Macs Well
Il mistero del Gushi Un’avventura rocambolesca
BOOPEN EDIZIONI
Autore : Macs-Well Editing : ValeGì & Lallabeth Progetto grafico : Macs-Well
Finito di scrivere il 26 maggio 2010 Ogni nome o riferimento a cose e/o persone è puramente casuale. Il romanzo è di pura fantasia. © Massimo Di Gruso http://www.gushi.it http://maxstales.blogspot.com 2
Indice Il mistero del Gushi L’autore Prefazione di ValeGì I personaggi
pg. 5 pg. 7 pg. 12
I capitoli 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27.
Margot e Justine Monsieur Woo Il ritrovo L’attesa La cacchia ha inizio La spiaggia Il colonnello La terza casa Per cena: pesce e marinai L’avventura del Pirata Little La pochette Il fermaglio a forma di farfalla Andrej Clarette I fratelli Pecoretti L’antica regola del Busho-Yo Pechino Il monologo Occhi neri come tenebra La roulotte L’ora del tè La gola Ken-To Una giornata iniziata male La sala del Gushi Il ritorno a casa L’ultimo scalo Sei mesi dopo 3
pg. 13 pg. 27 pg. 35 pg. 41 pg. 49 pg. 55 pg. 61 pg. 67 pg. 75 pg. 81 pg. 87 pg. 93 pg. 104 pg. 111 pg. 114 pg. 117 pg. 125 pg. 128 pg. 131 pg. 136 pg. 147 pg. 154 pg. 161 pg. 165 pg. 173 pg. 177 pg. 181
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L’autore Massimo Di Gruso (alias Macs Well) nasce nella capitale nel marzo del ’79, ma da sempre vive nella cerchia dei bastioni di Porta Romana, in quella che potremmo definire la downtown milanese. Poliedrico ragazzo di larghe vedute nella vita quanto nelle idee, non si è mai precluso nessuna strada, rendendo così la sua vita un parcheggio di supermercato con troppe indicazioni e nessuna uscita. Sebbene gli studi tecnici in materie pratiche quali l’economia ed l’ingegneria, è sempre stato attratto dalla libera espressione in ambito creativo. Nel 2002 collabora come produttore dell’album di inediti del gruppo punk-rock milanese 2000Malattie intitolato “Skiaccia”. Dal 2001 al 2009 è stato Web designer di AnkorMedia Srl, società da lui fondata. Disegnatore a tempo perso, raggiunge troppo velocemente la maturità artistica con l’opera omnia intitolata: “il Pollo”. Fusione del pensiero astratto della ricerca allegorica del concepimento creativo (concetto ancora poco chiaro all’autore stesso). Dal settembre 2008 intrattiene la propria fidanzata e i suoi amici più cari con racconti poco pretenziosi quanto rocamboleschi. Buona lettura Macs
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Prefazione Di Valentina Gorla
Beneamato Macs Well, È un compito di grande responsabilità, quello di introdurre il tuo Gushi al mondo. Vorrei poter scrivere le circa ottocento parole che mi hai chiesto, ma ne conosco solo seicento. E poi ci sono altre ragioni. Le mie conoscenze artistico - letterarie sono infatti infinitesimali. So che Leopardi era sordo – no, quello era Beethoven. So che Proust un giorno, avendo un certo appetito che era più voglia di qualcosa di buono, si imbarcò in una ricerca di biscottini da tè. E so che Hemingway camminava sempre sulle ginocchia per via del suo talento ad ordinar mojito. E questo è più o meno tutto. Mi chiedo da donde derivi allora tutta questa parvenza d’erudizione ch’io infondo all’interno del mio circolo amicale. Forse i membri di siffatto circolo si pregiano dello stesso talento naturale di Hemingway. Forse perché riconoscono che io sono, più che altro, avida ed onnivora lettrice. Amo principalmente i libri costruiti sui personaggi: divento loro amica di scorribande, li seguo vegliandoli con l’amore e la costanza d’una madre, e, non di rado, vorrei ingaggiare con i più fortunati un randomico limone. Leggendo il tuo Gushi, Macs Well, ho potuto appagare appieno questa mia indole. 7
Mi sono affezionata ad un gigante indiano la cui imponenza fisica intralcia l’espressione della delicatezza del suo animo; ho desiderato fortissimamente passare ore intere in ascolto dei racconti di un nonno che ne ha viste tante; avrei volentieri giocato a tris con un cinese silenzioso e, soprattutto, sappi che spesso alzo gli occhi al cielo nella speranza di scorgere lo spirito di una gallina in volo. Questi, ed altri altrettanto affascinanti, ma certo non meno bislacchi, figuri si accalcano lungo un’intricata storia che mette sullo stesso piano spie internazionali, baroni tedeschi, collegiali francesi e popoli asiatici d’antica memoria. Si vivono, perdendosi tra le pagine del Gushi, momenti di divertimento surreale. Momenti scritti con quell’ironia che giunge improvvisa e che ti strappa una sonora risata – ne converranno meco i compagni del mio quotidiano pendolarismo. Un’ironia che spesso, assai felicemente, si tramuta in incipit e descrizioni piene di lirismo. Il fil rouge del procedere stilistico del Gushi si riassume dunque in un linguaggio che è altamente immaginifico, in grado di dipingere con precisione quel che si dipana nella tua mente di autore. Grazie dunque di avermi fatto questo regalo: grazie del tuo Gushi. Grazie perché mi ha divertita fino all’ultima pagina. Che brilla di una fine quanto mai eloquente. ValeGì
8 Maggio 2010
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A Lov…
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Il mistero del Gushi
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I personaggi in ordine di apparizione: Margot Petrois Michelle Bloundois : compagna di istituto di Margot Sophie & Marie Gatier : compagne di istituto di Margot Clarette : Governante e tata di casa Petrois Pierre (Piccini) : Amico d’infanzia di Margot Madame Giselle : Responsabile delle inservienti Justine (Piccini) : componente della squadra Matisse Melodie : Inserviente nell’istituto di Margot e non solo. Bernard : Giardiniere ed amante di Madame Giselle Monsieur Woo : componente della squadra Matisse Xi e Sho : Nonni materni di Monsieur Woo Coh & Pang : Orsi Stanley : componente della squadra Matisse Madame Sophie : Professoressa del corso di buone maniere Matisse (Matthe Savoir) : fratello di Baptiste Otto Von Kaiser : il barone Udo Osterlitz : guardia al servizio del barone Ilse : amata di Udo Osterlitz Frau Anneke : amministratrice del castello Von Kaiser Frau Karoline Von Staiserback : predecessore di Frau Anneke Mr. Smith (Andrej Smitoskij) : Spia al servizio del barone Zio Klaus : zio paterno del barone. Maurice Poisson & François : Chef e garzone del ristorante di pesce Jean & Philippe : fratelli marinai. Monsieur Basilic : anziano avventore del ristorante Poisson. James Lloyd Little (il Pirata Little) Marian Potter : amata di James Lloyd Little Sir Stewart : marito di Marian Potter Alfred : maggiordomo di casa Potter a Londra Monsieur Parnout : allevatore Piccini : compagno di Matisse nonché padre di Pierre e Justine Léonore (Chagal) : madre di Margot Gino e Pinuccio Pecoretti : agenti XinTao : famoso bandito asiatico Santuzzo : pilota amico dei fratelli Pecoretti Big Jim : mini-pilota Gallinotta : l’eroina del racconto Pteroattilio Baptiste : fratello di Matthe Savoir (Matisse) Pteroalice : fidanzata di Pteroattilio 12
Cap. 1 Margot e Justine Francia, 10 luglio 1967 L'estate era giunta lenta. Nella stanza del collegio femminile di Xertigny, Margot stava fissando da circa un'ora il soffitto bianco, stesa sul letto con le scarpe di vernice sospese nel vuoto. Una piccola crepa nell'intonaco del soffitto si era da qualche tempo svelata, come la prima ruga sul viso di una donna matura. I segni del tempo erano però una preoccupazione ancora lontana. Appena qualche settimana prima aveva raggiunto la maggiore età ed in quell'occasione, i genitori le avevano fatto recapitare un enorme mazzo di fiori per il quale erano state necessarie le braccia di due robuste inservienti e poco meno di un terzo di stanza per accoglierlo. Ancora oggi ne conservava una rosa scarlatta sul secondo ripiano della libreria. Fra i pensieri di Pascal e quelli di Proust. Al collegio di certo non mancavano manifestazioni eclatanti di ricchezza e prestigio. Michelle Bloundois aveva ricevuto un set di valigie da viaggio, con baule in coordinato, di un famoso stilista italiano. Sophie Gatier un suo ritratto su tela del famoso pittore Lepont. Marie Gatier (sorella gemella di Sophie) aveva potuto suonare il pianoforte con il miglior pianista di Parigi, Lorenz Sottoile, uno dei giovani scapoli 13
più ambiti nella borghesia parigina. Questi ed altri esempi si alternavano ogni settimana al quarto piano dell'istituto. Era risaputo che solo l'élite francese poteva avere accesso al prestigioso collegio femminile di Xertigny e Margot ne rientrava a pieno titolo: suo padre, Monsieur Petrois, era un ricco mercante d'arte dall’oriente mentre sua madre, Madame Léonore, era un medico chirurgo di fama internazionale. Negli anni i momenti liberi dell'uno erano difficilmente combaciati con quelli dell'altro, rendendoli così, a loro insaputa, una coppia separata. Margot non aveva mai sofferto di questa mancanza di affettività. Non avendo mai provato direttamente l’amore dei genitori non aveva potuto rimpiangerne la mancanza. Sin dalla nascita un'altra persona l'aveva cresciuta con affetto e devozione: Clarette, l’anziana governante. Clarette aveva cresciuto con costanza ben due generazioni di Petrois, rinnegandosi in questo modo la possibilità di costruirsi una famiglia propria. Quando però raggiunse l'età della pensione, i coniugi Petrois realizzarono di avere un problema, o meglio, una figlia. Il rinomato collegio di Xertigny fu la scelta più indolore per le loro esistenze e la proibitiva retta non fece vacillare di un solo millimetro la loro decisione. Infondo, si ripetevano, l’educazione della loro unica figlia non aveva prezzo e, qualora l’avesse avuto, sarebbe stato nulla in confronto alla loro libertà. Durante l’infanzia Margot non aveva avuto fratelli o sorelle con cui giocare o litigare nella grande casa di Parigi, ma per molti anni poté godere della compagnia di Pierre, il nipote di Clarette, di qualche anno più grande. Insieme trascorrevano i seppur scarsi pomeriggi che Margot aveva liberi dalle lezioni di danza, lingue, canto e pianoforte. In altre occasioni, durante le vacanze estive per esempio, Clarette lo portava con se nella casa al mare della famiglia Petrois. 14
Da quando si era trasferita nel collegio non aveva avuto molte notizie del suo compagno di giochi, fatta eccezione per le cartoline che Pierre le inviava regolarmente da ogni parte del mondo: Shangai, Singapore, Toronto, Sidney, New York. L'anta dell'armadio ne era tappezzata, al punto che alcune compagne di corridoio sospettavano fossero amanti segreti. Nelle cartoline Pierre non scriveva mai molto di se o dei suoi viaggi, ma a Margot questo non importava. Nulla era paragonabile all'emozione che provava quando Melodie, la più giovane delle inservienti, la chiamava dicendo «Margot, c'è una cartolina per te!» Qualcosa però era cambiato. Nelle ultime cartoline ricevute, accanto alla firma di Pierre vi era anche quella di una donna, una tale Justine. Pierre non aveva mai fatto menzione di Justine, ne tanto meno parlato al plurale nei suoi stringati saluti. Margot non fece fatica a pensare che si trattasse della fidanzata. Pierre era sempre stato un ragazzo molto bello e dai lineamenti delicati: i capelli, biondo fieno e lisci, valorizzavano una carnagione chiara e luminosa. Mentre gli occhi, verde smeraldo, trasmettevano una profondità talvolta imbarazzante. Fu solo nelle ultime settimane prima della partenza per il collegio che Margot realizzò di provare qualcosa che andava oltre la semplice amicizia. Il solo pensiero di stargli vicino e sfiorare la sua pelle le faceva battere il cuore talmente forte da sentire il petto percosso come in un concerto di batteria, tamburi africani e gong. La nuova vita nel collegio soggiogò sul nascere questo desiderio germogliato mentre il tempo e la distanza lo privarono del suo naturale nutrimento fatto di esperienze e frequentazione, fino a farlo morire del tutto. Da tempo ormai non pensava più a lui, se non come semplice amico. 15
Eccola lì, sdraiata sul suo letto ad attendere l'arrivo del suo compagno di giochi. Clarette l'aveva chiamata qualche settimana prima per farle gli auguri di compleanno e chiederle come procedeva la sua vita nel collegio. «Clarette, i professori sono molto bravi ed anche le mie compagne sono tutte brave ragazze. Nessuna di loro, però, è diventata la mia amica del cuore. Non so se mi spiego. Spesso passo le serate con Melodie, una delle inservienti, ma la responsabile non vuole che ci frequentiamo. Il resto della settimana preferisco restare in camera a leggere.» «Non dovresti piccola mia, è importante coltivare le amicizie.» «Hai ragione Clarette, vorrei tanto poter scrivere o chiamare Pierre qualche volta, ma non so mai dove inviargli le mie lettere. È sempre in giro per il mondo.» «Pierre... gli manchi molto, sai? Mi chiede sempre di te quando mi telefona o passa a trovarmi. Ti farebbe piacere rivederlo per le vacanze estive? Credo sia di ritorno in Francia. Se così fosse potreste andare insieme al mare. Ammesso che i tuoi genitori non abbiano altri programmi.» «Sarebbe stupendo Clarette» rispose entusiasta Margot dall’altro capo del telefono. «Sono certa che anche a Pierre farà piacere passare del tempo con te: quel ragazzo è molto cambiato da quando è partito con la compagnia… teatrale» Un ticchettio silenzioso, simile ad un orologio mal regolato, iniziò a riempire il vuoto nei corridoi del collegio, fino ad assumere il chiaro suono di tacchi decisi sul pavimento di marmo. «Madamoiselle Petrois? Sono venuti a prenderla. Lasci che l'aiuti con i bagagli» disse una voce femminile bussando alla porta della camera. 16
«Grazie Madame Giselle» rispose Margot con il cuore in gola per l'emozione. Madame Giselle la precedeva nel corridoio che portava dall'ala nord a quella sud con il suo passo deciso. La responsabile delle inservienti era una donna vicino ai quarant’anni dal corpo slanciato e dai lunghi capelli neri sempre raccolti dietro la nuca con delle rigide mollette. La camicetta bianca stretta nella gonna a vita alta, le infondevano tuttavia una sensualità da donna matura e sicura di se che Margot avrebbe desiderato possedere, specialmente in quel momento. In cuor suo, Margot non poteva sapere che dietro quello scudo di austera disciplina si celava l’animo sensibile di una donna in preda a cocente passione nei confronti del capo giardiniere, tale Bernard, un uomo tanto rozzo e sudato quanto la sua predisposizione a sbagliare i congiuntivi ed abusare di epiteti. Un amore fatto di travolgenti incontri e, allo stesso tempo, di repulsione e disgusto. La giovane Margot aveva vissuto per tutta la sua esistenza sotto una campana di vetro dove le uniche esperienze erano state quelle lette nei libri classici. Nulla della corruzione e devianza in cui il mondo è intinto l’aveva ancora contagiata. Seguendo i passi di Madame Giselle, Margot non pensava minimamente che il corridoio che stava percorrendo la stava conducendo ad un’avventura che nemmeno nei libri più audaci avrebbe mai immaginato di vivere. Fuori dalle finestre alcuni giardinieri erano intenti a potare le siepi lungo i campi da tennis. Nei corridoi alcuni operai stavano invece dando una passata di vernice ai muri. «È giunta la stagione delle potature» fece notare Margot per spezzare quel silenzio innaturale «dalla finestra della mia camera non si riesce a scorgere altro» Madame Giselle con la coda dell’occhio gettò un rapido sguardo fuori dalla finestra. Un attimo che le bastò a 17
scorgere il suo Bernard: a petto nudo, nel mezzo di un’aiuola in fiore, con il corpo madido di sudore ed i muscoli in pieno spasmo per la fatica di recidere un rametto grande quanto un grissino. Un sussulto la percorse da capo a tacco a spillo facendole cedere un ginocchio. L’eleganza della donna non si incrinò minimamente neppure quando, scivolando sulla cera passata di fresco, restò perfettamente in equilibrio dopo un tuffo carpiato con doppio avvitamento. Anni e anni di corridoi percorsi sui tacchi le avevano conferito una maestria acrobatica di trampoliere che Margot in vita sua avrebbe difficilmente eguagliato, essendo un convinta integralista delle ballerine. «Madamoiselle Petrois?» disse senza scomporsi minimamente la responsabile delle inservienti «colgo l’occasione per ricordarle, che la politica del collegio non incentiva l’amicizia fra le inservienti e le collegiali. Mi sono giunte voci che sono sicura essere false. Sono certa che capisce a cosa mi sto riferendo» commentò Madame Giselle per recuperare il rispetto poc’anzi perso su una lastra di marmo da poco lustrata. «Certo» si limitò a rispondere Margot. Non poter coltivare l’amicizia con Melodie aveva macchiato quel momento ilare, ma non avrebbe mai desiderato arrecare dei problemi all’unica amica che aveva trovato nel collegio. Ad ogni passo che l’avvicinava alla porta dell’uscita sud, il rumore dei tacchi di Madame Giselle veniva sempre più coperto dal battito accelerato del cuore della ragazza. L'emozione iniziò a crescere dentro di lei rendendo le gambe deboli e il fiato corto con un piccolo accenno d’asma e tussis nervusis. In più di un'occasione cercò di specchiarsi nei vetri del corridoio per controllare che i capelli fossero in ordine e il vestito cadesse bene. L’abito era nuovo: la madre le aveva fatto recapitare giusto qualche giorno prima insieme ad un biglietto con scritte parole di scuse per non aver potuto passare alcuni giorni con lei. Era 18
un abito molto semplice e dal taglio classico, perfettamente in linea con i gusti della madre. La confezione riportava la firma di un famoso stilista, molto quotato sulle passerelle parigine negli ultimi tempi. Il tessuto in lino lo rendeva leggero e morbido sul corpo magro e poco sviluppato di Margot. Monsieur Petrois invece, le aveva fatto recapitare dalla segretaria una prima edizione de “Il grande Gatsby” datata 10 Aprile 1925. Nel messaggio paterno veniva caldamente espresso il rammarico per essere impegnato in una mostra di collezionisti in Malesia per tutto il mese. La macchina, una due cavalli rosso ruggine, era parcheggiata di fronte all'ingresso sud in un viottolo non asfaltato, ricoperto perlopiù di ghiaia. Durante l’anno era principalmente usato per ragioni di servizio dal personale del collegio. Nel suo interno, al posto di guida, qualcuno era intento a fumare una sigaretta con una mano stesa fuori dal finestrino. Quando Madame Giselle aprì il portone, la portiera della macchina si aprì con un breve ritardo. Una lunga gamba liscia ed abbronzata con al piede una vistosa scarpa col tacco, anticipò una donna vestita con un abito a fiori con delle sottili bretelle. Un cappello molto largo e morbido ne copriva il volto. La donna fece cadere a terra la sigaretta e la spense con la punta della scarpa. Si tolse il cappello e lo lanciò sul sedile posteriore. Stese le braccia ed esclamò con sincero entusiasmo «Ciao Margot, sono Justine!». Margot rimase senza parole ferma sul penultimo scalino guardandosi intorno alla ricerca di Pierre. Madame Giselle si limitò ad augurarle buone vacanze e si congedò per tornare ad ammirare il suo bronzo di Riace nell’aiuola. 19
Justine si avvicinò ed abbracciò con trasporto una Margot rigida e con lo sguardo alquanto sospettoso. Intuendo la delusione della ragazza, Justine si affrettò a dire «Pierre si scusa di non essere potuto venire a prenderti di persona, ma hanno posticipato un’audizione a cui non poteva mancare e ci aspetterà nella casa al mare. Va bene per te cara?» Margot si limitò ad annuire, poi salì in macchina dopo averne spazzolato dalle briciole il sedile. «Sei diventata una splendida ragazza» disse Justine percorrendo lo stretto viottolo che portava fuori dalla recinzione del collegio. «Grazie» rispose senza pensare. «Sei rimasta delusa mia cara?» chiese Justine accarezzando il viso di Margot. «Nessun problema Madame Justine.» «Chiamami solo Justine.» «Va bene. Sono sicura che questa audizione sia molto importante per Pierre.» «Proprio così. Ci teneva molto che in questo viaggio avessimo avuto modo di conoscerci meglio e magari diventare buone amiche.» «Ne sono certa. Quanto ci vorrà per raggiungere la casa al mare?» chiese impaziente Margot. «Tu hai la patente?» «Non ancora.» «Capisco... in questo caso ci vorrà quasi mezza giornata e con questa carretta, credo anche qualcosa di più. Pensavo di fermarci e prendere una stanza in un albergo ad un centinaio di chilometri da Le Mesnil. Domani mattina ripartiremo all'alba e per l'ora della colazione saremo da Pierre. Cosa ne dici?» Margot non poté fare altro che annuire. La strada era deserta. 20
Lungo alcuni tratti i viali alberati donavano sollievo alle pupille accecate dal sole calante. In alcuni momenti rimpianse i temporali estivi che fino alla settimana scorsa avevano flagellato le campagne circostanti. Margot era seduta composta con le mani conserte appoggiate alle ginocchia. Aveva modi eleganti, così come le era stato insegnato in questi ultimi quattro anni. Il suo sguardo aveva due sole destinazioni: fisso di fronte a se oppure rivolto a destra, verso il finestrino, rapito dal paesaggio di campagna che le scorreva accanto. Sapeva bene che sarebbe stato opportuno ed educato cercare di intavolare una qualsivoglia forma di conversazione, anche banale e di circostanza, ma non era preparata a tutto questo. Nel suo immaginario, in questo momento si sarebbe dovuta trovare seduta a fianco del suo amico di infanzia intenta a rievocare tutti gli episodi chiusi nelle scatole impolverate della memoria. Non conosceva nulla della donna al suo fianco e il pensiero che avrebbero passato insieme a lei le prossime ore, le profuse un senso di ansia e disagio pari solo ad una calza smagliata sul ginocchio. Justine, con la sua spontaneità, ovviò al problema. «Clarette mi ha ricordato che hai compiuto diciotto anni, auguri anche se in ritardo. Questo vuol dire che il prossimo anno sarà l'ultimo al collegio, o sbaglio?» «Proprio così.» «Dove ti piacerebbe andare all'università?» «Pensavo alla Sorbona, studiare letteratura o filosofia.» «Molto interessante» rispose Justine distogliendo lo sguardo dalla strada per qualche istante. Margot attese che la sua compagna di viaggio avesse ritrovato l'attenzione sulla strada per osservarla meglio. I capelli erano lunghi e di colore nero corvino. A differenza dei suoi, che amava portare raccolti, Justine li lasciava liberi, 21
sciolti sopra le spalle in boccoli ben definiti. La carnagione era chiara, ma abbronzata dal sole. Il viso era truccato con un rossetto bordeaux e pesante matita agli occhi. La carnagione era coperta da uno strato di fondotinta che rendeva la pelle omogenea. Degli occhiali dalla montatura appariscente ne celavano lo sguardo. Margot non riusciva a definirne l'età. Poteva essere tranquillamente una ragazza di venticinque anni così come una donna di trentacinque. Justine iniziò a fare domande. Prendendo spunto dalla preferenze di Margot le chiese quali fossero i suoi scrittori preferiti e i filosofi che apprezzava. All'inizio Margot rispose a singhiozzi, così come il motore di un auto da troppo tempo non usato. Justine fu abile a dosare l'acceleratore delle domande, fino a quando Margot iniziò un monologo ben oleato e sostenuto. Continui cenni del capo e sorrisi di compiacimento gratificavano l'oratrice sempre più a suo agio. Talvolta, nei momenti di stallo o di semplice compensazione respiratoria, Justine manteneva il motore vivo facendo interventi e commenti. Dopo le prime due ore di viaggio Justine aveva ripassato gli ultimi cento anni di filosofia francese con qualche parentesi austriaca e tedesca, mentre Margot aveva iniziato ad assumere una posizione più spontanea e rilassata. L'albergo in cui si fermarono per la notte era una piccola locanda a conduzione familiare e dalle modeste pretese. La posizione in cui era situata non era di certo delle migliori per richiamare un flusso di avventori. La costa distava più di un'ora d'auto mentre la città più vicina almeno due. Ad accoglierle venne una donna con grandi spalle ed una corporatura robusta. Indossava una veste con un grembiule 22
da cuoca raffigurante una mucca accanto ad un mandriano anoressico. «Buona sera. Scusatemi, ma stavo preparando delle torte per la colazione. Seguitemi» disse giustificandosi con le clienti. Il marito, altrettanto robusto e massiccio, si limitò a portare le valige in stanza e ad accendere lo scaldabagno della camera. Nella hall, dove si trovava l'unico televisore del albergo, vi era seduto sul pavimento un ragazzino di circa otto anni intento a colorare un disegno infischiandosene nettamente dei contorni. Margot riuscì chiaramente a distinguere una raffigurazione del diavolo che inforcava due corpulenti locandieri vicino ad un castello di colore azzurro turchese distrutto da una farfalla gigante. Margot scosse la testa per togliersi dalla mente l’immagine appena impressa ma, nonostante ciò, rimase vivo il ricordo di un diavolo che inforcava come uno spiedino una farfalla prima di bussare alla porta di una vergine principessa rinchiusa in un castello color turchese. Al sol pensiero rabbrividì e si vergognò per quella visione poco adatta ad una ragazza con la sua educazione. «Gradite cenare?» chiese la donna a Justine. «Volentieri.» rispose cordialmente. «Allora inizio a prepararvi qualcosa. Zuppa di verdure e coniglio può andar bene?» Justine annuì e poi si rivolse a Margot con lo sguardo interrogativo. La ragazza si limitò ad un sorriso di circostanza. In vita sua raramente si era preoccupata di scegliere cosa mangiare, solitamente erano gli altri a farlo per lei; prima Clarette e poi le cuoche del collegio. Con gli anni aveva imparato a mangiare tutto senza troppi capricci: mangiava meccanicamente, senza assaporare le pietanze. Era per lei un semplice atto finalizzato al nutrimento, nulla di più; al 23
punto che Clarette dovette spiegarle più volte che non tutte le croste dei formaggi erano commestibili. Giunte nella stanza Justine si tolse le scarpe coi tacchi e si sdraiò sul letto matrimoniale. «Mi spiace, non è un albergo di lusso, ma dobbiamo passarci solamente una notte» si scusò guardandosi intorno appoggiata sui gomiti. «Va benissimo Justine, non preoccuparti» rispose Margot intenta a riporre con cura i propri vestiti dalla valigia all’armadio. «Usa pure il bagno per prima, io farò una doccia prima di andare a letto» Dall’espressione soddisfatta di Justine, la cena fu squisita. La moglie del oste cucinò una zuppa di verdure con crostini all'aglio molto saporita. Il coniglio con contorno di patate e rosmarino che ne seguì fu anche meglio. Justine e Margot non poterono far nulla contro l'insistenza della signora intenta a servire taglieri di formaggi stagionati con miele. Al termine della cena si alzarono sazie e soddisfatte. Non ebbero molte occasioni per parlare privatamente. I due proprietari le intrattennero in modo alternato raccontando le particolarità della loro gestione, la provenienza dei formaggi che servivano, i progetti di espansione della vigna, la nuova insegna, l'impatto della nuova superstrada sulla microeconomia locale, il talento del figlioletto per la pittura ed altro ancora. Justine silenziosamente dedicava molte attenzioni alla sua compagna di viaggio. Piccoli gesti, ma attenti. Come rabboccarle il bicchiere con il vino oppure avvicinarle il paniere dei crostini. Ogni volta che Margot incrociava lo sguardo di Justine la trovava sempre sorridente e ben disposta nei suoi confronti. I suoi occhi verdi le trasferivano un senso di serenità a protezione. 24
Una volta alzate dalla tavola, Justine dovette sostenere la giovane Margot poco abituata al vino rosso autoctono. «Margot, dovevi dirmi che non eri abituata al vino, avrei evitato di rabboccartelo spesso» le disse abbracciandola su per le scale fino in stanza. Nel contatto Margot sentì la morbidezza dei seni di Justine e provò un leggero senso di invidia. Come anticipato Justine si fece la doccia mentre Margot ne approfittò per mettersi la vestaglia. Non era abituata a spogliarsi in presenza di altre persone. Anche nel collegio, durante le ore di educazione fisica, le studentesse avevano a disposizione degli spogliatoi personali e nessun'altra occasione si era mai presentata prima. Quando Justine uscì dal bagno, una nuvola di vapore la seguì annebbiando la vista di Margot quasi addormentata. Aveva un asciugamano avvolto sopra il seno e l'altro, come un turbante, attorno al capo. Il corpo abbronzato si muoveva all'interno della stanza in modo armonioso creando l'effetto del pendolo in una seduta di ipnosi. Poi lentamente la vista si oscurò. Durante la notte, fra l'inizio di un sogno e l'altro, Margot tornò in uno stato di semi coscienza. Non era raro, quando dormiva nella sua stanza del collegio, che sentisse il bisogno di alzarsi per andare alla toilette, ma in questa occasione preferì non fare rumore e restarsene a letto. Dopo aver realizzato questo pensiero alquanto confuso, si accorse di avere un senso di pressione sul fianco. Con sua sorpresa, sentì il braccio della compagna di stanza cingerla a se. Margot non era certa che quel gesto fosse il frutto di un movimento incondizionato dovuto al sonno oppure fosse intenzionale. Di certo, realizzò, un gesto di tale intimità era da ritenersi fuori luogo considerando il loro grado di conoscenza. 25
In vita sua non aveva mai dormito con qualcuno. Qualche volta da bambina, Clarette le era restata accanto quando aveva avuto la febbre alta; quel gesto però non aveva nulla a che vedere con questo. Trovò strano non percepire il tessuto della vestaglia di Justine, non le servì infatti molto per realizzare che i soli bagagli portati in camera erano stati i suoi e che il vestito di Justine giaceva appoggiato sulla sedia. L'imbarazzo della situazione la svegliò come una doccia fredda. Non sapeva cosa fare. Avrebbe potuto scostare il braccio nella speranza che Justine non si svegliasse. Avrebbe potuto andare in bagno e svincolarsi dalla morsa. Semmai Justine si fosse domandata se qualcosa stava accadendo, Margot avrebbe potuta rassicurarla dicendo "scusa devo andare alla toilette". Si convinse che quest'ultimo piano era di certo il migliore e il più cortese nei riguardi della donna. Decise di contare fino a venti per poi cercare di scivolare via dall'abbraccio. Quando giunse a quindici, il piano andò a monte. Il braccio che la cingeva si mosse spontaneamente. Dietro di lei, il rumore del lenzuolo fece intuire che la compagna di stanza si era girata verso l'altro lato del letto. Dall’altro capo del letto, con il volto rivolto verso la finestra, Justine aveva ben altri pensieri che rendevano tormentato il suo sonno. Primo fra tutti: che fine avesse fatto Pierre.
