STORYTELLING_ il racconto dello spazio

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA Facoltà di Architettura Anno Accademico 2008/2009 CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN ARCHITETTURA

-Il

“Storytelling”

racconto dello spazio-

Il candidato Maria Chiara Zucchi Il relatore Prof. Giovanni Galli Il correlatore Massimiliano Gherzi


intro p. 9

ANTINOMIE p. 19

il video tra i media p. 25

un nuovo linguaggio? p. 29

RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA p. 39

tra cinema, radio, televisione p. 25

nuove narrazioni p. 32

la casa del sole nascente e l’annesso ospedale st. james p. 41


the manhattan transcripts p. 45

video is the message p. 49

saper vedere bruno zevi p. 53

nArrAZionE p. 63

StorYtEllErS p. 71

diverse articolazioni di una grammatica compositiva p. 71

#2 when tomorrow comes: architettura e videoclip p. 84

PoEtiCHE di ProGEtto p. 101

#1 cinema p. 72

PEr Un linGUAGGio AvAnt-PoP p. 93

immaginare il futuro raccontandolo all’imperfetto p. 101





SOCRATE: C’é un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura. Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente. Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’impressione che parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa. Una volta che sia stato scritto poi, ogni discorso circola ovunque, allo stesso modo fra chi capisce, come pure fra chi non ha nulla a che fare e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se é maltrattato e offeso ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto dell’autore, perchè non é capace né di difendersi né di aiutarsi da solo. (Dal Fedro di Platone 300-350)1



La scelta di affrontare una tesi di laurea in architettura analizzando il video come strumento narrativo nasce dal desiderio di approfondire le conoscenze sulle potenzialità degli strumenti audiovisivi nella rappresentazione di spazi architettonici. Il sistema delle tecnologie di comunicazione per l’architettura, dalla progettazione alla visualizzazione, sta conoscendo un rapido processo di evoluzione grazie alla diffusione di nuovi media capaci di associare sequenze di immagini (statiche o in movimento) a eventi sonori, secondo una pratica che ha forti relazioni con la cinematografia; si tratta infatti di media che ereditano la “lezione” di un secolo di cinema e che, sviluppandola verso direzioni inedite, le restituiscono nuova attualità. Come linguaggio audio-visivo può creare, rappresentare e criticare spazi architettonici. “Il problema della narrazione è centrale. Le pratiche progettuali contemporanee dispongono di strumenti e mezzi per l’elaborazione di linguaggi che tendono alla stesura di scritture non indifferenti al tema del racconto.” (Marco Brizzi, curatore del festival “Beyond Media”)2

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INTRO

Linguaggi emergenti lontani dai più consueti percorsi del pensiero architettonico, modalità di comunicazione introdotte a partire dalla disponibilità di nuovi strumenti di confronto e di interazione, inedite opportunità per l’espressione di una visione progettuale. Come si racconta , oggi, l’architettura? Quali forme di narrazione si legano all’idea di progetto, alle sue manifestazioni, alle forme della sua diffusione? Attraverso quali percorsi la creatività emergente avvicina nuove modalità di espressione rese possibili dagli strumenti digitali e dai nuovi media? Questa tesi vorrebbe offrire l’opportunità per riflettere su una molteplicità di aspetti intorno ai quali si organizza la cultura progettuale contemporanea, come occasione per rinnovare la discussione sull’architettura e sulle sue relazioni con la cultura del nostro tempo; e oltre a ciò esprimere il senso d’inadeguatezza


INTRO

di alcune pratiche contemporanee di comunicazione dell’architettura e sottolineare l’urgenza di stabilire efficaci modalità di contatto con il pubblico. Faccio preciso riferimento alla necessità di ritrovare delle forme narrative, nelle opere video così come nelle architetture, altri spunti di lettura per i molti dei fenomeni in atto nella società contemporanea. Credo sia importante sviluppare tecniche e linguaggi in grado di gestire sia il processo progettuale che il complesso della sua stessa comunicazione. Saper raccontare un progetto non soltanto attraverso piante, prospetti, sezioni e visioni 3d, ma anche attraverso un video è oggi quanto richiesto con sempre maggiore frequenza dagli studi professionali nell’elaborazione di una proposta, dai bandi di concorso, dalle amministrazioni pubbliche. Il video è un particolare strumento critico di lettura e racconto dell’esistente, attraverso la visione di un’opera nel suo contesto nonché nelle sue possibilità d’uso. Contiene, riassume ed aggiorna le tradizionali modalità di descrizione, in un formato più immediato e comprensibile. Lo spazio si fabbrica con la testa: ma prima di fare un progetto, si deve immaginarlo. L’intensità d’analisi necessaria per scrivere una storia si riflette sulle questioni relative alla progettazione e può anche condurre a nuove soluzioni, grazie anche al cambiamento del consueto punto di vista progettuale. Le storie quindi possono essere un mezzo di comunicazione, apprendimento e progettazione. Un qualunque architetto che sia in grado di pensare alla sua architettura con taglio cinematografico (che sia Albert Speer o gli Archigram) è in sintonia con le trasformazioni del mondo contemporaneo. Lo strumento cinematografico penso costituisca il mezzo più efficace per comunicare il progetto d’architettura. Moderno, dinamico, intelligentemente “provocatorio”, in quanto morbido generatore di reazioni, il video intende raggiungere tutti i destinatari del progetto, offrendo un approccio colto e democratico ai contenuti, al messaggio e alla realizzazione del progetto. 10


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INTRO

Del cinema speso attrae il modo in cui la struttura narrativa viene articolata lungo una linea temporale attraverso il visivo e il sonoro: la maniera in cui vengono raccontate le storie insomma. Piace vedere che al cinema l’architettura non è un oggetto fine a se stesso, ma il contenitore delle azioni umane. I personaggi usano lo spazio in modo da manifestarne le caratteristiche e, allo stesso tempo, lo spazio influenza le loro azioni, i loro sentimenti, le loro relazioni. Tutti aspetti spesso trascurati nei video d’architettura. E infatti i video di architettura sono quasi sempre monotoni. Perché capita questo? Perché le architetture a cui si riferiscono non raccontano nessuna storia,sono semplici camminate all’interno di una realtà virtuale. Il video può rendere l’architettura più comprensibile, non solo perché virtualmente riprodotta, ma anche in quanto la reinterpreta in termini di racconto nel quale il potere della comunicazione visiva sottopone i progetti all’attenzione della gente. In questo modo il video diventa uno strumento che produce “visioni”, che sollecita commenti, conversazioni; incoraggia la partecipazione emotiva e promuove un dibattito creativo. L’audiovisivo è spesso fruibile anche da chi non possiede il linguaggio tecnico dell’architettura. In realtà, in ambito architettonico, i video sono difficilmente dei prodotti esaustivi, e nei concorsi vengono accuratamente valutate piante e sezioni, computi metrici, difficoltà realizzative e tutte quelle informazioni specifiche della disciplina. Ma se il consenso e/o i finanziamenti devono giungere anche da chi non è formato tecnicamente, allora avvalersi di uno strumento che parla non solo agli architetti assume moltissimo valore. Le immagini d’architettura, la loro produzione a livello globale e il loro consumo (dai render della cartellonistica di cantiere ai servizi sulle “archistar” di Vanity Fair), hanno avuto come diretta conseguenza, una maggiore “vicinanza” del pubblico alla progettualità.


INTRO

Questa immagini dovrebbero essere usate per produrre messaggi , con l’intenzione di far capire allo spettatore certi aspetti salienti del progetto. In campo architettonico, ciò significa che l’architetto, in quanto autore di un’immagine, dovrebbe prendersi la responsabilità del messaggio comunicato, lasciando comunque spazio all’interpretazione del singolo in un modo non deterministico. L’attività progettuale assume, in questo particolare periodo storico, un’importanza fondamentale per facilitare lo scambio d’informazioni fra chi usa, chi produce e chi progetta opere d’architettura. L’innovazione della realtà virtuale, consentita dalle tecnologie digitali video-informatiche, apre un nuovo modo di comunicare le caratteristiche figurative, tecniche, ambientali e fruitive del progetto d’architettura. Ma soprattutto trasmettere un pensiero, comunicare e allargare il raggio d’azione della propria esperienza, della propria cultura. Ma non è più unicamente una questione di stile, perchè l’architettura è stata inondata da un torrente di prodotti di rapido consumo, narrazioni, immagini, slogan, stimoli generati elettronicamente, immagini in movimento che popolano un mondo che appare subito più familiare e più reale di qualsiasi creazione architettonica. Bisogna conservare uno sguardo critico sulle possibilità e sui limiti del mezzo digitale, spesso utilizzato con indiscriminato positivismo, per sviluppare intorno alle rinnovate possibilità tecnologiche nuovi linguaggi e nuove forme d’espressione architettonica. L’Architettura contemporanea sembra aver perso negli ultimi anni la capacità e la voglia di ricercare visioni ampie, di raccogliere in uno sguardo esteso la complessità dei fenomeni di trasformazione dell’ambiente abitato, di guidare il pensiero, la coscienza e i desideri al di là di quello che è concreto, empirico, visibile. L’animazione video segue una logica che effettivamente mescola nessi che appartengono ad aree diverse e quindi è un’esperienza che è nuova, e come tale è affascinante. Un po’ come lavorare cercando di disegnare senza tenere conto delle misure o di un contesto specifico, 12


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INTRO

ma creando d’istinto. Se si collegano queste due cose, cioè il vecchio e sempre attuale metodo del disegno e queste altre logiche, può divertire, può anche produrre qualcosa di veramente interessante. Credo però sia necessario avere una fascinazione istintiva e naturale rispetto a tale combinazione. Siamo sempre più consapevoli che oggi il video è uno strumento adottato e proposto correntemente, ma sono ancora molto ridotte le occasioni di confronto e di riflessione sulle sue implicazioni progettuali; il video costituisce ancora un ambito, per così dire, di nicchia nella ricerca architettonica. La sua produzione è dettata da ragioni variabili: talvolta si tratta di documenti prodotti per indagare possibili soluzioni progettuali, ma la loro affermazione sul piano più vasto è legata alla partecipazione a concorsi, oppure ad eventi di carattere espositivo,e ancora più spesso, per illustrazione del progetto al cliente. L’obiettivo del video dovrebbe essere di isolare i reali problemi, raccontare come si potrebbe cambiare, e in questo modo sollecitare le persone a trovare un proprio accesso mentale. Sarebbe interessante paragonare l’articolazione di un ipotetico video ad un particolare genere narrativo… come il romanzo per esempio; infatti il documentario fornisce notizie nel modo più obiettivo possibile, la poesia è relativamente soggettiva, mentre il romanzo va oltre la realtà, consentendo la creazione di sempre nuove interpretazioni. Ma come agisce il comunicare e trasmettere delle informazioni ed emozioni? La capacità di trasmettere, storie orali e scritte, visive e narrative ci offre infiniti campi di espressione che oggi grazie all’uso dei mezzi tecnologici e dei media possiamo trasformare in eventi multimediali. La memoria e la comunicazione ci spingono a narrare eventi: questo perché la conoscenza è spesso correlata da storie che raccontate aiutano a conservare i ricordi. Le storie consentono all’ascoltatore o al lettore di collegare i propri ricordi a vari punti della narrazione.


INTRO

Il pubblico è sempre costituito da esseri individuali e per conquistare la loro attenzione è necessario catturare il loro interesse inserendo nella narrazione esperienze personali in modo che essi possano ricordare associando, rielaborando e rivedendo una particolare sensazione magari gia vissuta o conosciuta. Ogni mezzo può influenzare il modo di formulare o ricevere un messaggio. In questo caso specifico, il video in campo architettonico, ha una energia potenziale massima ancora tutta da sviluppare. Si può dire che la rete ha cambiato definitivamente la fruizione dello spazio e del progetto. Sentire musica e vedere immagini nello stesso tempo richiede meno fisicità: onde radio, cablaggi, zone wireless, immagini in movimento, comunicazione e tecnologia hanno fatto si che, nel tempo, avvenisse una vera e propria deterritorializzazione della comunicazione. Al contrario, la comunicazione architettonica rimane quasi saldamente ancorata alla sua staticità del disegno bi o tri dimensionale, alla comunicazione oggettiva dei dati progettuali, al suo pubblico di critici, esperti, e addetti ai lavori. Mentre forse il resto del mondo ha quasi paura dell’immobilità dell’architettura, e anche l’audiovisivo diventa liquido, dilaga in mille forme e in mille spazi, urbani, virtuali e visivi. Così parallelamente vorrei che la nostra percezione dell’architettura, o meglio della musica più immagini si modificasse, a partire dall’evoluzione del videoclip (dagli inizi performativi passando per i clip narrativi e per finire a mescolarsi senza confini con la videoarte) fino alla più recente diffusione di you tube. Il videoclip non è più soltanto il mezzo espressivo che la semiotica definisce “testo breve”. Racchiude tutta un’altra storia: quella degli artisti visivi e degli architetti, dei registi che hanno iniziato a confrontarsi, mescolando linguaggi, cambiando registro, inventando nuovi codici. 14


Note: 1 Platone, Fedro. Testo greco a fronte, curato da: Velardi R. Milano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006

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INTRO

2 da http://beyondmedia.it, Marco Brizzi (1967) è architetto e insegna Cultura Tecnologica della Progettazione presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Critico ed organizzatore di eventi ed iniziative per la promozione e la valorizzazione dell’architettura. Fondatore di iMage, organizzazione di riflessione critica sul ruolo delle nuove tecnologie per la produzione e la comunicazione in architettura. È uno degli ideatori del Festival Internazionale di Architettura in Video realizzato per l’Università di Firenze. È commissario per il Multimedia di Archilab 2000. Direttore di Arch’it, rivista digitale di architettura.





L’architettura di ogni ordine e “ismo” di qualsiasi periodo storico, è fondamentalmente comunicazione. Tuttavia il rapporto tra architettura e comunicazione è una relazione conflittuale tra due opposte centralità. Da un lato la stabilità dell’architettura con le regole e i fondamenti della sua tradizione, dall’altro l’istantaneità evanescente degli apparati comunicativi; apparati caratterizzati da una perenne instabilità, sia formale che strumentale. Questa tensione positiva e produttiva tra architettura e comunicazione contiene tuttavia un paradosso: l’architettura non credo possa sottrarsi alla comunicazione, o quantomeno all’atto di comunicare se stessa al mondo esterno. Parallelamente però questo atto di comunicare, con le sue caratteristiche mutevoli ed effimere, costituisce uno strumento singolare, e spesso temuto, rispetto allo statuto tradizionale dell’architettura. Costringe la disciplina architettonica a confrontarsi con l’altro da sé. Scuote consuetudini acquisite. Spesso l’architettura, soprattutto nei periodi di transizione, si rinnova ciclicamente traendo ispirazione dal fuori piuttosto che da elementi interni alla disciplina; mettendo in tensione categorie e a volte, generando conflitto. Si contrappone il duro al malleabile, il pesante al leggero,il radicale alla transitorietà. In queste azioni di contrasto la durata e la pesantezza tettonica dell’architettura incontrano materiali e azioni effimere, tra cui quelle della comunicazione.

