Mio ďŹ glio in casa famiglia due genitori fantastici ti formano, ti lanciano, ti danno la possibilitĂ di essere, a tua volta, un buon padre‌
Titolo / MIO FIGLIO IN CASA FAMIGLIA Autore / Stefano Portaccio Copertina / Padre Giuseppe Damigella o.p. Impaginazione / Rossana Scrimieri
TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©Lupo Editore 2008
ISBN/978-88-95861-42-5 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’editore
Lupo Editore
Via Monteroni Esterna n. 27 - c.p. 34 (km. III°) 73043 Copertino (Lecce) • Tel/fax: 0832.931743 www.lupoeditore.it • info@lupoeditore.it
A papĂ Gennaro e mamma Rosa
“... Nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto...“
8
Presentazione
Squillò il telefono in camera mia. Pronto, Padre Francesco, sono Gino. Era un signore che avevo conosciuto da poco, con un paio di baffi che incorniciavano la sua simpatia e che sarebbe diventato uno dei miei più stretti collaboratori. Dimmi Gino!. Mi chiedeva se poteva raccogliere un paio di casse di arance dal giardino della basilica e mandarle con Anna ai ragazzi di casafamiglia di Mancaversa. Compresi che si trattava di un piccolo gesto di affetto nei confronti di qualcuno: ma di chi? Mi rimasero in mente quelle parole: casa-famiglia. Ma di che si trattava? Non ne avevo mai sentito parlare. Purtroppo i pensieri e i disbrighi di quei giorni presero il sopravvento. Mi dimenticai presto della storia delle arance. Eppure quella sarebbe diventata una grande storia di amicizia e umanità. Ero giunto da meno di due mesi a Parabita, questa magnifica cittadina salentina. I miei superiori mi avevano affidato la cura della comunità dei frati domenicani che custodiscono da anni il santuario dedicato alla Madonna della Coltura. Conoscere la gente, presentarsi alle autorità cittadine, entrare nel tessuto sociale, studiare la storia di quel nuovo lavoro ora a me affidato. Insomma tanto movimento che si aggiungeva ai preparativi del Natale, ormai vicino. Qualche giorno prima delle feste natalizie squillò il telefono. Di nuovo. Questa volta era la voce di un signore distinto che mi ringraziava per le arance donate alla casa-famiglia. Stefano Portaccio è il suo nome. Mi ritornò in mente quel termine: casa-famiglia. Incominciai a chiedere informazioni. Con gioia compresi che si trattava di qualcosa di bello poiché tutti in santuario mi parlavano di questa realtà voluta e animata da Luigi e Stefano, due personaggi - dirò dopo perché – cresciuti all’ombra del santuario, nelle file della gioventù domenicana. Mi dicevano tutti che erano due uomini coraggiosi 9
nel portare avanti un progetto così impegnativo. Con i tempi che viviamo – mi dicevano alcuni – è raro trovare gente che doni la propria attenzione agli altri. Avevo capito che Luigi e Stefano era due persone straordinarie e che con loro c’erano tanti altri cuori generosi che facevano del bene. Ma non avevo ancora capito di che cosa si trattasse. La notte di Natale – il mio primo Natale a Parabita – dopo la celebrazione invitai la gente convenuta a fermarsi per un po’ di cioccolata calda preparata dai laici del santuario: un modo per fare Natale. Durante lo scambio di auguri si avvicina una figura distinta dicendomi: Buon Natale Padre Francesco, sono Stefano Portaccio della Casa Famiglia “Oberon” di Mancaversa. La ringrazio ancora per il dono delle arance. Le voglio presentare il direttore Luigi Fattizzo. Mentre mi avvicinavo a lui mi sentì addosso lo sguardo di tanti giovani che fino a quel momento non avevo notato. Molto piacere fu la risposta netta e perentoria di Luigi. Pensai: o gli sto antipatico o è troppo snob per avere a che fare con un frate come