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Capitolo 2 Monsieur Woo
Nella stanza buia di un albergo della periferia di Parigi, Monsieur Woo era seduto sul bordo del letto con lo sguardo fisso verso la finestra. La cosa sarebbe potuta risultare normale se non fosse che le tende oscuravano completamente la stanza e che il suo ospite aveva assunto quella posa ormai da un tempo imprecisato. Il respiro era calmo e regolare. Le palpebre socchiuse e le braccia stese lungo i fianchi costeggiavano la schiena dritta e composta. Le labbra si muovevano lievemente, sussurrando suoni impercettibili persino all’udito canino. Monsieur Woo era un uomo piÚ vicino ai quaranta che ai trenta. I capelli erano lisci e neri che, portati fin sopra le spalle, gli donavano un aspetto ancora giovanile. Il viso era lungo e magro scavato dalle profonde orbite degli occhi. Il naso era pronunciato e leggermente aquilino. Gli occhi erano chiaramente di taglio asiatico. L’abbigliamento era modesto e cosÏ composto. Una camicia con il colletto alla coreana bianca, dei pantaloni scuri e dei mocassini senza stringhe sopra dei calzini corti bianchi. Al di fuori dalla stanza indossava un impermeabile nero con la cintura in vita non sempre allacciata. 27
L’unica differenza che segnava l’alternarsi delle stagioni era data dalla sciarpa. Di lana per il freddo inverno, di cotone durante l’autunno, di seta in primavera e persino una di lino d’estate. Quando sua madre lasciava la città per andarlo a trovare nel villaggio dove viveva con i nonni, non perdeva occasione di ripetergli «Woo mettiti la sciarpa che prendi freddo e poi ti ammali». Woo, controvoglia, seguiva le indicazioni della madre più per non darle dispiacere che per altro. Un paio di volte le aveva però disobbedito sfilandola subito dopo l’angolo del vialetto di casa. E, puntualmente, si era ammalato. Si era dunque convinto che il suo destino fosse segnato da questa ingiusta maledizione. Concepito in una calda ed umida serata di luglio dall’amore (a ore) fra un marinaio americano di passaggio ed un’accompagnatrice di un bordello di Shangai, Woo aveva sempre trascorso la sua esistenza nella casa dei nonni materni. La madre, troppo impegnata a lavorare in città, lo aveva affidato alle cure di Xi e Sho, che per chi non avesse confidenza con i nomi cinesi erano rispettivamente il nonno e la nonna. I due abitavano in una capanna di legno ai piedi di una collina poco distante da Luoyang nella provincia di Henan. Il giovane Woo, sebbene mezzo sangue americano, mostrava chiaramente i tratti somatici cinesi ed era pertanto l’erede maschio che l’anziano Xi aveva sempre desiderato, ma che il destino gli aveva sempre negato punendolo con una figlia femmina. Su di lui sarebbe stato riposto l’onere di perpetrare l’antica arte di combattimento del Pescatore di trote del monte Luoyang. Nonno Xi era un uomo di poche parole e di molti gesti: perlopiù bastonate con canne di bambù e sguardi severi. Se 28
non fosse stato per nonna Sho, probabilmente Woo non avrebbe mai imparato a parlare, ma in questo non c’era cattiveria da parte dell’anziano agricoltore. Era tradizione che ogni giovane figlio maschio ricevesse un rigido insegnamento della disciplina e dell’autocontrollo; sia che questi divenisse un guerriero o un calzolaio. Fu così che all’età di appena cinque anni il giovane Woo fu condotto sul monte Luoyang fino ad un punto in cui il fiume Shewei creava una piccola insenatura prima di procedere verso la valle. Gli alberi secolari che abitavano le inospitali rocce del monte Luoyang avevano ritrovato da poco il loro abituale manto verde dopo il letargo invernale. Insieme ad essi, gli uccelli della zona furono gli spettatori dell’adolescenza di Woo. Nonno Xi alzò fin sopra il ginocchio il pantalone e si incamminò qualche metro dentro la corrente. Il silenzio dei boschi circostanti era interrotto solo dallo scroscio della cascata che si infrangeva nel piccolo laghetto e dalle urla delle scimmie che bivaccavano sulle cime più alte degli alberi. Woo lo seguì mimando con estrema attenzione tutti i suoi movimenti. Senza che l’anziano avesse minimamente smesso di fissare lo sguardo del nipote, la sua mano aperta si lanciò sullo specchio d’acqua come un martin pescatore a caccia della sua preda. Con sole tre dita e con mano ferma sollevò una trota grande quanto un braccio del giovane Woo. Lo sventurato pesce si dimenava con movimento contorti nella speranza di sfuggirne alla morsa, ma senza sortire nessun risultato. Quando la trota perse ogni speranza e si abbandonò al suo pescatore, il vecchio la ripose nella corrente e la lasciò andare. Il colpo di coda della trota produsse uno schizzo d’acqua che colpì Woo in volto. 29
Lo sguardo di Xi non si incrinò minimamente e lentamente si allontanò verso la riva. Il silenzio del vecchio non ammetteva obiezioni o domande. Le stagioni trascorrevano inesorabili e il giovane Woo passava le sue giornate fra la corrente che cercava di spingerlo a valle e la schiena curva verso lo specchio d’acqua. Le uniche indicazioni che il vecchio Xi aveva centellinato erano state «Woo, tanto più la tua mano agiterà l’acqua tanto più la trota avrà il tempo di scappare» oppure «non devi vedere la trota con gli occhi, ma percepirla con tutti i sensi. Solo allora il tuo colpo sarà efficace». Centinaia, forse migliaia, erano stati i colpi sferrati inutilmente nell’acqua gelida. Tanto forti i colpi e tanto gelida l’acqua da fargli perdere la sensibilità nei polpastrelli, ma nessuna trota era stata pescata. La sera, quando rientrava alla capanna, era già buio. Ad aspettarlo vi era solamente una ciotola di riso con verdure ed un po’ di latte di capra. In alcuni casi i gatti randagi della zona facevano razzia della cena prima che Woo fosse rientrato. Non conosceva il perché di quell’allenamento logorante, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per onorare il vecchio Xi, anche se questo fosse significato scalare la montagna a mani nude e vivere la sua intera vita da eremita lontano dal resto del mondo. Durante la notte, sebbene il corpo fosse esausto dagli esercizi ed implorasse il riposo, la mente non poteva distogliere la propria attenzione dal vuoto lasciato dal padre. Dopo qualche anno, durante una mattina d’estate scoprì di non essere l’unico ad esercitarsi nella pesca delle trote a mani nude. 30
Una femmina d’orso aveva scelto quel laghetto per insegnare ai propri cuccioli la pesca. La sua tecnica, benché più rozza, sortiva risultati nettamente migliori di quella di Woo: con una semplice zampata era in grado di scaraventare una o più trote per alcuni metri fin sopra la riva, come catapultate. Di questo passo il laghetto non avrebbe ospitato più pesci con cui esercitarsi. Woo doveva fare qualcosa. Ma cosa? Si avvicinò agitando le braccia con gesti scomposti accompagnati da versi difficilmente riproducibili che assomigliavano all’incirca a «Sciò Sciò !». L’orsa, dapprima lo ignorò, poi infastidita dal fatto che Woo stava spaventando tutti i pesci, si avvicinò con fare bellicoso. Quando la distanza fra lei e Woo fu di ormai pochi passi, un urlo simile al vento che soffia fra le montagne rocciose del est la fece arretrare. Alle spalle di Woo, il vecchio Xi avanzava lentamente tenendosi appoggiato al bastone di bambù. Diede un ceffone di ammonimento a Woo e l’orsa si ritenne soddisfatta. Il vecchio e la bestia si fissarono per qualche istante poi, di comune accordo, diedero entrambi una spinta in avanti ai rispettivi cuccioli. «Ricordati Woo» disse il vecchio Xi con tono solenne «tanto più è pesante il braccio del tuo avversario, tanto più veloce dovrà essere il tuo colpo. Solo così potrai arrestarlo» poi si allontanò e si sedette su una roccia poco distante ad osservare. Il giovane orso si mise in posizione eretta con le braccia alzate in posizione guardia. Sebbene l’altezza fosse la stessa, il giovane orso aveva il peso di quattro ossuti Woo dopo un pasto di una dozzina di portate.
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Il ragazzo strinse i pugni. Non aveva mai lottato prima di allora, ma come sempre si era fidato del giudizio del nonno e sapeva che non avrebbe messo a rischio la sua vita. O quanto meno, lo sperava. La zampa del orso piombò sulla spalla di Woo con una veemenza imprevista. L’urto lo fece rotolare per terra. Woo cercò lo sguardo di Xi e non percepì nulla dalla sua espressione. Si rialzò e si rimise in guardia. Le parole di Xi gli tornarono alla mente e d’istinto il braccio di Woo ruotò con tutta la forza che aveva per contrastare il successivo colpo dell’orso. Entrambi vacillarono, chi più chi di meno, ma questa volta Woo rimase in piedi. L’orso ci riprovò più e più volte fino a quando Woo, stremato dalla fatica, non accusò il colpo ed iniziò a barcollare. Prima che un’altra zampata lo abbattesse come un fuscello, un ruggito dell’orsa fermò l’impeto del cucciolo che indietreggiò. Prima di allontanarsi nella fitta vegetazione i tre orsi raccolsero senza fretta dalla riva le trote agonizzanti che fino a quel momento avevano cercato di sfruttare quel diversivo per sfuggire al loro infausto destino. Il giorno successivo, così come molti altri a seguire, Woo continuò i suoi allenamenti combattendo per il territorio con i due giovani orsi che, dopo ogni letargo, diventavano sempre più grandi e pesanti. Dalla sponda del fiume l’orsa e Xi restavano invece in silenzio ad osservare i loro cuccioli. Dallo sguardo perso nell’orizzonte dei due si sarebbe facilmente dedotto che stessero rivivendo nella loro memoria le stesse scene vissute in giovane età. All’età di sedici anni, dopo una mattinata passata sotto un temporale estivo, Woo sentì che qualcosa era 32
cambiato in lui. Il guscio che aveva ospitato il pulcino fino ad allora era diventato troppo piccolo. Dapprima schivò una zampata di Coh (così aveva battezzato il più grande dei due orsi) poi sferrò un colpo nell’acqua senza creare il minimo spruzzo afferrando così una trota grande quanto il suo stesso avambraccio. Nel tempo in cui una farfalla sbatte le ali, colpì in sequenza i due fratelli orsi in pieno stomaco con un calcio ed un pugno rispettivamente. Coh emise un chiaro rantolo di dolore mentre Pang (il più giovane dei due) si accasciò nella corrente, facendosi trascinare teatralmente per un paio di metri. Dalla riva l’orsa scosse il capo con disapprovazione e si diresse verso il bosco richiamandoli con un debole verso. I due la seguirono senza replicare. Quel giorno, per la prima volta, Xi diede una pacca sulle spalle di Woo ed insieme si incamminarono verso casa in silenzio. Sebbene l’avesse desiderato più di ogni altra cosa, Woo non conobbe mai suo padre, tantomeno ebbe in ricordo una sua foto da contemplare come un altarino. In una delle poche occasioni in cui la madre andò a trovarlo al villaggio natale, il cuore le si strinse nel vedere dipinta negli occhi del figlio la delusione di non aver nessun ricordo del padre. D’istinto prese dalla borsa un portachiavi che raffigurava una pin-up in stile Betty Boop. Un marinaio americano l’aveva lasciato nella stanza qualche settimana prima al posto della mancia. «Woo, so che il tuo compleanno è solo fra qualche settimana, ma ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere questo» disse porgendogli la donnina seminuda dipinta con lo smalto «è appartenuto a tuo padre. Avrebbe voluto lasciarti qualcosa di se, ma non ha avuto il tempo. La sua 33
nave stava per imbarcarsi. Doveva essere la sua ultima missione... prima di tornare da noi due.» la sua voce divenne strozzata e si forzò di simulare un pianto tanto sommesso quanto falso. Gli occhi di Woo si illuminarono di una felicità che mai prima di allora aveva avuto modo di provare: suo padre gli aveva lasciato un ricordo di sè. Non importava cosa fosse. Quel gesto era il chiaro messaggio che gli aveva voluto bene e che solo la guerra aveva impedito ad un figlio di trascorrere la sua infanzia col padre. A Woo tanto bastò per colmare il senso di vuoto che aveva sempre echeggiato nel petto durante le tante notti insonni. Prima che le nocche di una mano segnata dal tempo si schiantassero sulla porta della stanza di Monsieur Woo questi aveva già fatto leva sulla maniglia. «Woo, and...» si interruppe l’uomo sull’uscio della porta con il viso accarezzato dalla sciarpa di lino del cinese «qualcosa non va. Non abbiamo ancora avuto notizie di Pierre.» I due si incamminarono verso l’uscita passando dalle scale sul retro, scavalcando il cancello del cortile e raggiungendo il parcheggio. Il primo senza difficoltà alcuna, il secondo con un paio di ecchimosi sulle ginocchia ed imprecazioni varie. «Justine ha chiamato... Dice di rispettare il piano e di farci trovare alla casa sulla spiaggia» disse col fiatone quest’ultimo. Monsieur Woo rimase a fissarlo in silenzio mentre dall’altro lato della macchina l’uomo col cappello e la barba bianca trafficava con il mazzo di chiavi.
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Capitolo 3 Il ritrovo
Justine era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Appena uscita dalla strada statale, la Citroen rossa col tettuccio apribile e la carrozzeria dalle ammaccature lunari imboccò la superstrada che portava a Le Mesnil. Da quel punto la casa sulla spiaggia di Pierre distava poco più di un’ora di strada. Justine non vi era mai stata prima, anche se Pierre in più occasioni le aveva descritto l’incantevole paesaggio. Era questa la ragione di fondo che l’aveva spinta a non affrontare l’ultimo tratto di sera. Le indicazioni che le aveva lasciato Pierre erano state chiare, ma non poteva permettersi di imboccare una stradina di campagna male illuminata senza essere sicura dove portasse. “Ecco ora ci siamo” si disse svoltando in una strada male asfaltata “da qui dovrei incrociare una chiesetta sulla destra fra poco più di un chilometro, all’incrocio bisogna svoltare a sinistra poi al distributore a destra. La casa ha il tetto rosso e una piccola pineta sul lato est” continuò a ripetersi speranzosa di non aver imboccato la strada errata. Quando una chiesetta grande poco più di una fattoria emerse dalla balle di fieno arrotolate nei campi, Justine trattenne un gridolino di entusiasmo e tirò un sospiro di sollievo. 35
Margot seduta sul sedile accanto non si accorse di nulla. Aveva cercato di addormentarsi con la fronte appoggiata sul vetro freddo del finestrino. La notte precedente non era riuscita a dormire serenamente: l’episodio dell’abbraccio di Justine, sebbene di poca importanza, l’aveva turbata. Un episodio simile le era capitato qualche mese prima quando Melodie era arrivata al collegio. Inizialmente la giovane inserviente aveva mantenuto il contegno impostole da Madame Giselle che poteva riassumersi con una sola regola: “Non stringere rapporti personali con le studentesse”. Col tempo però la giovane inserviente iniziò a disobbedire a questo regolamento. Salutava Margot ogni qualvolta passava dal corridoio per entrare nella propria stanza. Saluti sfuggenti, ma costanti. Sembrava quasi che attendesse l’arrivo di Margot per cogliere l’occasione di parlarle o semplicemente sorriderle. Un sorriso talvolta imbarazzato e malizioso. Un’attenzione che a nessun’altra ospite dell’istituto era stata riservata. Margot, che a differenza di molte sue compagne di collegio non aveva mai assunto un atteggiamento altezzoso verso le inservienti, accolse con semplice lusinga ed interesse le attenzioni della giovane. La solitudine di quella vita aveva bisogno di essere spazzata come il velo di polvere sulla cristalliera e quel volto nuovo rappresentava per lei una piacevole distrazione. Era capitato, durante alcune sere, che Melodie fosse passata a trovare Margot in camera. Le due restavano per ore a parlare dei loro sogni, pensieri o emozioni. Altre volte Melodie aggiornava l’amica sulle notizie che trapelavano sulle altre ospiti dell’istituto, dalle studentesse alle loro famiglie, dalla direttrice del collegio al tuttofare. Pareva infatti che nell’ultimo mese prima delle vacanze estive, Madame Giselle avesse avuto una relazione con il 36
giardiniere Bernard. Lui era molto più giovane di lei e si vociferava intrattenesse nel tempo libero anche la capocuoca che da poco aveva lasciato il contabile, Monsieur Joseph. Maurice Gatier, padre delle due gemelle Gatier, era apparso sui giornali nazionali in merito ad uno scandalo di corruzione nella pubblica amministrazione. Molto probabilmente di lì a poco sarebbe caduto in miseria, ma questo le gemelle ancora non l’avevano saputo. Nell’istituto erano le uniche. Ogni qualvolta Margot riceveva un nuovo vestito dalla madre, Melodie passava la sera stessa a vedere come le vestiva. In alcuni casi, se la taglia era troppo grande rispetto al suo fisico filiforme, Margot preferiva regalarlo all’amica invece che restituirlo alla madre. Fra le due vi era però un diverso livello di attaccamento. Per Melodie la loro amicizia era tutto. Qualcosa di speciale da custodire nel tempo. Un legame che non si sarebbe mai dissolto nel tempo. Mentre per Margot, la compagnia di Melodie era certamente gradevole, ma non completamente appagante, né, tanto meno, nulla di viscerale e morboso. Accadde una sera, che un forte temporale si scatenò sulla collinetta che ospitava il collegio di Xertigny. Lampi e fulmini illuminavano alternativamente il cielo scuro. Frotte d’acqua scrosciavano sui vetri delle finestre e frustate di rami schioccavano improvvise. Le due amiche si trovavano sul letto di Margot. Un letto ad una piazza e mezzo coperto con un copriletto color vaniglia e lenzuola lilla. Erano stese sul fianco, una di fronte all’altra. Margot stava sfogliando una rivista di moda facendo commenti sul taglio dei modelli della collezione uomo mentre Melodie apostrofava ben altri modelli. 37
Un tuono rimbombò nel silenzio della stanza ed un lampo mascherò per un breve istante una caduta di tensione nell’impianto elettrico. Nella stanza calò il buio. Sporadici lampi illuminarono come flash alcuni fotogrammi. Nell’intervallo fra due di questi Margot sentì una dolce pressione sulle labbra umide. Fu questione di un istante e non fu mai certa che fosse veramente accaduto, ma quello per lei fu il suo primo bacio. La stessa sera, sola nel suo letto, non riuscì più a prendere sonno e così fu per le notti successive. Il comportamento di Melodie non era minimamente cambiato quando le luci erano state ripristinate, come se nulla fosse mai accaduto. Poteva essersi tranquillamente sbagliata, si convinse. Un’allucinazione l’aveva confusa nel trambusto del temporale, era più che comprensibile. L’auto si fermò e Justine fece dello stretching per il collo. «Siamo arrivate» esordì scuotendo dolcemente Margot per la spalla. Mentre la ragazza svuotava l’auto dai i suoi bagagli sbadigliando vistosamente, Justine ne approfittò per fare un giro della casa e scoprire se Pierre aveva rispettato il piano. Dalle finestre la casa sembrava disabitata. Si avvicinò al davanzale della cucina ed iniziò a sollevare tutti i vasi di fiori fino a trovare la chiave. Fino a quel momento le istruzioni di Pierre erano state precise ed esatte, fatta eccezione per quella più importante: “Ci ritroveremo tutti sulla casa al mare fra due mercoledì” si ripeté Justine pensando alle parole di Pierre. La situazione le stava scappando di mano. Margot avrebbe sicuramente chiesto di Pierre: doveva inventarsi una storia credibile, e al più presto. Doveva prendere tempo. 38
Monsieur Woo e Stanley sarebbero arrivato fra poco, come avrebbe giustificato la loro presenza? Si girò verso Margot intenta a trascinare le sue valige su per i gradini del porticato. «Aspetta cara, ti aiuto io. Pierre non è ancora arrivato o forse è sceso al paese a prendere delle provviste.» si trovò ad improvvisare «Dovrebbero passare a trovarci anche due amici miei e di Pierre. Persone squisite vedrai: le abbiamo conosciute a Shangai un paio d’anni fa. Tenevano uno spettacolo nel circo locale e poi si sono uniti alla nostra compagnia teatrale.» continuò Justine cercando di mantenere il tono della voce il più possibile spontaneo e sereno «Monsieur Woo ammaestrava orsi mentre Stanley era un abile prestigiatore. Se vorrai sicuramente orchestreranno per te una piccola esibizione » concluse con un sorriso. «Certo perché no.» rispose semplicemente Margot «Anche mio padre in questo momento è in oriente per una fiera d’antiquariato.» «Che coincidenza.» si affrettò a rispondere Justine con un sorriso appassito. La casa era semplice ed accogliente. Sul lato opposto rispetto all’ingresso si trovavano le camere da letto, tutte con ampie porte finestre che si affacciavano sull’oceano. Il mare era agitato e le onde si dimenavano contro gli scogli alle prese con una battaglia che non ha mai perdenti. Margot stava contemplando il paesaggio. Il sole non era ancora alto nel cielo ed una lieve brezza le faceva svolazzare l’abito. «Se vuoi fare una passeggiata fai pure» disse Justine avvicinandosi alle sue spalle «io nel frattempo preparo le stanze e cambio le lenzuola.» 39
«È stupendo questo paesaggio» rispose la ragazza «però preferisco aiutarti se non ti dispiace.» Prese uno spigolo del lenzuolo ed aiutò a stenderlo, poi afferrò un cuscino e dopo averlo alzato con la mano sinistra lo schiaffeggiò per ridargli vigore con la destra. Quando lo ripose, lo sguardo di un uomo la sorprese dall’altra parte della finestra. D’istinto lasciò il cuscino che cadde a terra. Justine si accorse della scena e si girò verso di lei. «Stanley! Cosa ci fai fuori dalla finestra? Non vedi che hai spaventato Margot?» disse scuotendo la testa e raccogliendo il cuscino «e dove c’è Stanley c’è anche Woo» aggiunse infine. Woo era seduto su una sedia della cucina con le braccia stese lungo il corpo. Sebbene non lo desse a vedere, era interiormente preoccupato. Pierre non aveva mai mancato ad un appuntamento, ne tanto meno cambiato i piani senza avvisarli. Doveva essere successo qualcosa. Un imprevisto che lo aveva costretto a prendere tempo. Il fatto che non si fosse messo in contatto con nessuno di loro aveva solo due ipotesi a suo avviso: la prima, ottimistica, lo vedeva pedinato ed intento a far perdere le proprie tracce nel tentativo di preservare il punto di incontro e i suoi compagni. La seconda ipotesi, ben più pessimista, lo voleva prigioniero o ancor peggio ucciso. In ogni caso la faccenda si era fatta complicata. Pierre era uno in gamba e in più di un’occasione aveva dimostrato di sapersela cavare da solo. C’era solo da aspettare, attenersi al piano e non farsi prendere dal panico. Quando vide Margot seguita da Stanley e Justine, un solo pensiero gli balenò alla mente: «Cosa ci fa quella ragazzina nel punto di ritrovo?»
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Capitolo 4 L’attesa
La giornata era quasi giunta al suo termine. Il sole stava per tramontare ed alcuni nubi grigie avevano coperto il cielo nell’ultima ora. Nella casa sul mare erano rimasti solo Margot e Woo. Stanley e Justine erano andati al paese per prendere delle provviste e si stavano attardando a rientrare. Fino a quel momento, pensò Margot, il programma non sembrava esser stato rispettato in nessuno dei suoi punti prestabiliti, fatta eccezione per la casa sulla spiaggia che effettivamente era dove doveva essere. Ma dov’era finito Pierre? Più volte aveva provato a fare delle domande a Justine, ma la ragazza aveva sempre sviato l’argomento o chiamato in causa Stanley. In quel momento si trovava da sola in una casa sconosciuta con un uomo di cui conosceva appena il nome. Se Madame Sophie, la sua insegnante di buone maniere, l’avesse vista in quel momento avrebbe definito la circostanza con un solo termine: sconveniente. Prima di uscire Justine l’aveva tranquillizzata spiegandole che la lasciava in buone mani e che non doveva assolutamente aver paura di Woo, nonostante potesse sembrare minaccioso per via del suo fare sempre cupo.
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«Woo non parla mai con nessuno. Quindi non pensare che gli stai antipatica.» le disse Justine prima di uscire dalla porta «È solo fatto così». Woo era seduto sulla sedia della veranda ad osservare il viottolo. Era in silenzio e paziente come un cane che aspetta fedelmente il ritorno del padrone. Margot l’aveva raggiunto tenendo in mano un libro di poesie di Flaubert. Restare da sola in un ambiente che non conosceva le creava più ansia che restare con un perfetto sconosciuto alquanto stravagante. L’aria era salmastra con un leggero odore di pineta che proveniva dal bosco poco distante. Osservando le mani di Woo, Margot notò come fossero solcate dal tempo. Le mani di un uomo che nella vita aveva sempre lavorato duramente, pensò. Stretta nel pugno teneva una catenella raffigurante una pin-up seminuda mentre con il pollice ne esplorava la superficie ormai logora. «Sai parlare francese?» esordì Margot. Woo si limitò a fare un lieve cenno di diniego senza rivolgerle lo sguardo. Lo stesso accadde quando Margot sfoggiò i suoi quattro anni di corsi di lingue straniere «Do you speak English? sprechen Sie Deutsch? ¿Habla usted español?» ma nulla riuscì a scalfire lo sguardo malinconico del cinese. «Sembri una persona a cui piace stare da solo» continuò la ragazza senza badare al suo scarso interesse «ti capisco: anch’io passo quasi tutte le sere chiusa nella mia stanza a leggere. E la cosa non mi dispiace affatto. Credo sia importante riuscire a stare bene con se stessi. Altrimenti come fai a stare bene con gli altri? Non trovi?» disse sfogliando distrattamente le pagine del libro «Cosa ti piace fare nel tempo libero?» questa volta decise di mantenere lo sguardo fisso su Woo fino a quando non le avesse concesso l’attenzione sperata. 42
Nel tempo che trascorse, uno storno di gabbiani si alzò in volo e scomparve dietro il bosco di pini. Una formica si capovolse spinta del peso di una briciola cinquanta volte più grande di lei. Un gatto esaminò il contenuto di un bidone della spazzatura posto sul lato della stradina. Poi Woo si alzò e rientrò in casa. Margot ne rimase un po’ dispiaciuta. Pensava di essere stata eccessivamente invadente e poco educata. O come avrebbe detto Madame Sophie: sgarbata. Sarebbe dovuta entrare in casa e scusarsi, ma non era del tutto convinta che Woo avrebbe apprezzato il gesto, dal momento che le aveva fatto chiaramente intendere di non apprezzare la sua compagnia. Con sua sorpresa, poco dopo, Woo apparve nuovamente sul portico con un blocco di carta bianco a righe ed una matita corta dalla punta consumata. Afferrò con la mano libera la sedia e l’avvicinò ad una Margot incuriosita, ma trionfante. Si sedette ed iniziò a fare dei brevi segni sul foglio bianco. Margot si immaginava già alcune parole o disegni stilizzati per intavolare una discussione basilare, come le prime lezioni nei corsi di lingue straniere o lo spirito dei primi graffiti nelle grotte ai tempi della preistoria. Woo le rivolse il blocco e l’unica cosa che Margot riuscì a vedere fu il simbolo di una nota musicale ♪ ed una barra / che l’attraversava da parte a parte. Quello che nel linguaggio internazionale avrebbe dovuto significare: silenzio. Il sorriso di Margot si incrinò facendo spazio a profonda delusione. A seguire vi fu lo sguardo basso e le spalle alzate in segno di scusa, il tutto con un discreto rimpicciolimento della statura. Woo capì di essere stato scortese e segnò altre quattro righe: due orizzontali parallele e due verticali che le 43
intersecavano creando nove aree. Poi disegnò un cerchio nel quadrato centrale e le porse la matita. «Vuoi giocare a tris?» chiese Margot. Woo fece cenno con la mano aperta invitandola a fare la propria mossa. Dopo aver consumato una ventina di fogli ed aver aggiornato la classifica che dava vincitrice Margot con un punteggio di trentadue a sette, dal vialetto riapparve la Citroen rossa di Justine. Per cena Justine preparò un’insalata di lattuga con pomodorini, formaggio di capra ed olive. Sulla tavola Stanley stava affettando un paio di salumi locali e delle baguette, mentre Margot era intenta ad apparecchiare. Woo, dopo il ritorno di Justine e Stanley, si era allontanato frettolosamente nel boschetto lasciando l’ultima partita, che lo vedeva ancora perdente, incompleta. «Non preoccuparti Margot. Woo tutti i giorni deve fare i suoi esercizi» si affrettò a spiegare Stanley per giustificare il comportamento del compagno. «Ma il cielo si è annuvolato, credo stia venendo a piovere» «Woo e l’acqua hanno un ottimo rapporto, non farci caso» Sotto il peso dei passi, le assi del pavimento del portico si inclinarono anticipando il suono di una mano pronta a bussare alla porta. D’istinto Margot si precipitò alla porta convinta che si trattasse di Woo di rientro dagli esercizi. «Aspetta Marg…» non fece in tempo a dire Stanley che la porta venne spalancata. Fuori un temporale estivo stava scemando ed alcuni fulmini illuminarono una figura femminile alta e di corporatura robusta.
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Portava un cappello di paglia, alquanto malandato per via del violento temporale: il nastro di raso che l’ornava era completamente bagnato. Indossava un impermeabile nero simile a quello che Woo aveva portato con se. Justine e Stanley avevano raggiunto Margot alla porta. «Desidera?» si affrettò a dire Justine. «Ragazza mia, non le ha insegnato l’ospitalità sua madre?» disse la donna muovendo il vistoso petto in tono supponente. «Spiacente, solo di non dare confidenza agli sconosciuti!» rispose Justine. «Ah! Dove andremo a finire di questo passo» disse la donna varcando l’uscio. Margot restò interdetta per un istante quando Justine tornò ai fornelli e Stanley chiuse la porta dietro la nuova arrivata. «Ce ne hai messo di tempo» disse Stanley dando una pacca sulla spalla alla donna «pensavamo ti fosse successo qualcosa.» «Pierre?» chiese Margot alle spalle della nuova arrivata. La pesante figura si girò di scatto, afferrò il cappello e la parrucca e fece un inchino «Per servirla.» Dietro il trucco marcato e la retina per capelli, Margot riuscì a riconoscere l’amico d’infanzia. Quando Pierre tornò in posizione eretta il suo equilibrio fu messo a dura prova dall’abbraccio spontaneo di Margot. Con i tacchi, il capo della ragazza gli arrivava all’altezza del cuore. Lui le accarezzò i capelli e disse «Scusa per il ritardo.» Pierre si tolse l’impermeabile che Woo gli aveva affidato poco prima, quando, aprendo lo sportello dell’auto, se l’era trovato di fronte come uno spettro. Si diresse verso la camera e dopo una rapida doccia tornò nel salone dove gli altri, Woo incluso, lo stavano aspettando a tavola. 45
Pierre prese posto accanto a Margot ed iniziò ad assaggiare i bocconcini di formaggio che Stanley aveva finito di tagliare e disporre sul tagliere come i carri armati del Risiko. «Perché non ti sei fatto sentire prima?» chiese Justine col tono offeso «Eravamo tutti in pensiero». «Ho avuto dei contrattempi» tagliò corto indicando con lo sguardo Margot intenta a condire l’insalata. Justine recepì il messaggio e sospese, almeno per il momento, il rimprovero. Dopo cena Stanley intrattenne Margot con alcuni trucchi di magia che prevedevano la sparizione dei mandarini e la loro ricomparsa dietro l’orecchio di un succube Woo. Justine e Pierre ne approfittarono per andare a fumare una sigaretta sul porticato. L’aria era umida e fresca, ma aveva smesso di piovere. «Non penso sia stata una buona idea far venire Margot» esordì Justine. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Qui siamo al sicuro e per qualche settimana è il caso di rimanere nascosti. Nell’ultimo lavoro abbiamo commesso troppi errori dovuti alla stanchezza. È bene che ognuno di noi recuperi le energie perse. E specialmente la concentrazione» Justine annuì. Sapeva che più degli altri aveva commesso delle imprudenze che sarebbero potute costare care all’intero gruppo «Perché hai tardato ad arrivare? Mi hai fatto stare in pensiero» chiese poi con un broncio capriccioso. «È successo un imprevisto. Di ritorno a Parigi, mi sono recato a casa di Matisse per consegnargli la tela» si affrettò a rispondere Pierre «ma fuori dal suo portone ho notato alcune persone sospette. Un uomo che, appoggiato al lampione, leggeva un giornale senza mai sfogliarne le pagine. Una donna che camminava col il suo cane nel 46
giardinetto per più di due ore; un operaio dei telefoni che trafficava con la centralina senza smettere di guardarsi intorno. Mi sono naturalmente insospettito ed ho aspettato nel bistrot che c’è nell’angolo fra Rue Vernet e Rue Bauchart» «Si ho capito a quale ti riferisci. Quello con le sedie di velluto verdi» aggiunse Justine. «Esatto. Ho aspettato dalle tre del pomeriggio fino alle sette di sera, poi ho fatto un giro nei paraggi. Ho comprato un libro ed ho iniziato a leggerlo vicino alla fermata dall’autobus. Sono entrato in un negozio ed ho comprato un paio di magliette di colori diversi. Verso le otto di sera altre tre persone hanno dato il cambio a quelle che fino a quel momento avevano piantonato la casa di Matisse. Questa volta ho visto un tassista con la luce “occupato” parcheggiato sul lato della strada ed una coppia davvero male assortita intenta a pomiciare sulla panchina.» «Polizia?» «Non penso.» «Hai provato a contattare Matisse?» chiese Justine. «Non direttamente.» «E come allora?» «Il giorno successivo gli ho fatto recapitare un mazzo di fiori con un bigliettino» «Del tipo?» «Mio caro, muoio ardentemente dal desiderio di farmi stringere dalle tue virili mani, ma penso che sia meglio per entrambi aspettare momenti migliori. La tua amata» «Che stupido » disse forzando un sorriso, poi fece una smorfia come se un pensiero le avesse urtato violentemente il cranio «La tela è ancora qui con te?» «In camera, nascosta» disse Pierre abbassando leggermente lo sguardo. «Merd!» esclamò ad alta voce Justine «ti rendi conto del rischio che corriamo a portarcela dietro?» 47
«Fin quando resteremo qui non correremo nessun rischio» «Come fai ad esserne così sicuro?» ribatté la ragazza. «Non mi hanno seguito» «Spero proprio tu abbia ragione. Questa volta abbiamo calpestato i piedi ad uno tipo pericoloso Pierre, non penso che si arrenderà facilmente.» «Lo penso anch’io, ma preferisco non fare nessun passo che rischiare di fare un passo falso.» «Come la mettiamo con Margot?» «Per adesso recitiamo la parte della compagnia teatrale in vacanza. Se ce ne sarò bisogno gliene parlerò. Al momento non ne vedo il motivo.» «Va bene, ma…» si interruppe. Margot e Stanley erano usciti sul portico. «Le nuvole sono scomparse» osservò la più piccola «c’è un bellissimo cielo pieno di stelle» «Già» confermò Stanley. «Vero» rinforzò Justine già immersa nella parte dell’attrice che recita la parte di un’attrice. «Che ne dite di andare a dormire? Domani mattina ci aspetta una giornata di mare» «Sì!» esultò Margot capeggiando il trenino di persone dirette verso le rispettive stanze. Woo, seduto vicino alla finestra, incrociò lo sguardo di Pierre ed annuì. Poi le luci si spensero.
