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A testa in su
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La vita per la vita
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NecessitĂ
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Ma chi li ha eletti?
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Bugie
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Rumore nero
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La zona grigia
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L’oppressione millenaria
INDICE
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Gennariello Macilento
A TESTA IN SU
Il rumore bianco mi dà la sveglia. Sul sof�tto ci sono gocce di oscurità, potrebbe essere un quadro astratto ma è intonaco macchiato di umido. Non ricordo esattamente chi io sia e cosa ci faccia in questo motel. Sono in un quadro di Dalì o in un �lm di Murnau? È cosi buio qua dentro. Amo le tenebre perchè mi ci posso rifugiare per nascondere le ambiguità, le deformazioni. È che ho perso le coordinate da un pezzo. CAZZO! Sento di amare la vita, il mondo e vorrei vivere a pieno la mia esistenza. Vorrei scambiare il mio sapere con gli altri, vorrei condividere. Ma dopo 5 minuti di conversazione inizio a vomitare disprezzo, non vedo l’ora di rintanarmi nelle accoglienti zone d’ombra della solitudine. Son tutti cretini, avidi, immorali e pieni di odio. Devo rimanere solo, non posso farmi condizionare da una massa di despoti e zombie. Se tutti fossero come me, potremmo fare la rivoluzione. Potremmo �nalmente liberarci degli oppressori. Ma poi chi me lo fa fare. Domani devo incontrare il tizio che conosce mio padre e �nalmente potrò fare il copywriter a tempo pieno. E se me la gioco, chissà, potrei salire di grado. Magari non so, riuscire ad essere a capo di un intero reparto di creativi. Magari sai che bello fare l’Art Director. Moquette verde e briciole di pane, lo sfondo del pc dove tutti gli avatar mi odiano. Provo a ricordare dove son capitato dando un’occhiata dalla �nestra, appena mi alzo dal letto avverto una presenza. Mi guardo intorno non vedo nessuno ma sento di non esser solo. Osservo nuovamente la moquette, qualcosa arranca nei resti del sandwich. È uno schifosissimo scarafaggio a pancia in su. Stupido insetto, avrà provato a scalare qualche super�cie liscia perdendo l’orientamento e si sarà ribaltato. Lo osservo con disprezzo ma col passare del tempo il disprezzo sfuma in piacere. Piacere di vederlo affannarsi incapace di cambiare il suo destino. Muove disperatamente le esili e lunghe zampe, spera di tornare nella posizione corretta. Continuo ad osservarlo e continuo a godere, tron�o della mia superiorità. Mi stufo e lo schiaccio. La mia estasi svanisce con la sua morte. Ha la corazza spaccata in due parti uguali, del liquido biancastro schizza sul pavimento. 4
Il rumore bianco mi dà la sveglia. Sul sof�tto ci sono gocce di oscurità, potrebbe essere un quadro astratto ma è intonaco macchiato di umido. Non ricordo esattamente chi io sia e cosa ci faccia in questo motel. Sono in un quadro di Dalì o in un �lm di Murnau? È cosi buio qua dentro. Amo le tenebre perchè mi ci posso rifugiare per nascondere le ambiguità, le deformazioni. È che ho perso le coordinate da un pezzo. CAZZO! Sento di amare la vita, il mondo e vorrei vivere a pieno la mia esistenza. Vorrei scambiare il mio sapere con gli altri, vorrei condividere. Ma dopo 5 minuti di conversazione inizio a vomitare disprezzo, non vedo l’ora di rintanarmi nelle accoglienti zone d’ombra della solitudine. Son tutti cretini, avidi, immorali e pieni di odio. Devo rimanere solo, non posso farmi condizionare da una massa di despoti e zombie. Se tutti fossero come me, potremmo fare la rivoluzione. Potremmo �nalmente liberarci degli oppressori. Ma poi chi me lo fa fare. Domani devo incontrare il tizio che conosce mio padre e �nalmente potrò fare il copywriter a tempo pieno. E se me la gioco, chissà, potrei salire di grado. Magari non so, riuscire ad essere a capo di un intero reparto di creativi. Magari sai che bello fare l’Art Director. Moquette