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ANTINOMIE

Attraverso le parole dell’abate Frollo, Victor Hugo paventava che l’introduzione della stampa avrebbe soppiantato il ruolo comunicativo delle cattedrali: “Ceci tuera cela”.1 Profezia che si è rivelata errata e, nello stesso tempo, esatta. Le cattedrali ci sono sempre, con la loro carica costruttiva di simboli e valori; è il nostro modo di guardarle che si è modificato. Leggiamo quei simboli attraverso il filtro del presente, dove giocano un ruolo


ANTINOMIE

importante gli apparati comunicativi contemporanei. Non potendo non sentirci, in ogni caso, coinvolti, se non altro per motivi anagrafici dal virus della invasioni barbariche ed essendo, per questo motivo, inevitabilmente noi stessi dei barbari che compiono semplicemente gesti diversi da quelli che si potevano pensare in passato, come argomenta Alessandro Baricco nel saggio I barbari. Saggio sulla mutazione,2 analizzare i linguaggi di questa modificazione compiuta e diversa diventa quasi un obbligo. Una tregua con l’esistente, anteponendo il come ai perché, i linguaggi alle ideologie. Analizzare il presente non comporta automaticamente la passiva accettazione della sua presunta egemonia, significa semplicemente porre uno slittamento di senso da ciò che vorremmo a ciò che è. Del resto tanto più oggi l’architettura rivendica la sua presunta centralità tanto più rischia di porsi in opposizione con il reale,arroccandosi nei fortilizi, del tutto insicuri, del Deserto dei tartari… in attesa dell’assedio dei barbari.3 La comunicazione architettonica tradizionale semplicemente non crea dialogo, ma parla da sola e non c’è possibilità di interazione. La comunicazione del futuro, quella dei nuovi media, sarà quella in cui il pubblico potrà partecipare.

Note: 1 Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, traduzione Feroldi, Milnao, Universale Economica Feltrinelli, 2002

di

Donata

2 Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione,Milano, Universale economica Feltrinelli,2008 3 1940

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Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano,






2.1 TRA CINEMA, RADIO, TELEVISIONE Prima di affrontare i vari aspetti del video è utile vedere come questo si sia inserito e sviluppato nel contesto dei media, e in particolare, delle tecnologie della riproduzione dell’immagine in movimento. Il video è figlio della tecnologia visiva. La parola assume oggi i più diversi significati, ma con “video” si intende un medium che, nato dalla televisione, se n’è staccato, costituendo un variegato universo indipendente. L’esplorazione del linguaggio del video implica quindi la conoscenza del funzionamento della TV, ma anche una capacità di vedere le connessioni tra il video e gli altri media, soprattutto in ambito sperimentale e di ricerca, e di verificare l’uso artistico, poetico di questa nuova tecnologia, costruendo percorsi di senso nuovi.

Il cinema, come noto, nasce ufficialmente nel dicembre 1895, dopo anni e anni di sperimentazione a partire dalla fotografia, si tratta di date esemplificative e simboliche che indicano “un evento pubblico”. Dall’immagine fotografica, che inquadra e cattura una porzione di realtà e la fissa su un supporto, si passa a fine Ottocento all’immagine cinematografica, che permette di riprodurre il movimento. Le fotografie di una porzione di realtà, riprese e proiettate in rapida successione, consentono al nostro 25

IL VIDEO TRA I MEDIA

Il libro esplora quindi le caratteristiche del video, della comunicazione nei suoi aspetti di produzione e di ricerca, dalle prime distorsioni dell’immagine elettronica alla produzione diffusa e consentita dalle tecnologie digitali, dal dialogo con le reti TV alle esperienze marcatamente poetiche e artistiche. Il linguaggio di questo nuovo medium, in campo architettonico, e non solo, è analizzato a partire dalle contaminazioni con gli altri linguaggi, l’invenzione di nuove modalità di costruzione dell’opera e della sua relazione con o spettatore.


IL VIDEO TRA I MEDIA

occhio una ricostruzione dell’immagine dal punto di viste temporale: cinematografia infatti, dal greco, significa “scrittura del movimento”.1 Questa straordinaria possibilità di riprodurre il movimento resta a lungo priva della componente sonora;ma contemporaneamente nasceva la radio: da un lato quindi un medium per immagini prive dì suono, e dall’altro un medium per il suono privo di immagini. La radio nasce come sviluppo di esigenze pratiche, funzionali, di comunicazione veloce, anzi immediata. Questa breve, anzi brevissima descrizione, ci aiuta ad individuare due grandi famiglie di media: da un lato la fotografia, da cui nasce il cinema, e dall’altro la radio, da cui nasce la televisione. Senza schematizzare troppo però, potremmo dire che radio e televisione sono media della simultaneità. Quello che ci interessa però in questa sezione, al di là dei programmi specifici, è la natura particolare dell’immagine video che influisce profondamente non solo sui modi di ricezione ma anche sui modi di organizzazione del linguaggio. Il video viene percepito come una vera e propria rivoluzione nel sistema dei media, attrae l’interesse attivo di gruppi e collettivi e mobilita l’attitudine sperimentatrice da parte di cineasti indipendenti e artisti. A chi si accostava per la prima volta a questo nuovo medium non interessava la qualità perfetta dell’immagine e i modelli di riferimento non erano ne il cinema nel in reportage televisivo. Quello che contava era la testimonianza di eventi altrimenti non documentabili, il poter dar voce a realtà fino ad allora ignorate o censurate dai media tradizionali. Movimenti come il Fluxus2 tentavano, con eventi pubblici, di mettere in discussione un fare artistico confinato nei musei, nelle gallerie d’arte; si voleva coinvolgere maggiormente lo spettatore, farlo divenire un protagonista, chiamarlo in causa, superare la barriera tra arte e vita. Il video nasce come forma narrativa indipendente, si distacca dai generi e dalle e dalle durate codificate; esplora tematiche che gli altri media lasciano in 26



IL VIDEO TRA I MEDIA

ombra: tanto che ben presto viene coniato lo slogan significativo VT is not TV, il videotape non è la televisione. Il video è figlio della tecnologia televisiva, ma allo stesso tempo se ne distacca, è la forma indipendente dell’immagine. Nello stesso tempo, con “video” si intendono spesso fenomeni diversi e lontani tra loro, per cui forse potrebbe essere utile dire che video in latino significa “io vedo” e, come nota il critico Philippe Dubois: Video è l’atto stesso dello sguardo nel suo costituirsi, compiendosi qui e ora (un processo) un agente all’opera (un soggetto) e un adeguato temporale al presente storico (io vedo è in diretta, non è io ho visto - la foto passatista - né io credo di vedere – il cinema illusionista - [...]) Video: un’immagine-atto.3 Il video, insomma storicamente e culturalmente si colloca in uno spazio diverso da quello occupato dalle emittenti televisive, ma mantiene anche nel nome quel carattere di attualità, che è stata la grande novità introdotto nel complesso dei media. Possiamo dire che il video è la televisione che non c’è, un mezzo in grado di esplorare e valorizzare appieno il proprio linguaggio, riservando spazio, per la creazione di questo linguaggio, all’arte, alla sperimentazione, a una narrativa innovativa, alla ricerca di nuove forme espressive, di nuovi generi, di nuove modalità, sia informative sia spettacolari; e allo stesso tempo possiamo dire che il video raccoglie forme anomale e non codificate di “cinema”, dal corto al documentario, allo sperimentale.

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2.2 UN NUOVO LINGUAGGIO?

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Gli steccati troppo rigidi tra i vari media non aiutano a capirne appieno il ruolo e il linguaggio, elementi questi che sono frutto di contesti e di scambi culturali, di contaminazioni e influenze reciproche: è chiaro che la televisione è anche parte integrante delle ricerche sull’immagine in movimento che hanno condotto all’invenzione del cinema e che il dialogo tra questi due media è ininterrotto, fin dalle origini. Ci sono influenze innegabili del linguaggio cinematografico su quello televisivo e viceversa; alcuni autori cinematografici, ad esempio Jean Luc Godard, Jean Rouch, Fritz Lang che, negli sessanta, applicarono ai loro film caratteristiche del linguaggio televisivo come lo sguardo in macchina, il modo in cui ci si rivolge direttamente allo spettatore, insomma i media assorbono, incorporano, assumono in sé le caratteristiche l’uno dell’altro. Basta anche solo accennare ai diversi modi di intendere il “nuovo” linguaggio di questo nuovo medium e veder come il video sia riuscito a scoprire e a esplorare tutta una serie di caratteristiche dell’immagine che altri apparati continuavano e continuano a ignorare. Il video consente di pensare l’immagine in modo diverso, con trasparenza di informazione, senza censure, con uno sguardo personale o di piccole comunità, in contrapposizione a una visione universale dell’informazione e dell’intrattenimento. I modelli di riferimento spesso sono il cinema documentario da un lato e il cinema astratto, sperimentale, underground, di animazione dall’altro. O meglio ancora quegli esempi di mescolanza tra attitudine documentaristica e vocazione poetica, realismo e sperimentazione di linguaggi, capaci di creare coinvolgimento di più sensi, di presentarsi sotto varie forme (anche come multivisioni) di superare il montaggio classico, di attivare processi di conoscenza e immaginazione nuovi attraverso un uso creativo delle cosiddette nuove tecnologie. Il video è un mezzo che consente non solo di documentare


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creativamente, ma anche di giocare con le forme, di sfidare le immagini codificate, ribaltando le aspettative e anche la posizione fisica dello spettatore. Si ritrova potenziata una poetica, un’estetica di certa parte di cinema: la rivalutazione dei tempi morti, delle azioni apparentemente inessenziali, il valore della quotidianità e del suo scorrere, la parola lascia spazio alla musica, al suono, al rumore. Il cinema ha usato effetti particolari anche per andare oltre la percezione tradizionale degli eventi in maniera diversa da quella illusionistica o narrativa: le avanguardie cinematografiche degli anni venti hanno esplorato le possibilità che aveva il cinema di farci vedere la realtà in modo differente da quello della nostra abituale percezione, capacità di farci vedere (quindi pensare) in modo nuovo.

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2.3 NUOVE NARRAZIONI A fronte della ricerca di una nuova esigenza “narrativa” e innovativa del linguaggio video, durante il passaggio tra gli anni ottanta e gli anni novanta si abbandona un po’ l’attitudine alla metamorfosi, all’astrazione e alla ricerca di forme e suoni non direttamente narrativi e ci si misura di più con la rappresentazione di “storie”; mentre la tendenza documentaristica, che aveva caratterizzato una larga parte della storia del video, si comincia rapportare di più con la gamma delle possibilità formali dell’immagine. I linguaggi si mescolano. Il video astratto e simbolico comincia a porsi il problema di “raccontare”, il documentario di diversificare, arricchire le forme, impaginare la realtà in modo diverso, ricollegandosi a una tradizione poetica e sperimentale del documentario cinematografico e mescolando testimonianze, fiction, videoarte, musica e grafica. La suddivisione dello schermo, la scrittura sovrapposta o combinata con l’immagine, la possibilità di aprire spazi e finestre nelle inquadrature consentono di rendere combinazioni visive più complesse e ricche. La duttilità del video si presta a ritrarre lo spazio della metropoli odierna: ritratti di città in cui la parola è assente, non c’è voce fuori campo, lo spazio urbano è ritratto attraverso immagini, suoni, rumori, gesti, corpi, rivisitato con alterazioni temporali o effetti, esplorato nel suo tessuto di ricordi e possibili storie. Cercare di costruire un senso a partire dalla composizione e dalla concatenazione delle immagini, delle persone, senza il sostegno e l’ossatura forniti dai dialoghi. La parola viene usata, come nel cinema delle origini, a mo’ di didascalia, di testo scritto. Cercare di opporsi ai dialoghi che caratterizzano la quasi totalità dei film narrativi o della televisione, la sperimentazione video ripensa la parola e la ridimensiona: spesso la elimina del tutto. 32



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Spesso, in queste nuove narrazioni l’autore mostra apertamente che si tratta di una versione del tutto personale del soggetto a cui ci si riferisce: una lettura anche parziale e soggettiva, insomma, magari anche frammentaria e incompleta, che non pretende di narrare tutto, ma si offre in modo aperto all’interpretazione e al completamento da parte del fruitore. Spesso è meglio procedere,in queste nuove narrazioni, per sottrazione piu che per accumulo di dati e notizie, ma dove lo spazio e il tempo si modificano. Uno degli esempi più alti è Juste le temps di Robert Cahen del 1983;4 un viaggio in treno dove un uomo e una donna si incontrano, senza parole, senza dialoghi, dove il paesaggio diventa ondulato e liquido, si trasforma in pittura astratta, in movimento; alcuni gesti vengono compiuti al contrario, alcuni oggetti sottolineati da tinte accese, e la musica “scolpisce” l’andamento del racconto. Quest’opera rappresenta un embrione di narrazione, secondo l’autore: sta a noi che la guardiamo capire o immaginare se e come avvenga, e di quale natura sia, questo incontro tra i personaggi e il loro paesaggio, che diventa uno dei protagonisti a tutti gli effetti. Robert Cahen è stato definito un paesaggista. Il suo è un mondo armonioso colto attraverso la perenne dimensione del viaggio. Le sue visioni non lasciano apertamente leggibili i propri contenuti, le immagini modificano il proprio stato naturale in virtù di filtri, schermi meccanici. L’utilizzo di questi espedienti è funzionale alla particolare concezione di Cahen dell’intravisto, l’entr’apercu:5 “nascondere” e “scoprire” sono le attività preferite, praticate e suggerite da questo autore che infatti sostiene “è più suggestivo guardare un paesaggio in uno specchio invece che direttamente”.

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Note: 1 Cinematografia dal gr. KINEMATA movimenti e GRAPHEIN segnare, tracciare. (Dizionario etimologico Zanichelli) 2 www.fluxus.org 3 Philippe Dubois, Video a venire (Video e scrittura elettronica. La questione estetica, 1999 p.18

5 Entr’apercu: Scene nascoste, appena rivelate,si succedono come apparizioni vive e significative, agendo sul desiderio di vedere, di sapere che cosa ha reso uno sguardo “intravisto” come può essere visto. Costruito come breve distorsione di una rapida successione di colpi, “l’entr’apercu” riflette il mantenimento di misteriosi personaggi “nascosti” in un mondo dove resta solo da strappare una tenda.