me! Stefano proseguì: Padre Francesco avremmo il piacere di invitarla a casa-famiglia domani sera per fare il Natale con i ragazzi, gli animatori e gli amici della casa. Superfluo dire che non vedevo l’ora di conoscere e capire finalmente cosa fosse questa casa-famiglia. L’indomani sera, accompagnato da alcuni amici del santuario, anche loro invitati alla festa, iniziò il miracolo. La casa era un tripudio di festa, di decori, di luci, di candele. Il tutto preparato con un gusto tale da essere fotografato per una di quelle riviste di arredamento. E nel cuore della casa un presepe colmo di regali. Regali per tutti. Improvvisamente mi misi da parte come farebbe un cultore della musica o della lirica che non si metterebbe mai in prima fila, ma più lontano, per ascoltare meglio ed avere il quadro d’insieme. Compresi che quei giovani senza colpa alcuna erano persone sfortunate e provate dalla vita, ingiustamente. Capii che i loro animatori erano cuori generosi che mettono in pratica l’amore del prossimo. Ho compreso subito le dinamiche e le difficoltà umane che colorano i giorni di quella grande fa10
miglia. Si, un famiglia grande come il cuore di chi si è tuffato in questa avventura che ha tutti colori della favola, ma in realtà è storia vera. Una storia di altri tempi ed invece incarnata e vissuta negli ultimi dieci anni dell’epoca che stiamo vivendo. Credo che sia stato uno dei Natale più belli che ho vissuto. E so di aver incontrato la carità, quella vera, divenuta dono, comunione fra gli uomini tutti fratelli. Pensate che questo sia un miracolo: no! È una storia forte che non poteva essere scritta da gente qualunque: occorrevano due personaggi. Dico personaggi! I personaggi sono quelle figure spesso inventate, dove l’autore riflette alcune caratteristiche umane per mezzo delle quali si sviluppa una determinata storia. Converrete con me: una storia dove le difficoltà sono all’ordine del giorno e dove l’umanità viene contraddetta o negata da irresponsabili situazioni che pesano alla fine solo sui ragazzi, non può essere vissuta da uomini semplici, ma da importanti personaggi che sanno rendere protagoniste le storie di questi giovani. Questa è la carità. Sono sicuro dovunque il mio ministero sacerdotale mi porterà nel mondo, quando penserò all’amore del prossimo, quando mi interrogherò sul senso vero e pieno della vita, ritornerò con il mio cuore a quel ventisei dicembre duemilacinque. Adesso lo so, vorreste sapere tutta la storia come è iniziata e come è andata. Bene! Sedevi e mettete comoda la vostra mente e rilassato il vostro cuore e iniziate a leggere questo libro: il miracolo dell’amore con tutti i suoi personaggi. A volte vi sembrerà surreale. Invece è una fetta di storia importante, perché quando si parla di amore, si parla di vita! Tutto questo è casa-famiglia “Oberon”! P. Francesco La Vecchia o.p… …un domenicano che ha incontrato la carità e l’ha vista in faccia! P.S. Se questa storia non dovesse toccarvi il cuore, io al vostro posto mi preoccuperei tantissimo! 11
12
Prefazione
Due sono i fili paralleli, quasi come le rotaie di una ferrovia, sui quali viaggia questo semplice racconto della mia esperienza in casa famiglia. La mia, la nostra casa famiglia. Un viaggio che è passato e passa ancora oggi attraverso momenti bellissimi, pieni di raggi di sole che ti scaldano in una fredda giornata, o di freschi aliti di vento che ti difendono dal caldo soffocante Un viaggio che a volte vede brusche frenate e soste preoccupanti e snervanti che ti fanno dubitare della bontà di ciò che stai vivendo e costruendo. Un viaggio che di bello ha una cosa: è un viaggio di gruppo. Non potrebbe essere