verde e briciole di pane, lo sfondo del pc dove tutti gli avatar mi odiano. Provo a ricordare dove son capitato dando un’occhiata dalla �nestra, ma non riesco ad alzarmi. Sono disteso supino sulla moquette incapace di cambiar posizione. Provo a tirarmi su facendo leva sulle braccia e scopro di avere lunghe ed esili zampe. Ho un forte mal di testa, inizio a muovere freneticamente le antenne mentre osservo il corpo nero. Sono una schifosissima blatta a testa in su. Avrò perso l’orientamento provando a scalare una superi�cie liscia. Sento forti �tte attraversare la corazza e arrivare nelle parti più interne. Non riesco a ribaltarmi, mi dimeno con le zampe inutilmente. Il buio mi accompagnerà verso una lenta morte in solitudine. Ma all’improvviso avverto una presenza. Uno scarafaggio più grande di me si avvicina e osserva la mia disperazione per interminabili istanti. In quei momenti, mentre agito tutto ciò che posso muovere sperando di ritornare nella posizione corretta spero che in qualche modo lo scarafaggio mi aiuti. Lui si stufa e mi schiaccia. Ho la corazza spaccata in due parti uguali, del liquido biancastro schizza sul pavimento. Giaccio sulla moquette, atroci dolori mi dilaniano. Non percepisco di esser segato in due. Spero quasi di potermi rimettere ancora in sesto. È pur vero che noi scarafaggi siamo tra gli animali più resistenti. Siam capaci di resistere un mese senza cibo, di vivere senz’aria per 45 minuti e di sopravvivere �no a una settimana senza testa. Ma la vista si offusca, sento rallentare il battito cardiaco. Ho una fottuta voglia di chiudere gli occhi ma osservo un’ultima cosa. Lo scarafaggio che mi ha schiacciato annaspa zampe all’aria. Probabilmente arriverà uno scarafaggio più grande che lo schiaccerà. Tanti scarafaggi che si schiacciano, dal più piccolo al più grande. Tanti scarafaggi in panne a pancia in su che non sanno decidere del proprio destino e di quello della società. Tante macchie nere su sfondo verde...potrebbe essere un quadro astratto.
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LA VITA PER LA VITA
Vogliamo affondare la spada? E allora parliamo del piacere. Ormai è strettamente a pagamento. Cinema. Concerto. Teatro. Discoteca. Ristorante. Gita sul lago. Arrivi al rifugio a 3000 metri e il pranzo costa 30000 lire: sono 10 lire al metro... la spiaggia? Ombrellone, lettino, doccia e piscina (tanto l’acqua del mare è sporca) e sborsi altrettanto! Ma io dico, se vedessi facce felici, sentissi risate spontanee, avessi l’impressione insomma che questo approccio garantisca l’allegria, non mi preoccuperei più di tanto. Ma non mi risulta... E dove crollo, è di non sentire il minimo grido di protesta. Non ci sono moti di popolazioni. Non c’è un tentativo, neanche approssimativo, di rivoluzione. Sembra che questo grigiore vada bene a tutti. Sembra che parole come esagerazione ed esuberanza siano diventati tabù, o patrimonio della letteratura dei secoli andati. Se uno si mette a urlare la propria gioia, il proprio dolore, la propria confusione, il proprio sogno in mezzo alla folla, al ristorante, in metropolitana, nel condominio, nella piazza, tutti girano la testa dall’altra parte, tutti mugugnano. Mamma mia! Viviamo l’epoca del conformismo grigio, appiattito, glauco, dall’encefalogramma dei desideri piatto. Come robot, accettiamo di incanalarci sui binari predisposti della società del lavoro, della produzione, del consumo. E l’ordine regna sovrano: l’ordine dell’egoismo, l’ordine della solitudine, l’ordine del lento spegnersi. Non si spiega altrimenti com’è possibile che accettiamo silenziosi di essere ogni giorno più alienati dalla nostra vita, di essere sempre di più un numero, una statistica, un pezzo di una grande macchina che ci è scappata dalle mani. Solo per non far piangere le mamme, per non disturbare i padri. Per non farsi mostrare a dito dai vicini,