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IL VIDEO TRA I MEDIA

4 Juste le temps, 1983, 13’, regia Robert Cahen Nato nel 1945 a Valence, in Francia, Robert Cahen si laurea al Conservatoire National Superieur Musique de Paris e studia con Pierre Schaeffer, fondatore della “musica concreta”. Cahen ha sempre esplorato in maniera dialettica la fotografia, il cinema e la musica: i suoi video sono caratterizzati dalla manipolazione dell’immagine e del tempo filmico, dalla giustapposizione di elementi fissi e in movimento, dalla decontestulizzazione e dalla rottura della narratività, con una grande attenzione alla parte sonora. Il nome di Robert Cahen è compreso fra quel novero di artisti che per primi, in Europa, hanno sondato le infinite possibilità espressive dell’arte elettronica. Le sue visioni non lasciano apertamente leggibili i propri contenuti, le immagini modificano il proprio stato naturale in virtù di filtri, schermi meccanici. L’utilizzo di questi espedienti è funzionale alla particolare concezione di Cahen dell’intravisto, l’entr’apercu: “nascondere” e “scoprire” sono le attività preferite.





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RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

La scelta di “raccontare” solo alcuni dei testi consultati, letti e consumati durante la realizzazione di questa tesi, contiene in se una dichiarazione d’intenti ben precisa. E’ una scelta, che nasce, anche e soprattutto, dal linguaggio che ho usato, sto usando e userò, nel raccontare a voi questo cammino. Un linguaggio personale, che a volte si adatta alle circostanze, alle formalità, a volte prende il sopravvento (come ora); un linguaggio, che dalla tastiera, alla carta, al progetto si è evoluto attraverso la lettura di queste opere. Il filtro che ritroverete man mano leggendo è sempre il medesimo: il racconto e il suo linguaggio. Per questo motivo non ho sottolineato tutti gli aspetti (anche gia conosciuti, retorici e gia scanditi dal tempo) di un discorso letterario piuttosto che architettonico o filmico, ho cercato di portare questa tesi e voi lettori, verso il punto, verso il centro, guidandovi non in linea retta, ma attraverso una mappa concettuale quasi psicogeografica, quasi situazionista oserei. Si tratta di una selezione, che non poteva prescindere dall’essere presente e aiutare a capire il cammino svolto, che si andrà man mano srotolando verso la fine, verso una conclusione, che forse poi conclusione non vuole essere. Il percorso trasversale che passa attraverso questi testi è la rappresentazione di ciò che non si vede, dell’immateriale in architettura, che sia una storia, un modo di comunicare, o un linguaggio usato. Proprio la declinazione di questi diversi linguaggi, apparentemente cosi distanti tra loro, mi ha portato a riflettere sull’interazione del non visto in architettura, della comunicazione di una presenza all’interno di un progetto, in maniera più o meno esplicita. La mia scelta personale è caduta sul video, come per Cantafora la pittura o per Tschumi il frammento: tutti questi testi (e gli altri che compaiono in bibliografia) effettuano un operazione di riflessione sui mezzi con cui esplorare aspetti meno consueti di un progetto architettonico o di un evento.


RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

Pluralità di mezzi e di linguaggi, come condizione necessaria e sufficiente per percorrere tutto il processo di questa ricerca, che aiutano ad estenderne il significato fino a riflessioni legate prettamente al nascere di un progetto, che ha come fondamento il non visto, le storie, gli eventi e i linguaggi espliciti e non, che normalmente non confluiscono all’interno del processo progettuale e comunicativo. Bon Voyage!

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LA CASA DEL SOLE NASCENTE E L’ANNESSO OSPEDALE ST. JAMES “Io credo che a dispetto delle sue belle immagini Arduino Cantafora insegua un disastro formale. Le stagioni delle case, ad esempio, sono le stanze d’un’unica perduta stagione; di una stagione talmente lontana che è impossibile collocarla nel tempo atmosferico e cronologico. Sono scale, saloni, spazi che qualcuno deve aver percorso ma che già dovevano rivelare macchie di umidità, cedimenti, un guasto statico o un guasto della memoria”. Aldo Rossi1

...oppure esprime il senso architettonico che architettonici non sono.

di luoghi

La dimensione interna delle architetture di Cantafora è certamente molto esplicita e accompagna verso la segretezza di luoghi, di stanze, la cui esistenza 41

RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

A fronte di un’avanguardia architettonica, per cosi dire, “di massa” (M.Calvesi2), potremmo situare Arduino Cantafora in un più intimistico esercizio di introspezione, e nella riscoperta di una sensibilità individuale, che credo gli conferiscano spessore e forte intensità. Il costante rievocare atmosfere, spazi e luoghi perduti nella Casa del Sole Nascente, il loro sostanziarsi nella “nostalgia”, nella Sehnsucht.3 Tutto è pervaso da struggimento abbandono e rinuncia. E’ un’architettura introversa e sentimentale, e lo è attraverso il suo produrre immagini di interni: ed è architettura. Rappresenta delle tranches de vie propriamente architettoniche, che spesso si identificano con gli spaccati o le sezioni degli edifici... proprio come in chiave contemporanea stanno forse cercando di fare gli apparentemente lontanissimi Atelier Bow Wow.4


RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

sembra protetta dalla resistenza del ricordo. L’intimità e la segretezza degli interni di Cantafora sono alimentate non solo dallo spessore poetico, ma anche dai virtuosismi della rappresentazione. L’interiorità così evidente e tangibile dell’architettura di Cantafora riguarda non solo i riti di un abitare casuale e privo di segni distintivi ma anche il valore e la qualità specifica del fare architettura, dati da pensare un Fuori in funzione di un Dentro, e un Dentro in funzione di un Fuori. “Abitare, pensare, costruire” potrebbero diventare gli assunti principali della pittura e del disegno di Arduino Cantafora. Ovvero: abitare per pensare e pensare per costruire, ma per costruire ambienti che vivono di vita propria, ricordando soprattutto esistenze trascorse. E nell’attesa consapevole di visitatori, di presenze umane, che non verranno... e se verranno saranno occasionali. Queste presenze occasionali lasceranno inalterata l’immobilità degli interni; non porteranno vita all’interno di spazi fatti solo di memorie. Non per questo il mondo statico di Arduino Cantafora è da definire morto o senza vita. In quelle stanze esistenze mai veramente consumate affidano all’assenza, all’intimità del ricordo, l’attesa – che è ancora e soprattutto rinuncia, sottrazione consapevole alla tragedia (tanto presente in Tshumi invece, nei suoi Manhattan Transcipts) – i segni tangibili e architettonici di una sfida lanciata allo scorrere del tempo. Nel caso di Cantafora si può riscontrare un nesso diretto tra i ricordi, le suggestioni e le impressioni, affidati alla pagina scritta e agli ambienti rappresentati.

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Note: 1 Aldo Rossi (1931-1997), ”La stagione perduta”, saggio introduttivo al testo Architetture dipinte, di Arduino Cantafora 2 Maurizio Calvesi nel suo libro “Avanguardia di massa”, mette insieme molti elementi della storia dell’arte novecentesca, e soprattutto della letteratura e della poesia, per mostrare che dopo l’avangurdia calda degli anni venti e trenta, e dopo l’avanguardia sperimentale degli anni sessanta, sulla scena si presentava l’avanguardia di massa. Centinaia di migliaia di giovani operatori della comunicazione utilizzano le tecniche sperimentate durante il secolo da artisti estremi, e questo mette in circolo nella società delle energie immaginarie nuove, il cui esito non è prevedibile. Termine introdotto dai fratelli Schlegel che lo usarono per 3 delineare una particolare sensibilità particolare della psicologia romantica. Questa sensibilità è intesa come uno stato d’animo eccessivo o perenne di impressionabilità, di irritabilità e di reattività. Il termine tedesco SEHNSUCHT ha quindi il compito di indicare quella tendenza a sognare e a fantasticare e quello stato d’essere perennemente inquieto e scontento della realtà, proteso alla vita del sentimento, della fantasia e del sogno che all’inizio del XIX° secolo si era particolarmente accentuato nello spirito dell’uomo. Letteralmente questo termine significa “smania (sucht) del desiderare (sehnen)“, una felicità indistinta, piena ed assoluta, che la realtà non può mai dare, perché tutto ciò che è reale, è meschino, limitato e deludente, ossia da il senso di un’aspirazione struggente che il romantico è consapevole dell’irrealizzazione del suo desiderio. 4 Atelier Bow Wow: hanno l’aspetto di un manga, il nome di un gioco in scatola, ed invece si tratta di un serio duo di architetti giapponesi. Sono il prodotto di una crisi del mercato immobiliare che ha rallentato l’architettura giapponese nei primi anni Novanta. Yoshiharu Tsukamoto (1965) e Momoyo Kaijima (1969). Architetture anonime a volte divertenti, altre tristi, altre ancora troppo serie nate dalla necessità. I Bow-Wow ha sviluppato il concetto di “pet architecture“ uno stile di piccole dimensioni, piccoli spazi, polifunzionali e “ad hoc”.

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THE ­

MANHATTAN TRANSCRIPTS

“Architecture is not simply about space and form, but also about event, actions and what happens in space.”1 Bernard Tshumi

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Partendo dal presupposto che non vi è architettura senza evento, senza programma, senza violenza, i Manahattan Transcripts cerano di portare l’architettura verso i suoi limiti, in quanto introducono problemi programmatici e formali sul discorso architettonico e la sua rappresentazione. I Transcripts prendono come loro punto di partenza l’inevitabile disgiunzione di oggi tra l’uso, la forma e valori sociali. Si sostiene che, quando questa condizione si trasforma in scontro con l’architettura, si innescano inevitabilmente nuovi rapporti tra spazi e sensazioni. I Manahattan Transcripts offrono diverse letture dell’architettura, in cui lo spazio, il movimento e gli eventi sono, in ultima analisi, indipendenti, stando comunque in relazione l’uno con l’altro, in modo da distruggere e reinventare, secondo parametri diversi, i singoli e convenzionali componenti architettonici. I Manahattan Transcripts offrono rappresentazioni che non introducono una vera e propria fonte d’ispirazione, ma piuttosto descrivono una logica di comunicazione tra vari elementi della rappresentazione, o a volte scenari reali. Sono un progetto che ha studiato questa sconnessione dalle convenzionali pratiche architettoniche, decostruendone il significato attraverso una ricerca di nuovi metodi di rappresentazione progettuale, artistica e della teoria architettonica. Non si tenta mai di trascendere le contraddizioni tra gli oggetti, l’uomo e gli eventi al fine di portare a una nuova sintesi progettuale: al contrario, il loro obiettivo è quello di mantenere queste contraddizioni in maniera dinamica, in un nuovo rapporto di indifferenza, reciprocità o conflitto.


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I Manhattan Transcripts non sono un accumulo casuale di eventi, ma mostrano una particolare organizzazione. La loro caratteristica principale è la sequenza: una successione di fotogrammi che si confronta con gli spazi, i movimenti e gli eventi, ciascuno con la propria struttura e combinazione, inerenti a un certo numero di regole. Lo scopo di questa modalità tripartita (eventi, movimentie spazi), è di introdurre il tema dell’ esperienza, del tempo - movimenti, intervalli, sequenze - che inevitabilmente intervengono nella lettura della città. Tschumi agisce anche dal bisogno di mettere in discussione le modalità di rappresentazione in genere utilizzate dagli architetti: piante, sezioni, assonometrie, prospettive. Qual è quindi l’effetto di sviluppare la progettazione attraverso strumenti di visualizzazione, o prerappresentazione, ponendosi come obbiettivo una forte struttura collaborativa? I Transcripts si propongono di affrontare la questione attraverso temi quali la distanza e la soggettività, mostrando “ the reality of its sequences…in the internal logic these sequences display“.2 Inoltre, Tschumi istruisce il suo pubblico sulla loro partecipazione: “leggere i Trascripts significa anche costruirli.”3 Questo succede perché gli elementi della rappresentazione sono legati a ciò che vorrebbe essere rappresentato. Questo libro diventa un lavoro completo solo nel corso della sua ricezione/comprensione da parte del lettore, specialmente se a questa comprensione si aggiungono interazioni visive-cognitive o fisico-cognitive (fisico dove descrive l’azione del corpo). Attraverso performances, rappresentazioni, etc. con queste i Transcripts condividono la loro forma e funzione, con le loro immagini che diventano referenziali senza rappresentare la realtà e la loro funzione diventa generare una nuova forma di realtà.

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RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA Note: 1 Bernard Tschumi, Manhattan Architects. cfr : www.tschumi.com

Transcripts,

Bernard

Tschumi

2 Bernard Tschumi, The Manhattan Transcripts, London, Academy Editions, 1981, p.8 3

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Ibidem

nota 1


video IS THE MESSAGE “Perché il “messaggio” di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni , di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani.”1 Marshall McLuhan

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La comunicazione nel significato sociologico di trasmissione di un messaggio da una persona o un gruppo a un altro, richiede sempre l’esistenza di una certa volontà di interazione tra chi trasmette e chi riceve. La dimensione cui più frequentemente si fa ricorso è quella conoscitiva-descrittiva – il linguaggio è quello che rappresenta. Tuttavia il linguaggio ha anche una sua dimensione emotiva. Da questo punto di vista possiamo parlare quindi, anche di rappresentazione alludendo alle cose che oggettivamente appaiono e di comunicazione alludendo invece al significato del messaggio che comprende anche un riflesso emotivo. La tecnologia ha aiutato a cambiare le forme: i canali “naturali” di comunicazione hanno avuto una loro formalità e una loro evoluzione che riflette i mutamenti dei valori culturali della società. I mezzi collettivi di comunicazione hanno rimesso in voga termini come “massa”, che spesso sembrano avere connotati negativi e di fatto molti autori accusano i massa media di essere strumenti per la creazione di modelli di comportamento collettivi e quindi di annullare la personalità. Ma il sociologo canadese Marshall McLuhan ha elaborato il termine “medium” nel 1964 con saggio “Understandig 2 media” :il medium amplifica le potenzialità intellettuali, sensoriali e cognitive dell’uomo modificando di conseguenza le strutture della società. In quanto estensioni dei nostri sensi, i media costituiscono un sistema di interazioni che deve cercare un nuovo equilibrio ogni volta che sopraggiunge una nuova estensione. È qui che McLuhan afferma l’importanza di studiare i


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media non tanto in base ai contenuti che essi veicolano, ma in base ai criteri costitutivi con cui organizzano la comunicazione. E’proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende, per così dire, non neutrale, perchè essa stessa suscita negli spettatori comportamenti e modi di pensare, e porta alla formazione di una certa struttura mentale. Egli sostiene che l’azione dei media derivi sempre da un altro, di cui si serve, a cui fa riferimento, anche implicito, creando degli ibridi. I media istituiscono rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro, creando alterazioni della radio con la televisione o con l’articolo giornalistico, della televisione con l’immagine cinematografica, oppure applicando all’idea articolo per esempio la tecnica della sceneggiatura cinematografica, scoprendo così un ibrido, un incontro tra due media. Ogni volta che si stabilisce un contatto tra due forme di comunicazione, siamo, per cosi dire, costretti a un confronto diretto e tangibile con le nuove frontiere che si vengono a creare. Il confronto/scontro, per esempio, che nasce tra architettura e media avviene prima a un livello percettivo poi comunicativo; ma in che modo l’uno influenza l’altro creando, appunto, un ibrido? Facciamo riferimento non solo alle riviste, ai saggi, articoli di giornale, che interagiscono con la disciplina solo per un campo ristretto di addetti ai lavori; ma ci riferiamo soprattutto a media dove l’immagine, statica o in movimento diventa fondamentale, dove la comunicazione si sposta a un livello principale di dialogo, soprattutto con le masse, quindi l’architettura in un certo senso si fa mass-media. Tramite il video o il cinema, l’architettura si confronta con una necessità comunicativa immediata; non contemplativa come nella fotografia, ma istintiva, emozionale infondo, d’impatto ma non di dettaglio. Non che nel dettaglio non risieda la verità e validità di un progetto architettonico, ma bisogna in qualche modo scegliere cosa e come raccontare in base al supporto che si usa; un medium non esclude l’altro, ma lo completa, creando una comunicazione ibrida su più 50



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livelli. McLuhan sottolinea più volte la necessità di istruire scolasticamente i giovani a gestire e rapportarsi con i nuovi media, e questo, in architettura è un problema particolarmente sentito, a livello sia comunicativo che di rappresentazione (e coinvolgimento, aggiungerei io). Conoscere i mezzi con cui non solo comunicare, ma magari passare a un livello successivo, per affrontare e gestire il progetto d’architettura, senza diventare dipendenti dal sistema tecnologico, ma possedendolo e sfruttandolo proprio come medium in quanto tale. Per cui forse ...video is the message...?