altrimenti. Non sarebbe possibile educare i ragazzi senza il sostegno, il confronto ed il conforto che vengono soltanto da altri adulti che, insieme a te, vivono e si costruiscono la stessa esperienza per dare – e farti dare - sempre il meglio. Quel meglio che serve per recuperare, educare e lanciare verso la vita i ragazzi che lo Spirito Santo ti fa incontrare in diverse situazioni ed in diversi momenti. Proprio lo Spirito Santo è uno dei due fili di cui parlavo prima. Cosa fare senza di Lui? Me lo sono chiesto da quando, adolescente, mi sentivo sempre ripetere da mia madre, una donna dolce e decisa, le solite frasi: “Chiedi aiuto allo Spirito Santo”. “Hai chiesto aiuto allo Spirito Santo?”. Ho imparato a chiedergli aiuto e mi sono accorto che, sapere che Egli c’è, ti scarica la vita da tante ansie e preoccupazioni che altrimenti ti schiaccerebbero. La Sua presenza è importante anche per riuscire ad accettare le sconfitte, quando “sembra” che nel fallimento anche Lui sia stato sconfitto insieme a te. Ti dà la forza di essere sereno, non solo nei momenti di gioia, ma anche in quelli di amarezza e di dolore quando tutto è buio ed il tuo mondo rischia di crollare. Secondo filo conduttore di questo racconto il mio rapporto 13
personale con uno dei primi ragazzi che abbiamo accolto in casa famiglia. La sua e la mia vita che si sono incrociate, intrecciate, accudite e rinvigorite. Diego, con i suoi vissuti, i suoi capricci, i suoi dispetti, le sue bugie, ma anche con le sue carezze, le sue parole, i suoi sms, le sue richieste, le sue sofferenze e le sue gioie, mi ha insegnato a capire, ad amare, a mettermi in discussione, a ritrovare le mie certezze perse. È stato formidabile vederlo crescere, cambiare, partire, ritornare, perdersi, ritrovarsi. Tutto passato e vissuto su una base d’amore. Nel momento dell’apertura della casa famiglia, una cara amica esperta nel settore ci suggerì di non affezionarci troppo ai ragazzi vivendo con distacco questo strano lavoro di educatori. Aveva ragione, o forse no!?
14
Un giorno come tutti gli altri…
Il 26 ottobre 1999 sembrava un giorno come tutti gli altri, ma non era così. Il perché ve lo dirò più in la, ora vi voglio raccontare alcune cose. Da pochi mesi la mia vita era cambiata. Dopo lunga riflessione e dopo molti preparativi, insieme ad un gruppo di amici, avevo deciso di professionalizzare quello che fino a quel momento avevo svolto come volontariato. Uscendo da variegate e belle esperienze fatte in parrocchia, dapprima come ministrante e ragazzo di Azione Cattolica e poi come educatore e catechista, era mio desiderio fare a tempo pieno l’educatore. Nei due anni di Servizio Civile svolto in un quartiere “167” di una cittadina vicino Taviano, avevo avuto modo di conoscere molte situazioni di disagio comuni tra gli adolescenti ed i giovani e mi ero sempre chiesto cosa io potessi fare per loro. A gennaio di quell’anno, il 1999, con quel gruppo di amici, avevo costituito una società con l’idea di creare una casa famiglia per minori dove accogliere dei ragazzi disagiati e bisognosi di cure e sostegno. A distanza di anni posso dire che fu un gesto incosciente, ma confermo che lo rifarei non cento, ma mille volte. Non sapevo in che impegno ed in quanti problemi e responsabilità mi buttavo, ma ero certo di avere il sostegno e la luce che lo Spirito Santo non mi aveva fino a quel momento mai negato. Dopo mesi di iter burocratico e di preparazione personale (corsi ed esperienze nel settore), il 26 giugno dello stesso 1999 avevamo inaugurato la casa famiglia, non con clamore, ma semplicemente accogliendo il nostro primo bambino, in un misto di gioia e paura.