che chissà cosa pensano di noi i vicini? I vicini con cui a malapena scambiamo un buongiorno ogni tanto, anzi sperando proprio di non trovarseli davanti sul pianerottolo troppo spesso. Un oceano di svogliati alla deriva. Di poveri cristi che sperano solo di arrivare a sera senza sussulti, senza confronti, senza crisi di coscienza. Di sparire nel proprio buco, accendere il televisore, e non chiedersi mai se oggi non è stata l’ennesima occasione perduta, l’ennesimo passo avanti sui binari morti di un’esistenza svenduta in nome della “normalità”. Parola orrenda. Allora, dobbiamo coltivare l’imprudenza. Dobbiamo esagerare. La vita va bevuta a grandi sorsi. Va presa per la vita e portata a spasso in un tango vertiginoso, si tratta di guardare l’assurdo negli occhi e ridere. Conoscere a memoria la propria inadeguatezza e ridicolizzarla. L’imprudenza non è affatto un segno di distrazione. Cercare di essere meno sotto controllo, non vuol dire automaticamente essere inaf�dabili. Lasciamoci alle spalle i nostri autoinganni, questa maledetta tendenza a castrarci da soli. Ben vengano gli schiaf� duri per gli sbagli madornali, i pugni nello stomaco per aver osato troppo! Mi sia dato il gusto amaro di troppe parole giuste dette nei momenti sbagliati. Voglio chiedere scusa, dopo aver fatto qualcosa per cui chiedere perdono. Il peccato non lo delego agli altri. Non accetto che me lo abbiano già codi�cato. Christoph Baker, Ozio lentezza e nostalgia (2006), EMI
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CUKI (M.Clangore, 2005)
NECESSITÀ
Continuava a piovere. In pochissimo tempo l’acqua inzuppò la terra che ormai non riusciva ad assorbire più nulla. I pastori impassibili si andarono a sedere come tre santoni emaciati sotto una specie di pensilina costruita con le lamiere. Continuavano a �ssare la strada mentre le pecore si mettevano in salvo, arrampicandosi su una collina di spazzatura. Uno dei pastori manteneva un bastone che spingeva contro la tettoia, inclinandola per evitare che si riempisse d’acqua e cascasse sulle loro teste. Ero completamente zuppo, ma tutta l’acqua che mi crollava addosso non riusciva a spegnere una sorta di bruciore che mi saliva dallo stomaco e si irradiava sino alla nuca. Cercavo di capire se i sentimenti umani erano in grado di fronteggiare una così grande macchina di potere, se era possibile riuscire ad agire in un modo, in un qualche modo, in un modo possibile che permettesse di salvarsi dagli affari, permettesse di vivere al di là delle dinamiche di potere. Mi tormentavo, cercando di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire, sapere senza essere divorati, triturati. O se la scelta era tra conoscere ed essere compromessi o ignorare - e riuscire quindi a vivere serenamente. Forse non restava che dimenticare, non vedere. Ascoltare la versione uf�ciale delle cose, trasentire solo distrattamente e reagire con un lamento. Mi chiedevo se potesse esistere qualcosa che fosse in grado di dare possibilità di una vita felice, o forse dovevo solo smettere di fare sogni di emancipazione e libertà anarchiche e gettarmi nell’arena, �ccarmi una semiautomatica nelle mutande e iniziare a fare affari, quelli veri. Convincermi di essere parte del tessuto connettivo del mio tempo e giocarmi tutto, comandare ed essere comandato, divenire una belva da pro�tto, un rapace della
�nanza, un samurai dei clan; e fare della mia vita un campo di battaglia dove non si può tentare di sopravvivere, ma solo di crepare dopo aver comandato e combattuto. Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d’Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia �nale. Sembrava impossibile avere un momento di pace, non vivere sempre all’interno di una guerra dove ogni gesto può divenire un cedimento, dove ogni necessità si trasformava in debolezza, dove tutto devi conquistarlo strappando la carne all’osso. In terra di camorra, combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è la presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti signi�ca capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geogra�co della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare. Roberto Saviano, Gomorra (2006), A. Mondadori Editore
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CAN YOU SEE? (G.Macilento, 2002)
INGOLLO (M.Clangore, 2001)
MA CHI LI HA ELETTI?