Note: 1 Marshall McLuhan, Understandig media, 1964, trad. it: Gli strumenti del comunicare, Ed.Net, 2002, p. 16 2

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Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Op.cit


SAPER VEDERE BRUNO ZEVI

Occorre aspettare quasi la metà del secolo scorso per fare ordine su questo calderone di visioni, ideali, dogmi, elevati a determinazione univoca di un concetto. Decantata l’ondata delle avanguardie e del razionalismo, la critica architettonica entra in crisi e inizia ad attuare una lenta ma inesorabile rivoluzione del proprio metodo, una radicale (ri) definizione del proprio oggetto di studio. Bruno Zevi affronta il problema in maniera approfondita dando un forte impulso alla nascita di nuove teorie, talvolta polemiche e contraddizioni: Saper vedere l’architettura di, pubblicato nel 1948.5 53

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Architettura: Curiosamente su Wikipedia1 (tanto per essere pratici!) si può trovare un bel po’ di definizioni che, lette una dopo l’altra, in qualsiasi ordine,anche sparso, possono regalare un bel sorriso, prima, e un pizzico di amarezza, poi. Una sensazione ambigua, che deriva dal senso di totale incertezza sulla questione e dall’improvvisa consapevolezza che esso, in realtà, sia ben più difficile di quanto sembri. Nei secoli, si avvicendano, definizioni che necessitano di mettere in gioco concetti come corpi, pesi, costruire, fabbricare, forza, godimento dello spirito, gioco di volumi, chiarezza costruttiva, che centrano, tutte in modo diverso, solo alcuni aspetti del problema, senza essere né esaustive, né precise. Tra qualche eccesso di poesia (Johann Wolfgang von Goethe: “Io chiamo l’architettura musica congelata”)2 o di formalismo (Le Corbusier: “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”)3, si può apprezzare il tentativo, tra gli altri, di William Morris di vedere invece nell’Architettura un insieme di relazioni di ben più ampio respiro, così esteso da identificarsi con “l’intero ambiente della vita umana”4, che tuttavia, se da un lato coglie la totalità del potenziale dell’oggetto, dall’altro se ne allontana.


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La scelta di inserire questo libro all’interno della ricerca nasce prettamente dall’esigenza di approfondire riflessioni sullo spazio vissuto e lo spazio astratto. Tra le righe di questo testo infatti si può notare una sorta di dicotomia interna, una divisione tra riflessioni empiriche sullo spazio in quanto entità fondante dell’investigazione architettonica; spazio astratto, spazio come contenitore dell’architettura stessa, giustificandone poi l’esistenza e la sua fondatezza con il concetto di spazio concreto vissuto dall’uomo, spazio che ragiona intorno all’uomo, spazio in cui l’uomo fa esperienza. Fondamentalmente per imparare a capire l’architettura - affermava Zevi - occorre, innanzi tutto, comprendere quale sia la sua specificità; l’unico attributo costante dell’architettura è la caratteristica di determinare uno spazio nel quale l’uomo vive e opera. L’Architettura non è (solo) corpi, costruzioni, edifici, allora che cos’è veramente? dal secondo capitolo: ”[…] Abbiamo detto che le quattro facciate di una casa, di una chiesa, di un palazzo, per belle che siano, non costituiscono che la scatola entro cui è racchiuso il gioiello architettonico. La scatola può essere finemente lavorata, arditamente scolpita, gustosamente bucherellata, può essere un capolavoro, ma resta una scatola; esiste oggi l’imballaggio, una tecnica e un’arte di fare i pacchi, che si insegna nelle scuole industriali e di commercial design, ma nessuno ha mai pensato di confondere il valore della scatola col valore di quello che contiene. In ogni edificio il contenente è la cassa muraria, il contenuto lo spazio [...].” Spazio. Ecco la risposta! E’ lo spazio, dunque, il vero protagonista, la vera essenza dell’Architettura. E’ di fondamentale importanza saper spostare l’attenzione dal contenente al contenuto, saper capire che il compito dell’architettura è creare spazio, non contenitori. La tesi di Zevi comportava comunque molti problemi 54



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critici interni, nel definire principalmente lo spazio come spazio interno, escludendo quindi una lunga parte della produzione architettonica del passato, come il tempio greco, prevalentemente scultoreo e rivolto verso l’esterno. Oppure che un buon edificio fosse solo la somma dello spazio interno e di alcuni attributi secondari relativamente indipendenti, tutte riflessioni che creano non poche contraddizioni. L‘aver centrato la discussione sullo spazio però, rappresenta a mio avviso, un mutamento di punto di vista importante. L’attenzione si sposta, infatti, da ciò che normalmente percepiamo a ciò che non si vede, ma che è fondamentalmente ciò che ci circonda. Lo spazio - come il nulla - è, infatti, un concetto trappola che non si riesce a definire che in negativo. Il vuoto è l’assenza del pieno. La negazione della materia. Ciò che non ha corpo. Ma proprio perché lo definiamo in negativo - come qualcosa che non è - lo spazio non dovrebbe esistere. Come fa ad esistere quindi ciò che non ha qualità fisiche? Noi in architettura, pensiamo allo spazio assoluto sempre e comunque come ad una porzione di spazio: già basta questa semplice considerazione a farci vedere l’architettura in termini di contenuto e non di contenitore. Questo è ciò che distingue l’Architettura dalle altri arti figurative. Se come nella pittura e nella scultura anche nell’Architettura si può parlare di valori plastici (massa, volume, proporzioni), pittorici (luce, contrasto, colore, trama) o di valori mutuati da campi semantici propri di altre discipline quali la musica e il cinema (ritmo, movimento), solo nell’ultima si può parlare veramente di spazio, l’unico carattere specifico di questa forma d’arte. Il libro di Zevi prosegue, spiegando le ragioni per cui i consueti modi di rappresentazione dell’architettura siano inefficaci nel trasmettere l’essenza, non tralasciando di analizzare la tecnica. Alla luce di questa critica, la proposta sembrerebbe 56


quella di ideare un nuovo modo di rappresentare lo spazio – anzi, sarebbe più corretto dire un nuovo modo di farlo.

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RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

E’ questo il momento, perciò, di tornare all’origine, al nocciolo, all’essenza dell’Architettura e del suo compito. Se spazio è la parola chiave, occorre trovare l’altro termine o entità che insieme ad essa completi la definizione, che ancor più consenta di precisare in modo univoco e specifico questa essenza. Ebbene quel termine è Uomo. Ovvero, l’utente, colui che vive e fa vivere lo spazio architettonico,6 colui in cui si muove e in cui compie le sue funzioni. La creazione di spazio, compito ultimo dell’Architettura, non può assolutamente prescindere dall’uomo e dalla sua esistenza fisica. E’ l’uomo che con la sua presenza corporea stabilisce tutte le relazioni fisiche con lo spazio architettonico, che con la coscienza del proprio corpo, delle sue dimensioni, della sua capacità di movimento e percezione determina ogni rapporto con la realtà spaziale da lui creata. E’ ancora (e lo sarà sempre) attuale il celebre aforisma di Protagora: “L’uomo è misura di tutte le cose”.7 Il formalismo, come concezione che vuole a tutti i costi ridurre l’architettura a una serie di rapporti matematici, armonie, simmetrie, e postula l’osservatore al di fuori dell’oggetto, in un punto di osservazione distaccato e assoluto, ne risulta conseguentemente indebolito. Lo spazio, infatti, per quanto si voglia ridurre a cosa astratta – “intellettualizzandolo” sotto forma di rapporti che esistono in sé e per sé - è però sempre assunto concretamente, come spazio della vita. Coem abbiamo visto Tschumi ha ben investigato questo aspetto. Secondo lui addirittura la dimensione percettiva coesiste e si oppone a quella intellettuale. Da un lato, infatti, abbiamo relazioni con un ambiente che ci colpisce attraverso i sensi e che non concettualizziamo ma viviamo, dall’altro cerchiamo di farne un’esperienza riducendolo a modelli astratti e geometrici.


RACCONTO BREVE DI UNA RICERCA

Ma per comprendere veramente un’opera architettonica occorre essere ben consci della nostra presenza corporea, cambiare continuamente il proprio punto di vista, entrare, uscire, salire, scendere, avvicinarsi, allontanarsi, cercare di percepire la quarta dimensione, vivere lo spazio, nonostante ciò mancherà sempre qualcosa, perché, per sua intrinseca natura, non si può mai essere sazi di una visione. Come si vede, dunque, saper vedere l’architettura non è affatto cosa facile. Equivale a saper vedere lo spazio.

Note: 1

http://it.wikipedia.org/wiki/Architettura http://it.wikiquote.org/wiki/Architettura

2

ibidem

3

Le Corbusier, Verso un’architettura, Milano, Longanesi, 2002

4

William Morris 1881

5 Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Saggio sull’interpretazione spaziale dell’architettura, Einaudi, Torino, 1948. 6

ibidem

7 Protagora, fr.1, in Platone, Teeteto, 151d-152e (Il Teeteto è un dialogo di Platone, appartenente al periodo della vecchiaia, in esso si ribadisce che è impossibile considerare la scienza vera se non in riferimento all’essere, cioè l’idea.

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La Musa dell’architettura è l’immaginazione, che coniugata alla capacità di progettare, può riportare l’uomo all’antica capacità di lasciar parlare i luoghi, lasciare che il luogo sia ciò che vuole essere. L’architettura infondo, trasforma l’anima in luoghi, ma il nostro modo di abitare i luoghi può trasformare l’anima di entrambi. La città, è per così la casa di Mnemosyne,1 della Memoria e delle sue figlie le Muse, esse sono i veri fantasmi della civilizzazione che occupano il suolo della città. Attraverso il demone dell’immaginazione possiamo auspicarci di ritornare ad amare le nostre città, i luoghi che determinano il nostro abitare quotidiano, e forse riamando i luoghi che abitiamo per così tanto tempo, osservandoli con un occhio più amorevole, riusciremo anche a integrare meglio noi stessi con i tempi della città. Ridimensionando il sentimento d’impoverimento, di degrado e di frantumazione che spesso proiettiamo nei luoghi, ridimensioneremo anche il nostro frantumato e degradato luogo interiore. Un altro strumento del progetto di questa tesi è appunto la narrativa, l’immaginazione, la commistione di un linguaggio scritto, con un linguaggio costruito, sfruttando la sinergia che nasce dalle storie delle persone, fantastiche o reali che siano, modificano lo spazio, modificando la nostra mente.

“RICORDATE sempre che le parole, quelle giuste, quelle vere, possono avere lo stesso potere DELLE AZIONI”.

Raimond Carter

2

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NARRAzione

Scrivere su un foglio bianco E VUOTO COSTRINGE A RALLENTARE e permette di seguire Un’idea prima che il pensiero, cosi veloce, ne fornisca un’altra


NARRAzione

Il modo di scrivere paradigmatico cerca le cause, rispetta i requisiti di coerenza e di non contraddizione, si traduce nella capacità di convincere l’interlocutore attraverso l’argomentazione, dunque nel giornalismo corrisponde a un editoriale, un documentario critico e di denuncia, fatti per esporre una tesi o per contrastarne un’altra. La modalità narrativa, al contrario, si occupa di contenuti non necessariamente verificabili, riguarda le vicissitudini umane e riguarda i racconti, le cronache, i reports, le relazioni, tutti caratterizzati dall’esser narrativi e distinti l’uno dall’altro attraverso il rapporto con la verità dei fatti o, appunto, con la verosimiglianza. Ogni genere di scrittura, però, fa emergere la modalità cognitiva e incentiva la comprensione di sé obbligando a dare struttura e organizzazione ai pensieri. Ogni genere di scrittura costringe a rallentare, permette quindi di seguire un’idea prima che il pensiero, più veloce, ne fornisca un’altra. E non si tratta di una faccenda secondaria, anzi: secondo Albert Einstein, “non hai veramente capito qualcosa, se non sei in grado di spiegarla a tua nonna”. Chi scrive con autenticità, dovrebbe saper spiegare a se stesso, e al suo pubblico, che intenzione lo muove e che vuole fare con il suo atto creativo, proprio come i Trovatori provenzali del XII secolo. E’ quello che si chiama “chiarire il luogo di enunciazione”, ovvero da quale posizione di chi scrive, con quale motivazione e a che scopo. Non c’è bisogno di esprimerlo esplicitamente, bastano solo le parole, le immagini che scegliamo, che scartiamo, e l’ordine nel quale le disponiamo. A questo scopo, forse – e anche un po’ per divertirsi

Raymond Queneau

- scrittore, poeta e matematico francese ,ci ha lasciato un testo che dimostra come uno stesso fatto possa essere osservato, e dunque narrato, in almeno novantanove modi diversi.3 Il libro si intitola Esercizi di stile e prende le mosse da un banale litigio su un autobus che all’autore serve per esercitarsi su diversi stili di scrittura e offrire al suo pubblico la possibilità di riflettere 64