15
Federico
Ricordo ancora quel pranzo. Noi soci, novelli educatori, insieme a due Assistenti Sociali (una delle quali Maristella, donna dolce ed innamorata del suo lavoro che negli anni ci ha insegnato a vivere i ragazzi come doni e come persone bisognose di attenzione, di spazio, di amore), che erano venute ad accompagnare il nostro primo ospite, e poi lui, Federico, un bambinone di otto anni, spaventato e arrabbiato perché non voleva stare in una casa famiglia, anzi non ci voleva neppure entrare. Lo convincemmo a venire a tavola con noi solo perché gli concedemmo di entrare scavalcando una finestra e perché gli promettemmo che sarebbe andato via subito dopo il pranzo. Inimmaginabile quello che combinò a tavola: per un raggio di cinquanta centimetri la tovaglia era cosparsa di sugo e pasta. Federico non riusciva a mangiare bene perché aveva molte difficoltà motorie e, lo leggemmo nella valutazione psicologica che lo accompagnava, era al limite massimo per lo sfociare nell’autismo, malattia derivante dalla chiusura verso il mondo esterno per dimenticarne le difficoltà e le bruttezze, se non i maltrattamenti e le violenze subite. Dopo alcuni giorni altri ragazzi arrivarono in casa famiglia. Tanti i loro problemi, tanti i motivi per i quali erano stati allontanati dalle famiglie ed affidati ai Servizi Sociali e poi ad una casa famiglia. Una la cosa in comune per i nostri ragazzi: sete di affetto, di considerazione, di protezione, di serenità. Quella del 1999 fu un’estate bellissima e stressante nello stesso tempo. Le paure, le ansie, gli sguardi della gente che non approvava il nostro lavoro e che criticava ogni cosa insinuando che ci arricchivamo sulla pelle dei più deboli. Ma poi la gioia di vedere Federico che acquistava giorno dopo giorno sicurezza, serenità. La soddisfazione che ti gonfia il cuore quando ognuno 16
dei ragazzi accolti scopre che nel mondo esiste qualcuno che si occupa di loro e che è pronto ad accoglierli. Ricordo che Federico andava riacquistando anche la sensibilità al dolore. L’aveva persa nel corso degli anni innalzando sempre più la soglia del dolore e della sofferenza tanto che, cadendo, si sbucciava tutte le ginocchia, sanguinava, ma non diceva mai che gli faceva male. Anche dal dentista non sentiva alcun dolore durante le estrazioni e le cure. La normalità della vita lo stava facendo rientrare negli schemi e nelle regole umane. *** Proprio mentre vivevo in questo clima, il 26 ottobre arrivò in casa famiglia Diego, un ragazzo un po’ più grande degli altri che aveva fatto lavorare un pochino i Servizi Sociali ed i Carabinieri per rintracciarlo ed accompagnarlo da noi. Era sera, eravamo quasi pronti per la cena e tutti i ragazzi erano molto eccitati per il nuovo arrivo. Ogni volta che giungeva un nuovo ospite, i ragazzi già presenti si agitavano, si incuriosivano, volevano vedere com’era, volevano sapere con chi avrebbe dormito, erano desiderosi di farlo diventare il proprio migliore amico… benedetta sete di attenzione. Forte fu lo sgomento di tutti quando vedemmo arrivare Diego nella macchina dei Carabinieri; i precedenti inserimenti nella nostra casa erano avvenuti in forma semplice, con l’ausilio di funzionari dei comuni o dei consultori in borghese e con macchine civili. Dalla volante scese un bel ragazzo, alto, magro, appena sedicenne che, però appariva triste e spaventato. Inutile dirvi che la cena fu straziante. Diego non mangiò nulla o molto poco e rimase chiuso in se stesso, col suo berretto in testa, con la visiera abbassata e con le lacrime agli occhi. A nulla servivano gli sforzi che gli altri ragazzi facevano per farlo sentire accolto e a proprio agio. Il primo e il secondo che gli servimmo rimasero nel piatto. 17
