entro lunedì sera. Pensi di farcela?» «Ce la farò, non so come, ma so che ce la farò.» Alena se ne andò lanciandomi un’occhiata perplessa e rimasi solo nella stanza a fissare, quasi senza respirare, quel gioco ancora incelofanato, misterioso quanto la leggenda di Lemuria, il triangolo delle Bermude o la biblica pioggia di rane. Tentai di mettere a fuoco ogni piccolo particolare, anche quello apparentemente più insignificante, qualunque cosa in grado di armare una spiegazione attendibile; ripensai alla notte insonne di lunedì, ma non era accaduto nulla di così inconsueto e tale da ricondurre nientemeno che ad una inversione della timeline. Tante volte avevo sentito parlare di linea del tempo e di wormhole, ma credevo si trattasse solo di materiale per la fantascienza o per astrofisici squinternati.
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Ma poi, se di wormhole si fosse trattato per davvero, perché ero solo io a riavvolgermi? E tutto il resto dell’umanità? “Ma sì, non può che essere uno stupido scherzo!”, pensai e corsi nell’ufficio di Alena. «Sentimi bene tu, la puntai, quanto ti pagano per fare quello che fai?» Non mi rivolse la parola per diversi minuti, dopo di che, come se nulla fosse, ricompose la sua traiettoria su lamine e traversine di predestinazione, nel canovaccio del tempo che già era stato. III Ormai continuavo a riavvolgermi senza sosta. Ma compresi quasi subito la meccanica del riavvolgimento e le modalità attraverso cui questo avveniva. Contravvenivo alla seconda legge della termodinamica ed alla legge di Murphy: il tempo si contraeva e, salvo un’ulteriore inversione della freccia del mio tempo, il piccolo universo che contenevo stava volgendo alla sintropia, riportandomi alla singolarità primitiva di spermatozoo e poi… poi Dio solo sa! Sarei divenuto un simpatico spermatozoo del caz-
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