NARRAzione

sull’operazione della scrittura, sul lessico, sulle invenzioni linguistiche, sulle figure retoriche, sui sinonimi, sull’ironia, sulla costruzione dei periodi. Insomma, su tutti gli elementi della lingua, del linguaggio, che concorrono a formare uno stile narrativo. L’architettura è narrazione esattamente come la letteratura può essere considerata architettura. L’una e l’altra hanno necessità di una struttura, che risponda al rispetto di regole e sia al tempo stesso portavoce spesso di una intima soggettività. Si abita un luogo come si può abitare un libro, ciò che racconta, le atmosfere che in esso si dispiegano. Abitare significa avere coscienza della presa esistenziale, significa riuscire a orientarsi in un ambiente e ad identificarsi con esso. Capita spesso che ci si riferisca genericamente a narrativa per un romanzo od un racconto, se non si riesce a trovargli una ben definita classificazione. Teniamo comunque conto che all’interno delle forme narrative possono trovarsi generi come quelli del fotoromanzo (un romanzo per immagini) o degli screenplay (le sceneggiature teatrali, cinematografiche o televisive). Confluiscono in questa sezione quindi spunti di sceneggiatura, romanzo, scrittura creativa, poesia, script pubblicitari; parti integranti di un bagaglio culturale che cerco di portare avanti da anni, probabilmente dal giorno in cui imparai a leggere. La presenza di questo breve ma significativo paragrafo, sta a sottolineare l’ulteriore volontà di integrare ogni forma possibile di narrazione, di farla confluire il più organicamente possibile in un discorso finale di realizzazione progettuale. E’ quasi impossibile fare citazioni precise di romanzi, saggi, articoli, poesie, perché si tratta veramente di un operazione di filtraggio letterario e narrativo globale. Narrazioni a più livelli, che vanno a confluire in un linguaggio forse nuovo, o forse no; forse da sempre conosciuto da tutti noi, ma mai rielaborato esternamente, in una disciplina al di fuori degli schemi precostituiti. 66


Truman Capote si lega ad Hitchcock, o a Tschumi; Calvin e Hobbes abbracciano Tati e il suo Monsieur Hulot, la velocità e l’immediatezza di una sceneggiatura o la capacità di scrivere uno script rincorrono i corti di Paris je t’aime piuttosto che il ritmo altalenante de L’odio di Mathieu Kassowitz. La narrazione, il racconto sono il filo conduttore di una trama di ricerca potenzialmente infinita, che insegue sempre i mutamenti della cultura contemporanea, e ricerca legami con un passato sempre presente. Ho semplicemente cercato di misurare le capacità d’interazione e creazione tra modalità narrative tradizionali e quelle dei cosiddetti media, filtrando il tutto attraverso la lente architettonica, traendone il meglio e il più, al fine di proporre non una ricetta, non una soluzione, ma un nuovo spunto. La funzione del narrare è secondaria rispetto all’informare o esprimere.

Note:

2 Raymond Carver (1938 – 1988) agli allievi dell’università di Syracuse, NY. Docente di scrittura creativa e poeta. 3 Raymond Queneau divenne famoso in Francia con la pubblicazione nel 1959 del romanzo Zazie dans le métro e con il successivo adattamento cinematografico di Louis Malle del 1960 ai tempi della cosiddetta nouvelle vague.

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NARRAzione

1 Mnemosyne: nella mitologia dell’antica Grecia è la personificazione della Memoria, è figlia di Urano e di Gaia, appartiene al gruppo delle Titanidi. La leggenda dice che da nove notti di unione con Zeus, nacquero le nove Muse, che non sono soltanto le cantatrici divine, ma presiedono al Pensiero, sotto tutte le sue forme: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia.





DIVERSE ARTICOLAZIONI Di una Grammatica compositiva: L’estetica del nostro tempo è essenzialmente l’estetica del montaggio. Cosi il “frammento” diventa l’elemento base di cui è costituita la realtà. Un frammento non è, per definizione, una realtà autonoma, ma parte di un racconto; il montaggio è quindi quell’operazione tecnico-linguistica che ci consente di assemblare frammenti separati che ritrovino un senso soggettivo, oggettivo, o comunque un senso. L’arte di assemblare componenti discrete non è nuova, fa parte in un certo senso della cultura dei media, della cultura del racconto: del fumetto, del cinema, della pubblicità, e in certi casi anche della scrittura (vedi l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, piuttosto che il già citato Esercizi di stile di Raymond Queneau). Nelle diverse culture ci si è servito spesso di frammenti, anche e soprattutto nella costruzione di artefatti più complessi, fisici e reali come mosaici, vetrate policrome. L’architettura stessa è un assemblaggio arbitrario di diverse componenti funzionali, previste in un piano di montaggio. Ma il significato più attuale che attribuiamo al montaggio è quello derivante dal cinema. Sin dalle origini il cinema utilizza la concatenazione, per fini narrativi, di sequenze girate separatamente, in momenti e in luoghi diversi.

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STORYTELLERS

#1 cinema Come sempre accade con la nascita di un nuovo medium, il cinema attinge a modelli operativi e concettuali preesistenti. Non a caso due delle tecniche di montaggio tipiche del cinema fanno riferimento a tecniche di montaggio precedenti ed esistenti a prescindere dal mezzo: il découpage e il collage. La logica del découpage è quella che cerca di preservare l’unità, ricostruendo continuità nel tempo e nello spazio. Il suo obbiettivo è la credibilità delle situazioni narrate. E’ la logica del cinema classico americano e di buona parte del cinema contemporaneo. La logica del collage viceversa, introdotta dall’avanguardia russa, non solo non nasconde la discontinuità, ma ne fa la propria cifra stilistica. La discontinuità è funzionale all’espressione. L’accostamento narrativo di elementi separati nello spazio e nel tempo, avviene attraverso associazioni “soggettive”, che rientrano nel campo della piena responsabilità creativa. Per Orson Wells, per esempio, il montaggio è vero momento di composizione: “non posso credere che il montaggio non sia un fatto essenziale per un regista, è il solo momento in cui controlla la forma del film(...)” Il montaggio quindi non è solo una tecnica né la norma di un linguaggio , ma un mezzo di espressione. Il film Babel di Alejandro Gonzales Inarritu, è un esempio dell’usa creativo della discontinuità nonché della maturità espressiva del montaggio cinematografico. L’autore crea un tessuto narrativo basato su frammenti di più storie marginalmente correlate. Le diverse azioni si svolgono in luoghi diversi e culture diverse, in un tempo che è lo stesso ma che viene frammentato in un puzzle narrativo. Babel è una precisa rappresentazione che il regista ha del mondo, della sua complessità, sociale, politica e 72


culturale. Il montaggio è secco, veloce, senza pause, né riflessioni, che ha i ritmi della pubblicità, e che richiede allo spettatore quasi un ulteriore operazione di ri-montaggio mentale dei frammenti del racconto a cui ha assistito. Il regista in questo caso usa il montaggio come metafora della società e della vita contemporanea. Oggi non è solo il mondo dell’immagine in movimento che necessita di relazionare tra loro elementi separati. La comunicazione visiva, l’editoria, l’arte e l’architettura stessa, utilizzano tecniche di produzione che sono concettualmente simili al montaggio filmico. Il concetto di montaggio va oggi in una direzione in cui il bagaglio di conoscenze, di esperienze di abilità tecniche, sono completamente diverse da quelle del passato ama allo stesso tempo ne sono diretta evoluzione e conseguenza.

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Dall’alba del cinema, quando il controllo del montaggio spettava generalmente all’esercente, al cinema delle avanguardie storiche dove il montaggio diventa per la prima volta oggetto di riflessione teorica, ma con il cinema classico che trova una sua sistematizzazione pratica nelle grammatiche filmiche ad uso dei registi di questo periodo. Se poi – come è noto – nei film della Hollywood classica il processo di scrittura del film tende a farsi invisibile per favorire l’identificazione con i personaggi, il cinema moderno (categoria entro la quale farei rientrare il Neorealismo, la Nouvelle Vague e il cinema di Hollywood) mette in discussione il montaggio “invisibile”. Una linea, questa, che viene seguita ed esasperata infine dal cinema postmoderno, il cui montaggio ludico è funzionale a rendere più intensa l’esperienza cinematografica: il montaggio rapido e tecniche quali lo split-screen, diventano strumenti di un cinema che si rivolge alla mente e al corpo dello spettatore, che gli chiede di godere delle forme e dei colori, di stringersi nei ritmi frenetici del montaggio; in definitiva, di immergersi nell’immagine.


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Focalizzando invece un po’ più l’attenzione sul punto di vista espressivo, il cinema, nel corso del secolo scorso, affronta lo spazio urbano, direi in due modi nettamente opposti, ma che spesso dialogano all’interno di una narrazione filmica. C’è la città come elemento formale – cinematografico e la città come contenitore sociale. Nel cinema delle origini l’aspetto architettonico è spesso posto in secondo piano, quasi come una quinta teatrale, ma non sempre; per esempio in alcuni film di Buster Keaton come The cameraman del 1928,1 l’uomo sembra nato per muoversi o perdersi nello spazio, quindi ne sono entrambi protagonisti allo stesso livello. Non a caso, proprio in The Cameraman chi riprende gli avvenimenti non è il protagonista (Keaton) ma una scimmia che sta con lui, per cui la città diventa soggetto insieme all’attore. Stesso principio che possiamo leggere in Deux ou trois choses que je sais d’elle di Jean Luc Godard(Due o tre cose che so di lei 1967) in cui veramente “elle” cioè lei, è Parigi, la città. Film che racconta le connessioni tra architettura, vita sociale e cinema, dove in primo piano emerge una città rigorosamente funzionalista, degli HLM parigini (habitation à loyer modéré-abitazioni ad affitto moderato). La città viene descritta sia oggettivamente che soggettivamente, come quando lo scenario urbano è visto dall’interno, al di là dei vetri. Ritratto organico di una donna e di una città. Il montaggio, con folgoranti inserti documentari, è caratterizzato da una spiccata sensibilità per la messinscena di un luogo, un tempo, (celebre la ripresa dall’alto della tazzina di caffè). Una lezione di serietà e di inventiva per chiunque voglia esplorare un luogo, un tempo e un medium, Due o tre cose che so di lei disegna un insieme compositivo plastico e dinamico, un organismo vibrante in cui esseri e cose possano vivere in accordo tra di loro. Un processo filmico vivo, in grado di portare Juliette (e con lei lo spettatore) a sostituire con uno sforzo d’immaginazione l’esame di oggetti reali. Oltre a imbastire un montaggio di particolare musicalità, il 74



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sibilo di una voce appena accennata, e orchestrare un ritmo fluidamente coordinato, in Deux ou trois choses que je sais d’elle Godard esalta gloriosamente la figura della panoramica circolare, elevandola a forma espressiva d’eccellenza, struggente abbraccio visivo e implacabile giro d’orizzonte sugli uomini e le cose. Per ripartire da zero, finalmente in armonia: “Le paysage c’est pareil qu’un visage”. Il cinema della Nouvelle Vague è autoreferenziale (metacinema), è imprevedibile e si apre alla città, alla strada, all’esterno. La Nouvelle Vague è un movimento composito, a tratti contraddittorio, non ha un manifesto programmatico, non ha regole da seguire. Il video fa così il suo ingresso nel mondo delle pratiche artistiche: diventa dunque un’alternativa in grado di analizzare e decostruire le forme convenzionali della comunicazione cinematografica e mediatica. Ma cinema e televisione – come dimostra la storia degli ultimi decenni – propongono realtà divenute nel frattempo esse stesse “mise-en scène”, fiction, costruzioni immaginifiche derivate dalla principale forma d’esperienza con la quale ci relazioniamo oggi, ossia l’immagine. In particolare l’immagine tecnologica (fotografia, cinema e video), grazie alla definizione di realismo che la contraddistingue, inscena un “teatro del reale” che nella coscienza dello spettatore va ben oltre i limiti dell’inquadratura, sedimentandosi nell’esperienza quotidiana che diventa una sorta di “fuoricampo”, sempre e comunque indotto dalla spettacolarità dello schermo. Parafrasando Guy Debord lo spettacolo non è più “un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”.2 L’immagine video indaga spesso in modo critico il linguaggio contemporaneo relazionandolo con la spettacolarizzazione della realtà, del cinema e della televisione; media che da tempo propongono delle pseudo realtà, contenitori di micro e macro eventi costruiti sull’illusione. Tra reality-show, fiction, eccesso, tv-realtà e informazione, il video mantiene una propria autonomia 76


critica: tra rappresentazione del mondo e produzione di senso restano i cardini di questa espressione artistica, nonostante le contaminazioni e le commistioni linguistiche con il cinema e la televisione che anzi diventano esse stesse modalità d’intervento critico.