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Capitolo 5 La caccia ha inizio
Una settimana prima a circa 2000km dalla casa sul mare. «Inaccettabile! Branco di inetti!» urlò il Barone Von Kaiser rivolto alle sue guardie «Ed ora sparite e lasciatemi solo». Sprofondato sulla poltrona di pelle scura nel suo studio, Otto Von Kaiser si stava accingendo a consumare la colazione versando nella tazza da tè due dita di scotch addolciti da due biscotti aromatizzati alla cannella. Doveva assolutamente calmarsi. Ritrovare la sua serenità e, soprattutto, il controllo. L’incidente della sera prima era stato un fulmine a ciel sereno nella sua vita da nobile pensionato. Segregato nel castello da dieci anni, si era ormai convinto che tutto il mondo all’esterno della tenuta fosse scomparso, imploso, o comunque avesse avuto il buon gusto di non fare troppo rumore. Mentre iperventilava in un sacchetto di carta, fra un sorso di scotch ed un biscotto, ripensò al rapporto del capo delle guardie: qualcosa non quadrava. Alle ore due della notte appena trascorsa Udo Osterlitz, la guardia di turno sulla torretta ovest, aveva 49
finito il giro di perlustrazione senza segnalare nulla di sospetto. Dopo trenta minuti si era fatto dare il cambio. Tornato nella camerata per il meritato riposo, si era però accorto di aver dimenticato nella guardiola la brutta copia di una lettera d’amore che stava preparando per la sua amata, tale Ilse, di professione panettiera. Questo dettaglio però fu artefatto nel rapporto del capo delle guardie nella seguente versione “La guardia Udo Osterlitz, una volta raggiunta la camerata si era accorto di non aver sonno e decise, di sua spontanea iniziativa e senza segnare straordinario alcuno, di prorogare il suo turno di un’ ulteriore ora data la foschia che avvolgeva il castello.” Una volta giunto nella guardiola della torretta ovest si accorse che il suo compagno non era nella dovuta postazione. Fece un rapido giro di perlustrazione sulle mura di cinta che portano all’ala ovest e lo scoprì legato ed imbavagliato con tanto di contusione alla testa. Tempestivamente diede l’allarme e il resto delle guardie si mobilitarono. Chi rifornendosi nelle armerie, chi sguinzagliando i cani, chi interrompendo il proprio spuntino. Complice la nebbia, le guardie ebbero difficoltà ad organizzarsi per focalizzare le loro ricerche. Dapprima corsero verso le stanze del Barone e degli altri componenti della famiglia Von Kaiser, poi iniziarono a controllare la sala degli archivi segreti e solo quando passarono di corsa attraverso il corridoio che collegava quest’ultimo verso la libreria, si accorsero che uno dei quadri era scomparso lasciando al suo posto il tipico spazio bianco contornato dall’ombra di anni di immobilità. Un urlo nel cortile aveva distratto la loro mente dal pensiero che l’ira del Barone si sarebbe scagliata su di loro se non avessero acciuffato i ladri. Si affacciarono verso l’esterno e videro, non senza difficoltà, sparire nella coltre di nebbia tre rapide figure. 50
Altre guardie, nel cortile, slegarono i cani all’inseguimento dei fuggitivi. Quando col fiatone e le armi puntate raggiunsero i rottweiler li trovarono soli ed intenti a saltare ed abbaiare di fronte al muro di cinta adornato con filo spinato. Dei fuggitivi nessuna traccia. Dall’esterno qualcuno bussò alla sua porta. «Avanti» disse il Barone ancora assorto nei suoi pensieri. Frau Anneke fece due passi all’interno dello studio e rimase in piedi. Da poco tempo aveva sostituito l’anziana Frau Karoline che per tutta la vita si era occupata di amministrare la contabilità e le incombenze amministrative della famiglia. Frau Anneke era vestita con sommo rigore: gonna con l’orlo sotto il ginocchio, scarpa con il tacco basso nera, camicia e giacca in coordinato. Al collo aveva una cravatta corta che copriva parte del florido seno. I capelli erano blindati da una fitta rete di fermacapelli. La schiena era dritta e l’atteggiamento altezzoso. L’aspetto nel suo complesso la rendeva simile ad un ufficiale dell’esercito. Il Barone non aveva avuto tentennamenti nell’assumerla quando si presentò al colloquio di selezione: si intonava perfettamente al grigio del castello. «Barone, Mr. Smith la sta aspettando. Posso farlo entrare?» chiese la donna. Il Barone si limitò ad un cenno della mano, mentre con l’altra sorseggiava la sua tazza di tè da poco riempita con whisky. La donna fece un passo indietro e fece cenno a qualcuno di entrare. Quando il Barone abbassò la tazzina ritrovando la completa visuale della stanza vide Frau Anneke e Mr. Smith sull’attenti dall’altro lato della massiccia scrivania di faggio. «Frau Anneke, ha le informazioni che le avevo chiesto?» chiese il Barone. 51
«Certo. Da un rapido inventario pare sia stato trafugato solamente il quadro posto nel corridoio dell’ala Ovest catalogato col numero 032-aa.» «Valore?» «Autore ignoto. Nessuna quotazione nota. Per quanto ne sappiamo la cornice in cui era riposto valeva più del quadro. Fortunatamente è stata lasciata vicino alla finestra da cui i ladri sono scappati.» «Abbiamo una foto del catalogo dell’inventario?» chiese il Barone. Frau Anneke gli porse una fotografia in bianco e nero con i bordi consumati dal tempo. «Ah sì, lo ricordo. Il quandro col bambino seduto sulla sedia con il libro sulle ginocchia. Bruttissimo. Non so nemmeno perché l’avessimo tenuto.» Il Barone restò qualche minuto in silenzio, intento a contemplare la foto. Sotto il quadro si intravedeva, inchiodato al muro, il numero della targhetta 032-aa «È uno dei primi pezzi appartenuti alla collezione di famiglia.» pensò a voce alta. «Mi permetta un’osservazione» esordì l’uomo nella stanza. Mr. Smith era un uomo alto e magro. I capelli lunghi e biondi, erano portati con la riga in mezzo e poco sopra le orecchie. Il naso sottile e pronunciato accentuava il volto ovale e il suo lungo mento. Indossava un completo nero, di alta fattura sartoriale. La giacca aveva due strani rigonfiamenti vicino al petto che, ad un occhio attento, sarebbero sicuramente apparsi come i calci di due magnum. Sebbene inglese di nascita e accento, Mr. Smith parlava un discreto austriaco. «Barone, mi permetta di esprimere un parere: faccio fatica a pensare che tre individui, senza contare il quarto pronto ad attenderli, fossero disposti ad affrontare il rischio di farsi sparare dalle sue guardie o sbranare dai sui cani per un quadro di poco o nessun conto. I tre sono entrati in azione 52
con un piano ben definito. Avrebbero potuto portarsi via facilmente ben altre opere. Se non erro, possedete un Picasso degli anni ’30 di ben più noto valore.» Frau Anneke annuì sfogliando i suoi incartamenti. «La tela è stata tagliata lungo i bordi, ciò fa intendere che il suo valore non risiede nell’opera in se.» Il tassello mancante nel pensieri del Barone sembrava essere stato facilmente trovato da Mr. Smith. A quanto pareva la sua fama di cacciatore era ben meritata. L’uomo concluse il ragionamento dicendo «Quella tela ha senza dubbio un valore. Più sapremo sulla tela, più facilmente potremo risalire ai ladri.» «Frau Anneke, mi aiuti.» disse il Barone impugnando il bastone. La donna si avvicinò con la sedia a rotelle alla poltrona del Barone e lo fece sedere. «Andiamo nella stanza dello zio Klaus» ordinò. «Credo stia ancora riposando» fece notare la donna. «È arrivata l’ora della sveglia»
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Capitolo 6 La spiaggia
Il rumore delle tende che venivano scostate irruppe nel sogno di Margot. Un sogno come tanti, dove pronunci frasi senza senso a persone che non vedi da anni. Il peso delle palpebre divenne a poco a poco meno insostenibile fin quando, a seguito di un vistoso sbadiglio, riuscì a riconoscere la figura che si trovava alla base del letto. «Stanley» disse con la voce assonnata Margot. «Buongiorno signorina, che ne dici di prepararci per andare al mare?» sorrise l’uomo dal sorriso permanente. Era alto, quasi quanto Pierre (senza i tacchi), la barba era lunga di qualche settimana e completamente bianca, così come i capelli di pari lunghezza. La carnagione, un tempo chiara, si era scurita dopo una vita trascorsa sotto il sole. Alcune rughe profonde intorno agli occhi davano al suo sguardo una profondità che solo un uomo della sua età poteva avere. La tenuta da spiaggia era composta da una camicia stile hawaiano e dei bermuda beige con le tasche sui lati. Infradito e cappello da baseball completavano il tutto. «Va bene, dammi solo dieci minuti che mi preparo» rispose Margot. «Inizio a prepararti il tè» «Pierre e Justine?» chiese inforcandosi le pantofole la ragazza. 54
«Sono andati all’ufficio postale, ci raggiungeranno sulla spiaggia» «…e Woo?» «È da poco andato a dormire, si farà vedere verso l’ora di pranzo» rispose l’uomo. «Vi conoscete da molto?» continuò la ragazza. «Intendi io e Woo?» Margot annuì. «Da quasi dieci anni ormai» «Justine mi ha raccontato di avervi conosciuti a Shangai» «Già, a quei tempi avevo da poco lasciato l’aeronautica militare. Dopo una vita passata sulle portaerei, iniziai a girovagare per il mondo. Poi, un giorno, lo incontrai al circo di Shangai. Si occupava di ammaestrare un vecchio orso. Quando l’animale morì di vecchiaia il proprietario del circo lo licenziò. Mi capitava di incontrarlo spesso al porto. Io osservavo le navi salpare mentre lui era seduto su una panchina a fissare le navi che attraccavano. Aveva sempre con se un portachiavi che teneva in mano. Come se stesse aspettando qualcuno e quello fosse il segno di riconoscimento. Una sera un gruppo di delinquenti mi pedinò fino ad uno stretto vicolo buio. Non mi avrebbero fatto paura, in vita mia ho avuto a che fare con gente ben peggiore, ma quella volta avevo bevuto parecchio e i miei riflessi non erano proprio al cento per cento» simulò con i pugni alzati una camminata barcollante «i primi due si avvicinarono a turno e non ho avuto problemi a stenderli con due pugni alla mascella e alla bocca dello stomaco. Gli altri, capendo che avevano a che fare con un osso duro, si lanciarono in gruppo ed ebbero la meglio. Ero rannicchiato a terra con la testa fra le braccia in attesa che si stancassero e mi derubassero dello zaino. Calci e pugni sulle gambe e la schiena piovevano come grandine. Poi, come uno spettro, intravidi un ombra 55
muoversi velocemente dietro di loro. Alcuni gemiti si susseguirono seguiti dai rumori di passi veloci. Quando riaprii gli occhi, lui era rannicchiato vicino a me. Tese la mano e mi aiutò ad alzarmi. Per ricambiare il gesto gli offrii la cena in una locanda poco distante. Da allora siamo inseparabili. Se ci ripenso, avevamo molto che ci accumunava. Entrambi eravamo come due stranieri lontani da casa» il sorriso di Stanley si incrinò per un istante, lasciando scorgere un velo di malinconia. «Riesce a capire la nostra lingua? Ieri non ha detto nulla per tutto il giorno.» chiese la ragazza intenta a trovare il costume nella valigia. «Non preoccuparti. Ti capisce benissimo. Semplicemente non gli piace parlare. Ha vissuto per molti anni da solo senza poter parlare con nessuno. Non è abituato, tutto qui. Ti aspetto in cucina» disse l’uomo facendole un occhiolino e chiudendosi la porta alla spalle. Il sole era alto in cielo. La giornata era calda, ma resa piacevole da un vento leggero. Stanley e Margot dovettero percorrere una breve scaletta ricavata nella roccia per accedere alla spiaggia. Le infradito di Stanley sprofondavano ad ogni passo nella sabbia chiara, mentre Margot aveva preferito camminare a piedi nudi. Sentire il calore della sabbia che le avvolgeva i piedi le donava un senso di piacere simile ad un massaggio plantare di un centro benessere parigino in cui sua madre l’aveva portata qualche mese prima. La spiaggia era lunga circa cinquecento metri, molti dei quali costeggiati dalla ripida scogliera. L’ombrellone a righe rosse e bianche presentava qualche segno di ruggine, mentre le sedie a sdraio erano decisamente più recenti. Poco distante si potevano scorgere una coppia di anziani ed una famiglia con tre bambini che facevano castelli di sabbia, con tanto di segrete e armerie. Le case che si affacciavano 56
sulla scogliera erano quattro in tutto. La terza casa, cioè quella fra la coppia di anziani e la famiglia, sembrava essere disabitata al momento. Dopo essersi cosparsa di crema solare come wurstel con la senape, Margot si sdraiò con la schiena rivolta al sole decisa ad annullare il biancore che la separava da Justine. «Ehi!» disse una voce dalla scaletta nella roccia. Margot riconobbe la voce di Justine e si mise a sedere. A seguire vi erano Pierre con un cesto da pic-nic e Woo con la sua camicia aperta di qualche bottone e i pantaloni avvolti fin sotto il ginocchio, intento a portare una cassetta di bevande. Al collo, l’immancabile foulard di lino. Per pranzo Justine aveva preparato una baguette per ciascuno. Da bere, un’aranciata per Margot, una birra per Justine, del vino bianco per Pierre, rosso per Stanley ed acqua per Woo. Woo se ne stava sotto l’ombrellone a gambe incrociate intento ad osservare l’orizzonte. Il suo sguardo era perso, come sempre. Margot alternava i lati della rosolatura per evitare le temute scottature da primo giorno. Justine sfoderò un costume due pezzi che non lasciò molta immaginazione nei maschi presenti. Specialmente Pierre, con biasimo di Stanley e disinteresse di Woo. Le ore passavano tranquillamente. Il sole sarebbe scomparso poco dopo, nascosto dalla scogliera e dalla vegetazione. «Pierre» esordì Margot dopo una posa di trenta minuti sul fianco sinistro «che tipo di compagnia teatrale è la vostra?» Pierre, colto un po’ di sorpresa per la domanda a ciel sereno, cercò di ripescare dalla memoria la storia che aveva studiato proprio in occasione di quella domanda. «Siamo una sorta di compagnia di saltimbanco. Perlopiù lavoriamo nelle fiere o nei circhi che ci ospitano. Stanley si 57
occupa di trucchi di magia, io e Justine ci travestiamo da clown mentre Woo…» ebbe un vuoto di memoria «Woo fa cose.» «Cose cosa?» chiese la ragazza. «Acrobazie» rispose Stanley da dietro. «Deve essere divertente, vero? Mi potreste far …» «Se vuoi Woo ti accompagna a raccogliere delle conchiglie. Ti va?» sviò prontamente Justine noncurante del disappunto di Woo. «Certo!» rispose la ragazza «mi presti il cappello?» Woo fece un sospiro e si mise in piedi. Fece un paio di passi fuori dall’ombra dell’ombrellone e per poco non si arrecò un ustione alla pianta del piede. Questa volta il sospiro fu accompagnato da uno sguardo fisso al cielo. Margot camminava sul bagnasciuga mentre Woo la seguiva di qualche passo con il cestino per raccogliere le conchiglie. Ogni volta che lei si chinava a raccoglierne una, lui si fermava mantenendo la stessa distanza. Era la sua ombra, ma molto più alta e torbida. I commenti della ragazza sulla forma o sui colori delle conchiglie raramente sortivano una risposta diversa da un sorriso di circostanza. Quando raggiunsero la coppia di pensionati, Margot si fermò a salutare con alcune frasi di circostanza che Madame Sophie aveva spiegato nella lezione “incontri con anziani di estrazione non altolocata”. Anche in questo caso Woo rimase a debita distanza, in attesa che la ragazza terminasse la cerimonia con un inchino. Giunti al secondo stop le cose non furono altrettanto semplici. Mentre Margot intavolava una discussione tratta dalla lezione “incontri con coppie sposate con prole fino ai 12 anni” Woo se la dovette vedere con i tre bambini intenti a farsi la guerra con gavettoni e bombe di sabbia. Muovendo il solo busto con le braccia dietro la schiena si trovò a schivare in ordine: un attacco di numero quattro 58
gavettoni provenienti da tre direzioni, un placcaggio alla gamba di un bambino di otto anni di almeno 60 chili (decisamente in sovrappeso pensò mentre con la gamba a compasso lo faceva scorrere via come il toro che cerca di incornare il torero) e due polpette di sabbia umida scaraventate ad altezza volto. La fulminea battaglia si concluse con i tre bambini colpiti dai rispettivi gavettoni, stesi a terra ed intimoriti dal petto pieno di segni di Woo. Quando Margot si rivolse nuovamente verso il cinese, questi aveva da poco riallacciato l’ultimo bottone. «Proseguiamo?» disse la ragazza senza attendere risposta. Percorsero un altro paio di kilometri prima di accorgersi che si era fatto tardi. Nascosto dalla scogliera il sole era improvvisamente tramontato e la spiaggia piombava di colpo nell’ombra. «Torniamo a casa dalla strada, così faremo prima» suggerì la ragazza. Terminata la salita dalla scaletta di pietra, riemersero dal buio ritrovando un normale pomeriggio d’estate. Affacciandosi sul bordo videro Pierre e gli altri sbaraccare l’ombrellone per rincasare. Dapprima passarono di fronte la casa dei tre bambini pestiferi. Dalle finestre si intravedeva la madre intenta a preparare la cena mentre il padre cercava, con scarsi risultati, di contenere l’iperattività bellica dei figli. Poco dopo giunsero alla casa disabitata. Woo si fermò per qualche istante, senza che Margot se ne accorgesse. Rimase a fissare la finestra del piano di sopra. Immobile. Aveva come l’impressione di essere osservato. Poi la voce di Margot lo destò e proseguì. Quando giunsero alla casa della coppia di anziani trovarono il vecchio seduto fuori dalla porta. Anche in questo caso Margot non poté esimersi dal intrattenere una breve conversazione di cortesia il cui 59
argomento verteva principalmente sulle mezze stagioni e la vita al mare. Per un istante Woo pregò affinché non uscisse anche l’anziana signora. Stranamente, Qualcuno lassù, in quel pomeriggio d’estate si mosse a compassione scongiurandogli questa pena. Entrarono in casa. La stanchezza di una giornata passata sotto il sole nel completo ozio, si era fatta sentire più di un turno in miniera. Pierre era riverso sul divano, Stanley era seduto sulla sedia fuori dal porticato con i piedi appoggiati su di un asse e il cappello basso sul volto. Justine era piombata nella doccia per togliersi la salsedine dai capelli. Non c’era cosa che odiasse di più dei capelli sfibrati ed opachi. Preoccupazione che aveva solo marginalmente sfiorato Margot. Il gruppetto di cinque dovette combattere fra la stanchezza e la fame. Una breve votazione per alzata di mano permise, ad una maggioranza assoluta, di varare un decreto che prevedeva di cenare fuori quella sera. Poco distante, vicino agli scogli, vi era un ristorante con specialità a base di pesce. Il desiderio bramoso di mangiare quelle prelibatezze li spinse a passo veloce verso l’odore di frittura mista che s’irradiava per chilometri. Un naso attento, avrebbe potuto percepirla perfino a Parigi.
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Capitolo 7 Il Colonnello.
La stanza dello Zio Klaus era deserta. A quanto pareva l’anziano Colonnello dell’esercito si era svegliato di prima mattina quel giorno. «Strano sono le undici» notò il Barone «lo Zio non esce mai dalla stanza così presto». Frau Anneke si permise di correggerlo «Ultimamente il Colonnello Von Kaiser gradisce trascorrere le ore del mattino nella cucina del castello» «A far cosa?» chiese incuriosito il Barone. «È solito intrattenersi con le cuoche» «Ora si spiega la scarsa attenzione nella cottura dello stinco. Lo Zio Klaus distrae le cuoche» bisbigliò il Barone ripromettendosi di risolvere il problema al più presto «Conducilo alla libreria, noi ti aspetteremo lì». Quando la donna si allontanò verso le scale, il Barone si sentì libero di parlare con Mr. Smith. «Smith, l’ho fatta chiamare per un motivo» iniziò «è per me, e per la mia famiglia, inaccettabile che qualcuno si introduca nel nostro castello portandosi via qualcosa di nostro. Abbiamo faticato per accumulare tutte queste ricchezze, con costanza e dedizione abbiamo fatto razzia di ogni oggetto di valore durante il Terzo Reich. Mio padre, il Barone Von Kaiser fu personalmente incaricato dal Fuhrer di trafugare preziosi d’ogni sorta e provenienza durante la 61
guerra. Era fondamentale per poter sostenere i costi del conflitto bellico. Non so se mi spiego.» tossì il Barone. «Capisco benissimo» annuì Mr. Smith. «Da sempre la mia famiglia ha procurato fondi per tutti quei volenterosi uomini che avevano un sogno» gli occhi diventarono lucidi «instaurare un regime dittatoriale. Portare l’ordine in questo mondo dove prevale il caos.» «Filantropi» commentò Mr. Smith. «Esattamente!» esclamò battendo il pugno sul bracciolo della sedia a rotelle «Guardando nell’inventario, la tela rubata ha un numero di catalogo molto basso. Risale ai tempi di mio nonno. L’unica cosa che possiamo fare al momento è cercare di cavare qualcosa dallo Zio Klaus, suo fratello minore. Insieme al nonno depredarono mezza Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Ultimamente ha perso qualche colpo, ma è la nostra unica speranza per avere un indizio utile» Frau Anneke giunse poco dopo seguita dallo Zio Klaus. Era un vecchietto la cui statura era stata limata dal tempo. Di corporatura robusta, portava con disinvoltura, ed un cenno di orgoglio, una pancia degna di un assaggiatore di birre. Il viso era altrettanto paffuto ed i capelli bianchi ricordavano due fiocchi di cotone sopra le orecchie. I baffetti erano ispidi ed altrettanto canuti, così come le sopracciglia cespugliose. «Anneke… se solo fossi vent’anni più giovane» esordì il vecchietto intento a seguire il portamento della donna come l’asino con la carota. «Avrebbe l’età di mio nonno» rispose distrattamente la curatrice del castello. «Quanta superbia, quando ero più giovane incontrai…» «Zio Klaus. Unisciti a noi» tagliò corto il Barone «come ben sai qualcuno ha osato violare il nostro castello… è nostro dovere dargli la caccia!» 62
«Tutti alle armerie! Voglio cinque uomini sulla torre nord, dieci al porticato e rinforzi dall’aviazione! C’è da avvisare il Capo di Stato Maggiore! Chiamate un radiofonista!» disse il vecchio agitandosi. «Vogliate scusarlo Mr. Smith, lo Zio Klaus fu Colonnello dell’esercito per molti anni.» Mr. Smith non cambiò minimamente espressione. Sapeva che la parte più difficile nel suo lavoro era il rapporto con la clientela. Statisticamente aveva appurato che tanto più un cliente era facoltoso, quanto più le stranezze che lo riguardavano diventavano imbarazzanti. D'altronde in questi tempi di crisi non poteva permettersi di fare troppa selezione. Specialmente ora che l’ex moglie gli aveva portato via la casa, la barca e lo chalet in montagna. Anche nel mondo dello spionaggio privato le cose non andavano nel migliore dei modi. Le maggiori agenzie nazionali di intelligence avevano ridotto i fondi per i consulenti esterni. Pare che alcuni colleghi di categoria avessero abusato del trucco del doppiogioco per ricevere più parcelle. Questo aveva creato sfiducia nei grandi clienti ed un taglio della domanda. Al momento ciò che gli rimaneva erano lavoretti di spionaggio industriale, omicidi, trasporto di documenti segreti agli stessi committenti ed interviste anonime a giornali di settore. Sul numero di giugno di SPY MEN c’era una sua intervista che si intitolava “L’abbigliamento glamour per la spia moderna, le nuove tendenze”. «Zio Klaus, i ladri sono fuggiti, ma ho bisogno del tuo aiuto per capire perché hanno trafugato un quadro di poco valore» il Barone fece un cenno e Frau Anneke aiutò il vecchio Colonnello a sedersi. «Si tratta del quadro del bambino seduto con il libro sulle ginocchia. Era nel corridoio...» «del lato ovest» concluse lo Zio Klaus. «Esattamente. Ha un qualche significato secondo te?» 63
Il vecchio assunse un’espressione pensierosa. Si grattava con la mano la tempia nel tentativo di stimolare qualche ricordo, poi la pancia attraverso i due strati di panciotto e camicia. Infine si massaggiò il doppio mento, poi d’un tratto assunse un’espressione molto simile ad un sorriso di compiacimento. «Ti sei ricordato qualcosa?» chiese incuriosito il Barone. «Parigi. Una casa vicino ai Campi Elisi.» iniziò a raccontare «Avevamo da poco invaso Parigi. Io e le mie truppe eravamo intenti a saccheggiare le case delle famiglie più facoltose. Molte di queste erano già scappate all’estero lasciando nelle case solo gli oggetti di poco valore. In altre, i bombardamenti avevano colto nel sonno gli abitanti uccidendoli sul colpo. In una di queste trovammo un uomo. Era ancora in vita, ma le macerie gli avevano bloccato una gamba. Aveva perso molto sangue ed era molto affaticato. Non per questo smise di divincolarsi dal blocco che gli pesava sul ginocchio. Quando ci avvicinammo con i fucili puntati, non ebbe nessuna espressione di paura. Il suo sguardo era fiero e nobile. I miei uomini iniziarono a fare razzia dei suoi averi e lui non cambiò minimamente espressione. Rimase con lo sguardo fisso verso di me. Sebbene fosse steso per terra percepivo che mi osservava dall’alto verso il basso con disprezzo. Mi accorsi che vicino a lui vi era un tubo di cartone. Mi avvicinai lentamente e mi accorsi che la sua calma stava lentamente scemando. Il suo sguardo seguì il mio puntato sullo stretto cilindro. Di scatto mi chinai ad afferrarlo e vidi che con tutte le forze cercava di scagliarsi contro, come un cane legato ad una corda. “Cosa ci sarà mai di così prezioso?” domandai mentre sfilavo il foglio dal tubo. L’uomo urlò ed imprecò. Con mia evidente delusione, il foglio rappresentava un bambino seduto su una sedia con un libro appoggiato sulle ginocchia. Non era nulla di prezioso pensai. Poi vidi sul retro la scritta “Matisse” e 64
sospettai di aver trovato un’opera dell’autore impressionista tanto in voga in quel periodo. Lo riavvolsi con cura e lo riposi nel tubo. L’uomo continuò ad urlare ed imprecare con la voce graffiata dalla stanchezza. Lentamente si accasciò ed iniziò a tossire. Mi fece compassione e l’aiutai… a morire» Lo sguardo dello Zio Klaus si era fatto vuoto. Privo di emozioni. «Il quadro non è catalogato come un’opera di Matisse» precisò Frau Anneke. «Quando tornammo in Austria lo feci periziare da un esperto. Così come altre opere trafugate si dimostrò una tela anonima» commentò l’anziano «a tua madre piacque e volle tenerlo. Fosse stato per me l’avrei dato alle fiamme.» «Cosa ti ricordi di quella casa?» chiese il Barone. Il racconto del Colonnello non aveva dato fino a questo momento un riscontro utile alla ricerca dei ladri. «Non ricordo» disse sconsolato «ma ho tenuto un registro negli anni. Sono segnati molti appunti sulle raccolte. Se non ricordo male fu un paio di giorni dopo il 13 giugno del 1940. È un libretto marrone nel cassetto della scrivania che si trova nell’archivio segreto dei documenti.» Il Barone si sfilò una catenella dal collo ed ordinò a Frau Anneke di andare a recuperarlo immediatamente. Nell’attesa i tre uomini rimasero in silenzio. Il Barone ne approfittò per rabboccare la tazza del tè che si era portato dietro. Mr Smith scorreva velocemente le costine dei tomi che componevano l’immensa libreria Von Kaiser. Il Colonnello era invece assorto in un miscuglio di pensieri presenti e passati che lo vedevano protagonista mezzo secolo prima di un interessante incontro nelle cucine del palazzo con le cuoche. «Trovato» irruppe Frau Anneke consegnando libretto e chiavi al Barone, il quale iniziò velocemente a scorrerne le pagine fino ad arrivare ai giorni indicati dallo Zio Klaus. 65
Lesse bisbigliando alcune righe, altre le saltò senza badarci e poi puntò il centro di una pagina ingiallita con l’ossuto dito. «Eccolo!» Campi Elisi, palazzina liberty su tre piani: Famiglia Savoir. Secondo piano Microscopio, collezione di ragni tropicali, iguana imbalsamato. Primo piano Servizio d’argento da 24pezzi, alcuni camei e pietre grezze. Piano terra. Un busto di marmo, un quadro di Matisse ed alcuni minerali grezzi con venature azzurre. Nessun componente della famiglia è stato rinvenuto vivo. Altri devono aver fatto razzie prima del nostro arrivo. «Famiglia Savoir! Smith abbiamo un punto di partenza. Vada a Parigi e scopra se esiste ancora qualche componente in vita. Voglio ogni tipo di informazione, patrimonio, attività…TUTTO!» «Sarà fatto» rispose Mr. Smith. «Frau Anneke si prepari, lei partirà con Mr. Smith. Sarà il mio occhio e il mio orecchio in questa missione» «Missione?!» si alzò dalla sedia di scatto lo Zio Klaus «Datemi dieci uomini, due infiltrati, un interprete e munizioni come se piovessero. Un autoarticolato leggero, artiglieria pesante e copertura aerea!» «Non è il caso di agitarsi Zio Klaus» disse il Barone porgendogli una tazza di cognac «ed ora andate! Inizia la caccia!» Un fremito si fece strada fra i nervi anestetizzati dall’alcool, donando al Barone una ormai dimenticata vitalità.
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Capitolo 8 La terza casa
Stivati al buio in una vecchia casa sul mare, Mr. Smith e Frau Annette attendevano che il cinese e la ragazzina sul vialetto distogliesse lo sguardo dalla loro direzione. Era fondamentale per il loro piano che il gruppo di ladruncoli non sospettasse minimamente di essere osservati. Dovevano sentirsi al sicuro. Solo così avrebbero potuto averli impugno e coglierli di sorpresa. Durante l’attesa lo sguardo di Mr. Smith volteggiò nell’aria come una piuma fino ad adagiarsi sui generosi fianchi di Frau Annette, amplificando così l’eco di una mascolinità da tempo rintanata in qualche meandro della sua mente. Sebbene lo sguardo profondo e il fare da uomo duro ed inflessibile, Mr. Smith nascondeva una sensibilità tristemente flagellata da un matrimonio andato a rotoli. L’ex-moglie di Mr. Smith, avvenente ballerina brasiliana, non si era limitata a sottrargli solo la casa, la barca e lo chalet in montagna, ma anche la sua preziosa virilità. Il suo essere uomo; oltre che efficiente sicario tuttofare. Di fronte al giudice incaricato della separazione, la sua appariscente ex moglie dal corpo mozzafiato aveva chiesto a titolo di risarcimento il cinque per cento in più di quanto 67
stabilito; avvalorando la tesi, che durante gli anni di matrimonio Mr. Smith non aveva saputo appagarla sessualmente a causa di difficoltà erettili croniche. “Diritto legittimo di ogni donna, sancito anche in qualche riga sottointesa della costituzione” secondo la tesi dell’avvocato. Il giudice, nonché donna tradita da entrambi i suoi ex mariti, non ebbe nessuno scrupolo nel concordare il risarcimento richiesto; aggiungendone, a sua discrezione, un altro cinque percento per premiare l’onestà della santa donna. Lo stesso l’avvocato di Mr. Smith non obiettò al provvedimento, essendo anch’essa una donna inviperita col genere maschile dopo aver preso una multa da un intransigente vigile molestatore. Mr. Smith aveva ricevuto un colpo basso, di quelli che sul momento non lasciano segni, ma col tempo ti piegano in due stendendoti a terra senza fiato. Si era ripetuto che poteva capitare a tutti di trovarsi ad attraversare dei momenti di forte stress. Come a giustificarsi con se stesso. Infondo era un uomo che si alzava ogni mattina andando incontro a buone probabilità di incidenti mortali sul lavoro. Tutta quest’ansia da qualche parte doveva pur sortire qualche effetto negativo. Ecco, si disse, probabilmente l’ansia albergava nella ramificazione del cervello più prossima alla sua virilità. Quando prendeva il sopravvento e cominciava a sbraitare con voce stridula, spaventava la sua sensibile vicina costringendola a rintanarsi dietro qualche corteccia cerebrale. Nulla era servito aggiungere una seconda pistola nella sua fondina e qualche etto di cotone sotto la cintola. Aveva perso la sua mascolinità, così come la forza di Sansone dopo il taglio a caschetto che gli aveva riserbato Dalila. 68
La visione di Frau Anneke era stata per lui come una scintilla dopo innumerevoli tentativi di sfregare il legnetto secco. Gli aveva donato un rinnovato senso di euforia, più gli arretrati di sei mesi. Quel senso di bramosia era celato dietro una gonna nera tanto austera quanto stretta. Il puritanismo della veste delle donna stava sortendo in lui l’effetto contrario rispetto a quanto desiderato dal bigotto sarto che l’aveva confezionata. Scosse la testa cercando di sopprimerla e ritrovare la sua concentrazione. Era in missione, pensò. Nel vano tentativo di reprimere questo istinto ancestrale un ricordò balenò sullo schermo dei suoi pensieri. Era un ricordo di pochi giorni prima, a cui non aveva voluto ancora prestare attenzione, incolonnato sotto una pila di dettagli operativi della missione. Ora però si divincolava dalle strette morse della sua professionalità per essere ascoltato. Il piantonamento della casa di Parigi. A quanto pareva la casa descritta da Klaus Von Kaiser non era stata distrutta dai bombardamenti, bensì ristrutturata dallo stesso attuale proprietario, un tale Monsieur Matthe Savoir, anziano pensionato. Un’indagine più accurata, costata parecchio in mazzette ai servizi segreti locali, aveva rivelato che Matthe Savoir era l’unico erede della famiglia Savoir, una delle poche dinastie che si erano arricchite agli inizi dell’ottocento commerciando spezie con l’India. Mercato ben più noti agli odiati cugini inglesi. Matthe Savoir aveva un fratello maggiore, Baptiste, morto durante la guerra. Baptiste aveva spesso viaggiato negli oceani indiani durate le traversate delle navi di famiglia; più per coltivare la sua innata passione per le scienze naturali, che per i compiti a lui assegnati dal padre. 69
Ripensando a questo ultimo dettaglio, Mr. Smith collegò la breve descrizione del secondo piano riportata da Klaus Von Kaiser: microscopio, collezione di ragni tropicali e iguana imbalsamato. Al momento tutto quadrava, il Colonnello Von Kaiser doveva aver ucciso il fratello maggiore di Matthe durante la sua razzia. Insieme a Frau Annette avevano piantonato l’ingresso dell’abitazione del vecchio. Qualcosa gli faceva sospettare che i ladri avessero agito per suo conto. Alcune guardie del Barone erano rimasti appostate nei dintorni. Chi intercettando le chiamate sotto la mentite spoglie di un tecnico della società telefonica, chi leggendo il giornale o prendendo un caffè nel bistrot nell’angolo. Di fronte all’ingresso di casa Savoir, vi era un piccolo scorcio alberato dove una decina di conifere facevano ombra ad una panchina di legno. Mr. Smith ed Frau Annette avevano adottato la copertura della coppietta di innamorati. «Frau Annette, ho trovato strano che il Barone le abbia affidato un compito così pericoloso e poco adatto ad una signora» esordì Mr. Smith seduto sulla panchina. «Non ne vedo la ragione» rispose la donna. «Lei si occupa di amministrazione per conto della famiglia Von Kaiser, mentre qui siamo impegnati in un’operazione in incognito di una certa pericolosità.» «Mr. Smith, mi duole contraddirla, ma ogni membro al servizio del Barone proviene da una carriera militare. È un requisito su cui non transige. Le stesse cuoche, ad esempio, provengono da un cacciatorpediniere» A quelle parole, gli occhi di Mr. Smith plasmarono l’immagine austera e rigida che avevano di Frau Annette donandole dei lineamenti più gentili e sensuali. Dall’altro lato della strada un giovane uomo sulla trentina vestito da artista bohemien si avvicinò prudentemente al 70
portone di casa Savoir. Poi si fermò ed iniziò a guardarsi intorno con fare ... «Sospetto!» disse a denti stretti Mr. Smith. «Cosa facciamo?» bisbigliò la donna. «Non dobbiamo insospettirlo» disse afferrando la nuca della donna per poi portarla a se. L’impatto delle labbra fu accompagnato da un soffocato rumore di porcellane che urtano. Inizialmente la donna fece resistenza, ma l’avambraccio allenato di Mr. Smith non gli permise di divincolarsi. La tecnica della lingua a serramanico donò quell’intensità che avrebbe reso la copertura tanto convincente quanto imbarazzante agli occhi di un passante. Con l’occhio socchiuso Mr. Smith non perdeva di vista l’uomo mentre la sua lingua eseguiva un massaggio tailandese alle gengive di Frau Annette. Residui di spinaci e finocchi svelarono la composizione della dieta della donna. Seguì un disinvolto dietro-front del sospetto. Quando si voltò, Mr. Smith notò che legato da una corda teneva un tubo simile a quelli usati dagli artisti di Montmartre per custodire i ritratti preparati per i turisti. «Ci siamo!» esultò mentre Frau Annette rimase per qualche istante con la bocca intorpidita. Erano anni che alcuni suoi muscoli facciali non venivano scomodati. Mentre le guardie del Barone non perdevano di vista la casa, Mr. Smith e Frau Annette si concentrarono sul sospetto pedinandolo a debita distanza. In più occasioni dovettero dissimulare il loro appostamento con avvolgenti baci alla francese, data la specificità del territori, ma in nessuno di questi casi la fanteria di Mr. Smith si scomodò dalla trincea lasciando nell’uomo un velo di delusione. Eccoli lì, nascosti in quella casetta di provincia. La proprietaria di casa aveva richiesto un affitto da soggiorno al Grand Hotel per quella spartana dimora, ma non 71
avevano avuto scelta, ne scrupoli, nello spendere i soldi del Barone. Il cinese era stato richiamato dalla ragazzina. Mr. Smith non aveva ancora capito quale fosse il ruolo della giovane. Sugli altri componenti della banda si era fatto un’idea. L’asiatico era chiaramente la loro arma in caso di combattimento. Di notte l’aveva seguito mentre si allontanava nei boschi per allenarsi. La sua agilità e forza erano fuori dal comune; c’era da temere in un combattimento corpo a corpo. Il ragazzo e la ragazza sembravano due tipi svegli: agili ed abili nei travestimenti. Il ragazzo era il tramite con Savoir; da ciò poteva dedurne fosse il capo della combriccola. L’uomo più attempato era chiaramente un ex militare americano. La sua medaglietta di riconoscimento al collo non lasciava spazio ad errori. La ragazzina… si ripeteva. Qual’era il suo ruolo? Doveva assolutamente capirlo. Assorto nei suoi pensieri Mr. Smith non badò al rituale di accoppiamento improvvisato da Frau Annette. Capello svincolato dai dodici ferretti, emissione di feromoni nell’aria, un bottone della camicia sbottonato e le labbra, che stanche dalle fatiche dei giorni precedenti, avevano improvvisato una smorfia più simile ad un luccio che un sorriso sensuale. «Si stanno muovendo!» disse l’uomo scansandola ed avvicinandosi alla finestra «Dobbiamo approfittare di questo momento per intrufolarci nella casa» Frau Annette, che nel tempo impiegato da Mr. Smith per pronunciare queste frasi si era già ricomposta, si infilò l’impermeabile e caricò il carrello della sua semiautomatica prima di infilarsela nella tasca. Cotanta adrenalina le aveva, allo stesso tempo, smorzato il desiderio ed aumentato la bramosia creando in lei una certa 72
confusione dei sensi. Si diede un pizzicotto sull’avambraccio e riprese coscienza da questo stato di ebbrezza che l’aveva pervasa.