Buona sera Londra, pensavo fosse ora di scambiare due chiacchiere. State comodi? Allora comincio...Suppongo ti chieda perchè ti ho chiamato qui stasera. Vedi uomo, non sono del tutto soddisfatto del tuo recente rendimento... temo che il tuo lavoro stia perdendo colpi, e, beh, purtroppo abbiamo pensato di mandarti via. Oh, lo so, lo so. Ormai è tanto che lavori per l’azienda. Quasi...fammi vedere, quasi diecimila anni! Cielo, come vola il tempo! Sembra solo ieri... ricordo il giorno in cui hai iniziato il tuo impiego appena sceso dall’albero col viso fresco, nervoso, un osso stretto nel pugno arruffato...beh, da allora ne abbiamo fatta di strada vero e sì, sì, hai ragione, in tutto questo tempo non sei mancato un giorno. Ben fatto, mio buon servo fedele. Inoltre, non pensare che io abbia dimenticato il tuo notevole stato di servizio, o tutti i tuoi preziosi contributi all’azienda... il fuoco, la ruota, l’agricoltura...è una lista impressionante, vecchio mio, davvero impressionante. Non fraintendermi. Mah... beh, ad essere sinceri, abbiamo avuto anche i nostri problemi, non lo si può negare. È la tua fondamentale riluttanza a far progressi nell’azienda. Pare che tu non voglia affrontare nessuna vera responsabilità, o essere il capo di te stesso. Ti abbiamo spesso offerto una promozione, e ogni volta ci hai deluso. «Non ce la farei mai, direttore», ci persuadevi, «Io so stare al posto mio.» Siamo sinceri, nemmeno ci provi, vero? Vedi, sei stato fermo troppo tempo, e lo si vede nel tuo lavoro...e, potrei aggiungere, nella qualità generale del tuo comportamento. Abbiamo avuto una s�lza di malversatori, imbroglioni, bugiardi e maniaci che hanno preso una s�lza di decisioni catastro�che. È un fatto ampiamente assodato.
Ma chi li ha eletti? Sei stato tu! Tu che hai nominato queste persone! Tu che hai dato loro il potere di prendere decisioni per te! Per quanto io possa ammettere che sia lecito fare un errore una volta, fare gli stessi errori letali un secolo dopo l’altro mi sembra pura e semplice premeditazione. Hai incoraggiato questi incompetenti criminali che hanno ridotto a un macello la tua vita lavorativa. Hai accettato i loro ordini insensati senza sollevare dubbi. Hai permesso loro di riempire il tuo spazio lavorativo di macchine pericolose. Potevi fermarli. Dovevi soltato dire NO. Non hai una spina dorsale. Non hai orgoglio. Non sei più un elemento prezioso per l’azienda. Tuttavia, sarò generoso. Ti saranno concessi due anni per mostrarmi un miglioramento. Se alla �ne del periodo sarai ancora restio a fare tentativi...sarai liquidato. Questo è tutto. Puoi tornare al tuo lavoro. Le trasmissioni saranno riprese al più presto possibile. Dal fumetto V per Vendetta di Alan Moore (1988), Milano,Vertigo, pp. 114 - 120
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TOP5 (G.Macilento, 2007)
BUGIE
Io non ho bisogno di presentazioni. Tu leggi i giornali e poi siamo sotto le elezioni. Avrai visto la mia faccia ovunque. Avrai visto chi sono e che mezzi ho. E li userò Hartingan, li userò tutti contro di te. A mio �glio gli hai staccato un orecchio, un braccio e non contento gli hai staccato anche le palle e l’uccello. Tirare quel grilletto ti ha fatto sentire potente? Il potere non te lo dà un distintivo o una pistola, il potere te lo danno le bugie, grandi bugie e convincere il mondo a parteggiare per te. Se riesci a far accettare a tutti quello che in cuor loro sanno essere falso li tieni per le palle. Ci sono mettiamo...500 persone in questo ospedale? Ti potrei riempire di proiettili adesso senza che nemmeno mi arrestino. Mentirebbero tutti per me quelli che contano. Altrimenti tutte le loro bugie su cui si regge Sin City crollerebbero miseramente come un castello di carte. Ah ah ah ah ah! Ma io ti voglio in piena salute e in forma. Ti resta da vivere ancora molto tempo, te l’assicuro. Ti sbatteranno dentro per aver stuprato la puttanella e sparato a mio �glio. E passerai il resto della tua vita in prigione disonorato, distrutto e solo. Tua moglie? Tu dille la verità ed è morta. Tu dì la verità a qualcuno ed è morto. Il Senatore Roark in Sin City, �lm diretto da Frank Miller e Robert Rodriguez nel 2005