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Un intervento critico, che nella sua chiave più ironica, trova sicuramente ispirazione e fondamento anche nel lavoro delregista francese, Jacques Tati come in Mon Oncle (1958) e Playtime (1967). Playtime è un film narrativo e di finzione, non un documentario d’architettura, che, grazie però ad una particolare interpretazione del visivo e del sonoro, presenta e approfondisce molti degli strumenti che il mezzo cinematografico ha a disposizione per parlare di spazio architettonico, é un punto base della ricerca tecnica e linguistica di Jacques Tati, regista che in tutta la sua opera ha dimostrato una particolare sensibilità nei confronti delle trasformazioni territoriali della Francia del dopoguerra e dei comportamenti umani all’interno degli insediamenti realizzati durante la massiccia opera di urbanizzazione degli anni cinquanta e sessanta. Tativille, imprigiona quasi l’uomo, gli esagerati palazzi di cemento si contrappongono alla Parigi sognata dai turisti americani. Tati possiede qualcosa di più, entra in scena lo stile, il linguaggio della ripresa che si fonde con il linguaggio dell’architettura, e la sottile ironia dei gesti delle azioni, distoglie quel senso di velata malinconia, un po’ retrò, dei “bei tempi andati” che oggi può sembrare fuori luogo. “Playtime” è del 1967, in esso non è una singola città ad essere al centro della narrazione bensì lo spazio della società in generale, che corrispondeva all’epoca, in architettura, all’ ”International Style”. Molti anni prima delle riflessioni del suo connazionale Marc Augè, Tati rende evidente la trasformazione di senso di molti luoghi della città contemporanea, che l’antropologo francese definirà trent’anni dopo “non luoghi”. Di questi “non luoghi”, quali ad esempio aereoporti e centri commerciali, Augè mette in rilievo l’assenza di


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identità, relazionalità e storicità, come del resto fa Tati nel film, assumendoli a paradigma di tutta la condizione della vita del suo presente. Il regista, con grande ironia, ci racconta gli spazi costruiti dall’architettura moderna nella sua versione più astratta e funzionalista, con un intento polemico ed un punto di vista da francese di provincia, abituato agli spazi a misura d’uomo e fortemente caratterizzanti delle piccole città. Ma ne risulta comunque un saggio contro il falso efficientismo di un certo stile di vita e nei confronti del tecnicismo dell’architettura dell’epoca, che da lì a qualche anno sarebbe stata criticata proprio a partire dall’assenza d’identità. Ma al di là di questo, in modo cinematograficamente magistrale, Tati ci dimostra come sia possibile fare un racconto dello Spazio Architettonico, rendendolo tangibile attraverso un uso sapiente delle riprese e dei tempi cinematografici. E’ interessante notare che la maggior parte degli ambienti presenti nel film siano delle ricostruzioni, il che dimostra l’intenzionale attenzione del regista nei confronti del racconto di un determinato spazio e stile architettonico, nonchè la vastità e la perizia della costruzione scenografica. In Mon Oncle, Tati non intende demolire l’estetica purista di villa Savoje, ma, al contrario, la disarmonia esibita del “lecobusierismo” (ed altri ...ismi) in linea diretta o collaterale, divenuta alla moda in un contesto sociale gia svuotato di autonoma identità. Non per niente la casa non è bianca, ma grigia. Non per caso la semplicità nuda riservata dei “maestri” del moderno muta in ossessione-ostentazione iperdecorativa – come il cancello d’ingresso, o i vialetti del giardino. Tati, non spara nel mucchio, mira benissimo. E fa centro anche (o soprattutto) a più di quarant’anni di distanza. Chi si distacca dalla linea critica, ironica, intellettuale della ripresa e del montaggio, di cui ho parlato finora, è Alfred Hitchcock. Hitchcock compie scelte decisamente inusuali, perché da almeno due decenni il montaggio era ritenuto l’elemento 78


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che caratterizza il cinema e lo distingueva, tanto che la scuola sovietica degli anni venti, come gia detto, lo considerava il principale momento creativo nella realizzazione di un film (si pensi in particolare a Dziga Vertov e alla sua opera L’uomo con la macchina da presa del 1929). Se però si tiene presente che già nel 1941 il piano sequenza viene utilizzato e reso celebre da Orson Welles in Citizen Kane (it. Quarto potere, 1941), allora l’operazione di Hitchcock risulta non tanto una rottura isolata con la pratica ormai consolidata del montaggio, quanto l’espressione più completa di una tendenza già iniziata da altri autorevoli cineasti. In Hitchcock il primo stacco di montaggio non dà avvio solamente al piano sequenza unico ma anche ad una complicità visiva tra regista e spettatore. Questo è l’elemento chiave che fa spiccare questo regista americano all’interno di questa ricerca filmografia. Hitchcock, infatti, rende lo spettatore testimone oculare, ma testimone muto ed inutile perchè, pur sapendo quanto è accaduto, non può intervenire in alcun modo sulla storia; ma sebbene questa sia la condizione generale dello spettatore davanti al film, è fondamentale per incentrare lo sviluppo narrativo del film sull’equilibrio delicato della suspense. Hitchcock, però, è un narratore troppo raffinato per sorpendere in modo banale lo spettatore, perciò preferisce ricorrere al meccanismo della suspense che culmina in un’inquadratura che sfrutta magistralmente il fuori campo e la profondità di campo. Faccio riferimento soprattutto riferimento a Rear window (La finestra sul cortile 1954), sia per la tecnica usata sia per la situazione spaziale molto simile all’ambito urbano da me poi affrontato nella fase progettuale, in cui la facciata della casa, quanto di più anonimo e ripetitivo si possa immaginare, diventa microcosmo di vite. La città passa attraverso questa casa,l’architettura diventa anche qui contenitore sociale. Le finestre sul cortile sono una moltiplicazione dello schermo. Attraverso la soglia si spalanca il sipario ad uno spettacolo inaspettato. Il palazzo di fronte diviene il set di un teatro


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immaginario. E ad ogni appartamento è di scena una commedia differente. Ma al di là di quelle finestre si frantuma quell’effimera barriera che esiste tra pubblico ed attori. Ogni riservatezza è svelata. Lo spettatore può scegliere quale quotidianità spiare. La struttura narrativa del film è perfetta nel suo incedere e l’uso dei suoni (sia musica che rumori) è esemplare per il contributo che danno alla costruzione della tensione emotiva. in fondo, siamo tutti dei voyeur! L’estetizzazione che passa attraverso il montaggio, debitrice dello stile della Nouvelle Vogue, debitrice del bianco e nero e dell’indetreminatezza di Hitchcock, o della volontà di denuncia di Godard è l’elemento essenziale della narrazione del singolare e inquietante La Haine (1995, L’odio) di Mathieu Kassowitz. “Conosci la storia di quel tale che si butta da un palazzo di cinquanta piani? Ad ogni piano, mentre cade, continua a dirsi: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. Questo, per dire che il problema non è la caduta, ma l’atterraggio...” “L’odio” è la descrizione di quella caduta: alla quale tutti assistiamo, non si sa se più impotenti che indifferenti. Ambientato in una delle tante banlieue parigine, e nemmeno peggiore di tante altre, descrive gli scontri fra i giovani che la abitano (quasi inutile dire che sono multirazziali, disoccupati, rassegnati) e la polizia. “L’odio” non è dunque un film nuovo nel tema, nell’universo, nei personaggi trattati; ma piuttosto incredibilmente inedito e comunque assolutamente riuscito nel linguaggio usato. Perchè non si limita ad assistere e descrivere, ma tende costantemente, determinatamente a partecipare: non un film “per”, ma un film “contro”. L’aspetto che balza evidente agli occhi è l’estrema naturalezza degli interpreti, avvicinati con un’intimità tale da farne non degli esempi di comportamento, ma 80


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delle autentiche testimonianze di personalità. Personalità diverse, di tre giovani che vengono seguiti per 24 ore, e che magnificamente riassumono i tre toni che reggono il film: la calma, la disperata lucidità di Hubert, il boxeur africano,perfettamente conscio che la sola soluzione sarebbe quella di andarsene. La rabbia compressa, dell’ebreo Vinz, alla quale si contrappone l’umorismo di Said. Ma Kassovitz non si limita a seguire questi comportamenti, a fare del realismo di osservazione: costruisce il proprio materiale veridico grazie ad uno sguardo cinematografico di sorprendente efficacia. Basato innanzitutto sulla filastrocca dei dialoghi, sull’architettura dei suoni urbani, sulla splendida fotografia di un bianco e nero che sa trovare il giusto, difficilissimo equilibrio tra la resa naturalistica e la possibilità di evadere dallo schematismo che sempre minaccia questo genere di ricerca. Attraverso l’astrazione, il fantastico, lo humour. Parigi appare come un miraggio, vista con la tecnica straniante del “travelling” avanti unito allo zoom indietro, come a voler dire “così vicina, così lontana”. La capacità, il coraggio di voltare le spalle per un istante all’urgenza del dire, per osservare ciò che accade accanto. E che è poi un modo di evitare l’aneddoto, di guardare le cose con un minimo di distanza, di relativizzare, di fare storia invece che fare reportage. “L’odio” si costruisce allora sulla traccia di quello sguardo duro ed intransigente, maturo e saggio, rabbioso ma anche disincantato che appartiene alla gioventù urbana transalpina. Per concludere questa breve analisi filmografica e atipica sugli sguardi che hanno significativamente influenzato qesto lavoro, vorrei portare l’attenzione su un esempio nettamente più vicino all’ambito archiettonico: Koolhaas HouseLife. Un’esperienza eccezionale di full immersion nella vita quotidiana di uno dei capolavori dell’architettura contemporanea degli ultimi anni: La Casa a Bordeaux, progettata nel 1998 da Rem Koolhaas. Diversamente dalla maggior parte dei film d’architettura, 82


questa pellicola non si concentra solo a “spiegare” l’edificio, la sua struttura e il suo virtuosismo, ma lascia libero lo spettatore di entrare nell’invisibile bolla di quotidiana intimità di una cosi famosa icona architettonica. Come ogni casa, la Casa a Bordeaux è un luogo di pluralità con tutti i suoi caos, la sua usura, e i suoi cambiamenti. Situata ovviamente a Bordeaux, in Francia, questa casa è come una stazione spaziale in attesa di essere lanciata in orbita. Guardandola, ci si può aspettare che gli X-Men entrino in salotto in qualsiasi momento. Tuttavia, ha anche una calda e soleggiata, qualità che la rende assolutamente sorprendente. Koolhass Houselife è un film che cattura perfettamente queste qualità, ma ne aggiunge un’altra, di più pratica dimensione, con cui mostra la visione della casa high-tech dal punto di vista di Guadalupe Acedo, la governante e la persona che deve effettivamente a prendersi cura di tenere tutto questo incredibile manufatto vivo.

Note:

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1 Il lavoro di Ila Beka e Louise Le moine (i registi) ci offre un ritratto di cambiamento reale e di vitalità di uno di quei monumenti che riteniamo (almeno noi architetti!) siano immortali. Questo si realizza attraverso le storie e le quotidiane faccende di Guadalupe, e le altre persone che si occupano dell’edificio. Seguendo, spiando e interagendo con Guadalupe, fioriscono una serie imprevedibile di sguardi sugli spazi e sula struttura dell’edificio. Un vero e proprio esperimento che presenta un nuovo modo di guardare l’architettura e amplia anche qui, l’ambito della sua rappresentazione. Esplora con ironia il rapporto spazio-uomo. Un film d’architettura diverso dalla celebrazione dell’icona. I registi volevano parlare di uomini e non solo di spazi. E, senza volerlo, si sono trovati di fronte a una domanda: ma cosa sta chiedendo oggi l’architettura agli esseri umani?


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#2 when tomorrow comes: architettura e videoclip Si sta parlando quindi di narrazioni. Di racconti audiovisivi dedicati all’architettura. Ma cosa vuol dire fare video d’architettura? Dare una risposta univoca sarebbe riduttivo se non insensato. Ad ogni modo, io una mia idea me la sono fatta. Quando la codificazione di un linguaggio, o la messa a punto di una metodologia espressiva, muove i primi passi, essa risente in modo determinante dei linguaggi che l’hanno preceduta, o l’hanno vista nascere, facendole un po’ da balia. E’ stato così per la pittura nei confronti della fotografia, per la fotografia nei confronti del cinema, del cinema verso i videogiochi o i videoclip, dei fumetti per i videoclip, e cosi via anche per l’architettura nei confronti dei videoclip. In genere quando si vuole sminuire o criticare un film lo si accusa di avere un’estetica da videoclip, intendendo un montaggio spezzato, accelerazioni e ralenty improvvisi, riprese che fungono da semplice accompagnamento alle musiche, volentieri condite con primi piani. Capita a volte però di vedere dei capolavori che, secondo questa tesi, dovrebbero anzi influire sulla produzione di video d’architettura, sulla collaborazione tra registi di video e progettisti. E’ il caso dei video del gruppo rivelazione dei Sigur Ros, ogni video narra una storia compiuta con delle scene commoventi ed emozionanti, affrontando grandi temi. Le atmosfere sono speso sospese come nei ricordi lontani o nei sogni senza tempo, grazie ad una fotografia mai invadente, ma sempre con un proprio linguaggio poetico riconoscibilissimo fatto di ralenty (non spezzati) primi piani o campi lunghissimi in cui si vede un’ Islanda (loro terra d’origine) magica. Quando il rock comincia a parlare francese invece la nouvelle vague dei “videoclippari” deposita sul bagnasciuga dell’arte il grande talento di un giovanissimo autore di nome Michel Gondry che, in 84


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attività dal 1986, dimostra subito di avere le idee piuttosto chiare. Pur nella generale povertà, infatti, già nei primi lavori girati, si riscontrano elementi e temi che molto caratterizzeranno la seguente, celebrata attività del regista. Mescola elementi incongrui manifestando un gusto surreale per l’accostamento bizzarro, per le connessioni devianti, una certa intolleranza per la linearità aneddotica, raggiungendo risultati già maturi (le macchine o gli insetti che attaccano il volto dell’uomo sconvolto dalla vita metropolitana). Per Gondry il sogno è un grande veicolo comunicativo, probabilmente il più puro e il più stimolante. La sua visione quasi scientifica della ricerca artistica riesce, dunque, a farsi amare per la grande capacità di tradurre sullo schermo il linguaggio onirico e cerebrale, inserendolo in contesti multiformi. Bjork, artista che ha sempre concepito il videoclip come forma artistica autonoma e non semplicemente complementare a quella musicale (si dia una scorsa alla sua sontuosa, mai banale o prevedibile, videografia), avvia una duratura collaborazione con il regista. Il Gondry di Bjork col superbo HYPERBALLAD in cui, rende la rockstar parte di un paesaggio naturale, con effetti ancora minimali (delle semplici sovrimpressioni): incastonata nella terra, forse come un cadavere sul quale si agita l’immagine della sua anima che canta e su cui brillano le luci di un mondo oramai lontano e incomprensibile. Ma come al solito le interpretazioni possono essere molteplici e tutte inesaustive: in Gondry il senso è nell’immagine e nella sua forza evocativa, l’effetto è il significato, come in AROUND THE WORLD dei Daft Punk in cui, come spesso accade nelle opere più squisitamente pop del regista, dietro un’apparenza quasi banale (una coreografia, in questo caso) si cela un’attrattiva di cui non riusciamo immediatamente a cogliere il quid fino alla folgorazione che, come quasi sempre accade nelle opere del francese, può arrivare dopo due o tre visioni (ciascun gruppo di ballerini danza seguendo un singolo strumento – gli atleti seguono le linee del basso, gli scheletri la chitarra, le disco


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girl il sintetizzatore, i robot la voce e le mummie la drum machine - una sorta di “messa in movimento” orchestrale tanto elementare quanto efficace): ecco il genio di Gondry, puro e semplice. Ma furore creativo del francese non sembra avere freno: in SUGAR WATER del duo giapponese Cibo Matto, di circa un anno prima, lo split screen propone apparentemente due storie, una in avanti e all’altra all’indietro: a metà percorso ci renderemo conto che i due riquadri riproducono lo stesso piano sequenza, partendo l’uno dal suo inizio e l’altro dalla fine. Tutto qui? Niente affatto: gli eventi ritratti diventano interpretabili solo a una visione totale del video e svelano come perfetti ed esplicativi i reciproci rimandi di un riquadro all’altro: è solo attraverso tali rimandi che gli snodi della trama divengono leggibili (cosa ardua se si pensa che tali chiamate e risposte partono da due versioni di uno stesso video che procedono in sensi opposti). E se narrazione deve esservi, in SUGAR WATER come in altri video del francese, deve seguire il più impervio dei percorsi con il minimo dispiego di mezzi (nessuna particolare sofisticazione: in questo caso c’è solo un piano sequenza visto simultaneamente nei due sensi). Un risultato portentoso: il regista, che lo definì “video palindromo”, lo considerava, all’epoca, il migliore clip che avesse girato. Il cinema è finzione e sogno, oltre che una delle poche forme d’arte in cui lo spettatore rimane fermo e l’opera si muove. Michel Gondry sa come sfruttare a pieno questo importante veicolo comunicativo. Antagonista dello stile narrativo del director francese, è Chris Cunningham. Forma forte e continuità tematica sono le due principali caratteristiche dei lavori di Chris Cunningham. Per quanto riguarda la forma, i mezzi mediante i quali Cunningham esprime la sua tecnica sono la fotografia (tendente alla tricromia e abbondante di riflessi) e il montaggio sincronico (portato all’estremo in forme che richiamano tecniche risalenti al cartone animato classico). Gestendo suono e immagine il regista britannico è stato 86