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Capitolo 9 Per cena: pesce e marinai
L’odore che aveva attratto i cinque avventori come il suono delle sirene per Ulisse, altri non era che la frittura mista di Monsieur Poisson, rinomato chef della zona. All’orizzonte solo un sottile spicchio arancione di sole sottraeva la scena ad una luna piena. Pierre e Justine erano rimasti indietro a parlare mentre Margot e Stanley avevano iniziato una sfida a colpi di domande da Quiz. Al momento la categoria di domande selezionata era “Divi del passato” e vedeva Stanley in netto vantaggio per ovvie ragioni anagrafiche. Woo era in disparte. Qualcosa gli ronzava nella mente come una zanzara che sbanda vicino all’orecchio. Si diede uno schiaffo e la scacciò. La locanda di Monsieur Poisson non poteva dirsi assediata dai clienti. Ai tavoli vi erano alcune coppie di anziani alle prese nel sorseggiare una zuppa di pesce con le dentiere in bella vista ed paio di marinai della zona con le mani più coriacee di un guscio d’ostrica. Quando Monsieur Poisson uscì dalla cucina, seguito da un accompagnamento musicale di pentole baccaglianti, tutto fu più chiaro. Lo Chef Maurice Poisson era un corpulento uomo di bassa statura ed accentuata pancia. Indossava un paio di pantaloni 74
a righe verticali bianche e bordeaux. La blusa bianca da cuoco era una versione rivisitata di qualche opera di Mirò, dove al posto dei pennelli, qualcuno aveva usato code di cefali e chele di granchio. Il viso era paffuto, con la barba di almeno una settimana. I capelli, scuri e conci, erano malamente coperti da una sorta di fungo atomico bianco che qualche stolto avrebbe potuto scambiare per un cappello da cuoco. «Benvenuti da Chez Poisson!» disse con una voce grassa quanto il suo girovita, «Abbiamo dei forestieri! Che bella sorpresa!» disse accompagnando a spintoni gli ospiti verso il tavolo. Quando si furono accomodati Justine fece cenno a Margot di controllare se avesse una macchia d’olio sulla schiena. La giovane si limitò ad un sorriso di imbarazzo. Il danno era irreversibile. Olio di frittura di pesce. La moderna chimica dei detersivi nulla aveva potuto contro questa piaga del bucato. Dalla cucina sbucò l’aiuto cuoco, un giovane smilzo a cui l’acne aveva rinnovato il contratto di locazione ancora per qualche anno. Era curvo e con il viso da roditore. Portava con se un paio di secchi pieni d’acqua. Osservando il suo moto ondulatorio nel camminare e l’evidente vena sul viso, si poteva tranquillamente stimare che il peso dell’aiuto cuoco era di poco superiore ai due secchi. «Vieni qui François! Fai vedere ai nostri ospiti che belle aragoste abbiamo oggi!» Il ragazzo vacillò per l’ultimo metro e poi appoggiò i due secchi a terra. I cinque forestieri si affacciarono con curiosità. «Come mai le tenete in vita prima di cuocerle?» chiese ingenuamente Margot. «Mia cara, ucciderle andrebbe a scapito della squisitezza della polpa» rispose il cuoco.
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«Sono pericolose quelle chele?» continuò la ragazza, che mai prima d’allora aveva potuto vederne in posti diversi dal piatto, adagiate su un velo di insalata con maionese. «Quelle chele sarebbero in grado di tranciare di netto il dito di un uomo…» poi osservò bene e disse adirato «François, una delle due chele non è legata! Razza di incapace!» Woo, che fino a quel momento si era tenuto in disparte, si avvicinò lentamente. Osservò l’aragosta come se volesse fissarla negli occhi. Si avvolse la manica della camicia e con un movimento visibile solamente alla moviola afferrò l’ostrica e la tirò fuori dal secchio. La teneva stretta fra pollice ed indice. Con la mano libera prese la fascetta e la rimise al suo posto come la sicura di una pistola. Lentamente la adagiò nell’acqua per poi lasciarla ciondolare giù nel ridicolo abisso. Quando rialzò lo sguardo verso il resto dei presenti notò un generalizzato sbigottimento. «Grazie, Monsieur» disse il giovane aiutante. Woo inchinò leggermente il capo e si rimise a sedere. Gli altri si limitarono a seguirlo. Qualche tavolo più in là, una coppia di marinai dal viso segnato dal lavoro sui ponti dei pescherecci si avvicinò con passo lento e pesante facendo tremare la terra e i bicchieri sul tavolo. Uno di loro aveva un grembiule lungo e nero mentre per l’altro grigio chiaro. Entrambi indossavano gli stivali di gomma verdi tipici dei marinai. «Sei stato in gamba ragazzo» esordì uno di loro «non è la prima volta che vedo una cosa del genere» «Philippe non essere scortese» disse l’uomo col grembiule nero «Io sono Jean e lui è mio fratello Philippe. Siamo pescatori della zona.» Justine prese la parola e presentò ognuno di loro aggiungendo alla fine «Vi andrebbe di unirvi a noi?» 76
I due non si consultarono nemmeno. Presero un tavolo e lo accostarono al loro. Nel frattempo François trasferì i coperti. «Molti anni fa, prima di metterci in proprio e tornare in Francia, eravamo su un’imbarcazione che commerciava nel Golfo del Bengala. Si chiamava “Coucher du soleil”» iniziò Jean «Un giorno il motore ebbe un problema e fummo rimorchiati sulle coste di Temain, una delle due isole dell’arcipelago del Andaman. Per la riparazione era necessario un pezzo che sarebbe arrivato non prima di due giorni. Il comandante, per non doverci sfamare a sue spese e intaccare le provviste, ci lasciò consumare due dei cento giorni di ferie che avevamo accumulato.» Philippe continuò il racconto mentre Jean stappava una bottiglia di vino «Io e Jean ci siamo incamminati verso l’entroterra a dare un’occhiata ai paesi di pescatori che vivevano in quella zona. Arrivammo in un piccolo villaggio dove le case erano costruite principalmente con tronchi e paglia. Come c’era da aspettarsi, non vi era nessuna locanda dove fermarsi a mangiare, così io e Jean decidemmo di pescare da qualche fiume o stagno. Restammo appollaiati su una roccia per più di un’ora, controllando l’esca ogni dieci minuti. Ma nulla accadeva. Sembrava che quei pesci fossero troppo furbi per cadere in un tranello così ingenuo.» Jean, che aveva finito di scolarsi il quartino di vino, riprese la parola. «Ad un certo punto del pomeriggio, quando i primi crampi della fame cominciavano a farsi sentire, un uomo della nostra età, magro e gracile, si avvicinò al torrente. Ci guardò e sorrise nel vedere la nostra canna da pesca. Poi si avvicinò lentamente alla riva, si tolse le scarpe, arrotolò i pantaloni fin sopra le ginocchia ed entrò in acqua. Io e Philippe eravamo convinti di aver incrociato lo scemo del 77
villaggio e ci scambiammo un cenno di scherno nei suoi confronti.» «Come un fulmine!» si intromise Philippe «Il suo braccio è piombato nell’acqua senza nemmeno uno schizzo e ne ha estratto un pesce grande così!» fece cenno indicando la larghezza di un foglio da lettera «Si girò verso di noi e lo lanciò a riva. Mentre io e Philippe osservavamo il pesce divincolarsi fra spasmi, altri ne piovevano dal cielo a fargli compagnia. Quando furono poco meno di una decina tornò a riva e li mise in un sacco. Ci salutò e sparì nella foresta.» «Quello che hai fatto poco fa ragazzo» disse Philippe rivolto a Woo «è stato stupefacente come allora.» Jean annuì intento a scolarsi un calice di rosso. «Il nostro Woo è capace di sorprenderci in ogni occasione» commentò Stanley. «Com’è la vita sempre in viaggio nei mari tropicali?» chiese Margot affascinata da quegli uomini così diversi dalle persone che aveva conosciuto finora. «È un’esperienza unica mia cara» commentò Jean accarezzandosi la folta barba «paesaggi stupendi, donne bellissime ma non per questo meno pericoloso di altri.» «Tempeste e maremoti?» chiese Margot nella speranza di ascoltare qualche aneddoto alla Hemingway. «Magari» commentò Philippe. «Squali ed orche?» chiese febbricitante la giovane. «Erano loro ad aver paura di noi!» rise rumorosamente Jean. Poi lo sguardo del vecchio marinaio con grembiule divenne serio. Si avvicinò al viso di Margot insieme al suo olezzo di merluzzi e vino della casa. Lentamente le sue labbra pronunciarono l’unica parola in grado di mandarla in estasi: «Pirati» A Margot mancò il fiato e non solo per il mix di odori. 78
«Esistono ancora i pirati ai giorni d’oggi?» chiese Pierre qualche posto indietro. «Proprio così» aggiunse Philippe dopo aver sviscerato un gambero «ora non ci sono più i galeoni e i cannoni. Ma il concetto è sempre lo stesso: depredare le navi mercantili.» «E la nostra era un gran bella nave» concluse Jean. Dal fondo del ristorante una coppia di vecchietti si era avvicinata al tavolo, attirata dai racconti e dalla novità dei forestieri. Il più anziano, con la falcata di qualche decina di centimetri, impiegò qualche minuto ad avvicinarsi «Ehi Philippe» disse con voce rauca ed acuta «allieta gli ospiti con la storia del Pirata Little.» «Monsieur Basilic, non ho molta voglia questa sera» rispose Philippe. Il vecchietto impugnò il bastone e colpì sull’alluce il marinaio cinque volte più grande di lui. Philippe, che con una sola alitata avrebbe potuto stenderlo, chiese scusa col capo chino e si schiarì la voce con un ¼ di vino bianco. François prese una sedia per Monsieur Basilic ed una per sè e rimase ad ascoltare il racconto del vecchio marinaio, mentre i cinque forestieri iniziarono a servirsi con le squisitezze dello Chef Poisson.
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Capitolo 10 L’avventura del Pirata Little
Leggenda narra che all’inizio dell’ottocento un giovane ammiraglio si era imbarcato sulla Prince, una nave mercantile che trasportava spezie dall’India all’Europa. La Prince era di proprietà di tale Sir Stewart, un nobiluomo parente alla lontana del monarca Giorgio III. L’ammiraglio in questione era James Lloyd Little, di famiglia medio borghese. Ragazzo di bell’aspetto e brillante carriera. In patria, la grande Inghilterra, non aveva lasciato amori. Ciò che gli interessava quando salì la prima volta sulla Prince era diventare Comandante di vascello. Lavorò sempre sodo, non c’è che dire. Durante una traversata dall’Inghilterra verso l’India ricevette l’incarico di dare ospitalità alla famiglia Potter, amici di vecchia data di Sir Stewart che, in quel periodo, si trovava temporaneamente nelle Indie per gestire alcune nuove tratte con le Americhe. Come in ogni leggenda che si rispetti, vi era anche una bellissima ragazza: la figlia di Sir Potter. Il suo nome era Marian, dai capelli rossi e mossi, con una carnagione candida e vellutata che brillava sotto i raggi del sole dell’equatore. È altresì superfluo citare le intere giornate passate in compagnia l’uno dell’altra, nella costrizione del ponte di prua. Parlavano di letteratura, teatro, musica, astronomia. 80
Tutti quegli argomenti per cui si studia un’intera vita con l’unico obiettivo di ritrovarsi preparati all’appuntamento col destino, nell’unica interrogazione che ti permetterà di risultare interessante agli occhi della persona amata. James diede mostra delle sue capacità in più occasioni: durante una complicata manovra nel mezzo di una tempesta, recitando poesie in prosa, sfidando col fioretto degli impacciati macchinisti in cambio di qualche ora d’aria, prendendo a sonori calci alcuni banditi che avevano cercato di issarsi sul ponte di poppa durante una notte nebbiosa. Il mito prosegue narrando che li avesse disarmati con le proprie mani scaraventandoli in mare aperto. Alcune versioni, più critiche, l’hanno visto invece comandare un paio di mozzi tanto robusti quanto maneschi restando nelle retrovie a coordinare come un allenatore di cricket. Nulla di tutto ciò poté comunque scalfire l’immagine impeccabile del giovane Ammiraglio Little. Dopo due mesi di navigazione attraverso i mari d’Africa e d’Arabia i Potter giunsero a destino. Il giorno prima dello sbarco James dichiarò il suo amore per la giovane Marian, la quale accolse con sincero entusiasmo il sentimento del ragazzo. James seguì l’intero protocollo e chiese la mano di Lady Marian a Sir Potter, il quale non fece obiezione alcuna durante l’ultimo conato di vomito del viaggio turbolento. Accordo era fatto. Il programma prevedeva che dopo il soggiorno presso la dimora indiana, la famiglia ritornasse in Inghilterra durante l’inaugurazione della nuova rotta commerciale di Sir Stuart con le Americhe. A sei mesi dallo sbarco, Marian e James si sarebbero incontrati a Londra dove avrebbero convolato a giuste nozze, consumato la tanto attesa prima notte, sfornato un paio di piccoli Lloyd Little Junior e chiesto un prestito a qualche banchiere ebreo per comprare una casetta 81
vittoriana con giardino, pagandola comodamente in una ventina d’anni. I giorni passavano lenti sul calmo oceano indiano. James non trascorreva minuto senza pensare al suo rientro a Londra. In particolar modo al suo incontro con Marian dopo tanti mesi di lontananza. Alla passione che li avrebbe visti rotolarsi su i prati del giardino di casa ed altri atti poco adatti ad una leggenda raccontata in prima serata. James si convinse di aver vissuto un’intera vita in attesa del suo rientro. In quei mesi di pensieri reiterati e quasi ossessivi realizzò che non avrebbe potuto restare separato dalla sua amata per più di giorno al suo ritorno in patria. La vita da ammiraglio poco si confaceva a questa sua nuova necessità. Ma l’amore fa superare ogni difficoltà, si disse. Al suo ritorno diede le dimissioni dalla compagnia di Sir Stewart e con i tutti i soldi accumulati dei salari di anni di duro lavoro si presentò alla porta di casa Potter. Si fece prima confezionare su misura un abito da un famoso sarto londinese. Andò da un barbiere e comprò un mazzo di fiori la cui fragranza avrebbe reso persino una discarica un posto gradevole. Salì i cinque gradini che lo conducevano alla porta di casa Potter e bussò con fare fiero e deciso. Petto in fuori, sguardo e mento rivolti verso l’alto. Sorriso di cortesia amabile e perfetto. Venne ad aprire un vecchio maggiordomo che lo guardò con fare incuriosito. James non varcò l’uscio di casa Potter. Il maggiordomo lo informò del fatto che Marian era divenuta da tempo la moglie dell’attempato Sir Stewart. Pare che la giovane avesse accettato una precedente proposta di matrimonio di un giovane ammiraglio di una 82
nave mercantile, ma Sir Stewart, che nella vita aveva sempre ottenuto ciò che voleva, smosse mezzi e risorse che fecero presto cadere in tentazione la giovane ragazza, non prima dei suoi arrivisti genitori. Fino a qualche istante prima il cuore di James fluttuava nell’aria come una sfera di cristallo sostenuta da una fontana di chiare limpide acque. Ma la mano tremante del vecchio maggiordomo non esitò a chiuderne il rubinetto lasciandola frantumare in mille pezzi. Trascorse alcune settimane chiuso in una locanda di periferia fra prostitute e poco di buono. Non aveva avuto il coraggio di tornare nella casa di famiglia dove i suoi amati genitori lo aspettavano insieme alla sua promessa sposa. Il disonore era stato troppo grande. Con pazienza e l’aiuto di alcune delle ragazze di facili costumi che albergavano sul suo piano, riuscì a ridare forma al suo malandato cuore. Ma ogni cuore infranto difficilmente è in grado di ritrovare la completa guarigione. In taluni casi, l’amore ristagnato al suo interno si raggruma diventando nero. La linfa che fino a poco tempo fa l’aveva fatto battere con vigore si tramuta in veleno. Veleno che lentamente inizia a pervadere tutto il corpo fino a corrompere la custodia della ragione. Nella leggenda che parla di James Lloyd Little vi è una lacuna di alcuni mesi dovuti alla carenza di episodi narrativi interessanti adatti a tenere vivo l’interesse del pubblico. Tempo in cui non si sa bene quali furono le conoscenze che fece e le influenze che ricevette. Qualcuno afferma che alcuni criminali, che albergavano nella sua locanda, lo presero in simpatia alimentando in lui l’idea della vendetta. Altri sostengono invece che si fosse rivolto ad una cartomante di Soho per vendere la propria anima al diavolo pur di riavere ciò che gli era stato promesso. 83
Fu avvistato per la prima volta un anno dopo l’infausta notizia. Seduto in uno squallido bar nei pressi del porto di Calcutta. Vi era rimasto poco del giovane ragazzo dal viso pulito che varcava i porti sulla Prince. Il suo volto era scavato. La barba incolta l’aveva invecchiato di una decina di anni, così come lo sguardo vuoto nelle orbite profonde. Il naso era stato più volte riplasmato dalle delicate mani di qualche furfante durante risse e rese di conti. I capelli erano lunghi e conci. Il colore biondo si era scurito aumentando il contrasto con la carnagione pallida. Quando uscì da quel bar, furono in una dozzina a seguirlo. Gente senza scrupoli, pronti a qualsiasi cosa per arricchirsi facilmente ed in quelle terre aspre vi era un solo modo conosciuto: pirateria. Con i soldi rimastigli, comprò una vecchia lancia che equipaggiò con armi a buon mercato. Conosceva le rotte e le regole delle navi della compagnia di Sir Stewart. Erano centinaia i collegamenti fra l’India e il resto del mondo che arricchivano l’uomo che gli aveva portato via la sua promessa sposa. Gli restava una sola cosa da fare per ricambiare il torto subito. Togliergli tutto. Iniziò così la leggenda del Pirata Little. Spietato, quanto malinconico brigante dei mari indiani. Mosso dal risentimento, riuscì ben presto a ridurre a meno della metà la flotta di Sir Stewart, mentre la restante parte gli fu portata via dai creditori che lo avevano sostenuto con l’impresa delle rotte Americane. Una volta consumata, la vendetta si assopì lasciando un vuoto incolmabile, più dell’amore perso. Affidò la sua lancia al più meritevole dei suoi briganti e con la sua parte di ricchezze tornò in patria dove rilevò la compagnia di Sir Stewart per pochi soldi. 84
La rimise in sesto ed assoldò i suoi vecchi compagni di arrembaggio per scortare le sue flotte durante i carichi più rischiosi. Erano passati quasi quindici anni dalla prima volta che James si era presentato a casa Potter. In cuor suo voleva essere certo che aver rovinato la vita a Sir Stewart non avesse rovinato di riflesso anche quella dell’amata Marian. Quando varcò il cancello notò che non vi erano le stesse siepi di rose che aveva notato la prima volta. L’erba era alta e un manto di foglie secche non era stato raccolto. Bussò alla porta di casa e venne ad aprire lo stesso maggiordomo di allora, se possibile, ancora più vecchio e senza l’abito di servizio. Questa volta lo fece entrare. Era l’unico rimasto della servitù. Insieme a Sir Stewart anche Sir Potter aveva investito nel commercio con le Americhe perdendo tutto. Dopo la bancarotta era rimasto in India dove con quel poco che gli era rimasto aveva potuto condurre una vita dignitosa. La casa di Londra era rimasta abbandonata e Alfred, così si chiamava il maggiordomo, vi aveva continuato a vivere in attesa dell’inevitabile epilogo. James chiese di Marian e per la seconda volta nella sua vita, le parole del vecchio gli spezzarono il cuore. Dopo pochi mesi dal matrimonio, Marian era fuggita per far ritorno a Londra dove l’aspettava l’uomo di cui si era innamorata. Lo cercò ovunque, ma nessuno, compresa la famiglia dell’uomo, aveva più avuto sue notizie. Qualcuno vociferava che fosse impazzito e divenuto un senza tetto. La giovane pianse notti intere per aver causato tutto quel dispiacere ai suoi cari. Quando il padre la venne a riprendere per riportarla da suo marito, si versò del cianuro e si lasciò morire sul letto pur di non tornare tra le braccia del suo viscido consorte. 85
Il giorno seguente, nel letto della sua residenza di Londra, la servitù trovo James Lloyd Little morto. Secondo il medico il cuore aveva smesso di battere naturalmente. Fra le sue volontà, scritte solo la sera prima, vi era il desiderio di essere seppellito vicino all’amata. Sulla tomba, ancora presente ai giorni d’oggi, si può leggere l’incisione: “James Lloyd Little. Lo stolto che perse tutto nel tentativo di portarlo via ad un altro”. Alla tavola del ristorante dello Chef Poisson, c’era gente che sbadigliava, un giovane assistente cuoco che si stava innamorando di una giovane cliente, altri che dormivano già da un pezzo e qualcuno che con gli occhi lucidi soffocava alcuni singhiozzi. L’orario di chiusura era passato da quasi un’ora, ma Monsieur Poisson non se la sentì di scacciare gli avventori, tutt’al più di applicare una maggiorazione al servizio.
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Capitolo 11 La pochette
Il fiume di vino e la tarda ora avevano sfiancato le cinque sagome che lentamente rientravano a casa. Procedevano in silenzio, più per la sonnolenza che per il bisogno di restare in quiete, lungo la strada buia appena illuminata dalla luna. Margot era sazia del racconto di Philippe & Jean. Ascoltando l’avventura dei due vecchi marinai si era dipinta nella mente ogni piccolo dettaglio di quella storia. Dalle vele ai cappelli, dalle piante tropicali ai visi dei marinai. Spesso pescando dai ricordi di racconti di avventura, altre volte dalla sua fervida immaginazione. Stanley aveva ascoltato il racconto mescolandolo con i propri ricordi di gioventù sulle portaerei. Justine e Pierre, molto più pragmatici dei primi due, si chiedevano dove avevano già sentito quella storia piena di luoghi comuni e finale scontato. Woo non aveva ascoltato nemmeno una parola della leggenda del Pirata James. Ciò che l’aveva più colpito era l’episodio del giovane pescatore a mani nude. Per un istante si era sentito meno solo al mondo. Quando la sagoma della casetta sulla scogliera fu visibile, Justine ebbe un sospiro di sorpresa. «Cosa c’è Justine?» chiese Pierre con la voce assonnata. 87
«Ho dimenticato la pochette sul bancone del ristorante!» rispose con tono concitato. «La andremo a riprendere domani mattina» cercò di tranquillizzarla Stanley. «C’erano le chiavi di casa dentro!» «Porc…» soffocò su nascere Pierre «Restate qui» disse rivolto a Stanley e le due ragazze «Io e Woo torniamo al ristorante nella speranza che non sia già chiuso» concluse con la voce da condannato. Mentre i due fortunati si incamminavano a passo sostenuto nel buio del vialetto alberato, i tre superstiti si avvicinarono all’uscio. Stanley occupò un posto sulla sedia a dondolo della veranda, mentre Margot, piegata in due dal vino bianco della cantina di Monsieur Poisson, si fiondò a sedere sul gradino dell’ingresso. Justine, in piedi di fronte alla porta, camminava avanti e indietro dispiaciuta per la dimenticanza. In alcuni momenti diede la colpa al vino, poi fu colpa di Pierre che aveva insistito affinché tenesse il denaro e le chiavi in borsa. «Oltretutto volevo farmi anche una doccia e un impacco di balsamo ai capelli, diamine! Con tutta quella frittura è come se avessi una seconda pelle di unto addosso!» disse con fare scocciato. La disperazione durò poco meno di un paio di vasche di veranda, il tempo di realizzare che i suoi polpacci stavano per cedere dopo la camminata su tacchi da 10cm sulla strada sterrata. Prima sbuffò come solo una donna sa fare quando qualcosa non va come desidera; poi si appoggiò con la schiena alla porta per togliersi i tacchi e … Clack. La rovinosa caduta regalò un’inaspettata veduta ad una fila di formiche esploratrici che passavano di là. «Tutto bene?» disse Margot cercando di issare Justine da terra «Strano la porta era aperta» pensò a voce alta. La ragazza entrò senza remore, non badando agli sguardi di sospetto che i due amici si stavano scambiando. La 88
seguirono d’impulso. Justine ebbe l’istinto di impugnare la piccola pistola semi automatica che teneva ancorata alla giarrettiera, ma si ricordò di averla lasciata dentro la pochette. Stanley, che solitamente andava in giro senza armi, cercò la più letale: Woo. La porta dell’ingresso si chiuse di scatto dietro di loro facendo accendere come un interruttore la luce del salotto. «Buonasera» esordì un uomo alto e magro vestito con completo nero e camicia bianca «Ci stavamo preoccupando, vista l’ora. Sedetevi.» Dietro di loro una donna bionda con un impermeabile nero li teneva sotto tiro indicando con la canna della pistola due sedie. «Sul tavolo ci sono due manette, immagino sappiate cosa farne. Mi raccomando, le mani dietro la schiena.» continuò l’uomo con tranquillità. Margot era immobile con la bocca tappata dalla mano pallida dell’uomo. Se la paura poteva avere un odore, in quel momento si sarebbe potuto descrivere come formaggio stagionato di pecora ed olive. L’uomo vestito di nero doveva aver cenato leggero. Sentiva la canna della pistola premere sotto la scapola, ma l’uomo non aveva intenzione di farle male o spaventarla. In fondo non ne aveva ragione, lei era inerme e lui voleva solamente che non facesse nessun passo falso. Avevano tacitamente trovato un accordo. «Chi siete? E cosa volete?» domandò Stanley. «Pensavo fosse l’unica cosa certa, ma a quanto pare mi sbagliavo. Attendiamo ancora un paio di minuti i vostri compari e poi iniziamo il teatrino» disse con voce calma e sicura. Alle parole “teatrino” Margot si tranquillizzò, doveva trattarsi di una messa in scena di alcuni amici di Pierre. Pareva fossero avvezzi ad ingressi non convenzionali. L’uomo vestito di nero, pensò, era molto raffinato. Il suo 89
accento era chiaramente inglese e sfoggiava un vocabolario molto ricco. Doveva trattarsi sicuramente di un attore titolato. Shakespeariano forse. Mr. Smith l’accompagnò con la mano fino al sofà dove le indicò di sedersi. Con il palmo della mano le accarezzò il capo in modo quasi affettuoso. Lo sguardo di Margot cadde sulle scarpe di vitello dell’uomo. Dalla manifattura dovevano essere italiane. Con la sua amica Melodie ne aveva visto un paio identiche su una copertina di un giornale di moda. Quell’uomo, pensò, era molto affascinante e ben vestito. Frau Anneke stava invece controllando che i due ostaggi avessero stretto le manette prima di sedersi. Poi prese una corda e legò la catenella dell’uno all’altra. Sistemò altre due sedie sulla stessa linea per poi restare nei pressi della porta con la pistola in pugno. «Proprio una gran bella casa per trascorrere le vacanze al mare. Silenziosa, isolata. Ottima scelta non c’è che dire. Se non avessi incrociato Pierre a Parigi probabilmente non sarei stato in grado di rintracciarvi in questo paesello di pescatori.» Justine si limitò ad alzare il sopracciglio facendo chiaramente intendere che, non appena Pierre fosse arrivato, sarebbe stata lei stessa a sparargli un colpo al piede. Proprio lui che aveva avuto il coraggio di riprenderla quando aveva perso il passamontagna fra gli arbusti pieni di spine del giardino Von Kaiser. Ricordava ancora come uno di quegli aculei le era penetrato nel polpaccio costringendola ad imprecare ad alta voce. Per colpa di quel piccola distrazione le guardie li avevano individuati ed inseguiti con i cani. Le scalette di corda che Stanley aveva preparato sul muro di cinta gli avevano permesso di cavarsela per un soffio. Sarebbe bastato un solo altro contrattempo per farli catturare. 90
I due ospiti mancanti non tardarono ad unirsi al gruppo. Quando varcarono la porta, Pierre e Woo impiegarono alcuni istanti ad abituare la vista alla luce. Negli ultimi trenta minuti avevano camminato nel buio più completo. «Siete riusciti ad entr…» disse d’istinto Pierre facendo il primo passo nella casa. Mr. Smith, per ovviare a probabili tentativi di reazione, era tornato a puntare la pistola sopra la testa di Margot. La giovane non vedeva l’ora che l’amico di infanzia arrivasse per permettere ai suoi compagni di teatro di finire la messa in scena e poter andare a letto. In alcuni momenti sbadigliò vistosamente lasciando perplessi Mr. Smith e Frau Anneke. Così giovane e così impavida, pensarono i due. Con la minaccia di Margot sotto tiro ne Pierre ne Woo se la sentirono di reagire ai due. Si erano distratti e il nemico aveva colto quel momento di debolezza, come era potuto succedere? Forse la stanchezza per la giornata passata al sole, la pesantezza nella digestione della frittura di pesce di Poisson, il vino versato a fiumi dai due fratelli pescatori. Dovettero ammettere di aver sbagliato, mentre a capo chino si ammanettarono alle sedie. Ma ciò che era più grave era l’aver messo in pericolo la vita di Margot a sua insaputa. Con l’occhio crepato e la testa sorretta dall’avambraccio puntato nel bracciolo come una staffa, Margot stava lentamente crollando dal sonno. Lei, che durante le sue serate passate al collegio, andava a dormire alle nove. Le ultime parole che riuscì ad udire furono quelle pronunciate da Pierre «Vi ho visti a Parigi, eravate seduti su una panchina di legno a baciarvi in un modo disgustosamente vistoso…» poi il capo di Margot si accasciò. Anche l’ultimo neurone del suo cervello si era lasciato cullare dagli effetti ipnotici del vino scadente di Monsieur Poisson. Una voce nelle prime fasi del sonno echeggiò nella mente di Margot sfiorando appena il suo senso del dovere. Era quella di 91
Madame Sophie durante la lezione intitolata “dieci modi per congedarsi da una piacevole serata con amici ed ospiti�.