Il principe deve combattere la “fortuna”, intesa come l’insieme degli elementi imponderabili che possono condizionare la sua azione e sono estranei alla sua volontà. In questa lotta il governante eserciterà una “virtù” che non è platonica conoscenza di verità né cristiano identi�carsi con i precetti evangelici, è piuttosto aristotelica “abilità”, capacità di governare individuando i mezzi adatti allo scopo e applicandoli senza alcun riserbo. Lo scopo? Il mantenimento del potere, non altro. Ed ecco che mantenere il potere in un mondo descritto come abitato da uomini “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno” porta a preferire “l’esser temuto all’esser amato”, limitandosi a “fuggire l’odio”. Il principe unirà forza e astuzia guardandosi bene dal mantenere le promesse, ma anche dall’apparire uno spergiuro e un mentitore. È necessario che egli sia “gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare”. Pietà, fede, integrità, umanità, religione: queste doti devono apparire dalle parole e dai gesti pubblici del principe, che mai dovrà avere l’ingenuità di dichiararsi avverso a una di esse. La moltitudine vede del principe solo le apparenze, pochi sono coloro che conoscono davvero il modo di comportarsi del sovrano, e questi pochi non ardiscono opporsi alla moltitudine non solo per vigliaccheria, ma perchè non avrebbero nessuno che li difenda. Sopra alle azioni dei principi “non è iudizio”, non vi è un tribunale superiore a cui appellarsi. “Nel mondo non è se non vulgo, e li pochi non ci hanno luogo, quando li assai hanno dove appoggiarsi.” Maria Bettetini, Breve storia della bugia (2001), R.C. Editore
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SORRY GIL (G.Macilento, 1999)
I WANT YOU! (G.Macilento, 2003)
RUMORE NERO
Quel che è certo: la tratta transatlantica degli schiavi (la diaspora africana) smuove qualcosa di antico, e brucia lunghe code di paglia nell’inconscio collettivo. Jes Grew¹ comincia a propagarsi nel Settecento. Non è ancora epidemia: è un virus piccolo, incerto e ancora debole, ma è mutageno, capace di adattarsi. Nel XIX secolo, il virus è ormai forte. Il contagio parte da Congo Square, New Orleans, dove gli schiavi si trovano a suonare i tamburi e danzare. Da lì si estende, decennio dopo decennio, e intanto inizia il novecento. Negli anni Venti (la decade narrata in Mumbo Jumbo) Jes Grew investe gli States in lungo e in largo. È una vera emergenza culturale. In qualche modo, l’America bianca rimedia, circoscrive e contiene. Esercita pressioni sulla borghesia nera perché prenda le distanze dai “riti selvaggi”, mette in circolo versioni “ripulite” della nuova musica (l’orchestra di Paul Whiteman, nomen omen!) e per il momento riesce a “sbiancare” il primo jazz. Nel suo Il popolo del blues, Amiri Baraka descrive quest’affannato “correre ai ripari” ogni volta che Jes Grew si manifesta, s’impossessa della musica popolare e la rende più africana nello spirito e nelle forme. Più africana, ovvero: poliritmie, timbriche ruvide, irriducibilità alla scala temperata occidentale (quarti di tono etc.), uso percussivo di strumenti melodici (il pianoforte, le corde del contrabbasso), uso melodico di strumenti ritmici (batteria e percussioni), imitazione strumentale della voce umana (sax, tromba, chitarra blues), fortissima componente di improvvisazione e composizione spontanea, atmosfera dionisiaca. È una continua oscillazione tra polarità “bianche” e “nere”: nel cuore della comunità nera nasce un sottogenere di black music; l’America
bianca reagisce, ne elabora e mette in circolo una versione più blanda, sonorità più lisce e ritmo più semplice. Musica poco o per niente improvvisata, riconducibile alla scala temperata di toni e semitoni, facile da trascrivere sul pentagramma; la comunità nera controreagisce e produce un nuovo sottogenere, più nero �n dal nome che gli viene dato, di solito un “africanismo” sopravvissuto tra le pieghe del Black English. “Jazz” deriva dal mandingo Jasi (wolof: Yees; temne: Jasi), che signi�ca esagerare, andare fuori di testa, partire per la tangente. “Boogie” deriva dallo hausa Buga (mandingo: Bugoh), che signi�ca battere, suonare il tamburo. “Hip” deriva dal verbo wolof Hipi, che signi�ca tenere gli occhi aperti, essere consapevole. Di nuovo l’America bianca reagisce, e così via. Il processo è ambivalente: ogni volta che l’establishment sbianca la musica nera, è comunque costretto a incorporarla, e quindi ad “annerire” la musica bianca, arricchirla di nuove in�uenze. Wu Ming 1, “Supremazia del rumore nero” (2006), Il Mucchio Extra, Stemax Coop, numero 23.