Ma ora torniamo a noi... La comunicazione del progetto d’architettura che avviene attraverso le nuove tecnologie rappresenta spesso un’intuizione significativa se riferita all’esigenza di trasmettere il senso del progetto e le sue cariche emozionali ai personaggi che lo vivranno, non da attori, ma da cittadini reali. Il cittadino è oggi sempre più coinvolto circa le 87

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capace di fornire dei referenti visivi e dei significati al linguaggio musicale, di per sé debolmente semantico. Questo risultato è stato ottenuto manipolando con piena libertà espressiva ma anche con rigore maniacale le variabili filmiche, in un rapporto musica/immagine basato sul ritmo. Visto in quest’ottica Cunningham è un regista, un montatore e un tecnico degli effetti speciali preparato, determinato e molto tecnico; questa però non sembra una ragione sufficiente per giustificare l’interesse e la considerazione di cui gode a livello internazionale. Perturbante e visionario, Chris Cunningham ha rivoluzionato l’immaginario video contemporaneo con le sue creazioni. È nelle tematiche trattate che Cunningham mostra la sua forza, rivelandosi un regista visionario come lo sono stati prima di lui (e lo sono ancora) registi cinematografici del calibro di David Cronenberg e Shinya Tsukamoto, con i quali condivide la passione per la contaminazione tra biologico e tecnologico. Calato nella realtà delle contaminazioni che caratterizzano i molteplici linguaggi (figurativi, scritti, musicali, etc.) e le forme (brevi, lunghe, artistiche, promozionali, etc.) del nuovo millennio, Cunningham offre una propria visione dei cambiamenti e delle tensioni che caratterizzano la società, filtrandola attraverso tutte le esperienze e le conoscenze che formano il suo bagaglio culturale. La ricerca formale unita alla padronanza dei mezzi tecnici e al perenne tentativo di ingannare (secondo le sue parole) il pubblico rende i lavori di questo giovane regista dei veri e propri capolavori del genere, nonché un punto di riferimento per altri operatori del settore.


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trasformazioni urbane. Il problema dell’architettura è che gli architetti dovrebbero partecipare a “Tutto il calcio minuto per minuto”, ma si ostinano a voler giocare a bocce (o a qualsiasi altro sport dal bassissimo valore di coinvolgimento emotivo). Se non s’inizia a ragionare su uno sport/disciplina che sia affascinante, emozionante, coinvolgente, non si andrà mai da nessuna parte. le architetture a cui si riferiscono i vari video in circolazione ultimamente non raccontano nessuna storia, o se raccontano storie sono storie insulse. Proviamo a ipotizzare per un momento che è il medium che fa il messaggio, ché il messaggio non è più l’architettura ma il video che la racconta. Ma allora, se il messaggio è il video, perché non partire dal video stesso? Ragioniamo in termini di storie da raccontare. Squint/opera è una società di produzione cinematografica con base a Londra dal 2002 e dedicata alla realizzazione di video di argomento architettonico. Nella ormai ampia produzione del gruppo, costituito intorno a dei giovani architetti provenienti dalla Bartlett School of Design, si può leggere una significativa traccia della più attuale ricerca di nuove dimensioni espressive dell’architettura. Un particolare riconoscimento va fatto al film Post Barnsley, mostra i tratti di una abilità interpretativa vivace e flessibile. Una abilità che offre allo spettatore stimoli utili alla comprensione e alla discussione del progetto di architettura e del suo ambito di intervento ma anche, sovente, occasioni per riconoscere alla cultura architettonica una decisiva capacità di fascinazione e di produzione di visioni. Nello scenario contemporaneo l’attività di Squint/opera si colloca in una posizione privilegiata, che offre all’architettura significative occasioni di confronto con la comunicazione al pubblico e che rinnova le possibili interpretazioni sul ruolo e sulle funzioni del progetto. Gli Squint/opera ritengono possibile ricorrere al video come ad uno strumento efficace sia nei diversi 88


momenti del processo progettuale sia per comunicare il risultato finale. Esempio pratico e lampante è la collaborazione duratura e fruttuosa con lo studio d’architettura di William Alsop, per esempio per quanto riguarda il lavoro svolto su Barnsley, una delle città più degradate dello Yorkshire. L’ascolto e il coinvolgimento degli abitanti nel processo creativo hanno costituito uno dei propositi centrali dell’iniziativa. In Gran Bretagna si tratta di una strategia diventata obbligatoria in seguito alla perdita totale di fiducia nei progettisti, dovuta agli errori commessi nella ricostruzione del dopoguerra. A Barnsley, tuttavia, l’approccio di Alsop è stato leggermente diverso. Non si può certo dire che il pubblico sia stato responsabile della sua stravagante idea di contenere la città tramite delle mura abitate o della sua proposta di progettare un alone tra le nuvole sopra la città. Queste sono chiaramente le idee di un singolo individuo, creativo e visionario, al quale si presentavano del tutto chiare, ma il coinvolgimento dei cittadini si è dimostrato particolarmente interessante e i video si sono rivelati uno strumento molto efficace per comunicare il progetto. La gente generalmente preferisce guardare un rapido filmato piuttosto che leggere una lunga relazione o ascoltare la minuziosa e tecnica spiegazione di un amministratore. Il video rappresenta quindi, uno dei modi migliori per conquistare l’attenzione del pubblico e, possibilmente, provocarne la capacità d’immaginare.

1 The Cameraman è un film del 1928, primo film di Keaton distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer, è conosciuto in Italia anche col titolo di Io... e la scimmia. 2 Guy Debord La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997 (La société du spectacle, 1967).

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Note:





La Pop Art indaga e focalizza la sua attenzione verso i beni di consumo di massa: non è la cultura alta o la tradizione di un paese a costituire l’unico riferimento, ma tutta la cultura popolare che offre alle persone (e non solamente agli architetti) i riferimenti chiave. Non è più la storia o l’immagine convenzionale delle città ad essere alla base delle diverse interpretazioni, e non sono più le tipologie classiche ad essere i punti focali della realizzazione di spazi architettonici, ma bensì i prodotti di consumo, quelli dei media le immagini della pubblicità e altri prodotti della cultura contemporanea. 93

PER UN LINGUGGIO AVANT POP

L’avantpop è un movimento artistico statunitense scaturito dal postmodernismo negli anni novanta del XX secolo. È caratterizzato dall’uso di materiali provenienti dai mass media (cinema, musica pop, televisione, fumetti, internet, videogiochi), montati soprattutto in testi letterari nei quali si adottano tecniche narrative e testuali prese dalle avanguardie. Si può capire quindi l’attinenza linguistica che questo filone letterario ha con la ricerca di questa tesi; non solo come riferimento pratico, anche a livello di montaggio video o immagini, ma proprio allo stadio del concepimento della tesi stessa. La ricerca linguistica Americana, molto legata alla tecnologia e specialmente all’uso di software creati per applicazioni al di fuori dell’architettura, ha provato ad invadere l’Europa, trovando una certa resistenza nel bacino del mediterraneo. Una resistenza dovuta prima di tutto alle possibilità dimostrate dalle proprie tradizioni da riscoprire e dalla volontà di scoprire il modo per entrare nel nuovo mondo digitale per esplorarlo ma senza lasciarsi inghiottire o diventare una mera estensione dei suoi meccanismi operativi. L’atteggiamento che si sta formando in questo periodo è sicuramente un atteggiamento che fonde reminescenze culturali della Pop art con la forza di innovazione dell’avanguardia. Ed è l’atteggiamento mentale dal quale ho preso spunto per estendere, diciamo, la “sinopsi” di questa tesi.


PER UN LINGUGGIO AVANT POP

L’avanguardia, per contro, con tutta la sua forza linguistica di innovazione e lo spirito sovversivo nei confronti di una logica corrente, e di una prassi consolidata, si stacca, o meglio rielabora, annienta talvolta, i prodotti della cultura contemporanea. In questo preciso momento il punto d’incontro di questi due atteggiamenti ha dato vita ad una corrente, l’avant pop. Lo sconfinamento dell’atto artistico/architettonico nel quotidiano avviene per appropriazione dei mezzi di comunicazione, dei materiali del consumo mediatico. Sia che il processo si avveri per citazione, che per documentazione,per accumulazione, esso si rivolge pur sempre ad un impiego evidente del medium, il quale si fa significato altro da se e si separa dai suoi primi motivi. Diventa messaggio nuovo, secondo una diversa e contaminata chiave di lettura. Gli architetti infatti si appropriano del segno urbano e tramite “assemblaggio”, “cancellatura”, collage o décollage di brani di città, di elementi architettonici, conferiscono una nuova realtà, una dimensione nuova. Se gli artisti Pop, infatti, si appropriano delle tecniche della socièta consumistica, gli artisti del Nouveau Réalisme, della poesia visiva, dei Fluxus e altri che non possono o non vogliono essere collocati in un preciso movimento, prendono in prestito i prodotti stessi della società e instaurano con essi, in presa diretta, un rapporto di complicità, rottura o alienazione. E’ una volontaria contaminazione tra campi d’azione, ereditata da quell’atteggiamento gia proprio dei primi anni del secolo scorso, quando artisti architetti fotografi, cercavano l’impiego di più mezzi, per un’integrazione delle arti che rispecchiasse la vita. E’ con la continua ricerca di questa contaminazione, portando la comunicazione della società dei consumi nel proprio vocabolario espressivo, che a questa stessa società, in cui nasce e in cui è parte attiva, l’architettura intende rivolgersi. Allo steso modo il pensiero digitale ha radicalmente stravolto i confini stessi della realtà, della 94



PER UN LINGUGGIO AVANT POP

percezione umana e della memoria. In un universo dove l’unica costante sembra la trasformazione, la capacità di fermare le cose, per reinventarle o meglio per riscoprirle in un sistema decodificato di idee e suggestioni spaziali. Un’architettura che può sembrare di facile consumo a primo impatto, ma che nasconde una ricca fonte di materia prima da esplorare manipolare e far manipolare all’utente e trasformare in maniera creativa evitando lo sperimentalismo fine a se stesso, che limita lo sviluppo di ogni pensiero. Platone diffidava di uno strumento di divulgazione apparentemente monoculare, quello che per noi potrebbe essere il singolo computer con la sua tecnologia annessa, ma i sistemi di comunicazione sono un sistema complesso, non complicato, capace di rifrangere il pensiero unico verso molteplici significati, che nascono e si sviluppano riscrivendo una spazialità radicata dentro di noi, patrimonio del nostro codice genetico. Questa espansione senza precedenti della cultura, resa possibile dalla crescita esponenziale della tecnologia, ha cambiato il profilo del mondo: la cultura pop ha soppiantato la natura e “colonizzato” lo spazio fisico di ogni paese, ed ha colonizzato quei territori interiori e personali che un tempo si ritenevano inviolabili come la memoria individuale e lo spazio dell’incoscio. L’architettura sta cominciando, credo e spero, ad affrontare il problema del come sopravvivere in queste nuove condizioni, nelle quali specialmente dal punto di vista della rappresentazione il digitale ha influenzato formalmente i modi in cui l’architettura veniva precedentemente creata e trasmessa. Se l’avanguardia è sperimentazione e la cultura pop è una riproduzione quasi celebrativa del prodotto di massa, l’Avant Pop reinventa un’intera gamma di nuove strategie formali e di atteggiamenti narrativi che si ispirano a forme artistiche non letterarie, ma più rapide e dinamiche come i diversi mondi che fluiscono attraverso il mezzo televisivo, l’interazione casuale ma profonda tra ciò che succede nel tubo catodico e il mondo reale. Sono infine le regole del collage e di altre forme di 96


organizzazione spaziale, visiva, uditiva e temporale mutuate dai video e dal cinema. E’ perfettamente naturale aspettarsi che gli architetti cresciuti in questo ambiente registrino e analizzino questi effetti, e poi li ripresentino in una composizione spaziale che privilegia quelle che un tempo sarebbero state considerate scelte stilistiche e tematiche d’avanguardia, ma che sono in effetti una riscrittura pop. Siamo vicini ad un nuovo realismo. Un realismo che ancora non vuole definire il suo significato. L’intenzione è comunque quella di muoversi verso direzioni e scelte eterogenee, di forte volontà narrativa e comunicativa.