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Capitolo 12 Il fermaglio a forma di farfalla
Seduto nel suo ufficio in qualche umido seminterrato di un grigio edificio nella periferia di un’imprecisata zona industriale tedesca, il giovane ingegnere che progettò il furgoncino Volkswagen modello T2, di certo non avrebbe mai immaginato che la sua parsimonia nell’usare degli ammortizzatori decenti avrebbe un giorno arrecato diverse contusioni a tre ostaggi stipati malamente al suo interno. Legati come dei salami Pierre, Justine e Stanley erano stesi sul pianale del furgone. Dopo essere stati narcotizzati con dei fazzoletti intrisi di cloroformio si erano risvegliati solo diverse ore dopo. Il primo a svegliarsi fu Stanley. Aver realizzato di non avere più in testa il suo cappello da baseball l’aveva messo in uno stato di allerta. Sopportare di essere stati catturati era una pena accettabile, ma mostrare in pubblico la calvizie era veramente troppo. Justine realizzò che avrebbe dovuto convivere col vestito a fiori intriso nell’odore di fritto misto ancora per molto. Pierre si stava chiedendo dove fossero Margot e Woo. Durante quello che solo con un pallido eufemismo possiamo definire interrogatorio, svoltosi la sera prima, Mr. Smith aveva minacciato Pierre intimandogli che se non gli avessero mostrato il nascondiglio della tela trafugata al 93
barone avrebbe ucciso l’impavida ragazzina dormiente. Non c’è bisogno di dire che non ebbero scelta e Pierre fu costretto a rivelarlo. Woo l’aveva nascosto su un albero appeso fuori dal cortile. La donna, Frau Anneke, era uscita a controllare e, una volta rientrata, aveva semplicemente annuito con il capo. Mr. Smith aveva poi iniziato a fare domande a cui ne Pierre ne gli altri sapevano rispondere. «Perché avete rubato quel quadro da quattro soldi quando avreste potuto trafugare opere ben più preziose?» I quattro si fissarono con la coda dell’occhio. Forse per sancire un tacito accordo di segretezza o semplicemente per scoprire chi di loro sapesse la risposta. «È stato Matthe Savoir a commissionarvi il furto?» si avvicinò con la pistola al viso di Justine. «Sì» rispose la ragazza con la voce strozzata dalla paura. «Non penso che otterremo molto» concluse l’uomo «Credo che solo il vecchio sappia il reale valore del quadro». Fece cenno di procedere a Frau Anneke. La donna prese una bottiglietta di cloroformio e vi tamponò sopra un fazzoletto che aveva in tasca. Poi, uno a uno, narcotizzò i quattro ostaggi. Stanley oppose resistenza, ma il soffice seno della donna lo tranquillizzò come un cuscino per un soldato che ha dormito mesi sulle rocce. Pierre seguì l’esempio del vecchio Stanley mentre Justine ne annusò avidamente l’odore acre pur di coprire l’odore di fritto. L’ultimo fu Woo che non oppose resistenza ne godette del trattamento per la cervicale. L’ultima immagine che Pierre aveva di lui lo vedeva col capo chino e il mento sul petto. I tre si misero a sedere. Pierre e Justine erano appoggiati l’uno sulla schiena dell’altro nel tentativo di sbrogliare i nodi delle corde. Nei brevi momenti di silenzio, fra una canzone tirolese e l’altra riuscirono a percepire le grasse risate di due uomini. Parlavano tedesco e dal tono 94
delle loro voci erano certi che nessuno dei due fosse l’uomo col vestito nero dalla voce calma e conciliante che avevano conosciuto. «Dove ci staranno portando? Pensi ci vogliano uccidere?» chiese Justine. «Stiamo viaggiando da ore, se avessero voluto ucciderci, l’avrebbero fatto nel bosco» rispose Stanley. «Ho il brutto presentimento che ci vogliano portare dal Barone» rispose Pierre. «Cosa te lo fa pensare?» chiese dubbiosa Justine. Se il vano del furgone fosse stato illuminato, avrebbe di certo mostrato lo sguardo sconcertato di Pierre. «Justine, siamo entrati in casa di un Barone austriaco che ha assoldato degli uomini per darci la caccia e guarda caso i due che stanno guidando sono campioni di Jodel e, come dice Stanley, stiamo viaggiando da ore. Se uno più uno fa ancora due… credo proprio che il Barone ci voglia vivi» «Il mio era solo sarcasmo, Mister Come-sono-bravo-aseminare-la-gente”. I due si chiusero in un silenzio ermetico per circa un paio d’ore prima di ricominciare a lamentarsi. La fame iniziava a farsi sentire. Nel sottotetto di un oleoso ristorante sul mare, un giovane aiuto cuoco di nome François si accingeva a coricarsi. Il giorno seguente, lunedì, era giorno di chiusura settimanale per il ristorante. Monsieur Poisson gli aveva concesso il pomeriggio libero se avesse rassettato tutta la cucina e il salone dei tavoli. Il tanto atteso riposo del giusto. Era affondato con la schiena nel materasso di spugna che male si adattava alla rete di molle deformata. Il cuscino, di lana di pecora, non aiutava certo a combattere l’afa notturna. Un talentuoso grillo aveva iniziato a provare una nuova composizione in Mi bemolle che faceva più o meno così… 95
Cri cri…Cri…Cri Cri… Il ritmo era buono, penso François, con un po’ più di presenza scenica sul tetto del ristorante avrebbe potuto attirare lucciole, zanzare, lumache e… uccelli. Nella fase di dormiveglia che precede il sonno profondo, François ripensò al volto angelico della ragazza con vestito a fiori e il fermaglio a forma di farfalla nei capelli. Mai nessuna giovane fanciulla aveva varcato la porta del ristorante di Monsieur Poisson con la stessa eleganza e portamento. Per certi versi sembrava una principessa. Nulla a che vedere con le ragazze del luogo. Con una di quelle era riuscito ad estorcere un bacio senza lingua dopo una sfida a sputi. In quel limbo di compiacimento che rasserena i pensieri con un semplice sforzo di immaginazione, François si vide a danzare in un salone di un elegante ristorante di Parigi con Margot. Lui indossava un frac mentre la sua dama sfoggiava un vestito da sera scollato sulla schiena e al collo un filo di perle. Con in sottofondo la musica di un quartetto d’archi, i loro corpi volteggiavano a qualche centimetro da terra leggiadri ed armoniosi. Lui le teneva la mano e con l’altra le cingeva il fianco dolcemente. Ad ogni volteggio il braccio di lei premeva sulla spalla di lui. Dapprima leggermente, poi sempre più grave. François rimase sorpreso dal peso di quell’esile braccio, poi qualcosa nella sua remota parte cosciente suonò il campanello della sveglia. Quando aprì gli occhi verso il lucernaio vide una sagoma scura seduta sul bordo del letto intenta a scuoterlo. Se non fosse stato per la mano che gli teneva chiusa la bocca, il suo grido sarebbe giunto fino agli abissi del secchio delle aragoste. Le pupille si adattarono velocemente alla luce, più per uno shock da adrenalina che per le particolari doti nottambule del ragazzo. 96
Riconoscere il viso del cinese che era stato al ristorante con Margot non produsse in lui nessun effetto rassicurante. Cosa ci faceva nei suoi alloggi? Com’era entrato? L’asiatico gli fece segno con l’indice di fare silenzio e di non avere paura; poi scostò lentamente la mano dalla bocca di François. Gli porse un foglietto dove vi era disegnata una freccia che indicava una fanciulla, la Tour Eiffel, un auto e trecento franchi. «Vuoi andare a trovare una ragazza a Parigi in auto pagandomi trecento franchi all’una di notte?» chiese sorpreso François. Woo annuì, chinando per qualche secondo il capo in segno di richiesta d’aiuto. «È una follia!» gridò a bassa voce. Woo congiunse le mani in segno di preghiera prima di prendere nuovamente in mano il foglio. Con la matita improvvisò il disegno di una farfalla ed indicò un punto vicino alla tempia. «Ha a che fare con la ragazza con il fermaglio?» chiese incuriosito François. Woo annuì concitato. La sua mano tornò all’opera per disegnare questa volta un triangolo con un punto esclamativo al centro. «La ragazza è in pericolo?» Woo alzò i due pollici in modo vittorioso forzando un sorriso in perfetto stile yankee. Stava accadendo, pensò François. L’occasione di una vita. La prima messa in scena dopo centinaia di prove. L’eroe doveva salvare la principessa. Era l’unico a poter cambiare le sorti della giovane. Il fato gli aveva mandato come emissario un curioso cinese, ma spesso nei racconti epici veniva inviato un umile servo a chiedere soccorso al cavaliere. L’adrenalina per lo spavento smise di alimentare la paura ed iniziò ad animare un focolaio di coraggio e dedizione. 97
Si alzò in piedi, prese i suoi pantaloni della domenica in chiesa e si pettinò con abbondante brillantina i capelli. Quando ritenne che il risultato fosse sufficientemente unto e scolpito, notò la maglietta sulla sedia ed imprecò. Woo rimase ad osservarlo incuriosito. Non aveva tempo da perdere, ma il giovane era la sua unica possibilità di raggiungere Matisse prima dell’uomo in nero. Salirono in auto e François sistemò lo specchietto retrovisore, regolò il sedile, si specchiò per verificare lo stato del ciuffo e pregò che la brillantina sulla maglietta non avesse lasciato una macchia. Woo girò la chiave nel quadro e abbassò velocemente il freno a mano, poi con un gesto secco della mano comunicò un pensiero tanto semplice quanto deciso : Muoviti! C’era qualcosa che non quadrava nei pensieri di Woo sugli avvenimenti della notte precedente. Dopo aver narcotizzato Pierre, Justine e Stanley, Frau Anneke aveva messo il fazzoletto intriso nel cloroformio sul suo volto. Anche lui, come i compagni, si era agitato per poi accasciarsi appollaiato sulla sedia. A differenza dei suoi compagni però non aveva inspirato i vapori dell’anestetico. Era stato in apnea per più di un minuto simulando lo svenimento. Quando i due intrusi iniziarono a caricare i corpi sul furgone, sfruttò una piccola lacuna di attenzione per sfuggire alla prigionia. Corse all’impazzata dritto verso il bosco. Nell’oscurità dei rami di pino la sua agilità l’avrebbe di certo avvantaggiato in caso di scontro, ma nessuno lo inseguì. Rimase appostato su un albero osservando la scena: il furgone prese una strada verso Est, mentre l’auto con i due intrusi ne prese un’altra diretta verso Nord. La cosa strana a cui non riusciva a darsi una risposta era: “Perché i due nell’auto si erano portati Margot con loro?”. Era chiaro che i due volevano delle risposte sulla tela. Risposte che solo Matthe Savoir poteva fornire. Solo lui ne 98
custodiva il segreto. Il ruolo di Margot in tutto ciò era ancora poco chiaro. Si trovò di fronte ad un bivio: scegliere se seguire Margot o aiutare i suoi compagni. Era certo che Pierre avrebbe voluto che Margot fosse al sicuro. Lei non centrava nulla in questa faccenda. Loro, in qualche modo, se la sarebbero cavata. Se il Barone li avesse voluti morti non si sarebbe scomodato a caricarli su un furgone dritto verso il suo castello. Parigi distava poco più di tre ore di viaggio. In quel mentre ne approfittò per ricuperare le energie. Appallottolò l’impermeabile e lo frappose fra la sua fronte e il vetro freddo. La due cavalli di François sfrecciava a poco più di settanta chilometri orari sulla terza corsia dell’autostrada che portava a Parigi. Era talmente lento che anche i moscerini facevano in tempo a schivarlo durante l’attraversamento della carreggiata. Woo, che si riprese dal dormiveglia, si impegnò in una cosa che aveva fatto poche volte in vita sua: pregò. O per essere più specifici, pregò affinché un inconveniente rallentasse i rapitori di Margot. A tal proposito Qualcuno, qualche piano più in alto di Woo, si era già messo in moto da un paio d’ore. Monsieur Parnout, era un allevatore di polli nella provincia di Rouen. Era alto e magro con le basette spesse e lunghe fino alla mascella. Lo sguardo, penetrante come quello di un oca, lasciava trasparire il suo animo buono e conciliante. Quella mattina si era alzato di buon ora come al solito. Aveva fatto colazione abbondante a base di latte di pecora e formaggio stagionato. Quando il sole aveva 99
iniziato a fare capolino, aveva caricato sul suo furgone una gabbia con una gallina da portare in dono all’avvocato Petard. Vi era infatti in corso una causa con il suo vicino per l’uso del letame durante la fertilizzazione del terreno. L’avvocato l’aveva convocato nella mattinata per aggiornarlo sulle evoluzioni del caso ed aveva suggerito al buon Monsieur Parnout di portargli la più bella gallina, da usare per corrompere il cancelliere del tribunale. Era la più grassa che aveva nel pollaio, frutto delle più recente ricerca zootecnica: quattro pasti al giorni serviti in un comodo monolocale con servizi di circa 50cm quadrati; il tutto corredato da una splendida vista sul fienile. La pennuta era talmente grassa che faticò nel farla entrare nell’angusta gabbia. Al suo confronto un cappone poteva mostrare sintomi di anoressia. Nel momento in cui si apprestò a chiuderla, sua moglie gli andò incontro con il berretto sbandierato. «Non vorrai andare in città senza il tuo berretto?» chiese la donna amorevolmente, poi aggrottò la fronte e il suo sguardo divenne più severo, quasi minaccioso «vuoi proprio farmi fare brutta figura? Vatti a cambiare la camicia!» questa volta le parole affettuose furono sottolineate da violenti ceffoni alla base del collo. Fu così che la gabbia della predestinata vittima sacrilega rimase precariamente chiusa. Lo studio dell’avvocato distava poco più che un’uscita di autostrada, ma tanto bastò affinché il copertone posteriore destro del furgone inciampasse in una buca facendo sobbalzare la gabbia. La fragile cerniera che teneva in piedi la gabbietta non sopportò lo stress e cedette. In quello che può definirsi un batter d’ali, la formosa gallina si trovò fuori dalla sua gabbia sospesa nell’aria. Qualche gallina più anziana nel suo condominio le aveva raccontato che alcuni avi, in tempi immemorabili, 100
praticavano l’arte del volo. Con l’avvento delle residenze popolari questa faticosa pratica venne abbandonata per ben altri privilegi. La brezza del vento le accarezzò il piumaggio procurandole un gradevole senso di solletico sotto le pennute ascelle. Quando si schiantò contro il parabrezza di un camion di frutta, l’autista notò con perplessità che la gallina mostrava un certo compiacimento in quell’atto estremo. Quando Monsieur Parnout imboccò l’uscita dell’autostrada non si accorse minimamente che dietro di lui vi era stata un’apocalisse di ortaggi e primizie. Qualche chilometro prima, in una berlina nera una donna imprecò una frase in tedesco poco adatta ad un racconto di questa levatura. Nel sedile posteriore una giovane ragazza dormiva pacificamente sotto l’effetto di abbondanti narcotizzanti. «Perché ci stiamo portando dietro la ragazza?» chiese annoiata la donna. «Ho trovato strano che una ragazza dal portamento così elegante si potesse trovare in quel covo di ladruncoli» commentò Mr. Smith «ho dato un’occhiata alle stanze in cerca di qualche indizio ed ho trovato una valigia di manifattura pregiata fra i vari borsoni dozzinali» «La Luis Guitton che hai caricato nel portabagagli?» chiese la donna concitata dalla possibilità di vedersene regalare una. «Avrai già immaginato il nome che ho trovato sulla targhetta» disse Mr. Smith con un tono di ovvietà quasi offensivo. Frau Anneke con una falsità altrettanto offensiva rispose «Ovviamente». «Avere la nipote di Matthe Savoir potrà essere una leva con il vecchio. Se farà resistenza sarà sufficiente fare finta di minacciarla per farlo cantare come un canarino» 101
«Geniale» commentò sospirante Fran Anneke «Lo so» rispose modestamente Mr. Smith pettinandosi il ciuffo biondo. Qualche ora più tardi lo spettro della gallina volteggiava sopra i cieli di Parigi alla ricerca della strada che portava a quello che i pennuti chiamavano “La Grande Migrazione”. A bassa quota si fermò a chiedere informazioni ad un bizzarro lucertolone con le ali. «Sa indicarmi la strada per La Grande Migrazione?» chiese cortesemente. «Certo, segui me.» rispose. «Molto gentile, il mio nome è Gallinotta» si presentò la nuova arrivata. «Io sono Pteroattilio» rispose la guida. «È molto lontano?» chiese la prima. «Fidati, sei in buone mani» rispose il secondo ammiccando. Esattamente a qualche centinaia di metri sotto di loro, una Citroen 2 cavalli aveva scaricato un cinese con sciarpetta di lino per poi allontanarsi. Una volta voltato l’angolo, la macchina incrociò una berlina guidata da un elegante uomo in completo nero ed una meno appariscente donna dell’Est dall’aria un po’ provata. Sdraiata sul sedile posteriore il giovane cavaliere non riconobbe la sua bella addormentata e rientrò al suo dorato (dalla frittura) regno senza gloria ne infamia.
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Capitolo 13 Andrej
Giunto sul retro di Casa Savoir, Mr. Smith trovò l’unica cosa che non avrebbe mai immaginato. In piedi sulla porta posteriore, un uomo di etnia indù lo stava attendendo con un cartello di benvenuto che riportava la scritta “Mr. Smith – Mi segua”. L’uomo, dalla corporatura di un gigante, era disarmato e vestito nei costumi tradizionali della sua terra. Una sua mano sarebbe stata in grado di tenere comodamente un’anguria di cinque chili. Aveva il cranio rasato e la carnagione olivastra. Disorientato dalla situazione, il sicario scese lentamente dalla macchina facendo segno a Frau Anneke di imitarlo. Entrambi guardarono il sedile posteriore e, solo a quel punto, il gigante si mosse. Se il cortile fosse stato coperto di terra bagnata l’indiano avrebbe lasciato delle impronte simili ad un ciclope. Aprì lo sportello e prese in braccio Margot, che di istinto gli si legò al collo come un koala. L’ingresso sul retro portava ad un lungo corridoio tappezzato di quadri. La mano del pittore era stata tanto incerta quanto priva di talento. Lo stile era identico alla foto che Mr. Smith aveva visto nello studio del Barone Von Kaiser, quando gli venne mostrata la foto della tela rubata. La firma, su ognuna delle opere, riportava il nome di “Matisse”. Un pensiero balenò nella mente di Mr. Smith, 103
un ricordo della sua gioventù, ma lo scacciò subito: al momento non sembrava avere alcuna rilevanza con gli eventi. Salirono una scala con il passamano in radica ed il tappeto rosso sul passaggio. Giunsero così di fronte una porta alta quanto il soffitto. Era di legno e composta da due ante scorrevoli. Con la forza di un solo braccio il gigante ne aprì una facendo cenno di entrare. Quando fu il turno di Frau Anneke, il gigante bloccò l’accesso col braccio e le indicò una poltrona nel corridoio. La donna con sguardo altero cercò il sostegno di Mr. Smith che invece si limitò ad annuire. Nel salone, ricoperto interamente di listelli di radica, erano appese mappe di ogni epoca, teste di animali da ogni parte del mondo, armi di ogni guerra e centinaia di contenitori di vetro ripieni di formaldeide e resti biologici. Su ognuno vi era apportata un’etichetta scritta a mano con il tipico tratto di una penna stilografica. Seduto su una poltrona di pelle si trovava Matthe Savoir, conosciuto nell’ambiente dello spionaggio internazionale con il nome in codice: Matisse. Il gigante si diresse verso un divano imbottito col rivestimento di velluto verde, mentre Mr. Smith si accomodò verso la poltrona più piccola di fronte a quella di Matisse. «Fatto buon viaggio Smitoskij?» chiese Matisse senza alzare lo sguardo dal dossier che teneva sulle ginocchia. Come poteva conoscere il suo vero nome? Si chiese Mr. Smith sempre più disorientato. «Sì, grazie» si limitò a rispondere «Come…» Matisse, da sopra gli occhiali da lettura, lo fisso dritto nelle orbite. Era un ometto la cui statura era stata logorata dal tempo. I capelli, tutti presenti all’appello, erano di color 104
bianco latte, così come le cespugliose sopracciglia e i baffetti. Indossava una giacca ed un panciotto a cui era stato abbinato un papillon rosso vermiglio. Al suo fianco vi era un bastone con l’impugnatura in madreperla raffigurante la testa di un elefante africano. «Non si ricorda di me? Smitoskij?» chiese Matisse come un professore interroga un alunno. «Nossignore, ma inizio a pensare che dovrei» rispose. «Georgia, 1958, in un seminterrato di Khashuri. Le dice qualcosa?» sorrise. Il ricordo che aveva accantonato nel corridoio proruppe nella sua mente portandosi con se una corda piena di barattoli vuoti. Quel suonò lo trasportò alla sua gioventù. Georgia, 1958, in un seminterrato di Khashuri. Andrej Smitoskij era da poco entrato nei servizi segreti inglesi. Di padre russo e madre anglosassone aveva da entrambi imparato la lingua. Gli stessi nonni materni erano di origine fiamminga e padroneggiavano il francese così come il tedesco. Ciò faceva di Smitoskij un perfetto infiltrato. Era al suo primo incarico, la task force di cui faceva parte era composta da membri di tutti i paesi europei. L’obiettivo della missione era infiltrarsi in un’organizzazione terroristica con base in Georgia e segnalare la posizione del leader per consentirne la cattura o la più probabile eliminazione accidentale. Il suo referente era sempre stato un italiano, tale Piccini. Un giorno qualcosa andò storto e la cellula terroristica uccise Piccini e mise sotto torchio Smitoskij essendo l’ultimo arrivato. Venne malmenato e torturato in un buio seminterrato nel centro di Khashuri. Era convinto di non avere più nessuna speranza di tornare alla superficie vivo. Il suo unico contatto era morto e nessun altro poteva conoscere la sua posizione e il pericolo a cui stava andando incontro. Se i terroristi non avessero ottenuto le informazioni che volevano 105
l’avrebbero certamente eliminato. Mantenerlo in vita sarebbe stato soltanto un problema. Si era sentito abbandonato. Al suo primo incarico aveva fallito. Non aveva pronunciato una sola parola sulla sua copertura, ma la missione era comunque stata compromessa e probabilmente era andato tutto a monte. Era passato un giorno intero dall’ultima volta che la guardia era entrato nella cantina in cui era stato rinchiuso, per verificare se fosse già morto di fame. Sapeva, in cuor suo, che se mai qualcuno avesse varcato la porta sarebbe stato per esplodergli un colpo dritto in testa. Le forze l’avevano abbandonato, così come la vista. I suoni erano ovattati come quando un colpo di granata ti viene esploso vicino. Avvertì che la porta della cella era stata aperta dalla boccata d’ossigeno che ne giunse. Due uomini lo sollevarono e lo trascinarono fuori. Non capì come, ma fu salvo. Quando uscì alla luce del sole, la sua vista fu del tutto compromessa, almeno per qualche giorno. Nello stato di incoscienza udì una sola frase «Matisse a rapporto. Agente recuperato e cellula terroristica eliminata. Stiamo rientrando.» «Fu lei a salvarmi quel giorno» affermò Mr. Smith rivolto a Matisse. «Avevi fatto un ottimo lavoro e, cosa più importante, avevi mantenuto la bocca cucita. Ti ho seguito durante la tua carriera, mi eri parso uno tipo in gamba.» disse il vecchio chiudendo il fascicolo «Immagino che quel vecchio pazzo ubriacone di Von Kaiser ti abbia assoldato per recuperare il quadro.» «Esattamente» «Sappiamo tutti e due che quel quadro non ha nessun valore artistico…» proseguì Matisse. Quando la porta scorrevole si aprì, Mr. Smith fece segno a Frau Anneke di seguirlo. Il viaggio verso il castello Von Kaiser sarebbe stato lungo. 106
Margot aveva avuto modo di ascoltare tutto il colloquio fra Matthe Savoir e Mr. Smith. Decise però di rimanere in un finto stato di incoscienza per non perdere nessun dettaglio. Le rivelazioni che aveva avuto modo di ascoltare erano a dir poco incredibili. Aveva sempre pensato che suo nonno fosse stato un commerciante con le indie, non una spia. Quando Mr. Smith lasciò la stanza, fece trascorrere un quarto d’ora ed al rintocco di mezzogiorno mise in scena il suo risveglio. «Yaaawn» sbadigliò «Ma cosa ci faccio nel tuo studio nonno?» disse rivolto al padre di sua madre, Madame Léonore. «Oh piccola mia» esordì da dietro la scrivania «potevi anche fare a meno della messa in scena. Sapevo benissimo che eri sveglia» rise. Margot alzò le spalle ad indicare che era stata scoperta. «Sono rimasta veramente meravigliata dal tuo racconto nonno Matthe, era tutto vero?» chiese la ragazza avvicinandosi. «Certo piccola mia, il nonno ne ha viste di belle in vita sua, ma anche di brutte» disse prima di suonare il campanello da tavolo che aveva sulla scrivania «Ho bisogno del tuo aiuto, te la senti?» disse il vecchio, intento a decifrare il messaggio in codice Morse che Baptiste gli aveva tramandato sul bordo della tela. Margot, non poteva credere alle sue orecchie, tutto ciò era la cosa più emozionante che le fosse mai capitata in tutta la sua vita e non ebbe problemi a rispondere «Certo!» Nella stanza si unì Woo, scortato dal gigante. «Margot devi accompagnare Woo in aereo fin qui, lui non è molto pratico delle cose del mondo e con le lingue avrai notato non è particolarmente avvezzo» disse indicando il mappamondo «Ci vorrà poco più che una settimana, al tuo 107
ritorno ti farò accompagnare da Sion al collegio per l’inizio delle lezioni.» «Nessun problema!» saltellò la ragazza. Woo si limitò ad annuire. «Ottimo» aggiunse Matisse «È il sangue dei Savoir che ti scorre nelle vene. Non ne dubitavo. Tua madre era scettica al riguardo, secondo lei era troppo presto per inserirti nella squadra, ma come vedi si sbagliava» «Che centra la mamma?» chiese perplessa. Matthe Savoir, che nella sua vita aveva mantenuto i segreti più compromettenti se ne lasciò sfuggire uno senza nemmeno un antipasto di torture. «Mh… immagino che tu non sappia che i tuoi genitori sono agenti attivi in diverse parti del mondo per conto dell’agenzia di famiglia?» chiese il vecchio senza aspettarsi una risposta favorevole. «Mh…no» rispose Margot con lo sguardo leggermente spazientito. «Beh suvvia ora sei grande per sapere come stanno le cose. Léonore e quello scansafatiche di tuo padre fanno parte della nostra agenzia di famiglia da sempre. Da anni i Savoir seguono particolari missioni per conto dei paesi di mezzo mondo. Le carriere di chirurgo e marcante d’arte sono solo delle coperture. Credo che tua madre non sappia rammendare degnamente neppure un calzino, figuriamoci se è in grado di suturare una ferita. Comunque non sentirti tradita mia cara. Abbiamo dovuto attendere che fossi grande a sufficienza per capire la situazione. Ti abbiamo sempre tenuto d’occhio anche quando meno te l’aspettavi.» «Ma come? Sono stata chiusa in un collegio negli ultimi quattro anni!» rispose spazientita la ragazza. «Il nome Melodie non ti dice nulla?» rispose l’uomo. «L’inserviente del collegio?» «È un nuovo acquisto del gruppo. Giovane, ma promettente. Avrai modo di incontrarla a destino. Lei si sta 108
occupando della logistica sul posto, quando arriverete avrà già preparato tutto» «Pierre e gli altri?» domandò la ragazza. «Li stiamo recuperando in questo preciso momento, vi incontrerete direttamente sul posto. Finisco di preparare i dettagli della missione e poi ti illustro il tutto. Ora vai a salutare Clarette, ti aspetta in cucina. Credo stia preparando una torta» «E ora che centra Clarette?» chiese indispettita la ragazza. Secondo sbaglio in dieci minuti, pensò Matisse. «Vai vai, su» disse l’uomo cercando di girare la patata bollente alla segreta compagna di una vita. «Mi raccomando, prima classe nonno» disse Margot allontanandosi. «Certo piccola mia, solo il meglio per la mia nipotina» rispose con sorriso compiaciuto.
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Capitolo 14 Clarette
Seduta al tavolo della cucina, Clarette stava finendo di guarnire una torta per il ritorno della sua adorata Margot. Il suo arrivo era stato del tutto inatteso. A quanto pare qualcosa era andato storto nel piano di Matisse e per questo l’avrebbe pagata cara quel vecchio eccentrico. Mettere in pericolo la vita della piccola Margot era stato un azzardo troppo rischioso. Dietro le spalle l’anziana governante sentì le assi del pavimento scricchiolare. Quando si voltò trovò lo sguardo della sua protetta intento ad esprimere un centinaio di emozioni contrastanti tra cui: gioia, delusione, entusiasmo, disappunto, ma soprattutto, la più primordiale ed istintiva di tutte, la fame. Si abbracciarono in silenzio e solo in quel momento la rigida armatura di Margot si sgretolò lasciando lo spazio ad un singhiozzo e due lacrime. «Su su, piccola mia» cercò di rincuorare la donna «ora siediti e mangia qualcosa» «Va bene» disse la ragazza annusando le polveri dello zucchero a velo appena cosparso «Ho bisogno di sapere la verità. Dal principio, inizio a non capirci più nulla» disse con voce ferma. «Sono d’accordo con te… ecco il latte» 110
Nel tempo che ci vuole a mangiare tre fette di torta, sei biscotti e un croissant Clarette fece un riassunto della sua storia. «Negli anni ‘20 ero al servizio del tuo nonno paterno, Monsieur Petrois. Ai tempi avevo appena la tua età. Tuo nonno era un alto funzionario del ministero della difesa, nonché amico di infanzia di Matthe. Insieme lavorarono per decenni. Petrois si occupava dell’aspetto politico delle relazioni internazionali mentre Savoir, che nel frattempo faceva carriera nello spionaggio internazionale, era immerso completamente nelle operazioni sul campo. I loro due figli, Léonore e tuo padre, col tempo si innamorarono e sancirono l’amicizia fra le due famiglie. Affascinati dalle vite dei rispettivi padri, entrambi vollero diventare spie. Tuo nonno Matthe inizialmente fu in disaccordo con questa decisione, ma poi non gli restò che cedere e prenderli con sè. Quello stesso giorno abbandonò il ministero e decise di fondare un’agenzia privata. Così facendo avrebbero potuto accettare solo i casi ritenuti etici senza la coercizioni dei governi. La madre di Léonore, tua nonna, morì giovane per colpa della tubercolosi. Matthe ne fu straziato dal dolore, ma qualcosa, qualche tempo dopo, riuscì a donargli nuovamente il sorriso» disse Clarette. «Cofa?» domandò la ragazza con la bocca piena. «Tu mia cara» sorrise Clarette «I tuoi genitori erano sempre in giro per il mondo in missione e nonno Petrois ritenne opportuno che io venissi a vivere con te per crescerti. Con gli anni tuo nonno Matthe rimase sempre più in disparte nelle missioni, occupandosi più dell’aspetto organizzativo che operativo. Ed è così che il tempo ci ha uniti.» «Ma in tutta questa storia Pierre come centra?» chiese la ragazza con un evidente ruga sulla fronte a forma di punto interrogativo. 111
«Pierre e Justine erano i figli di Monsieur Puccini; il compagno di missione di tuo nonno Matthe. Venne ucciso durante un’infiltrazione in Georgia parecchi anni fa. Tuo nonno li prese sotto la sua protezione e non gli fece mancare mai nulla. Diede loro un’educazione, un tetto dove dormire… insomma tutto quello di cui avevano bisogno» «Quindi Pierre e Justine sono fratello e sorella?» chiese perplessa dall’ennesima rivelazione della giornata. «Proprio così» annuì Clarette. «Come mai non ho mai incontrato prima Justine?» «Justine è cresciuta nel tuo stesso collegio. Poi, per qualche tempo, ha studiato danza classica in una scuola per artisti di Lione» «Capisco» si limitò a dire Margot. «Immagino avrai intuito che una volta divenuti maggiorenni, tuo nonno gli raccontò la storia di loro padre. Come è facile prevedere, anche loro vollero intraprendere le sue stesse orme. Matthe li accolse a braccia aperte nella sua agenzia. Sono ancora alle prime armi, ma tuo nonno ne parla molto bene. Da quando nel loro gruppo si sono aggiunti Stanley e Woo le cose vanno molto meglio.» «È un tipo particolare Woo» commentò Margot. «E già piccola mia, non puoi dire Woo senza dire Stanley. Per questo motivo devi accompagnare Woo, da solo avrebbe non poche difficoltà. È un compito semplice quello che ti aspetta. Una vacanza esotica, se vogliamo» sorrise la governate. Sion, il gigante indiano, bussò alla porta e fece cenno a Margot di seguirlo. Durante il lungo tragitto fra i contorti corridoi di casa Savoir, Margot rimase impietrita dalla statura del gigante. Alzando il braccio in verticale, come a cogliere una mela, raggiungeva appena le spalle dell’uomo. 112
Per quella giornata aveva avuto fin troppe rivelazioni, ma quella figura il cui passo faceva tremare il pavimento l’affascinava non poco. Alla prima occasione avrebbe voluto conoscere la sua storia. Pareva che ogni persona che incrociava il proprio destino con quello di Matthe Savoir andasse incontro a stravaganti avventure.