¹Jes Grew è il con-
tagio del muoversi da negri, l’infezione della danza che fa scuotere il culo, “l’uragano spirituale che solleva detriti di 2000 anni dalle loro radici spargendoli ovunque”.
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RENEGADES (M.Clangore, 2003)
LA ZONA GRIGIA
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che hanno preceduto la sua “carriera” sono signi�cativi: gli uomini che da un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi �sica che dalla costrizione politica fa nascere l’area inde�nita dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il ri�uto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza. La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che �rmano tutto, perché una �rma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me». In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski, �gura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è dif�cile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo
giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell’uomo di recitare una parte non è illimitata. Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia. Forse il suo signi�cato è più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che “scende all’inferno con trombe e tamburi”, ed i suoi orpelli miserabili sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive Isabella in Misura per misura, l’Uomo che, ...ammantato d’autorità precaria, di ciò ignaro di cui si crede certo, - della sua essenza, ch’è di vetro -, quale una scimmia arrabbiata, gioca tali insulse buffonate sotto il cielo da far piangere gli angeli. Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno. Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino
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FRAGILE (M.Clangore, 2006)
L’OPPRESSIONE MILLENARIA
Or non è molto, la terra contava due miliardi d’abitanti, ossia cinquecento milioni d’uomini e un miliardo e cinquecento milioni d’indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano. Tra questi e quelli, reucci venduti, feudatari, una falsa borghesia inventata di tutto punto fungevano da intermediari. Nelle colonie la verità si mostrava nuda; le “metropoli” la preferivano vestita; bisognava che l’indigeno le amasse. Come madri, in certo modo. L’élite europea prese a fabbricare un indigenato scelto; si selezionavano gli adolescenti, gli si stampavano in fronte, col ferro incandescente, i principi della cultura occidentale; dopo un breve soggiorno in metropoli, li si rimandavano a casa contraffatti. Quelle menzogne viventi non avevano più niente da dire ai loro fratelli; risonavano. Venne un’altra generazione che spostò la questione. I suoi scrittori, i suoi poeti, con incredibile pazienza cercarono di spiegarci che i nostri valori aderivano male alla verità della loro vita, che essi non potevano né affatto respingerli, né assimilarli. Li ascoltavamo, molto disinvolti: le coscienze infelici s’impigliano nelle loro contraddizioni. Ef�cacia nessuna. Dunque, perpetuiamo la loro infelicità, non ne verrà fuori che fumo. Se ci fosse, ci dicevano gli esperti, un’ombra di rivendicazione nei loro piagnistei, sarebbe quella dell’integrazione. Mica accordarla, ben inteso: si sarebbe rovinato il sistema che si poggia sul supersfruttamento. Le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri. Basta che ci mostrino quel che abbiamo fatto di loro perchè conosciamo quel che abbiamo fatto di noi. Non è da principio la loro violenza, è la nostra, rivoltata che cresce e li strazia. Questa furia trattenuta , non potendo scoppiare, gira a tondo e sconvolge gli oppressi stessi. Per libe-
rarsene, giungono a massacrarsi tra di loro. Cumulano. Due mondi, fan due ossessioni: si danza tutta la notte, all’alba ci si accalca per ascoltare la messa; di giorno in notte la lesione aumenta. Il nostro nemico tradisce i suoi fratelli e si fa nostro complice. I suoi fratelli fanno altrettanto. L’indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con il loro consenso. Reclamare e rinnegare, simultaneamente, la condizione umana: la contraddizione è esplosiva. Anche noi, gente d’europa ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi. Bella �gura i non violenti: né vittime né carne�ci! Andiamo! Ma se il regime per intero e �n i vostri non violenti pensieri son condizionati da un’oppressione millenaria, la passività vostra non serve che a schierarvi dal lato degli oppressori.» Prefazione di Jean-Paul Sartre al libro I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Einaudi, Torino
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RIVOLUZIONE速 (M.Clangore, 2005)
«[…] l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. Malgrado tutto avevo fame di un signi�cato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può con durre alla follia ma una vita senza senso è la tor tura dell’inquietudine e del vano des iderio – è una barca che anela al mare eppure lo teme.» Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River
Dario Romano Politecnico di Milano Facoltà del Design a.a. 2006/07 C.I. Laboratorio di Progetto della Comunicazione