I giorni per Diego in casa famiglia cominciarono a trascorrere tutti uguali, o così sembrava. Non legava molto con gli altri, trascorreva il tempo facendo piccoli lavoretti da scalpellino su degli spezzoni di pietra leccese ed in particolare stava modellando un piccolo cuore che voleva regalare alla sua fidanzata che aveva dovuto lasciare al paese. Su questa ragazza inventò tante cose che poi risultarono false. E qui scoprii che quel ragazzo aveva le bugie nel sangue. Anche per Diego non si smentiva il desiderio che la maggior parte dei ragazzi di una casa famiglia coltiva: tornare nella propria famiglia e, principalmente, riacquistare le proprie libertà di movimento e di azione che poi, spesso, li portano a sbagliare e a delinquere. L’assenza di regole, aggiunta all’assenza di amore, è una delle cause della devianza minorile che riempie i nostri paesi e le nostre città. Per riavere questa libertà, ma anche per cercare di accaparrarsi degli affetti familiari mai avuti, Diego elaborava un sacco di bugie facendo suoi molti schemi familiari. Ripeteva in continuazione che la sua ragazza era in stato interessante e che lui era pronto a mettere la testa apposto per poter fare il marito ed il papà. Altra bugia molto divertente che raccontava all’esterno, era che lui riusciva a sopraffare tutti i ragazzi e gli educatori della casa famiglia che, dopo essere stati picchiati da lui, si sedevano mogi mogi sul divano pronti ad obbedire ai suoi ordini. Ma anche per Diego, pian piano, il tempo, l’attenzione e l’affetto cominciarono a lavorare per incanalare la sua vita verso una direzione nuova, diversa, che lui non aveva mai conosciuto prima d’allora.
18
Il primo Natale
Il Natale di quell’anno fu la prima volta che io ed i miei educatori toccammo con mano la sofferenza profonda dei nostri ragazzi. Molti di loro non potevano far rientro nelle proprie famiglie, neppure per alcune ore solo per partecipare al pranzo di Natale. Ma non ci scoraggiammo e non ci perdemmo d’animo. Il nostro direttore inventò un calendario di feste natalizie per rendere più leggera la vita dei ragazzi in casa famiglia. Fu la prova generale delle centinaia di bellissime feste che tutti insieme abbiamo organizzato nella nostra bella casa famiglia nel corso di questi anni. Fu bellissimo costruire il nostro primo presepe realizzato con tante coloratissime casette in cartone che Giuseppe, un nostro educatore e socio (da sempre grande amico e sostegno, presenza costante colma di bontà e discrezione), aveva realizzato insieme ai bambini ed ai ragazzi. Quanta la pazienza di Giuseppe, non era facile lavorare con quei ragazzi che, tanta la voglia di fare, distruggevano più che costruire. Tante le pietre, i tronchi, le cortecce raccolte con i ragazzi nelle campagne vicine. Le lotte con le lampadinucce che a volte funzionavano ed a volte decidevano di fulminarsi: i ragazzi ne capivano più di me. Anche Diego si impegnò per realizzare un bel presepe, un bell’albero e delle bellissime serate. La Notte di Natale fu un’emozione fortissima. Prima di andare alla Messa in Basilica, dove ci aspettavano tutti i nostri amici che avevano amorevolmente accolto i ragazzi nelle loro vite, facemmo una cosa bellissima che mi aveva insegnato la mia mamma e che sempre in casa mia avevamo fatto. Il più piccolo dei bambini prese la statuetta del Bambinello Gesù e tutti insieme facemmo una piccola processione per tutte le stanze della casa famiglia cantando una nenia natalizia e concludendo col bacio del Bambinello e con la sua deposizione nel presepe. Fu grande 19
la mia meraviglia vedendo che Diego cantava con noi e che, con inďŹ nita dolcezza, baciò la piccola statuetta che Federico stringeva forte tra le mani. Ăˆ inutile dire che per la maggior parte della Veglia di Natale i ragazzi dormirono appoggiati sulle spalle degli educatori. Ma lo Spirito Santo era presente nel loro e nel nostro cuore.
20