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Capitolo 15 I fratelli Pecoretti
I fratelli Pecoretti erano stati per molto tempo un punto di riferimento per tutte le nuove leve del servizio segreto italiano. Di origine mandriana erano stati sottratti alla loro terra in giovane età per via della guerra. Capaci di parlare un centinaio di dialetti campagnoli nelle zone del sud Italia (isole comprese) erano divenuti nel tempo degli ottimi infiltrati in questioni di mafia, ndrangheta e camorra. I loro successi furono oggetto di studio e catalogazione da parte dell’accademia di spionaggio nella penisola. Si sa, con il successo, oltre la gloria e il rispetto, si ottiene anche odio e rancore. Troppi calli di troppi piedi avevano calpestato i due e si rese necessario, per la loro incolumità, fornirgli delle nuove identità e congedarli con onore dal servizio. Da qualche anno i due erano ripiegati nella vecchia arte dei loro predecessori: l’allevamento di pecore. Per non sortire nessun tipo di sospetto, i due avevano scelto le più aspre terre vicino al confine italo-austriaco. Le pecore, comprensibilmente, non apprezzarono quella scelta logistica, specialmente nel periodo della tosatura. Da lontano si iniziò a scorgere quello che a prima vista poteva sembrare un gregge di barboncini. Tosati sul petto e con degli antiestetici scaldamuscoli a metà zampa. 114
L’inconfondibile belato rivelò un gregge di circa trecento pecore di cui i due terzi femmine e il resto arieti in fervente fase di accoppiamento i quali, assai stupidamente, erano intenti a sfogare i loro più animaleschi impulsi a colpi di testate invece di dedicarsi alla più raffinata, nonché efficace, arte della seduzione. Quando il furgoncino Volkswagen T2 lasciò la strada principale, per imboccare il vialetto sterrato che portava al castello Von Kaiser, un’unica esclamazione unisona fu pronunciata dai due conducenti: «Scheiße»; che, fin dal più ancestrale dei significati bavaresi poteva tradursi con: “acciderbolina”. L’uomo al volante, la cui composizione biologica poteva essere facilmente riassunta con: un terzo di birra, un terzo di wurstel ed un terzo di stinco di maiale, scese dal mezzo con le mani alzate in segno di disappunto. Gino Pecoretti, con la sua coppola siciliana, si avvicinò lentamente. In bocca teneva uno stecchino con la stessa presenza scenica di un sigaro Cohiba. Al suo fianco, procedeva con altrettanta flemma nel passo, un ariete di almeno un quintale con la tosatura a guisa di borchie sul collo. Quando arrivò a poco meno di un metro dall’agitato conducente, Gino pronunciò in un misto fra siciliano di Caltanissetta e bolzanino stretto «Vossia tene fosse quacche probblema?» L’uomo rimase in silenzio con sguardo perplesso più per la strana pronuncia che per il ringhio-belato dell’ariete. «Ecco me pareva. Ora apra quel fugggoncino e faccia uscire i tre prigggionieri. Menghia!» Il corpulento bevitore di Weizen non fece in tempo a reagire, che una capata dell’ariete attentò le sua futura progenie. Un secondo esemplare, guidato da Pinuccio Pecorelli, si stava accanendo contro la portiera del passeggero mentre il 115
venerabile Pinuccio invitava, con il silente garbo che lo contraddistingueva, l’uomo ad uscire dal lato guidatore ed aprire il portellone posteriore. I tre prigionieri, frastornati dai colpi dell’ariete, uscirono barcollanti dal cassonato. Gino diede una pacca sulle spalle a Pierre dicendo «Menghia: mandi tanto feto quanto il mercato del pesce. Stamme luntano!» poi sorrise e richiamò i suoi due mastini ovini. Fece un fischio e dal gregge si separò una pecorella che timidamente si avvicinò al padrone. Al collo aveva una borsa di pelle da cui Gino ne tirò fuori una radio ed una busta. «Queste diavolerie di wokki tokki…» disse sbuffando, poi dall’apparecchio gracchiò una voce «Picchio rosso, passo» Gino si sistemò lo stuzzicadenti e fece rapporto. «Qui Cannolo Siciliano, missione compiuta, minchia. I miei omaggi a Màtìsse.» «Ricevuto passo» disse la voce dall’altro capo della linea. «Questa è per vossia» disse consegnando la busta a Stanley «ai due crucchi ci pensiamo noi. A trenta chilometri ad est c’è un piccolo aeropotto dove un pilota vi sta aspettando. Chiedete di Santuzzo.» poi il pastore si girò e fece un fischio al gregge che lo seguì su tre colonne ordinate a passo di marcia.
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Capitolo 16 L’antica regola del Busho-Yo
Nei modi di dire comuni, l’espressione più usata per indicare un posto particolarmente pericoloso, sudicio e malfamato è sicuramente “I peggiori bar di Caracas”. Questo però non è del tutto vero. Se mai vi capitasse di fermarvi in uno di questi ed aveste modo di chiedere in punto di morte al vostro assassino, se conosce un posto peggiore di quello, egli non avrebbe dubbio alcuno nel rispondervi «i bar di Caracas sono delle sale da tè se paragonate ai peggiori bar di Bangkok». Il viaggio di Margot e Woo era incominciato con un volo di linea Parigi - Francoforte. Prima classe, cuscini, hostess ben pettinate, saluto del comandante alla partenza e all’arrivo, riviste patinate e spuntino. A seguire decollarono su di un volo charter Francoforte – Ankara. Seconda classe, hostess un po’ scarmigliate, il comandante sorpreso a pregare durante il decollo, espressione incredula all’atterraggio e depliant di kebab già unti. Nel piano di Matisse l’ultimo collegamento della giornata era Ankara – Bangkok. Volo promiscuo fra persone e bestiame egualmente distribuiti, se ci fosse stata qualche hostess sarebbe stata sicuramente spettinata e nulla da leggere. 117
Durante tutto il viaggio Woo non fece altro che dormire. In quel momento il suo residuo di ore di sonno arretrate, da consumare entro l’anno, si era ridotto a sole settantasei. Giunti all’International Airport di Bangkok, un piazzale poco più piccolo di un supermercato nelle periferia di Parigi, i due dovettero cercare un posto per passare la notte. Il mattino seguente avrebbero avuto l’ultimo volo Bangkok – Pechino dove si sarebbero dovuti incontrare con Melodie prima e gli altri dopo. I dettagli dell’ultimo volo erano meno chiari degli altri tre. Nelle istruzioni vi era questo generico appunto: “Giunti a Bangkok cercate la locanda Topijo. Qui un contatto si farà vivo per indicarvi il vostro pilota.”
Armata del suo trolley da viaggio Luis Guitton, Margot fece la sua entrata nella locanda Topijo. Woo, poco dietro, aveva come unico bagaglio a mano un sacchetto di plastica bianco con il ricambio della camicia ed una sciarpa pulita. Tre strati di sudiciume coprivano ogni superficie vivente (e non) presente nel luogo. Negli angoli crescevano dei vegetali senza l’ausilio di vaso o terra. Solo banditi, ricercati e poco di buono bivaccavano in quel posto. Da tempo ratti e scarafaggi avevano superato il loro limite di tolleranza scegliendo altre locande con standard igienici superiori. Al bancone un bonzo pelato e barbuto sfoggiava un gilet di pelle nero, molto vintage, sotto una folta maglia di villo umano. Senza darlo a vedere, ogni avventore di quel girone infernale notò il prezioso baule con rotelle che la ragazza maneggiava con disinvoltura e noncuranza. «Woo, vado a cercare il bagno. Credo che quel latte di capra che ci ha offerto la signora in aereo… beh ci siamo capiti.» disse la ragazza allontanandosi nel retro tenendosi il palmo della mano elegantemente sullo stomaco. 118
Woo si limitò a sgranare gli occhi con sorpresa. Non desiderava altro trovare una stanza e farvi la guardia ad oltranza in attesa del prossimo spostamento. Era in piedi accanto al trolley dorato con l’inconfondibile trama LG su ogni centimetro. Era certo che più della metà dei presenti avesse sgozzato qualcuno per molto meno, durante la propria onorata carriera criminale. Quello che parve essere il capo indiscusso di questi ottimi personaggi si alzò con fare minaccioso. Infastidire dei ricchi turisti, pensò, era un buon modo per affermare ancor più la sua leadership fra gli scagnozzi tanto fidati quanti infami. Arrivò col muso a pochi centimetro dal petto di Woo. Per dimostrare di essere perfettamente a suo agio, il capo dei banditi sfoderò un sorriso a cinque denti che in realtà altri non erano che depositi di tartaro di quelli che un tempo furono canini in grado di aprire una birra… in lattina. A confronto, il narcotico di Frau Anneke fu nulla rispetto al fiato pestilenziale dell’uomo. Woo indietreggiò provato. L’uomo avvicinò in modo deciso la mano alla maniglia del trolley e, in modo altrettanto deciso, Woo gli diede uno schiaffo che fu visibile solo a coloro il cui tasso alcolico nelle vene presentava ancora tracce di sangue. Il bandito fece una reazione e tutti alle sue spalle iniziarono a sfoderare le loro armi. Chi pugnali, chi pistole, chi rasoi, chi catene, chi salumi chiodati e chi mentine. L’uomo richiamò i suoi seguaci facendo intendere che la cosa era sotto controllo e che se la sarebbe cavata benissimo da solo. Fece scivolare lentamente la mano dietro le spalle e ne sfoderò un machete letale, non tanto per la lama senza filo, quanto per le malattie che avrebbe potuto trasmettere dopo un solo taglietto superficiale. La situazione si stava facendo critica. In altre occasioni Woo se l’era vista con gente molto più pericolosa di questa senza problemi, ma questa volta era diverso. Margot era 119
dall’altra parte del locale e fra loro due vi era una schiera di banditi pronti a catturarla ed usarla come ostaggio, se le cose non fossero andate come speravano. Senza muovere il bulbo oculare si guardò intorno per studiare la situazione. Fece due passi indietro e si fermò, poi appoggiò a terra il suo bagaglio a mano. Alzò il braccio sinistro teso di fronte a lui. Chiuse la mano a pugno e fece lo stesso con il destro. Quando i due pugni furono uno sopra l’altro li batté per cinque volte. All’ultimo rintocco l’indice, il medio e l’anulare della sola mano destra scattarono come la lama di un coltello a serramanico indicando il numero tre. Nel salone vi fu un brusio diffuso. Era stato invocato il diritto al Busho-Yo. Durante i tempi bui di caos e illegalità il vecchio bandito XinTao (la cui traduzione in idioma locale era: uomo dal calzino fetido che uccide la tigre dai denti a sciabola durante gli inverni freddi della provincia di Xin) stabilì le cinque regole del buon bandito. Leggi che vennero tramandate da padre a figlio illegittimo fino ad assumere una valenza di sovranità assoluta ed invalicabile rispetto alle inutili leggi dettate dai governi di mezza Asia ed Oceania. Le cinque regole erano le seguenti: -
Il buon bandito ha diritto ad un giorno di riposo a settimana dalle scorribande. Il buon bandito non può depredare la stessa vittima più di tre volte al mese. Nei mesi di piogge intense il limite viene aumentato a cinque. Il buon bandito deve sempre rispettare la propria mamma, anche se di facili costumi. 120
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Il buon bandito deve delegare al più debole i compiti più infimi
Ed infine la quinta regola… - La vittima del buon bandito, qualora fosse disarmata, può invocare il diritto allo scontro secondo le antiche regole del Busho-Yo Il Busho-Yo era un tipico gioco di carte di moda fra le bande di disonesti. Il principio era quello della morra cinese. Lo sfidante sceglieva un numero dispari di tiri. Ad ogni mano i due concorrenti gettavano una carta illustrata. Il più forte fra i due simboli usati vinceva la mano. Chi totalizzava più punti vinceva lo scontro. Con gli anni, un bandito diveniva sempre più temuto tanto più il suo mazzo di carte era letale. Capi bande tramandavano il loro mazzo ai figli come eredità. Centinaia di omicidi si consumarono durante quegli anni per delle semplici carte da gioco illustrate e XinTao III, governatore della regione, proclamò l’editto in cui modificava le regole del gioco nelle seguenti. “Da ora in avanti il Busho-Yo fra banditi potrà essere praticato solo con raffigurazioni tatuate sul corpo del giocatore fino ad un massimo di cinque” Questa nuova variante della quinta regola, non aveva attecchito molto nel substrato underground della delinquenza. I costi dei tatuatori negli ultimi anni si erano alzati di troppo, rendendo questo gioco riservato a pochi privilegiati. Il bandito fece un sorriso di scherno e si rivolse verso i suoi scagnozzi intenti a fissarlo con sguardo interrogativo. Si girò verso il bonzo dietro al bancone in cerca di un suo sostegno nel ritenere la richiesta dello straniero una sciocchezza. 121
Il bonzo prese uno straccio meno unto degli altri e lo passo sopra ad una placca appesa fra «Qui si fa credito a tassi agevolati da strozzini» e «Il supplemento rissa al tavolo è pari al 10%» mostrando così un avviso ai consumatori che da molto tempo non aveva avuto modo di usare «Chi non accoglie una sfida a Busho-Yo dovrà saldare il suo conto in contanti e lasciare la locanda.» Il bandito, il cui debito verso la locanda era quantificabile in duecento ettari di terre fertili, si trovò con le spalle al muro ed accolse la sfida. La gente si era raccolta intorno ai due sfidanti. Nel frattempo Margot era rientrata dal bagno ed era inciampata in un nano che le arrivava al ginocchio arrecandogli una sicura ecchimosi subdurale. La folla si accalcava e dovette issarsi sopra un tavolo per osservare la scena mentre il nanetto si accomodò ai piedi intento ad osservare ben altro. Quando Margot vide Woo di fronte ad un uomo con un machete in mano ebbe un sussulto, ma lo sguardo calmo del cinese le profuse un attenuato senso di tranquillità. Finché Woo non mostrava paura si sentiva al sicuro. Arrivò il primo gong realizzato con una bottiglia di vino d’annata (nel senso che era stata scolata da anni) spaccata sul bordo del tavolo con conseguenti schegge infilzate ovunque. Secondo le regole del Busho-Yo, chi veniva sfidato aveva il diritto di iniziare la partita mostrando per primo il proprio tatuaggio. Quando il bandito alzo la manica della maglietta mostrando un serpente a sonagli tutta la folla esultò. Woo con calma si alzò l’orlo del pantalone sopra il ginocchio e lentamente fece scendere il calzino fino alla caviglia.
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Tutti seguivano i suoi movimenti in religioso silenzio. Appoggiò il mocassino sulla sedia mostrando a tutti… la mangusta. Un coro di “ohhhh…” si levò nelle retrovie. Il bandito barcollò… la mangusta era l’unico animale in grado di attaccare un serpente e vincerlo. Avendo vinto la mano, il turno era passato a Woo che si sbottonò la camicia mostrando sulla schiena un orso eretto. Il bandito sfoderò un fungo velenoso annullando il vantaggio dell’avversario. Era l’ultima mano della partita, l’esito di questo punto avrebbe dato la vittoria all’uno o all’altro. Il bandito, innervosito dalla situazione, bevve avidamente da un bicchiere un liquido più simile all’acqua piovana imputridita in uno stagno melmoso che un liquore. Fece una rapida carrellata delle mosse che gli erano rimaste: un cuore spezzato (che però poteva essere facilmente battuto da una geisha), la tigre e il boia. Pensò che l’utilizzo della mangusta e dell’orso facevano dello straniero un esperto nell’ambito animale. Sebbene la tigre non avesse rivali nel regno animale, un cacciatore avrebbe potuto facilmente metterlo in scacco. Decise per il boia, seguito da un mormorio di approvazione generale. Woo rimase fermo per qualche istante. Si guardò in giro prima di fermarsi a fissare Margot dritto negli occhi con il suo solito sguardo spento. Senza distogliere lo sguardo da lei si scoprì il petto e, contornato da cicatrici di gioventù, ne emerse: la mamma col mattarello. Secondo la terza regola di XinTao, ogni buon bandito doveva onorare la propria mamma, pertanto il boia si piegò di fronte al mattarello della donna coi bigodini. Il bandito aveva perso. Tutti gli sguardi si posarono su di lui lasciandolo impietrito. Il peggio doveva ancora arrivare. Nelle regole del Busho-Yo il perdente veniva disonorato dai presenti con ripetuti schiaffetti alle orecchie e dietro di 123
lui la fila era già diventata un serpentone che continuava fin fuori la locanda. Woo raggiunse rapidamente Margot e si avvicinarono al bancone. Mentre il cinese si guardava le spalle, la ragazza cercava di comunicare col bonzo per farsi dare una camera. Le difficoltà linguistiche erano notevoli, ma il loro contatto giunse in aiuto. Arrampicandosi a fatica attraverso uno sgabello, il nanetto camminò sul bancone fino a frapporsi fra l’oste e la cliente. Alzo la manina di fronte il naso di Margot e disse all’uomo in lingua locale qualcosa sottovoce. Si girò verso la ragazza e in inglese le chiese dieci dollari. Dopo il passamano l’oste le diede una chiave identica a quella che aveva usato per entrare nel bagno o forse la stessa. Poi se ne andò. Il nanetto si appoggiò alla spalla della ragazza ed ammiccò con lo sguardo sensuale facendo intendere che avrebbe saputo come usare la camera per l’intera nottata. Uno scappellotto di Woo gli fece ricordare le buone maniere. «Domani mattina alle 6 vi porterò a Pechino. Fatevi trovare di fronte alla porta del retro.» Margot cercò il modo più sensibile per chiedere «Sarà lei a pilotare l’aereo?» L’omino si limitò a dargli le spalle e mostrare il mezzano delle cinque piccole dita. «Era solo per chiedere» si scusò Margot. Il giradischi espirò un respiro di vita e fece partire un pezzo dance stile disco inferno. A tale richiamo le piccole natiche del minipilota iniziarono a sculettare seguite da due ritmati pugnetti.
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Capitolo 17 Pechino
Il viaggio a bordo del Piper di Santuzzo fu un’esperienza talmente traumatica, che l’unico paragone appropriato sarebbe potuto essere il sequestro di persona da parte di terroristi kamikaze fondamentalisti religiosi con tendenze sadiche, amore per la lirica e la canzone popolare. Un abile psicologo, che avesse assistito all’intero viaggio fino al saluto finale, avrebbe sicuramente riconosciuto dei tratti della Sindrome di Stoccolma nei sorrisi paralizzati dei tre. Diversa sorte era capitata a Woo e Margot. Il minipilota, il cui nome di battaglia alla radio era Big Jim, aveva mostrato delle doti alla guida del suo velivolo degne di un top gun dell’aereonautica militare. Per ovvi motivi ergonomici, aveva dovuto adattare tutti i comandi e le pulsantiere ad un unico radio controller che riportava nel centro il logo: SuperRallyCar. Big Jim, in veste di pilota, copilota e steward, si dilettò ad intrattenere la sua ospite con svariati apprezzamenti volgari con solenne cadenza di Cambridge. La giovane ed inesperta Margot si limitò ad annuire come le aveva insegnato Madame Sophie quando si trovava in una conversazioni di cui non capiva il senso. Il suo ricchissimo vocabolario 125
linguistico, purtroppo, era limitato alla sola completa letteratura classica anglosassone. Senza la consueta divisa da inserviente, Margot ebbe qualche difficoltà a riconoscere Melodie. Portava la coda di cavallo e una comoda divisa al limite fra una tuta da casa ed una mimetica. Gli occhiali da sole le coprivano lo sguardo, ma il sorriso che le si disegnò quando incrociò gli occhi di Margot non lasciò spazio ad equivoci. Le due amiche si avvicinarono a passo veloce. Mentre Margot si fermò e porse la mano, Melodie prosegui abbracciandola. Le afferrò il viso fra le mani stampandole un bacio dritto allo spigolo della bocca. «Come sono contenta di vederti» disse Melodie «non puoi capire come sia stato difficile nascondere la mia vera identità per tutto questo tempo al collegio». Margot, che si sentiva alquanto abusata dalla fisicità dell’amica, rispose con un semplice «Anche per me». Una volta allontanatisi dalla pista di atterraggio dei voli charter si diressero verso l’area “arrivi” dove Pierre e gli altri li stavano aspettando con dei tremolanti bicchieri bollenti fra le mani. Vanificando in un secondo tutti gli sforzi di una intera vita trascorsa ad apprendere i più rigidi dettami del bon-ton, quando Margot raggiunse Pierre lo apostrofò con un elequente «Sei proprio uno stronzo Pierre! Era mio diritto sapere che potevo andare in contro a seri rischi venendo al mare con te!» poi il bon ton riprese prepotentemente il suo posto donandole nuovamente il consueto atteggiamento composto, gentile ed educato. Seguì un distaccato abbraccio a Justine ed uno a Stanley. I tre sguardi persi dal trauma del viaggio infernale ripresero vita dopo la sfuriata della giovane. «Allora» esordì Margot «A che ora riparte il mio volo per Parigi? Inizio a pensare che la vita da spia non faccia per 126
me. Io sono una ragazza adatta a tè nei salotti degli intellettuali. Sfilate del prêt-à-porter. Opera. No no, tutta questa storia di essere molestate da minipiloti, rapiti da sicari, dormire in locande malfamate, non è proprio il mio mondo? Dunque. A quale gate mi devo recare?» Dapprima fu silenzio. Poi un’ondata di raucedine collettiva, colpi di tosse a raffica seguiti da un impellente bisogno di comprare la guida turistica del luogo in una bancarella vista diverse centinaia di metri prima. «Melodie?» chiese Margot, questa volta direttamente. «Ehm, nei piani che ha mandato Matisse non c’è scritto da nessuna parte che saresti dovuta ripartire per Parigi. Il tuo ritorno è previsto fra tre giorni insieme a noi» disse sfogliando una cartelletta «sei in macchina con Woo e Stanley» battendo con l’indice in un punto del foglio «Stanley alla guida, Margot come co-pilota e Woo sul retro. Nella seconda Jeep saremo: io al volante, Justine come copilota e Pierre dietro» «Ma il nonno mi aveva detto che avrei dovuto accompagnare Woo e rientrare a Parigi. Il tutto in una settimana.» fece notare Margot, vittima dell’ennesima omissione familiare. «Sai com’è Matisse, sarà la vecchiaia. Si è dimenticato di dirti che fra il volo con Woo e il rientro a Parigi c’era di mezzo la missione. Per il resto le tempistiche come vedi combaciano. Fra cinque giorni saremo tutti quanti in un bistrot sugli Champs-Élysée!» commentò entusiasta Melodie «Vedrai che ti divertirai! Non penserai mica che certe esperienze le facciano tutte le tue compagne di istituto?» Margot, non del tutto convinta, impugnò il suo fido Luis Guitton e si mise in marcia. La raucedine che aveva colpito il gruppo si smorzò improvvisamente. 127
Capitolo 18 Il monologo
Quella mattina il Barone Von Kaiser si era svegliato di buon umore, prima ancora di bagnarsi le labbra con lo scotch che teneva in una tazzina sul comodino alla destra del letto. Solitamente si somministrava un breve sorso in grado di donare dei toni di grigio al nero alla sua visuale offuscata dalla cataratta. Il motivo di tanto rinnovato entusiasmo era da identificarsi nella comunicazione, qualche giorno prima, che la caccia aveva dato i suoi frutti e che i furfanti erano stati catturati. Nel telefax che aveva ricevuto da Mr. Smith, gli veniva anticipato che di lÏ a breve sarebbe stato svelato il significato celato nel quadro del bambino seduto sulla sedia con il libro sulle ginocchia. Il solo ricordo di quella crosta da quattro soldi aveva, per un istante, minato il gaudio di quella giornata nuvolosa. Da tempo non recitava uno dei suoi monologhi da film. Quelli in cui il cattivo è di fronte ai prigionieri e con la piena coscienza e consapevolezza di avere il coltello dalla parte del manico, si lancia in improbabili discorsi sul potere, rispetto, autorità , politica, attualità e spettacolo. Nel suo studio aveva fatto portare quattro sedie, una per ogni prigioniero, e due poltrone per i due spettatori adulanti: Mr. Smith e Frau Anneke, i suoi fidati servitori. 128
Stava provando la scena del “Posso offrirvi qualcosa da bere? Oh, che sbadato: siete legati” quando alla porta qualcuno bussò. Il Barone si schiarì la voce dagli effetti di un brandy, uno scotch con biscotti di frolla e una sigaretta senza filtro. Poi, con voce severa disse «Avanti» Ciò che avvenne dopo è miseramente riassunto di seguito. I quattro prigionieri erano sfuggiti grazie all’agguato di una mandria di pecore. Mr. Smith e Frau Anneke avevano sì riportarono la tela, ma il suo valore era da ricercarsi solo nell’importanza del ricordo di un vecchio che, di fronte alla morte, voleva riunire tutte le sue opere di gioventù. Un fallimento su ogni versante, reso ancor peggiore dalla parcella di Mr. Smith. Annebbiato dai fumi dell’alcool, il Barone firmò un assegno con la mano tremolante più dalla tensione che dall’Alzheimer incipiente. Mr. Smith si congedò dando le spalle al Barone. Quando incrociò lo sguardo di Frau Anneke riconobbe nella serie asincrona di battiti di ciglia della donna un messaggio in codice Morse che diceva “Mi svincolo dal vecchio e ti raggiungo nella mia camera, secondo piano, quarta porta. La chiave è sopra lo stipite. Ps. Sono campionessa di lotta greco romana.” La rabbia del Barone stava salendo come la pressione in una pentola in cui si stanno cucinando broccoli al vapore. Un inserviente bussò alla porta. «Mi scusi Frau Anneke» disse l’uomo con rispetto «Hanno appena consegnato la commessa dei brandy del Barone, ma pare ci sia stato un errore ed il corriere ha consegnato dieci casse di chinotti e cinque di cedrate.» «Ora arrivo» rispose velocemente Frau Anneke per non innervosire ulteriormente il proprio principale. 129
«Portamelo qui!» urlò il Barone con rinnovata verve «Portami quell’incompetente!» Il Barone si era svegliato con la gioia di fare un predicozzo a qualcuno e nessuno gliel’avrebbe tolta. «Cosa ne faccio del quadro, Barone?» chiese la donna. «Lo bruci, non voglio più vederlo!» rispose distrattamente il Barone intento a ripassare un monologo adatto per un singolo prigioniero. Dopo una estenuante lotta di tre round, Mr. Smith ne uscì vincitore e Frau Anneke fu felice di prostrarsi come un’ancella ai piedi del suo padrone. Più tardi il biondo agente segreto era in fase di autocompiacimento, la performance appena sostenuta l’aveva profuso di una rinnovata sicurezza e mascolinità. Se possibile, la barba gli era cresciuta di qualche millimetro in quella decina di minuti di attività ginnica. Ora, però, erano altri i pensieri che guizzavano nella sua testa. Giunse alla conclusione che si era meritato una mezza giornata di tranquillità, ma al calar del sole, come un ratto che ha rovistato da una dispensa facendone razzia, se la sarebbe defilata. Un’altra missione lo stava attendendo.
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Capitolo 19 Occhi neri come tenebra
Il cielo era stellato. Nessuna nube copriva la grande costellazione del Verme ad Est, ne tanto meno la Lucertola ad Ovest; la stessa Formica pavoneggiava a Sud mentre il Cavallo Selvatico si era allontanato un attimo. Mancava solo qualche settimana all’entrata dell’Asinello dentro il Lupo Distratto e questo non era mai un buon segno astrale. Steso su un manto di muschio ormai morto, ma ancora morbido, giaceva il corpo di un guerriero. I suoi occhi erano invisibili al buio, come quelli di un predatore in agguato o di una preda assonnata. Erano occhi neri. Neri come tenebra. Kun-De era il suo nome, l’ultimo guardiano della gola Ken-To. Da tempo immemorabile la sua vita era trascorsa in quell’ansa isolata. Da generazioni la sua famiglia era stata incaricata di custodire il grande segreto del Gushi, dopo un sorteggio a “chi estrae la pagliuzza più corta” in cui le altre famiglie avevano chiaramente barato per incastrare il clan dei Kun. Il popolo dei gushi-ni (nella lingua locale: popolo di mandriani nomadi delle terre aride del Ni nei pressi della gola Ken-To e custodi del segreto del Gushi), aveva da sempre abitato una delle più aspre e invivibili terre del pianeta: il deserto dei Gobi. Una terra in cui nemmeno la gramigna riusciva ad attecchire, se mai l’avesse realmente desiderato. Per sopravvivere, il popolo dei gushi-ni, si era 131
sempre dedicato all’allevamento di bestiame e alla antica nobile arte del saccheggio. Sebbene in minoranza, rispetto ai popoli vicini, i gushi-ni erano degli abili combattenti, ma soprattutto, degli ancor più capaci armaioli. Nessun fabbro della zona era in grado di scalfire le loro armature bianco avorio con spade, lance o frecce. Erano passati parecchi inverni. Stagioni in cui la barba di Kun-De aveva iniziato a ingrigirsi sui bordi, ma della sua tribù nessuna notizia. Nessuno aveva fatto ritorno alla gola. Qualcosa era accaduto, pensava ogni notte, ma il suo compito era di custodire il segreto del Gushi, a costo della sua stessa vita. A differenza dei suoi avi, Kun-De aveva impiegato il suo tempo in attività diverse dall’ozio e dell’onanismo. Il suo ingegno e la sua costanza l’avevano sostenuto in un’opera artistica di portata monumentale: aveva così creato una raffinata copertura murale a mosaico dell’intera superficie del corridoio della gola Ken-To, con tasselli bianco avorio, che talvolta colorava di rosso grazie al sangue degli stolti avventori in cerca di fortuna. Questa ricercata copertura rocciosa aveva perlopiù lo scopo di mascherare un sofisticato sistema di trappole e trabocchetti, che avrebbero sicuramente scoraggiato qualsiasi male intenzionato venuto a scoprire il segreto del Gushi. In quegli ultimi tempi aveva cercato di non pensarci, ma l’ipotesi che il suo popolo fosse stato fatto prigioniero dopo una guerra non era da escludere del tutto. Non l’avrebbe sorpreso che qualcuno, sotto minaccia di uccidere un figlio o di venire solleticato sotto i piedi, avesse rivelato il segreto del Gushi. In fondo solo i primogeniti del clan dei Kun nascevano con questo giuramento. Ad ogni modo, con le protezioni e i sistemi anti-intrusione che aveva escogitato, era convinto di poter sostenere un assedio di almeno due giorni prima della resa. 132
Talvolta, fra i suoi pensieri, aleggiava una malinconica considerazione. Da bambino, quando Kun-De aveva raggiunto il suo decimo inverno, il padre non aveva ancora la barba grigia come la sua negli ultimi tempi. Era tradizione che al guardiano venisse donata una donna fertile in sposa. La prescelta era solitamente selezionata dopo un’attenta scrematura da parte degli anziani per i loro figli, nipoti (fino al quinto grado), cugini, conoscenti, amici e passanti. Se il suo popolo non avesse mai fatto ritorno, sarebbe morto da solo, in quelle terre desolate in balia di avvoltoi e lombrichi. Il pensiero gli donava un senso di profonda malinconia, mai quanto l’idea di lasciare incustodito il segreto che aveva giurato di proteggere. Nelle notti in cui non riusciva a prendere sonno a causa della fame o dell’indigestione da spiedini di scoprione, Kun-De riviveva le storie che il nonno gli raccontava quando andava a trovarlo nella gola. Una di queste parlava di un uomo venuto da lontano, seguito da alcuni servitori. Si era perso ed era caduto nella morsa del deserto. Suo nonno, di rientro dal pascolo, l’aveva trovato in punto di morte e portato in salvo insieme al suo seguito. L’uomo non parlava la loro lingua, ne tanto meno i dialetti dei popoli vicini. I suoi lineamenti erano diversi, mentre i suoi servitori avevano la carnagione solo di poco più pallida di quella dei membri della tribù. Il nonno lo fece riposare nella sua tenda e lo nutrì con del latte di cammello e macedonia di arbusti per intere settimane finché l’uomo non si alzò per andarsi a cercare qualcos’altro. Quando si fu ripreso, l’uomo volle ricambiare il gesto e presto giunse l’occasione. Nella tribù una bambina era da tempo malata e nemmeno gli anziani più abili nel padroneggiare le proprietà curative della foglia di artemisia erano stati in grado di scongiurare il suo male. L’uomo si avvicinò a lei. Le mise la mano sulla 133
fronte e poi tirò fuori una piccola borraccia magica. Era possibile vederci attraverso sebbene fosse dura come pietra, mentre il liquido al suo interno sembrava essere sospeso, fluttuante nell’aria. Ne fece bere un sorso alla bambina e la notte successiva la tribù si svegliò con le urla di gioia della madre che abbracciava la sua bambina guarita. Tutta la tribù accolse benevolmente l’ospite per parecchie settimane. Tempo in cui il nonno divenne molto amico dello straniero. Questi aveva con se, dentro una borsa, delle pelli sottili dai bordi regolari cucite fra loro. Erano bianche e leggere. Lo straniero le usava per disegnarci sopra con un pezzo di legno dall’anima nera. Il nonno raccontava che vi erano centinaia di rappresentazioni di animali e piante. Di molti il nonno non ne conosceva nemmeno l’esistenza, ma lo straniero aveva cercato di spiegargli che a Sud, oltre le montagne, le terre ne erano piene. L’uomo aveva lo sguardo sincero e il nonno volle crederci. Per ricambiare il segreto che lo straniero aveva condiviso con lui, il nonno gli mostrò le prodigiose proprietà del Gushi, facendogli intendere che questo era un sacro segreto e che mai avrebbe dovuto rivelarlo. Passò qualche tempo e lo straniero ripartì. Il nonno dopo poco morì. In alcune notti, quando la luna era alta in cielo ed illuminava le rocce, Kun-De sfogliava ancora il blocco di pelli bianche disegnate, che lo straniero aveva donato al nonno. Trascorreva le ore ad osservare immagini di animali con lunghi nasi ed orecchie giganteschi, altri con il collo lungo quanto tre uomini uno sopra l’altro e altri ancora con uccelli colorati come l’arcobaleno. Alcune delle pelli rappresentavano invece delle piante dalle foglie grandi come un cane, alberi dai tronchi talmente larghi da richiedere dieci uomini per delinearne il contorno, fiori giganteschi in grado di catturare dei piccoli animali con 134
dei petali dentati, tronchi dalle forme talmente contorte da confondersi gli uni con gli altri. Vi erano anche disegni di bambini. Un bambino che correva sopra una struttura con sole due ruote di carro senza che fosse trainato da cavalli, un bambino che leggeva un’altra raccolta di pelli sottili seduto su un pezzo di legno sostenuto da quattro legni più sottili. Un bambino che giocava con un grosso uovo tondo ed altre scene del mondo da cui proveniva lo straniero. Con gli anni il nome dello straniero si era sbiadito tra i sui ricordi. Forse perché il nonno ogni volta che raccontava quella storia lo cambiava o semplicemente perché quel suono era poco usuale nel linguaggio dei gushi-ni. A sottovoce, nel silenzio del deserto, il guerriero si esercitava a pronunciare con la stessa grazia di un maitre di Parigi ubriaco il nome di Baptiste, ma ciò che gli scorpioni avrebbero potuto udire, se colti di sorpresa, più verosimilmente sarebbe stato somigliante a: Bah-tip, Bap-tit oppure Bati-kte.