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IMMAGINARE IL FUTURO RACCONTANDOLO ALL’IMPERFETTO. La parola spazio indica nella lingua italiana un’ “entità illimitata e indefinita” (Dizionario della lingua italiana, Devoto Oli, Ed.le Monnier), a differenza della parola luogo che indica “una porzione idealmente o materialmente delimitata di spazio”. Ma lo spazio, nella sua in-definizione, contiene molte altre significative sfumature tra cui quella di margine d’azione o quella di estensione temporale. La parola spazio configura insomma un territorio estremamente vasto, che ha a che fare tanto con la delimitazione dei luoghi, quanto con i corpi e le loro azioni, e ancora, con entità immateriali come l’estensione temporale. L’etimologia ci dice infatti che la parola latina spatium era probabilmente connessa con l’essere aperto. Lo spazio è l’orizzonte aperto dell’architettura. Questo orizzonte è ciò di cui l’architettura si occupa, ed anche ciò che fisicamente occupa.1

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Per cominciare ad arginare la crisi della rappresentazione, si è cercato cominciare a ragionare su una sorta di “matrice”, come mezzo per far emergere dal basso, dalle sensazioni, una selezione di punti di vista diversi gli uni dagli altri, mettendo prima di tutto, prima degli schemi, prima delle idee, prima del progetto, la percezione, la sensazione e la visione. Lo spazio è composto da una moltitudine di figure, di dinamiche, di territori, luoghi, di storie e di situazioni, che pur essendo singolarmente isolati, costruiscono, gli uni accanto agli altri, una rappresentazione del nostro grande spazio comune. E’ questo tipo di rappresentazione a mo’ di “matrice” che non cerca di disegnare solo una planimetria, ma piuttosto una carta d’identità della piazza, spazio pubblico preso in esame, che guida la nascita e lo sviluppo progettuale. I micro-racconti della “matrice” non possono chiaramente realizzare la totale complessità del territorio che essa stessa contiene;si concentrano a volte su dei


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tratti salienti o irrilevanti per l’occhio umano, sempre e comunque posizionati sulla sottile linea che sta tra osservazione e racconto. Lo spunto e il pretesto per cercare di mettere in pratica quanto fin ora detto e teorizzato, è stato la pubblicazione di un bando di concorso nella mia “città natale”, Parma: il Servizio Qualità Urbana e Architettonica del Comune di Parma ha indetto un Concorso di idee (Stanze pubbliche all’aperto) per la progettazione di interventi di riqualificazione estetica, paesaggistica e funzionale di tre piazze, particolarmente problematiche e irrisolte, sparse sul territorio comunale; una di queste era Piazza Piersanti Mattarella alla periferia Sud di Parma. La prima forte attrazione è nata proprio leggendo il bando, e ritrovando tematiche e aspetti che toccavano da vicino, o potevano adattarsi alla ricerca fino a quel momento svolta. Il concorso era volto a promuovere la valorizzazione degli spazi pubblici come luoghi di qualità urbana e architettonica in grado di restituire una vitalità nuova, dal punto di vista sociale, d’aggregazione, di rafforzamento delle relazioni e degli scambi tra le persone. Si è cercato quindi di innescare un processo di caratterizzazione formale degli spazi aperti che concepisse il progetto non come insieme di oggetti isolati, ma come relazione/relazioni all’interno dello spazio pubblico in rapporto con la scena urbana. Questo vassoio urbano, questa quinta scenica di calcestruzzo, si compone chiusa praticamente da ogni suo lato, (gli ingressi infatti sono dei ritagli di spazio tra i palazzi) da quattro residenze di edilizia popolare PEEP (Piano per l’Edilizia Economico Popolare) ex legge 167; tre delle quali sono costituite da un basamento di negozi, ormai sfitti, non occupati, da parecchi anni. L’ingresso alla piazza è stato totalmente chiuso con l’edificazione di un supermercato proprio su quello che doveva costituire l’ingresso principale allo spazio pubblico; questo evento, ha implicitamente o 102



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volutamente (visti i tempi non sospetti delle date di costruzione del complesso urbano, 1982/83) bloccato e fermato le persone sul bordo, facendo quasi “morire” la piazza e trasformandola in un’enorme corte racchiusa tra i palazzi. Il benessere economico, il vantaggio e la comodità dati dalla presenza del supermercato, hanno un po’ sopito gli animi degli abitanti del quartiere, nell’accettare in silenzio il lento svuotamento di uno spazio un tempo vivo e vissuto. Quasi in una prosopopea, potremmo dire che la vita del supermercato ha finito per schiacciare le altre vite, le altre storie della piazza. Dopo numerose campagne fotografiche, sopralluoghi, interviste, sondaggi, misurazioni, imprescindibili da qualunque analisi progettuale, dopo aver quasi stretto amicizia con le persone che sono diventate protagoniste di questo progetto, l’idea ha cominciato a farsi largo “tra la gente” che affollava i miei pensieri. Questo luogo definito dall’“architettura” e “isolato” a causa della sua sopraelevazione, non è riuscito negli anni a guadagnarsi il ruolo di piazza di quartiere. Un luogo alieno anche a quei fenomeni di auto-organizzazione propri delle comunità locali. Nelle intenzioni progettuali, entrare in questa piazza deve trasformarsi nell’esperienza di una scoperta: percorrere i marciapiedi limitrofi, salire per le rampe di accesso per trovarsi infine in un ambiente inaspettato, accogliente ed insolito, dove all’atmosfera del giardino si alterna quella della piazza pubblica. Il pensiero progettuale si è generato durante la stesura di due schemi, rivelatisi poi concetto cardine e chiarificatore del progetto. Un sistema composto da quelli che io chiamo “attori”, da persone, le cui macro categorie sono scaturite da un’indagine fatta in loco, con interviste e una ricerca di documentazione sulla nascita e lo sviluppo di questo complesso urbanistico dalla storia abbastanza singolare nel panorama architettonico parmense. Il sistema attori è comunque l’asse cardine e portante di tutto il processo progettuale: si tratta di mettere l’uomo e le sue relazioni al centro di un disegno 104



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urbano sufficientemente omogeneo. Il sistema attori quindi, entra in collisione, in contatto, con un sistema di funzioni pubbliche, di stanze pubbliche all’aperto, che compongono la qualità urbana da fornire a questo nuovo spazio pubblico (verde, acqua, orti urbani, giardini d’inverno, salotto urbano, aree gioco per bambini, zone pic nic e skate park). Ma questo primo sistema non è sufficiente a legare i rapporti di vicinanza o lontananza delle differenti funzioni progettuali, per cui entra in gioco un secondo procedimento mentale che associa, invece, le stanze pubbliche appena definite a nuove destinazioni d’uso dei negozi del basamento di commerciale che ora come ora, e in realtà da parecchi anni, è abbandonato. Questi sistemi sono regolati da tre gradi di interazionerelazione: ATTRAZIONE REPULSIONE INDIFFERENZA. Queste nuove polarità attrattive, non solo per la vita della piazza, ma anche per l’intero complesso urbano, respingono o attraggono le relazioni precedentemente intessute tra “stanze” e “attori”. Per cui ora lo spazio e le relazioni che si intrecciano al suo interno cominciano a dispiegarsi in una declinazione, non solamente funzionale o attrattiva, ma in un rapporto molto stretto tra le relazioni, le storie di questo spazio urbano e le funzioni di rinnovata qualità spaziale. L’ordine, la dimensione, la distribuzione degli elementi e della vegetazione non è quindi casuale, ma risponde comunque a regole precise dettate dalla configurazione spaziale del contesto urbano: ci sono, infatti, percorsi che intersecano la piazza e collegano ogni elemento; mentre gli elementi di arredo assolvono la duplice funzione di definire le stanze e le zone di sosta, oltre che inquadrare, creando angoli di visuale prima impossibili. L’unione simultanea di questi elementi dà vita ad una serie di quinte spaziali, creando vari luoghi di aggregazione sociale tutti aperti e di stretta interazione uno con l’altro. Sulla piazza si tesse una maglia di sistemi in euritmia in cui l’uomo può trasformare, con l’azione, il proprio campo da gioco. L’arredo urbano è stato progettato come elemento 106


In linea conclusiva si è cercato sia nel mezzo di comunicazione (il video) che nel progetto stesso soprattutto, di instaurare una grammatica compositiva e un suo lessico, un linguaggio di racconto sia nei mezzi che negli intenti, compiendo scelte, rendendo la scelta del soggetto composizione, narrazione, unificazione discorsiva di immagini apparentemente isolate, nel contesto di una più ampia serie di avvenimenti compresenti e intersencantesi. La narrazione delle ipotetiche storie, della componente “umana”, si modella su una serie di eventi autonomi, eventi che in un certo senso vengono scelti dal regista, dal progettista, per evocare in chi guarda “spot” di sensazioni, in certi casi ilarità, in certi tenerezza, nell’ipotetica sensazione di volersi immedesimare. Eventi scelti, che pur tuttavia si sono offerti alla 107

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nella sua globalità, inteso come un sistema di segni polisemici destinati alla interpretazione creativa dei singoli cittadini/attori. In questa ottica non ci si è occupati di prodotti ma di stimoli che questi possono offrire al singolo individuo, affrontando gli aspetti legati all’estetica, al gioco, alle relazioni. Gli elementi di sosta, che hanno prettamente una vocazione all’aggregazione sociale, sono concepiti con uno specifico ruolo architettonico e formale all’interno del progetto, condizionandone anche la percezione. La piazza avrà un unico livello altimetrico: chi vi camminerà potrà decidere dove sedersi, dove giocare, dove guardare, dove passeggiare… ma sempre circondato e inserito in un progetto che offrirà occasioni episodiche per vivere i propri momenti, sentendosi sempre come parte di una visione d’insieme: una personalizzazione di uno spazio a vantaggio del suo utilizzo. Si è cercata continuità e intensità d’uso dello spazio aperto, moltiplicando le direzioni di attraversamento e le occasioni di incontro. Il risultato è una piazza-giardino che, seguendo la migliore tradizione della costruzione artificiale dello spazio pubblico come mescolanza tra manufatto e natura, si compone e ricompone con le stagioni, il cambio del tempo e degli attori.


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scelta, già con una loro logica, talvolta privi di nessi specifici, come in una strip di un fumetto, ma i cui legami sono lasciati al lettore, allo spettatore. La crescita della narrazione, quindi, sarà un po’ artificio e un po’ conseguenza soggettiva, e il suo prodotto apparirà ai più una strana interazione tra spontaneità e artificio. Il montaggio ne costituirà un elemento importante, una poetica non dell’intreccio, ma di una calcolata volontà di senso di sospensione di un futuro/presente/ passato non ben determinato, agendo come motivo di “straniamento”; un montaggio che scuota l’attenzione passiva della media degli spettatori dei video d’architettura, che cerchi di andare oltre la critica descrittiva o interpretativa dello spazio progettato giocando e provocando con altre scale concettuali: il ricordo, la memoria della materia e dei suoni, le emozioni come fattore incisivo nell’esperienza attiva dello spazio. Un video d’architettura come possibile “macchina d’esplorazione”. Un modo per raccontare delle storie (architettoniche) già scritte o ancora da scrivere. Un linguaggio espressivo che, ormai universalmente usato, non riesce però ancora a forzare le difese di una disciplina che forse ormai da troppo tempo (in seguito ad una affermata indipendenza) si alimenta quasi esclusivamente di sé stessa. Naturalmente non si pretende di inventare niente di totalmente nuovo; possiamo però ripensare, riassemblare i materiali di cui disponiamo da tempo. Il progetto, preliminare a qualsiasi realizzazione, non è stato sempre una sorta di attualizzazione di una realtà non ancora corrente? Il video in architettura può essere usato ancora più a monte per parlare di un qualcosa di cui un grafico o un render da soli non riescono. Il video come contenitore di metafore visive, sonore, insieme a dati oggettivi, per cercare di suscitare sensazioni, ispirare nuove esigenze e sollevare nuovi problemi per nuove architetture. 108


Architetture che comunicano già prima di nascere perché è il loro processo stesso che comunica.

1 Intervista ad Eduardo Kac. Questioning the objectivity of spa di Marialuisa Palumbo [www.architettura.it]

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Note:



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FILMOGRAFIA: L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929) The cameraman di Buster Keaton e Edward Sedgwick (1928) Citizane Kane - Quarto potere di Orson Welles (1941) La finestra sul cortile film diretto da Alfred Hitchcock (1954)

Mio zio (Mon Oncle) di Jacques Tati (1958) Due o tre cose che so di lei diretto da Jean-Luc Godard (1966)

Tempo di divertimento (Playtime) di Jacques Tati (1967) Le iene (Reservoir Dogs) di Quentin Tarantino (1992) L’odio (La Haine) è un film scritto e diretto da Mathieu Kassovitz (1995) In the Mood for Love (Fa yeung nin wa) di Wong Kar Wai(2000) Se mi lasci ti cancello diretto da Michel Gondry, (2004) Paris, je t’aime - Petites romances de quartiers... film corale (2006) L’amico di famiglia diretto da Paolo Sorrentino (2006) Koolhaas Houselife di Ila Beka e Louise Lemoine (2008) Tokyo! di Michel Gondry (2009)


VIDEOGRAFIA: Sigur Ros - Untitled #1 Vaka (2000) Sugar Water - Cibo Matto diretto da Michel Gondry (1996) Star Guitar - The Chemical Brothers diretto da Michel Gondry (2002) Fell In Love With A Girl - The White Stripes diretto da Michel Gondry (2002) Around The World - Daft Punk diretto da Michel Gondry (1997) Deadweight - Beck diretto da Michel Gondry (1997) Hyperballad - Björk diretto da Michel Gondry (1996) 36 Degrees - Placebo diretto da Chris Cunningham 1996 Come to Daddy - Aphex Twin diretto da Chris Cunningham (1998) All Is Full of Love - Björk diretto da Chris Cunningham (1999) No You Girls Franz Ferdinand (2009) Can’t stop feeling Franz Ferdinand diretto da Nima Nourizadeh (2009) Mezzogiorno – Lorenzo Jovanotti diretto da Maki Gherzi (2009) La casa Possibile – video per la 11° Biennale d’Architettura di Venezia- diretto da Maki Gherzi (2008) HBO Voyeur trailer - diretto e ideato da Cindy Matero (director brand strategy HBO) (2007) Colors like no others – spot Sony Bravia – diretto da Frank Budget (2006-2008) Nike/Courage – spot nike diretto da Ralf Schmerberg Fifty people one question credits su http:// fiftypeopleonequestion.com



a Norma Montanini


Grazie a mamma, papà, nonne Imelde e nonno Piero, Bart, alla zia Baba e lo zio Bruno, le sciure Rkia Carmen e Ada, grazie alle mie oche : Fra (senza di te non ce l’avrei fatta) Ello (grazie per i pink mojito) Silvia ( eaeaeaeeaeaea!), Luchino (il suo concorso e le matte) , grazie ai muri di casa mia perché mi hanno sempre ascoltato, ai treni in ritardo per Milano centrale, a Fede e Alex, a Lollo l’impaginatore folle, a Nico e Vero, a Ciccio, Balladou,la Giulienji e Ugo, alla Ale, a Paul,a Nino e gli appuntamenti sul terrazzo, grazie a youtube e i plug in di Firefox,al Tronista e la Polda, Emi, Mai, il Belorenzo, Tasca, Sippo, Marta, Franz, Katia,alla Cate e Susi, grazie a Trenitalia..o forse no, alla Sara, all’Andò, all’Erika e la piccola Alice, alla Lara, la Chiaretta,la Cate e l’Enry,e grazie a Funtanlè lè ‘n gran paés, nonostante tutto a Ste, grazie a Nicola e Chiara, alla Sissa, ad Alex, Oliver (per tutto il sostegno che mi hai dato in questo periodo) e Mimmo, a Edouard, Tommy e Ines, grazie a Isotta, alla Bea, a Luciana Conti ,grazie a Paris.. sempre,ad Hamid, Kagan e le maquettes du cube, grazie a Mara perché anche da Atene è vicina, alla Raffa e alla Cé, a Matte , a Frengo, alle ghiande di mia madre e alla sfiga in generale, agli anni ’50 e alle serre, grazie a Giulio, a Mone,ad Ale e Bebe e la spilletta arcobaleno,a Ubbe, a Giò, Agnes , Lorenzo , Dario e Lauren,e dulcis in fundo grazie a Maki Gherzi e..

un grazie particolare a Giovanni Galli.



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