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Capitolo 20 La roulotte
Invisibile all’occhio umano privato di allucinogeni, Gallinotta stava fluttuando da quasi un giorno nei cieli di mezzo mondo. In realtà se solo Gallinotta fosse nata in una famiglia alto borghese, capace di sovvenzionare interminabili studi in astrofisica, avrebbe sicuramente saputo che volare in senso opposto a quello di rotazione terrestre l’avrebbe esposta ai cocenti raggi del sole per circa quattro giorni senza sosta. Dietro di lei, come l’asino che segue la carota appesa di fronte a sé, vi era Pteroattilio ipnotizzato dalle formose coscette della sua compagna di viaggio. «Quanto manca alla strada per La Grande Migrazione?» chiese la pollastrella. «Considerando che quella nuvola indica chiaramente il segnale di svolta a destra obbligatoria… credo poco» rispose il rettile cercando di lasciar trasparire una sicurezza che al momento non aveva. In realtà non sapeva cosa fosse esattamente questa Grande Migrazione. Durante le centinaia d’anni che aveva passato solcando quei cieli, molti gli avevano posto quella stessa domanda; ma non appena i suoi interlocutori percepivano anche un solo flebile segno della sua incertezza, tiravano dritto per la loro strada. Talvolta si era dilungato in conversazioni di circostanza con un Boeing 747 che bazzicava sulle rotte di New York – 136
Londra. Solitamente, però, non toccava mai argomenti che andassero oltre la sfera della mera quotidianità “Ah questo tempo, non ci sono più le mezze stagioni” oppure “Dovrei ritagliarmi del tempo per me stesso, sempre in ballo fra una traversata e l’altra? Cosa? Come hai detto? Ah, ti chiedi dove stia andando? Beh in realtà non lo so esattamente. So cosa sto cercando, ma non ne conosco l’ubicazione”. Da quando la TooMuchLowCost aveva abbandonato la rotta NY-London, Pteroattilio aveva perso l’unico amico in grado di ascoltarlo fino ad oggi. Gallinotta era una pollastrella che sapeva il fatto suo, pungente nei suoi ragionamenti, sarcastica nella sua familiarità con le cugine oche. Sentiva che c’era del feeling. Un gioco di squadra. Finché possibile, avrebbe cercato in ogni modo di restarle accanto. Confidava nel fatto che prima o poi Gallinotta si sarebbe stancata di indossare quel cappotto di piume per lasciar spazio ad un tondo corpo coperto di lucenti squame. Il solo pensiero gli causò un’abbondante salivazione, esattamente ad un paio di miglia dalla testa grondante di sudore di Stanley. Grazie ad un abile gioco di scambi ed incastri, Melodie si era seduta sul sedile posteriore della Jeep guidata da Stanley con il loquace Woo come navigatore. Al suo fianco vi era Margot il cui caldo torrido aveva perlato di sudore il corpo. Sebbene la Jeep fosse in grado di ospitare fino a tre passeggeri nel lato posteriore, Melodie si trovava quasi sempre accasciata vicino a Margot, ancora scombussolata dal fuso orario. Non c’era occasione in cui l’ex-inserviente in incognito, dopo una buca nel terreno dissestato, non si appoggiasse languida al fianco della ragazza. Ogni sera, dalla notte in cui, timida e veloce, le sfiorò le labbra, non aveva fatto altro che pensare a Margot. Così acerba ma, allo stesso tempo, così sensuale. 137
A capo della fila vi era la Jeep di Justine e Pierre, i due fratelli Puccini. Pierre, che da qualche tempo era alla prese con un superficiale disturbo alle gonadi di III grado, dovette ben presto cedere il posto di guida alla sorella. «È una mia impressione o Melodie guarda Margot con fin troppa attenzione?» chiese la ragazza. «Trovi? Ero convinto fosse attratta da me.» rispose sofferente Pierre sistemandosi i capelli. «A Melodie piacciono le ragazze!» rispose scuotendo la testa Justine «Non ti ricordi dove l’abbiamo trovata?» «Al Raimbow club di Bordeaux?» «Non hai notato nulla di particolare, occhio di lince?» «Mh… non mi sembra. C’erano un sacco di ragazze che mi fissavano. Questo lo ricordo bene» rispose compiaciuto Pierre. «Forse perché eri l’unico uomo nel locale? E ti sembrava normale che fosse la buttafuori?» «Ah… Ho capito dove vuoi andare a parere con le tue insinuazioni. Vuoi farmi credere che non sarei in grado di convertire una seguace di saffo? Col mio fascino sarei in grado di far perdere i voti ad una monaca di clausura. Sarei in grado di fare abdicare la regina di Inghilterra se solo me ne volessi prendere la briga!» «C’è da esserne orgogliosi in effetti» commentò sarcastica la ragazza «Comunque cerca di non perdere d’occhio Margot. Matisse ci ha espressamente ordinato di proteggerla ad ogni costo durante questa sua prima missione e, fino ad ora, non mi sembra che abbiamo svolto questo compito al meglio» «Ok messaggio ricevuto» rispose Pierre nuovamente serio. «Ma quello è un chiosco?» domandò Justine. «Quale?» disse Pierre sporgendosi verso il parabrezza. «Quella roulotte in mezzo al nulla» «Quella con scritto “Welcome Tourists?” 138
«No, quella col cartello “Scemo chi legge!” ovvio! Che dici ci fermiamo? Magari hanno un bagno, è da un paio di kilometri che mi scappa» chiese la ragazza al fratello. «Con tutte le buche che hai preso non penso di avere un solo osso al posto giusto, sgranchirci un po’ non può che farci bene.» Pierre si girò verso Stanley e, imitando i gruppi d’assalto nelle giungle, chiuse la mano a pugno segnalando di fermarsi. Poi fece l’imitazione di una bottiglia bevuta a canna prima di indicare con l’indice la roulotte. «Ci stiamo fermando?» chiese Melodie. «Sì, c’è un chiosco poco più avanti. Faremo un piccolo break» rispose Stanley col cappello di una tonalità più scura del solito per via del sudore. «Strano, sulla piantina non è indicata» commentò la ragazza. «Dubito che una roulotte venga riportata sulle guide turistiche» la tranquillizzò Stanley frenando sullo sterrato. Una nube di polvere si alzò coprendo la scena di fronte a loro. Via via che la polvere si diradava, iniziarono a distinguere delle forme. Esattamente cinque, in fila decrescente. L’improvvisato gruppo di locandieri mongoli era composto da tre uomini e due donne. Ognuno di loro indossava un tipico cappello a cono di colore diverso. Erano particolarmente sorridenti e servizievoli. Nel tempo in cui Pierre e gli altri scesero dalle Jeep i cinque avevano già attrezzato un paio di tavolini di plastica con gli ombrelloni color marrone ruggine. Melodie stava controllando la piantina. «Dove ci troviamo?» chiese Margot alle sue spalle. «Ecco vedi, ieri eravamo qui, al confine fra la Cina e la Mangolia, ad Erenhot. Oggi abbiamo viaggiato verso Est in direzione di Dalandzadgad. Dalle indicazioni che ci ha fornito Matisse, dovremo svoltare verso Nord fra circa 139
trenta kilometri. Arriveremo in un punto dove le rocce creano una profonda gola. Il resto si vedrà sul posto.» «Ma cosa stiamo cercando esattamente?» chiese Margot incuriosita. «Matisse l’ha spiegato solo a Woo, prima che partiste da Parigi. Lui solo custodisce il segreto del Gushi fra noi della spedizione.» «Ma il nonno come ne è venuto a conoscenza?» «Il vecchio Matisse conosce questa storia dai tempi della Guerra» si intromise Pierre sedendosi fra le due ragazze «Pare che suo fratello Baptiste, gli avesse scritto dall’India in seguito ad un suo viaggio tra Cina e Mongolia. Era alla ricerca di nuove specie animali per le sue ricerche quando si imbatté in un popolo nomade che lo salvò da morte certa dopo essersi perso nel deserto». Mentre Pierre parlava, lo sguardo di Margot si lasciava rapire dalle sue parole quanto dal suo ciuffo. «Lo zio Baptiste aveva fatto una scoperta sorprendente. Quei nomadi, i gushi-ni, erano custodi di un segreto a dir poco sensazionale. Giurò di preservarlo e tornò in India per re-imbarcarsi per la Francia. Durante il ritorno, uno dei suoi servitori locali fuggì. Baptiste era convinto che avesse anch’egli scoperto il segreto dei gushi-ni e volesse rivelarlo alle autorità in cambio di una ricompensa. Non avendo mezzi per condurre l’inseguimento, decise di tornare al villaggio gushi-ni e avvisare la tribù. Il popolo anticipò di qualche settimana la partenza per la stagionale transumanza e si spostò senza mai fare ritorno nella loro terra.» «La tribù dei gushi-ni scomparve circa venti anni fa» aggiunse Melodie sfogliando il fascicolo «Sapevano che sarebbe stato rischioso tornare nei pressi della gola Ken-To e pertanto decisero di prendere altre strade. Molti cambiarono vita e migrarono in Cina dove iniziarono a lavorare nei cantieri delle ferrovie. Alcuni di essi formarono un piccolo villaggio a sud di Pechino dal nome Gushi, 140
mentre altri ancora si unirono ad altre tribù. Quando il servitore condusse una squadra del governo sul posto non trovò nessun accampamento, ne tanto meno la prova dell’esistenza del Gushi. Per punizione l’uomo fu ucciso durante il ritorno alla base e il suo corpo lasciato in balia del deserto». Pierre bevve dalla borraccia nel vano tentativo di saziare la sua sete per poi continuare. «Baptiste fece dunque ritorno a Parigi: la Guerra imperversava ed i Nazisti erano alle porte della Francia. Giunse con un’ora d’anticipo il giorno in cui aveva appuntamento con Matisse nella casa paterna. Una raffica di bombe lo sorprese quando si trovava al piano terra. Il primo piano, sotto le scosse dei colpi, crollò imprigionandolo sotto le macerie. Matisse, che a quei tempi lavorava nei servizi segreti francesi, arrivò solo parecchie ore dopo trovando il corpo del fratello ucciso dai colpi di una Mauser C96, arma assai diffusa nell’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Nelle lettere, che Baptiste aveva scritto a Matisse, si parlava di una mappa descritta in codice Morse dietro il disegno di un bambino seduto sulla sedia. Essa in realtà non dava delle indicazioni precise, ma era in grado di condurre all’antica gola Ken-To partendo da un punto ben preciso descritto nella lettera.» «Ma perché dobbiamo andare in quel posto?» insistette Margot. «Baptiste si era sentito responsabile per quanto era accaduto al popolo dei gushi-ni ed aveva chiesto al fratello di aiutarlo partendo con lui. Matisse era sicuro che il disegno del bambino che legge sulla sedia fosse stato trafugato durante una razzia tedesca e da quel momento si mise alla ricerca.» Intanto Justine era tornata dal suo giro alla toilette e concluse la storia. 141
«Gli anni passarono, ma Matisse non si diede mai per vinto. Proprio quando la speranza stava per cedere alla consapevolezza del fallimento, incontrò Frau Karoline Von Staiserback. Fu proprio qualche mese fa che la vecchia governante del castello Von Kaiser, alla quale successe quell’adorabile esemplare di Frau Anneke, si trovava nei pressi di casa Savoir. Matisse era sceso a comprare il giornale e si misero a sedere come due pensionati sulla panchina di fronte al portone. I due parlarono per ore, ripensando agli anni della Guerra. Clarette passò di lì ed invitò l’ospite ad entrare per un tè. Guardando la collezione di quadri che Matisse conserva nei corridoi, la donna esclamò di averne visto uno molto simile nel castello del Barone Von Kaiser. Da allora Matisse ci ha assegnati a questa missione. Lo scopo è di mettere in salvo il Gushi e preservarne il segreto, onorando in questo modo la promessa che Baptiste aveva fatto anni fa alla tribù dei gushi-ni.» «Caspita…» commentò Margot. «Bella storia, vero?» domandò Stanley alle sue spalle. «In realtà inizio ad avere un gran appetito» lo corresse Margot. «Uno dei tre uomini sta cuocendo degli spiedini di lucertola caramellata» fece notare Pierre inducendo un conato di vomito nella ragazza. Il sole era tramontato di colpo. I mongoli avevano acceso un fuoco vicino ai loro tavoli, mentre le donne avevano servito alcuni bicchierini con un intruglio di dubbia provenienza ed odore. «Non credo sia Whisky, ma sicuramente è roba forte» sentenziò Stanley. «Renderà gli spiedini meno repellenti» lo sostenne Justine. «In queste terre la temperatura notturna scende di parecchi gradi, un po’ di questo intruglio ci riscalderà» disse Pierre mandando giù il liquido torbido. Lo seguì Stanley, a ruota 142
Justine, Melodie ed infine Margot, convinta più dalle motivazioni di Justine che da quelle di Pierre. Woo, la cui borraccia era stata prosciugata da Margot durante il viaggio, accettò di bere l’intruglio. Dall’odore non sembrava essere alcolico, piuttosto qualche sorta di infuso di erbe. «Curioso non trovate?» fece notare Melodie «Uno dei mongoli porta delle scarpe da ginnastica americane» «Io ho visto un orologio svizzero al polso del più giovane» continuò Pierre. «Non mi sembrano per nulla denutriti se pensiamo che si cibano di lucertole e foglie di arbusti» commentò Justine. «Avete presente quei cartoni animati dove il gatto ha le allucinazioni e vede già il canarino cotto allo spiedo? Magari loro fanno lo stesso con noi. Ah ah !» rise Stanley per la sua stessa battuta. I suoi commensali non risposero con altrettanta ilarità. Poi un senso di pesantezza agli occhi lo colse di improvviso. Una sensazione non nuova negli ultimi giorni. Anestetico. Margot, che nel dna aveva i geni codardi del padre e quelli pratici della madre, prese un profondo respiro e con tutta la forza che gli restava gridò l’unica cosa che sapeva essere in grado di cavarla da quel pasticcio: «Woooo!» Al suono di quel grido o più probabilmente perché uno dei mongoli stava sfilando il portachiavi di Betty Boop, Woo si destò per pochi istanti dallo stato di trance. Come un automa prese dal taschino di Stanley il fiaschettino argentato che il vecchio marinaio teneva sempre pieno di brandy e ne bevve un sorso prima di riperdere coscienza. Questo gesto, per un uomo la cui disciplina nelle arti marziali era nettamente superiore a qualsiasi forma di fondamentalismo religioso, poteva avere un unico scopo: evocare l’antichissima tecnica dei Sette maestri ubriachi 143
Fu fra le ultime tecniche che suo nonno, il vecchio Xi, gli insegnò. «Woo, non vi è nessun allenamento per questa tecnica. Ciò che devi fare è mantenere il tuo corpo sgombro dall’alcool con dedizione e disciplina. Arriverà un giorno in cui la tua mente non sarà in grado di comandare il corpo e il tuo avversario cercherà di sopraffarti. Se avrai a disposizione un sorso di alcool avrai modo di invocare lo spirito dei sette maestri ubriachi: Zo, To, Ki-yo, Lin-Po, Xoh, Piong e Fun. Ognuno di loro governerà un braccio, una gamba, il capo o il busto mentre Fun, il più abile dei sette, sarà i tuoi occhi durante il combattimento. Solo così potrai avere una qualche possibilità di vittoria durante lo scontro. Non ne abusare. Questa tecnica può essere utilizzata una volta soltanto nella propria vita.» Nessuno della banda di Matisse ebbe modo di assistere alla scena che si presentò poco dopo. Il corpo di Woo, barcollante come un burattino, schivò dapprima i colpi di machete dei suoi avversari per poi colpirli con precisi colpi ben assestati nei punti vitali: calci sotto la cintola per gli uomini e scapigliatura violenta per le donne. I cinque mongoli, spaventati per l’effetto che aveva suscitato la pozione dello scorpione-castrato nello straniero, fuggirono a cavallo degli asini da soma parcheggiati dietro la roulotte. Nuvole broccoliformi si muovevano sulla luna piena creando un fascio di luci intermittenti sulle lamiere della roulotte. Un mangianastri riproduceva una copia consumata di Heroin dei Velvet Undergrond. Al battito della fievole cassa i corpi di Justine e Pierre iniziarono a muoversi. Dapprima scoordinati, poi sempre più a ritmo di musica. Melodie, anch’essa come una zombie sotto effetto di un veleno allucinogeno, si destò. Prese per mano Margot e la issò incitandola ad unirsi a loro. Le fiamme delle 144
candele tramavano sotto la brezza fresca della notte. I corpi dei quattro iniziarono a danzare mischiandosi gli uni con gli altri in un vortice di confusione onirica. La prima a lasciarsi andare del tutto fu Justine che prese Melodie per il braccio portandola a se. Quando i loro corpi furono l’uno il profilo dell’altro le loro bocche si scagliarono avidamente l’un l’altra come a dissetarsi. Le braccia di Pierre danzavano sui fianchi di Margot mentre una bretella della leggera canotta si accasciava sul braccio della ragazza. Un intreccio di dita li legò creando l’attimo, che venne colto da entrambi. Quando il veleno fu metabolizzato nei corpi di Woo e gli altri, ciò che si presentò ai loro occhi fu solamente un barbecue di spiedini di lucertole caramellate ormai abbrustoliti e una roulotte disabitata. «Cos’è successo?» chiese Margot issandosi seduta da terra usando come piano d’appoggio il petto di un Pierre seminudo. La testa era dolorante e la luce a dir poco accecante per le sue pupille ancora dilatate. «L’ultimo ricordo che ho…» cercò di ricordare Justine «è uno di quei vecchi mongoli che mi toccava le tette con la saliva alla bocca» il solo pensiero la fece rabbrividire ed ebbe l’istinto di coprirsi con lo scialle a proteggere il generoso decolté. Melodie, poco distante da lei, riconobbe un sapore di rossetto alla fragola sulle labbra. «Sarà meglio andare» disse Pierre tirandosi su da terra «potrebbero tornare da un momento all’altro e questo è il loro territorio. Giocano avvantaggiati» Woo dovette scrollarsi di dosso chili di sabbia, Stanley e le carcasse dei sette ubriaconi collassati, prima di ritrovare la piena padronanza dei suoi movimenti. Con suo dispiacere, dovette fare tesoro di un, seppur apparentemente insignificante, dettaglio che il vecchio Xi, anni fa, si era dimenticato di rivelargli. I sette maestri non si facevano 145
scrupolo ad usare ogni via di fuga dal corpo del loro ospite dopo aver fatto scorribande di viscere. Da quel momento nessuno fece piĂš un benchĂŠ minimo riferimento alla nottata precedente.
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Capitolo 21 L’ora del tè
Il gigante indiano si incamminò verso la cucina scansando due lampadari ed uno stipite della porta. Con difficoltà prese fra le grandi dita una piccola bustina di tè e cercò di aprirla senza disintegrarla. L’impresa fu ardua, ma mai quanto prendere le zollette di zuccherò dalla scatola con le apposite pinzette. Per un istante fu tentato di mettere da parte le pinzette ed usare altri metodi ben più efficaci, ma le parole di Matthe echeggiavano nella sua mente come la subdola voce della coscienza. Prese un lungo sospiro e si rimise a lavoro. «Credi che la piccola Margot se la caverà?» chiese Clarette a Matisse seduti nella libreria. «È una Savoir! Siamo come i topi, troviamo sempre una via di fuga!» rispose sicuro l’anziana spia. «Hai mai pensato che forse questo non è quello che desidera dalla sua vita?» chiese la donna senza distogliere l’attenzione dall’uncinetto. «È giusto che provi. Solo così saprà se vuole intraprendere questo percorso oppure no» «Se al suo ritorno mi accorgerò che la bambina ha un solo capello fuori posto non te la farò di certo passare liscia Matthe!» disse la donna puntando l’uncinetto dritto verso gli occhi di Matisse «Che ne è stato di quel Smitoskij?» 147
«Per ora è in panchina» sospirò. «Non pensi potrebbe fare il doppio gioco?» chiese sospettosa Clarette. «Gli ho salvato la vita, fin quando non restituirà il favore non avremo di cui preoccuparci. È uno della vecchia scuola. Conosce il codice etico delle spie» «Non mi convinci con queste storie sul codice etico e sul rispetto. Quanto l’hai pagato?» «Diciamo che ho qualcosa che può essergli molto utile in questo periodo» sorrise il vecchio «è ora del tè, magari con dei biscotti» fece notare comodamente seduto sulla poltrona. «Ottima idea, per me due zollette di zucchero» ribatté Clarette senza smuoversi di un centimetro. Matthe fece una smorfia di disapprovazione. L’emancipazione femminile era stata un flagello dell’umanità. Il principio del caos. L’annunciazione dell’Apocalisse, pensò. Afferrò la campanella di ottone che teneva sulla scrivania vicino al tagliacarte ed un attimo prima che il batacchio urtasse la campana, il gigante fece il suo ingresso nella libreria con il vassoio del tè. «Sion, iniziano ad essere più frequenti, vero?» commentò Clarette. Il gigante annuì. «Con quanto anticipo hai avuto la visione?» continuò la donna? «Dieci minuti» rispose. «Stavi pensando a noi o alla stanza?» approfondì Matisse. Il gigante si limitò a scuotere la testa in modo negativo. «Caro…» lo accarezzò Clarette «ti vedo un po’ pensieroso da stamattina. Hai avuto altre visioni che ti hanno turbato?» Con la testa china e il mento appoggiato al petto annuì. «Aveva a che fare con Margot?» chiese subito con ansia la donna. 148
«Ho visto cinque figure scappare nella notte, inseguite da Woo» rispose l’uomo. «Erano Pierre e gli altri che scappavano da Woo?» disse Matisse. «No, erano troppo bassi per essere loro» «Allora poco male, ragazzo mio» tirò un sospiro di sollievo la vecchia spia «è normale che qualcuno sfugga da Woo, in vita mia non ho mai incontrato lottatore più abile» «Trovo strano che Sion abbia avuto visioni di luoghi così lontani. È la prima volta» commentò la donna in leggero stato di ansia per i pericoli a cui era andata incontro la sua piccola Margot. Il gigante mosse la mano e lo spostamento d’aria regalò l’effetto refrigerante di un ventaglio sul viso di Clarette. La infilò in una tasca per poi estrarla poco dopo. I due anziani amanti si sporsero dalle sedie per scoprire cosa si celava dietro quelle dita grandi quanto wurstel. «Il fermaglio di capelli di Margot!» esclamò la donna. «Sion, prova a stringerlo nella mano e chiudi gli occhi. Riesci a vedere Margot?» chiese Matisse emozionato. Il gigante chiuse le palpebre lentamente. La luce che proveniva dalla finestra filtrò attraverso il sottile strato che separa la pupilla dal mondo esterno creando delle macchie gialle sullo sfondo nero. Le macchie iniziarono a muoversi come uno sciame di vespe mischiandosi fino ad assumere forme diverse. Lentamente tutto diventò più chiaro. Riconobbe il viso di Margot sotto il sole del deserto dei Gobi. Accanto a lei vi erano gli altri cinque compagni di viaggio. Erano scesi dalla Jeep e stavano fissando un imponente corridoio di roccia che si ergeva dalla sabbia. Era nero e lucido, ma la base era ricoperta di bianco. La troppa luce lo costrinse ad aprire gli occhi e la scena svanì. «Hai visto qualcosa?» insistette Matisse. «Sono giunti di fronte ad una gola scavata nella roccia. Attorno a loro vi è solo deserto e sole cocente.» 149
Matisse si diresse verso la scrivania dove aveva la copia del programma di viaggio trascritto attraverso la carta carbone. «Devono essere arrivati alla gola Ken-To!» fissò l’orologio «sono in orario rispetto alla tabella di marcia. Sion, per ora non affaticarti. Fra un’ora dovrai cercare di ritornare in quel posto con la mente» Il gigante si limitò ad annuire. Clarette, alzandosi sulle stanche ginocchia, si appoggiò alla spalla di Sion, seduto accanto a lei sul baule di Matthe. L’anziana governante si trovava così a guardarlo dritto negli occhi. «Ti va di raccogliere un po’ di melograni dall’albero?» Il gigante la precedette verso il giardino. Clarette era preoccupata per il suo ragazzo. Troppo spesso intravedeva in quei profondi occhi, un velo di malinconia. Sarebbe stata più contenta se Sion fosse stato libero di condurre una vita come gli altri al di fuori delle quattro mura di casa, ma secondo Matthe non era ancora il momento. Era giovane e le sue capacità lo rendevano una facile preda del mondo esterno oltre che un pericolo per se e per gli altri. Seduta su una sedia di vimini lo osservava stendersi per raccogliere i frutti maturi. Stare all’aria aperta a contatto con la terra lo rendeva sereno. «Guarda che ti vedo Sion…» lo riprese la donna mentre il gigante attraeva a se col pensiero un melograno poco più alto della sua presa «non devi abituarti ad usare la telecinesi altrimenti in pubblico potresti dimenticartene ed attrarre l’attenzione» «Hai ragione Clarette, ma pensi che la mia statura non sia sufficiente a farmi fissare dalla gente?» «Non hai tutti i torti mio caro. Che ne dici se provassimo a farti giocare in una squadra di pallacanestro? Lì sono tutti altissimi, anzi più alti si è e più si è apprezzati» «Sarebbe bello » rispose il gigante sorridendo. 150
«Ne parlerò con Matthe, una mia amica ha il nipote che gioca in una squadra» Dalla finestra della libreria Matthe osservava la bucolica scena. Riusciva ancora a ricordarsi perfettamente il giorno in cui aveva portato a casa il piccolo Sion. Lo ricordava come fosse ieri. Invece erano ormai passati quasi vent’anni. Era di ritorno da una missione in Russia. La base del KGB si trovava in una valle sperduta sui monti caucasici. Secondo alcuni informatori si trattava di un centro di ricerca segreto per armamenti sperimentali. Al suo interno vi avrebbero trovato un laboratorio dove veniva coltivato un parassita in grado di far appassire qualsiasi tipo di cultura in una sola notte. Alla luce del sole sarebbe morto senza possibilità di diffondersi. Un semplicissimo parassita sarebbe stato così in grado di far marcire un’intera economia dal suo interno nel giro di pochi mesi. Entrati nella base di ricerca Matisse e i suoi uomini erano riusciti a neutralizzare il personale presente e distruggere tutte le incubatrici e gli incartamenti dei progetti. La missione si era compiuta senza troppi inconvenienti. Si erano poi calati attraverso i condotti di aerazione del deposito materiali per giungere direttamente nell’area adibita alla sperimentazione biologica dove due bombe ad alto potenziale avevano adempiuto perfettamente al loro scopo. Prima di imboccare il corridoio che portava all’uscita posteriore, un bambino di circa cinque anni alto quanto un ragazzo di dodici era apparso nel corridoio vestito solo di un camice bianco. Il capo era completamente calvo ed alcuni elettrodi erano ancora applicati sulla pelle color ambra. Gli uomini di Matisse lo incitarono a sbrigarsi, di lì a poco una squadra del KGB sarebbe sicuramente accorsa dopo l’allarme per neutralizzarli. Come spesso era accaduto nella vita di 151
Matthe Savoir, il rimpianto di non esser riuscito a salvare la vita del fratello lo spinse a seguire il suo istinto. Se lo caricò in spalla, anche se ciò avrebbe significato rallentare la sua corsa. Le voci degli agenti sovietici iniziavano a propagarsi per i corridoi, seguiti da passi veloci di stivali. L’elicottero si era già alzato in volo. Una scaletta di corda gli era stata tesa fluttuante nell’aria. Matthe con tutte le sue forze vi si appese prima di essere issato dai suoi compagni di squadra. Fin da subito aveva intuito che Sion era un bambino speciale. Grazie all’aiuto di Petrois Senior, il nonno paterno di Margot, era riuscito a farlo visitare in un ospedale militare. L’esito della TAC fu chiarificatore. Alla base del cervello, sopra l’ipotalamo, vi era una massa tumorale benigna che premeva le parti contigue creando degli effetti imprevisti. Primo fra tutti la crescita anormale. Un giorno lo scoprì a giocare con delle palline da golf sospese nell’aria come dei minuscoli dischi volanti. Capì dunque che l’effetto del tumore non aveva sortito solo notevoli crescite ormonali, ma anche uno straordinario potenziamento psichico. I russi dovevano esserne venuti a conoscenza, pensò, ecco perché il bambino si trovava ad essere analizzato in quella base. Un giorno aveva portato Sion al porto dove le navi della Savoir salpavano per l’India ogni mese. Uno dei suoi marinai, natio di quelle terre, fu in grado di aiutarlo raccontandogli tutto il possibile riguardo alla famiglia d’origine del ragazzo. Dal racconto dell’uomo emerse che la famiglia di Sion, così come la gente del villaggio, avevano visto nelle capacità del ragazzo un segno di sventura voluto dagli dei. Quando i russi giunsero a casa di Sion per condurlo nel laboratorio segreto da cui nessuno faceva più ritorno, furono sorpresi nel ricevere tutta quell’accoglienza dalla famiglia del ragazzo. Fu così che Matthe lo prese in casa con se e Louise, 152
la sua prima moglie.
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Capitolo 22 La gola Ken-To
Pierre e gli altri erano rimasti per un paio di minuti in silenzio di fronte allo scenario che gli si era dipinto davanti. Due spuntoni di roccia nera e lucida si intrecciavano per almeno cinquanta metri in altezza e più di cento in lunghezza, creando un corridoio spettrale alquanto inquietante. La cosa più strana di questa scultura gigantesca erano le pareti interne adornate con piastrelle irregolari, per lo più della grandezza di un pallone, i cui colori spaziavano dall’avorio ai toni dell’argilla cotta. «Siamo sicuri che il posto sia questo?» chiese Stanley a Melodie. «Le indicazioni erano chiare. Dopo la pietra a forma di tartaruga svoltare a destra e seguire verso nord per dieci chilometri. “Una magnifica scultura di graffite nera come carbone, ma lucida come il diamante sotto il sole di mezzo giorno si innalzerà come una cattedrale. Al suo interno i guardiani gushi-ni custodiscono il loro segreto antico di millenni”. Poi gli appunti finiscono. Non ci resta che entrare» rispose la ragazza. «Guardiani?» chiese Margot «Ciò vuol dire che lì dentro c’è qualcuno pronto a morire per custodire il segreto a lui affidato?» 154
«I gushi-ni è un popolo scomparso. Questo luogo è disabitato da decenni» sentenziò malamente Pierre che aveva preferito i pantaloncini e le infradito agli scarponcini «Su, andiamo. Prendiamoci questo benedetto Gushi e torniamocene a casa» Melodie si avvicinò a Margot e, cingendola per la spalle, la rassicurò «Stammi accanto» Margot, che aveva capito un po’ l’andazzo, rispose «Senza offesa Melodie, ma mi incollerò alla schiena di Woo come una cozza sullo scoglio» Woo, sentendosi chiamato in causa, sgranò gli occhi come se qualcuno gli avesse improvvisamente praticato una puntura intramuscolare nel gluteo. Giunti all’ingresso della gola notarono che anche il pavimento era stato ricoperto dello stesso genere di rivestimento usato per le pareti, il colore però era nettamente più scuro con delle marcate righe orizzontali che collegavano una parete con l’altra. «Quantomeno qui dentro l’aria è più fresca. Là fuori mi stavo per sciogliere» disse Justine sorseggiando dalla borraccia quasi vuota «Non trovate che il pavimento sia un po’ scivoloso?» fece notare Margot. «Già» rispose Stanley chinandosi a toccare con i polpastrelli la superficie «è una sorta di melma a base oleosa. Quasi come grasso di animale» disse annusandola. «Come l’olio delle lampade?» chiese Margot. «Qualcosa del genere» rispose Stanley strofinandosi la mano sul pantalone. «Quindi è altamente infiammabile?» continuò Margot. «Quasi sicuramente» rispose l’ex marinaio. «Pertanto» insistette la ragazza «se Pierre facesse cadere la sigaretta che sta fumando in questo momento, finiremmo abbrustoliti come dei polli allo spiedo?» 155
Tutti si girarono di scatto verso Pierre con sguardo terrorizzato. Muovendosi cautamente, versò nel tappo della borraccia un goccio d’acqua e la spense, donando sollievo nel gruppo. Nel silenzio della grotta il rumore di due pietre sbattute l’una con l’altra attirò l’attenzione dei presenti. Dalla parete ovest della galleria apparse quello che, ai loro occhi, doveva sembrare un sottile serpentello rosso fuoco. O semplicemente…fuoco. Come una miccia per dinamite la sottile fiamma seguì un tragitto fino alla bocca della gola Ken-To. Non appena toccò il suolo, una fiammata si levò creando un muro di fuoco dietro di loro. Un rumore di passi sopra le loro teste rimbombò per tutta la gola scemando gradualmente. Presi dal panico i sei escursionisti se la diedero a gambe, come un branco di bisonti scoordinati. Stanley cadde rovinosamente a terra un paio di volte, fra capriole e ruote Woo diede la polvere ai restanti, mentre Melodie, con la scusa del buio e del panico, cercò nuovamente di baciare Margot, ma il tentativo fu un epico fallimento: diede una testata a Justine che ricambiò con una gomitata nel fianco. «ALT !» urlò Margot. Quando tutti si furono fermati e calmati, proseguì «Non dobbiamo farci prendere dal panico! C’è qualcuno in questa gola che, a differenza di quanto detto da qualcuno, è alla guardia di questo posto. Sicuramente ci sono altre trappole disseminate lungo il corridoio. Dobbiamo tenere gli occhi aperti. Stanley, passami la torcia.» Margot iniziò a guardarsi in giro «Le righe più scure sul pavimento sono i segni delle fiamme e si fermano in quel punto» indicò un paio di metri dietro a loro «qui il suolo non ha quel grasso infiammabile, quindi non dovremmo correre lo stesso rischio» poi diresse la luce verso la parte più interna della gola «ragioniamo. Perché rivestire di queste piastrelle bianche le pareti e il pavimento?» pensò ad 156
alta voce «Questo è un nascondiglio, non di certo un luogo di culto. Adornarlo non ha lo scopo di abbellirlo, mi seguite?» Tutti annuirono sorpresi dall’acume della ragazza. «Se il pavimento rivestito avesse avuto lo scopo di preservare il grasso, ora non dovremmo più trovarlo e invece eccolo qui» Lo sguardo di Woo si illuminò d’improvviso e subito si avvicinò a Justine. Le prese in prestito la borraccia e vi versò dentro l’ultimo goccio che aveva custodito nella sua. Quando fu completamente vuota avvolse la cinghia ad una corda e si mise al fianco di Margot facendola roteare. «Ho capito cosa vuoi dire Woo! Da questo punto in poi il rivestimento del pavimento ha lo scopo di nascondere! Potrebbero esserci dei punti in cui il pavimento cela un pozzo o qualcosa del genere» Woo annuì con la testa e lanciò la borraccia ad un paio di metri di distanza. Nulla. La raccolse e riprovò, questa volta più distante. Dietro di lui nel frattempo si era creata una fila dai cui lati spuntavano delle teste curiose. Al quinto lancio il pavimento si crepò. Al sesto lancio, nello stesso punto, il rivestimento cedette mostrando una buca di cui non si riusciva ancora scorgerne la profondità. Serpeggiando attraverso le buche nel pavimento i sei giunsero al termine del pavimento rivestito d’avorio. Da quel punto in avanti le lastre di graffite creavano una superficie compatta chiaramente solida. Alcune infiltrazioni di luce illuminavano il successivo scorcio di corridoio. «Chissà ora cosa ci aspetta» commentò ansiosa Melodie. «Le fiamme dietro di noi si sono spente» fece notare Stanley. «Avevano solo lo scopo di spaventare e spingere verso le trappole» rispose Margot guardandosi intorno. 157
Si strinse le tempie fra le dita ed iniziò a pensare. Pierre e gli altri non osavano ostacolare il pensiero della giovane con le loro vibrazioni negative, pertanto si limitarono a farsi smorfie e boccacce a vicenda. «Chi ha custodito questo luogo negli anni avrà sicuramente dovuto affrontare orde di uomini o piccolo gruppi. Questo spiega le diverse righe sul pavimento all’ingresso. Ogni volta che qualcuno ardiva ad entrare, ecco che veniva acceso il fuoco, così l’intruso scappava e veniva risucchiato dai pozzi. Ripetendo lo stesso trucco era possibile decimare i male intenzionati facilmente.» Un assenso collettivo echeggiò. «Sicuramente i pozzi non erano sufficienti a fermare tutti. Quindi dobbiamo aspettarci altre trappole» «Abbiamo sentito solo i passi di una persona sul soffitto» ricordò Justine. «Vero» annuì Margot come l’ispettore Poirrot «ogni trappola deve poter essere azionata da una sola persona…» Woo si avvicinò a lei con la borraccia e la corda a tracolla ed indicò prima le pareti e poi il pavimento. «Il rivestimento alla pareti continua mentre quello del pavimento si interrompe. Giustissimo Woo. Provate a vedere se ci sono irregolarità nelle pareti, ma prestate attenzione» disse Margot. Più o meno morigeratamente ognuno si avvicinò alle pareti nella speranza di trovare qualcosa, a parte morte certa. «Trovato!» disse Pierre sulla parete est «Guardate lì, c’è un rosone di buchi attorno a quella piastrella bianca con le venature marroni» Tutti rimasero a debita distanza senza passarci attraverso. «Stanley mi passi la giacca?» chiese Margot. Poi afferrò la corda al collo di Woo e ne fece passare un capo attraverso l’etichetta dietro il bavero. La borraccia diede il peso per tenere la corda tesa. «Woo tienimi sulle spalle e fammi avvicinare al punto indicato da Pierre» 158
Woo, senza obiettare si inginocchiò e permise a Margot di salire, mentre Melodie, invidiosa della circostanza, la sosteneva da dietro. Appoggiandosi alla parete per mantenere l’equilibrio si avvicinarono a passi cauti. «Al via dovete scattare e superarlo. Se ci sono delle frecce sicuramente non saranno caricate a ripetizione, tenetevi pronti» Pierre, Stanley, Melodie e Justine si misero in fila per i cento metri ad ostacoli. Margot dapprima contò il numero di fori. Otto. Poi prese un bel respiro e fece oscillare la giacca di Stanley con la zavorra davanti ai fori. Sssbam! Sssbam! Sssbam! Sssbam! Sssbam! Sssbam! Sssbam! Sssbam! «Ora!» gridò e tutti saltarono gettandosi a terra, inclusi lei e Woo. Stesi a pancia in su Margot iniziò a ridere. Una risata più isterica che non di divertimento, ma fu lo stesso contagiosa nei compagni d’avventura. Un suono gutturale giunse dalla gola di Woo. Margot si destò subito e lo vide indicare il soffitto. Sopra di loro vi erano dei buchi grandi quanto un’anguria con una forma circolare poco naturale. «Scappiamo!» urlò. Tutti si allontanarono di scatto, come chi scopre di avere una tarantola nel letto. Circa tre centimetri separavano Pierre dal di diventare un egocentrico eunuco. A tale distanza da lui, infatti, una pietra pesante almeno venti chili, si schiantò al suolo. Rimasero fermi immobili per un paio di minuti in silenzio. Il cuore batteva mille colpi al minuto nel petto di ognuno di loro. Avevano bisogno di ritrovare la calma e la concentrazione, solo così avrebbero potuto cavarsela da quella trappola. Di fronte a loro, a circa venti metri, vi era un massiccio portone di pietra con una catena grande come una collana d’aglio ed un lucchetto a dir poco sproporzionato. 159
«Riesci a vedere qualcosa Sion?» chiese Matthe seduto accanto a lui. Il gigante scosse la testa «È tutto buio». «Ok. Torniamo agli esercizi sulle estrazioni della lotteria» si rammaricò il vecchio.
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Capitolo 23 Una giornata iniziata male
La giornata non era iniziata nel migliore dei modi, penso Kun-De. Come altre volte era accaduto nella sua vita, un presagio di sventura era apparso nelle prime ore del mattino. Un segno degli dei, se mai i gushi-ni ne avessero adorato qualcuno. Si era svegliato all’albeggiare, con il torcicollo. Erano parecchi giorni che il suo nuovo cuscino di pietra gli dava qualche problema alla cervicale. Dopo qualche minuto di trazione con i piedi appesi al soffitto riuscì a trovare un po’ di sollievo. Uscito all’aperto della sua residenza scavata nella roccia, Kun-De si mise ad osservare il paesaggio. Sabbia ovunque. Molto bene, si rincuorò. Scese dalla scaletta di corda che lo conduceva a terra per circa trenta metri lungo una parete nera e liscia come uno specchio. Fece il normale giro di routine controllando se le schegge bianche che aveva incastrato nelle fessure degli ingressi erano state mosse durante la notte. A quanto pareva, quella passata, era stata una nottata tranquilla. Prima di arrampicarsi nuovamente sulla scaletta di corda, diede una spolverata all’ingresso della gola, lubrificò le guide dell’olio infiammabile, incollò alcune piastrelle cadute dalla parete, spazzolò delicatamente le precarie mattonelle che conducevano dritte dritte in un pozzo senza via di fuga, spolverò il rosone delle frecce avvelenate e spazzolò le vie 161
da cui i massi cadevano. Si avvicinò con lo scopettone alla porta di accesso alla sala del Gushi e controllò che il lucchetto fosse ben saldo alla catena. Il lucchetto era stato un recente acquisto. Qualche settimana prima era passato a salutare la famiglia Ming-cho alla loro roulotte. In cambio di alcuni dischi bianco-avorio adatti per pranzare, la famiglia scambiò quel lucchetto, un paio di scarpe morbide troppo piccole per lui e, a loro discrezione, vollero aggiungere anche un copricapo con il disegno di un serpente. Gente strana la famiglia Ming-cho. Parlavano poco, ma sorridevano molto. Uscito dall’ingresso della gola con lo scopettone, si asciugò la fronte con la manica e fu in quel momento che lo vide. Un’ombra sulla sabbia grande quanto un uccello, ma con la coda di serpente. Alzò lo sguardo al cielo ma non vide nulla. Tornò a fissare la sabbia e lo rivide. Muoversi con l’ampia apertura alare attraverso le dune. Stranamente, dietro di lui, vi era un’altra ombra mai vista prima. Era tozza e rotonda. Agli estremi alcune appendici minuscole sbucavano dai lati. In altre occasioni aveva visto quell’ombra dalla coda di serpente e in nessuna di quelle la giornata aveva assunto una piega positiva. Primavera scorsa: una tempesta di sabbia aveva cosparso di sabbia l’intero ingresso della gola. Ci vollero sette lune per ripulirlo. Due autunni prima: attacco di dissenteria malvagia dopo aver mangiato le bacche di ogni colore che la famiglia Ming-cho gli aveva donato dentro una sacca di budello trasparente. Inverno passato: uno storno di uccelli aveva fatto a gara per defecare sulla roccia nera nel deserto. La branda di Kun-De venne corrosa dallo sterco acido rendendo la zona inagibile per settimane. 162
È logico comprendere come si sentì Kun-De quando quell’ombra riapparve nella sua quotidianità. Di impulso risalì per le scalette ed iniziò a coprire di dischi bianco-avorio la sua branda. Poi un rumore giunse al suo orecchio. Sbirciando da dietro una roccia vide due cavalli di ferro e sei persone di fronte a loro. Erano ferme ed immobili. Quando una di queste si mosse, tutti gli altri la seguirono. Invasori. Prese dal suo comodino di strati di graffite due pietre focaie e si diresse al primo punto di difesa. Quando gli intrusi superarono la prima linea iniziò a colpire fra di loro le pietre alla ricerca di una scintilla, la quale non tardò ad arrivare. Sfortuna vuole che Kun-De non avesse ancora ripulito il suo sandalo dopo le pulizie e la prima scintilla cadde proprio sui suoi piedi incendiandoli. Un odore di pollo bruciato gli zaffò alle narici. D’istinto batté il piede innescando la miccia. Di corsa scappò via verso una pozza d’acqua che usava di scorta. Alcune imprecazioni in antica lingua Gushi-ni riecheggiarono nell’aria dopo secoli. Tornato sul campo di battaglia con la pianta del piede offesa, Kun-De si chinò per controllare che tutti gli intrusi fossero caduti nei pozzi, possibilmente dallo stesso buco. Ogni volta il lavoro di restauro gli costava una settimana di fatica. Invece erano ancora inspiegabilmente tutti vivi. Una ragazza stava parlando e tutti le davano ascolto. Kun-De passò al secondo punto difesa, il rosone di frecce avvelenate. Solo un uomo, in tutta la sua carriera da custode del Gushi, aveva superato quel punto, ma il suo cranio sfondato dalle pietre piovute dal soffitto aveva permesso a Kun-De di tingere alcune piastrelle della sua umile dimora di rosso. Scelta d’arredamento un po’ azzardata, non c’è che dire, ma dopo vent’anni il bianco avorio, combinato con il solo nero, iniziava a disturbarlo. 163
Quando i buchi vennero oscurati, segno che qualcuno stava passando, lanciò i dardi. Centro! Centro! Centro! Centro! Centro! Centro! Centro! Centro!... stranamente erano serviti ben due dardi in più, ma nella sicurezza non bisognava fare mai economia. Trasse un respiro di sollievo e si incamminò a recuperare i corpi, ma sentire ancore delle voci lo bloccò, come pietrificato. D’istinto tirò la corda che tratteneva le pietre e le fece rotolare giù dal soffitto dritto sugli intrusi. Di corsa giunse ad osservare attraverso alcuni spiragli e vide ciò che in vita sua mai aveva avuto modo di vedere: degli intrusi erano giunti di fronte al portone del Gushi. Aver dotato il portone di quel lucchetto lo rasserenò. Senza chiave nessuno avrebbe mai potuto aprirlo, stando a quanto gli era stato garantito dalla famiglia Ming-cho. Afferrò il suo machete e scese nella sala del Gushi. Doveva essere pronto al peggio. La giornata era iniziata nel peggiore dei modi.
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Capitolo 24 La sala del Gushi
La leggenda narra che in tempi remoti il deserto dei Gobi fu un terra fiorente e fertile. Venne poi messa a ferro e fuoco dall’inarrestabile avanzata dell’armata di Gengis Khan. Il belligerante condottiero, famoso tanto per le sue capacità militari quanto per il suo narcisismo, pare fosse stato battuto in giovane età da un guerriero nomade della tribù dei gushi-ni. Durante lo scontro a colpi di machete e scudo, il giovane Gengis (non aveva ancora guadagnato l’epiteto di Khan) vide frantumarsi in mille pezzi la sua arma durante l’impatto con lo scudo bianco avorio del suo avversario. Il guerriero gushi-ni, che nella vita si era accontentato di depredare i suoi nemici, non fu da meno in quell’occasione. Il giovane Gengis fu così lasciato nelle valli della Mongolia meridionale vestito solamente di un imbarazzante perizoma di moffetta e dei calzini troppo bucati per essere depredati. L’umiliazione subita da Gengis fu tale, che da quel giorno giurò vendetta e partì alla ricerca del guerriero nomade per vendicare il suo onore ferito e sottrargli il prodigioso scudo bianco. Con quello al braccio, mai nella sua vita avrebbe dovuto rivivere la paura di perdere in battaglia. È risaputo che i gushi-ni, in quanto furfanti nomadi giramondo, non erano avvezzi ad andare incontro ad armate furibonde. Come una lepre inseguita da una 165
tartaruga, si spostarono comodamente ogni qualvolta l’armata di Gengis Khan si avvicinava ai loro insediamenti. Il Khan, approfittando delle continue scorribande alla ricerca del guerriero nomade, ne approfittò per conquistare mezza Asia, ma questa fu solo una magra consolazione in confronto al suo iniziale proposito. Quando i sei esploratori si trovarono di fronte al massiccio portone di graffite nera, uno di loro fece un passo in avanti esordendo stoicamente con «Qui ci penso io». Pierre, che fino a quel momento non era stato di grande aiuto al buon esito della missione, convenne con se stesso che scassinare un lucchetto a due cilindri sarebbe stato come violare il diario di un’adolescente fan dei Beatles. Una bazzecola. Pierre, che in realtà non era mai stato una ragazza adolescente, sottovalutò il congegno che si trovava inerme di fronte a lui. Sarà stata la sabbia e l’umidità di quella gola. Sarà stato che il tagliacarte che usava per aprire i lucchetti delle biciclette era a circa seimila chilometri da lui. Sarà stato che l’ansia da prestazione che sentiva incombere sulla nuca lo rendeva incerto nei movimenti. Sarà stato che la poca luce dell’unica torcia a disposizione era al momento impiegata da Justine per controllare lo stato dello smalto dopo le vicissitudini della mattinata. Resta il fatto che l’impresa divenne ardua, se non impossibile. «Ho bisogno di un fil di ferro» prese tempo «oppure di un ferretto del reggiseno». Woo sospirò, Stanley era certo di aver finito il fil di ferro, ma non altrettanto del reggiseno e si mise a frugare nello zaino, Margot fece notare che per lei era ancora presto o pretenzioso indossarne uno, era risaputo che Justine non era per nulla avvezza ad usarli e fu così che venne il turno di Melodie. Osservata da tutti con quello sguardo che 166
voleva chiaramente intendere «Non vorrai mandare a monte la missione per questa sciocchezza?», con una sola mano fece scattare la chiusura dietro la schiena per poi sfilarlo dalla manica della maglietta corta. L’utilizzo del ferretto non sortì l’effetto sperato. Margot, che fino a quel momento non era intervenuta, si avvicinò con la testa sopra la spalla di Pierre ad osservare. Poi si schiarì la gola. «Qualche idea, saputella?» chiese un visibilmente innervosito Pierre, ormai totalmente disidratato, non dall’arido clima del deserto, ma dalla quantità di sudore che aveva prodotto in quel singolo quarto d’ora. «Mh, nulla di che: solo una considerazione» disse con aria fintamente vaga la ragazza. «Sentiamo» rispose spazientito Pierre che, nel frattempo, aveva creato una forma simile ad un bassotto al trotto con il ferretto di Melodie. «Volevo solo farti notare che il lucchetto tiene ferma una catena, che a sua volta, è tenuta ferma da due passanti avvitati nella graffite» «Quindi?» rispose seccamente Pierre ormai conscio della prossima umiliazione. «È sufficiente svitarne uno o chiedere a Woo di sradicarlo con la borraccia» rispose Margot nel modo meno saccente che le era possibile. «La volevo tenere come ultima possibilità» rispose con disinvoltura Pierre «ma visto che avete tutti fretta… fai pure». Woo prese la borraccia ancora legata alla corda e la riempì con della sabbia. La fece roteare come un mandriano con il lazzo e poi, con fare deciso, la scaraventò dritta verso uno dei due passanti della catena che accusò il colpo cedendo leggermente. Dopo l’ennesimo tentativo il passante si era decisamente allentato a sufficienza per permettere di svitarlo. Quando la lunghezza della catena impedì oltre la 167
rotazione, Woo puntò il piede alla lastra del portone e diede uno strattone secco come Artù con la spada nella roccia. Seguì un breve applauso, poi Stanley lo aiutò muovere i due lastroni di granito. Nessuno di loro sarebbe stato in grado di immaginare ciò che si sarebbe presentato davanti ai loro occhi dopo qualche istante. A differenza del resto della gola, che fino al momento era apparso più come un corridoio sotterraneo di un ospedale di provincia abbandonato, il salone oltre il portone era illuminato da un flebile cono di luce che proveniva dall’alto. La stanza era grande quanto quattro campi da tennis uniti a quadrato. Al centro vi era un laghetto alimentato da un fiotto d’acqua che scendeva dalla parete scura. Nessuna fonte d’acqua si sarebbe potuta materializzare dal soffitto, pensò Margot, il calore dell’esterno l’avrebbe fatta evaporare in poche ore. Sembrava quasi che il vapore del laghetto, salendo verso l’alto, venisse raffreddato dalle pareti di graffite creando dapprima delle perle d’acqua e poi una sottile sorgente, mantenendone l’equilibrio in quel delicato microecosistema. La parte bassa delle pareti era ricoperta di muschio verde e rigoglioso, smosso in alcuni punti. Ciò che però li lasciò interdetti per qualche istante, fu il numero di uova bianco avorio disseminate ovunque. Alcune di queste erano ovali, altri allungate come zucchine enormi, alcune a forma di fagioli borlotti, altre di sfere perfette. La più grande doveva avere la circonferenza di circa cinquanta centimetri, o se preferite, di Gallinotta. Da un cono d’ombra poco illuminato si sentì un rumore. Poi apparve un becco di anatra a cui seguì un corpo tozzo come quello di un ippopotamo, ma con una coda da lucertola di circa due metri. Le zampe erano corte rispetto al corpo nettamente in sovrappeso. Sulla schiena aveva 168
delle piccole appendici che evocavano l’immagine di ali, ormai inutilizzate. Con passo lento si avvicinò al laghetto. I corpi dei sei intrepidi, rimasero fermi ed immobili, incerti se la bestia avesse cattive intenzioni o altro. Poi un tonfo al cuore li prese alla sprovvista. La bestia si mise a pancia in su ed iniziò a far roteare in aria un paio di uova aiutandosi con la lunga coda. Il Gushi stava eseguendo un goffo esercizio circense per il suo pubblico. Con il becco prese dal fondale un piccolo uovo e lo lanciò sulla punta della coda tenendolo in perfetto equilibrio. Il primo applauso venne da Margot, a cui seguirono Stanley, Woo, Melodie, Justine, Pierre ed infine un settimo individuo. Tutti distolsero lo sguardo dal Gushi e si accorsero che un uomo dalla barba grigia e le gambette secche e curve, sventolava all’aria un machete avanzando con passo incerto verso gli intrusi. Al suo braccio sinistro teneva ben saldo uno scudo circolare bianco. Woo si stava già scrocchiando le ossa del collo e delle falangi. Si sentiva carico. Da parecchio non faceva esercizio e quella sembrava essere una buona occasione. Margot gli si mise al fianco e con la mano lo spinse gentilmente indietro. Alzò le mani mostrando i palmi e le mosse lentamente in segno di “calma”. Il guerriero strinse più forte la sua impugnatura ed avanzò di un passo. Lo stesso fece Woo, ma la mano di Margot gli fece intendere di non essere affrettato. La lunga coda del Gushi si frappose fra i due contendenti tenendo in equilibrio un uovo. Poi lentamente lo porse a Margot che lo afferrò e lo tenne saldamente in grembo. Woo fece due passi indietro e il guerriero abbassò la sua scure. 169
Il Gushi uscì dall’acqua e si avvicinò a Margot annusandola. La ragazza, per cortesia, accarezzò il capo dell’animale che sembrava compiaciuto di quel gesto. Vedendo che gli intrusi non avevano cattive intenzioni nei confronti del Gushi, il guerriero si sentì meno minacciato. La situazione era comunque in una fase di stallo in cui nessuno faceva nulla e teneva d’occhio l’altro. Bisognava fare qualcosa, pensò Stanley nelle retrovie. Il vecchio marinaio prese dal suo zaino i panini di scorta per quel giorno e li passo lentamente a tutti i suoi compagni. Poi afferrò il suo e lo spezzò in due tirandolo verso il guerriero. Nell’ansia dei continui trabocchetti si erano scordati di pranzare ed ora la fame iniziava a farsi sentire. L’eco della sala aveva amplificato dei chiari rumori gastrici che i presenti avevano camuffato come colpi di tosse. Tutti, chi più cautamente, chi più avidamente, iniziarono a mangiare il loro pasto. Se era necessario aspettare che la situazione si stabilizzasse o evolvesse in un qualche modo, tanto valeva approfittarne per uno spuntino. Seguendo l’esempio degli intrusi, Kun-De afferrò quello che gli occidentali avrebbero chiamato “panino con prosciutto e formaggio” ed iniziò a morderlo. Di certo non era saporito come il lombrico zebrato, ma il gusto era molto piacevole e soprattutto: abbondante. Margot fece l’occhiolino a Stanley, il quale ricambiò. Il Gushi era tornato a fare i suoi esercizi adornati da fontanelle di spruzzi mentre i sette bipedi assistevano allo spettacolo seduti su un pavimento bianco. «Non vi sono altri corridoi in questa stanza. Il segreto del Gushi, che i gushi-ni hanno custodito in tutti questi anni, altro non era che questa grotta abitata da una strana creatura» disse Melodie dopo un rutto da camionista. 170
Woo, che era l’unico custode delle parole di Matisse per la missione, afferrò un pezzo d’uovo rotto e ne appoggiò la parte vuota sul pavimento, come a creare una piccola cupola, poi con il pollice fece peso con tutto il corpo. La superficie bianco avorio non cedette minimamente sebbene il suo spessore fosse di pochi millimetri. Riprese lo stesso pezzo fra le mani e spingendo per la parte concava con i pollici il materiale si spezzò come un cracker in due parti. «Impressionante!» esclamò Melodie «È un materiale super resistente alla pressione, ma non alla trazione. Sarebbe perfetto per un sacco di applicazioni. Caschi per le moto, paraurti della auto…» «Giubbotti antiproiettile, protezioni per soldati» aggiunse Stanley. «Ora capisco perché lo zio Baptiste lo voleva salvaguardare. Se mai qualcuno fosse venuto a conoscenza di questo segreto, il Gushi sarebbe stato in pericolo per via delle sue uova. Specialmente durante la guerra e la corsa agli armamenti» commentò Margot. «Com’è possibile che ci siano così tante uova e solo un esemplare?» si chiese ad alta voce Justine. «Penso di averlo studiato a scienze» disse Margot «in particolari condizioni, un esemplare femmina può procreare per partenogenesi. Quindi senza la fecondazione di un maschio. Statisticamente, questo processo è molto raro. Se il Gushi ha un’ovulazione simile a quella di una gallina è probabile che in tutta la sua vita, solo un uovo possa generare un esemplare vivo» «Quindi» aggiunse Melodie «Il Gushi è una femmina?» «Eh già» rispose Stanley osservando le zampette dell’animale roteare sotto un paio d’uova. «Matisse ti ha chiesto di portarci dietro l’animale?» chiese Pierre rivolto verso Woo. Il cinese scosse la testa ed indicò le uova. «Vuole un uovo come prova» sottotitolò Stanley. 171
Margot si rivolse al guerriero indicandogli l’uovo che il Gushi gli aveva regalato. Poi si alzò lentamente e salutò scuotendo la mano. «È meglio se andiamo» disse ai suoi compagni facendo segno di alzarsi. Kun-De non fece obiezione, la ragazza stava portando via solo l’uovo che il Gushi le aveva donato, niente più. Legalmente, nella legislazione gushi-ni, non vi era stato furto. Prima di uscire dal portone, i sei visitatori fecero un ultimo applauso alle acrobazie della buffa bestia, senza sapere di aver salutato l’ultimo esemplare che avrebbe abitato quella straordinaria grotta insieme all’ultimo guardiano della gola Ken-To.
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Capitolo 25 Il ritorno a casa
Ripercorsero lo stesso tragitto dell’andata e quando giunsero di fronte la roulotte della famiglia Ming-cho, Justine e Melodie (entrambe alla guida delle rispettive Jeep) inchiodarono bruscamente sotto lo sguardo sbigottito dei compagni. «Solo un attimo!» dissero con toni decisi mentre si allontanavano verso la roulotte ad armi spiegate. Dopo qualche rumore molesto e confuso ne uscirono indenni con delle boccettine contenenti del liquido scuro: il miracoloso veleno dello scorpione castrato. L’esperienza hippie della notte precedente le aveva positivamente colpite. Una volta tornate a casa, pensarono l’una all’oscuro dell’altra, avrebbero dovuto assolutamente provare a ricreare le stesse circostanze. Se qualcosa doveva accadere, non potevano certamente aspettare che avvenisse spontaneamente: il tempo, in questi casi, spegne il fuoco che la passione accende e l’unica cosa che le due non desideravano, era perdere questo senso di bramosia che le attraeva l’una all’altra. Sebbene prodotto di un’alterazione chimica. I restanti compagni si limitarono a scambiarsi delle occhiate interrogative.
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Qualche ora prima, stanca della continua routine di quegli ultimi giorni, Gallinotta alzò la piccola aluccia di pollo ed esclamò «Alt! Sono stanca.» Pteroattilio fece notare educatamente «Sei uno spettro di una gallinella, non puoi sentire la stanchezza» «Sono stanca di pensare che se non fossi uno spettro dovrei sentirmi stanca» argomentò Gallinotta, perfetto esemplare di mentalità femminile pennuta «Appollaiamoci su quel trespolo nero ed aspettiamo che passi qualcuno a cui chiedere indicazioni» Rimasero appollaiati nel mezzo del deserto su un’atipica struttura di graffite nera. «Non avevi un pollaio dove vivevi con la tua famiglia?» chiese Gallinotta per riempire il tempo. «Avevo una femmina, se è questo che intendi» rispose Pteroattilio cercando di ricordare la sua vita migliaia di anni prima «Un giorno scesi a comprare dei vermi e ci fu la fine del mondo. Nel tentativo di tornare verso casa mi imbattei in un triceratopo e morii.» «Era un animale che mangiava quelli come te?» chiese Gallinotta. «Si era alzato un muro di polvere e prima che me ne accorgessi il mio becco si infilò nel suo posteriore e morii soffocato» «Brutta fine mio caro» disse la pollastrella battendo la sua aletta «Credi che anche la tua femmina sia morta durante la fine del mondo?» «Non l’ho mai saputo» rispose sommamente «l’ho lasciata dentro una caverna scavata nella roccia noleggiata ad ore con piscina idromassaggio ai gas sulfurei. Per quel giorno avevo programmato che avremmo sfornato una decina di uova. Non so se mi spiego. Ricordo ancora che il Motel si chiamava BlackStone, in lingua moderna “pietra nera”» Gallinotta, che aveva un cervello trenta volte più piccolo di una scimmia urlatrice, ma cento volte superiore ad un 174
dinosauro, fece notare a Pteroattilio «Scura come questa su cui siamo appollaiati ora?» «Si, più o meno» «E mi dicevi aveva anche una piscina dentro la caverna» continuò Gallinotta. «Sì, esatto» «Più o meno larga come quella laggiù?» indicò la cinque volte campionessa “Miss coccodè” del suo pollaio. «Sì, esatto» «Quell’insegna logorata del tempo credi possa raffigurare l’antica parola usata per “pietra nera”?» «Sì…» Pteroattilio dovette rielaborare quelle informazioni mettendo a dura prova le sue antiche sinapsi «Gallinotta! L’hai trovata!» si fiondò il rettile in un avvolgente abbraccio corredato da palpatine moleste «Come ho fatto a non notarla prima! Ci sarò passato centinaia di volta negli ultimi mille anni!» «Si ok, smettila ora, con quel becco da papera mi rovini il piumaggio» disse allontanandosi Gallinotta «scendiamo a fare un giro» Calandosi lentamente lungo lo stretto canale che portava alla grotta, Gallinotta vide un pollaio di spettri simili a Pteroattilio volteggiare e farsi il bagno. Alcuni avevano perso la longilinea corporatura, ma l’inequivocabile becco era chiaramente quello di Pteroattilio. «Ma sbaglio o sono tutte femmine?» fece notare la pollastrella reginetta per sei volte di “Miss uovo d’oro” «Ehm» rispose distrattamente, poi ad alta voce pronunciò un nome «Pteroalice?» e da quell’ammasso di spettri vorticosi se ne separò uno. «Oh Pteroattilio, mio amato! …ma dove sono i vermi?! Li tieni nascosti dietro la schiena? Dimmelo Dimmelo! Perché se non ce li hai, sai come ci rimarrei male dopo tutta quest’attesa…?» fu il commento dello spettro della fidanzata di Pteroattilio. 175
Gallinotta, che in vita sua aveva fatto scenate ben peggiori di quella a cui stava per assistere, pensò bene di filarsela. Appena uscita all’aria aperta, uno squadrone di falchi in rotta verso La Grande Migrazione si offrÏ di scortarla fino al campo base. Facendo finta di essersi slogata una zampetta percorse mezzo continente avvinghiata ad un maschio, al cui confronto i galletti del suo pollaio apparivano quaglie rachitiche.
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Capitolo 26 Ultimo scalo
Mr. Smith aveva appena preso le chiavi del charter a noleggio dalla compagnia FlyRentVeryVeryLowCost, un’azienda convenzionata con forti sconti per le spie in missione. L’accordo sancito con Matisse a casa Savoir era chiaro: se avesse seminato il Barone Von Kaiser e avesse con successo riportato a casa l’intera sua squadra, gli avrebbe fornito del materiale veramente scottante. Da quanto aveva affermato la vecchia spia, esisteva un’agenzia segreta agli stessi servizi segreti che teneva d’occhio i familiari delle spie in missione al fine di evitare doppi giochi, fughe di notizie, infiltrazioni e quant’altro. Dopo una breve chiamata dal suo ufficio, Matisse aveva assicurato a Smith che la sua avvenente mogliettina brasiliana si era intrattenuta con il giardiniere, il postino, un passante, il personal trainer, il commercialista, l’avvocato e il macellaio. Solo per citare i più recenti. Alla luce di queste informazioni, tutte rigorosamente protocollate e custodite in microfilm, vhs, betamax e home entertainment di varia natura, l’avvocato di Mr. Smith avrebbe potuto richiedere l’annullamento, non solo del matrimonio, ma anche (e soprattutto) della sentenza sessista di cui fu vittima, recuperando così tutto il patrimonio subdolamente sottratto. 177
Gonfio di queste buone novelle, Mr. Smith non aveva potuto rifiutare la proposta di Matisse, sebbene l’idea di passare per un marito pluri-tradito non lo lasciasse del tutto indifferente. Si era fermato in un chiosco dove servivano catrame liquido al prezzo del caffè espresso e si mise a leggere il giornale. La squadra di Matisse sarebbe giunta a breve e prima del tramonto si sarebbero trovati su territorio francese. Pierre e gli altri erano giunti ricoperti da due dita di polvere e terra. Justine, la cui cotonatura era dovuta principalmente alla sabbia, stava sostenendo l’equivalente di un cappello pesante mezzo chilo. Melodie si fermò al ufficio postale dell’aeroporto e trovò il messaggio di Matisse in cui avvisava che Mr. Smith, ora sotto la sua guida, li avrebbe condotti in Francia con un charter. Giunti all’area charter, videro l’uomo che li aveva narcotizzati qualche notte prima con un cartello riportante la scritta “Gruppo Matisse”. Margot aveva svuotato la sua trousse per custodire il prezioso uovo di Gushi, Woo trascinava il trolley Luis Guitton di Margot con legato il suo sacchetto-bagaglio, Stanley stava approfittando del duty free per comprare qualche bottiglia di scotch, Pierre e la sorella camminavano con la testa piegata nel tentativo di liberarsi della sabbia dai capelli, lasciando dietro di loro un tappeto giallognolo. Melodie, ultima della fila, passava dall’osservare l’esile silhouette di Margot a quella più statuaria di Justine. L’addetto imbarchi della FlyRentVeryVeryLowCost, li scortò fino all’aereo, abbandonandoli un attimo prima che questi si accorgessero delle pessime condizioni del velivolo.
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Quando tutti si furono seduti ai loro posti nelle prime fila e Mr. Smith azionò la chiusura del portellone, la hostess fece la sua comparsa. Mr. Smith con uno scatto impercettibile infilò la mano nella giacca tirando fuori la ricevuta. L’avevano incastrato con il pacchetto “Hostess e spuntino” a $ 1,000 in più? Controllando meglio ogni voce, non trovò nessuna descrizione relativa a questo servizio aggiuntivo, quando alzò lo sguardo, vide Frau Anneke puntare una pistola alla tempia di Melodie ed un’altra a quella di Margot. «Come hai potuto abbandonarmi dopo tutto quello che c’era stato fra di noi?» disse la donna sedotta ed abbandonata «Ora mettiti alla guida di questo trabiccolo e portaci all’aeroporto del Barone! Lui saprà cosa farne di voi!» «Non penso proprio cara» disse una voce femminile alle spalle di Frau Anneke. La fidata assistente del Barone si voltò con l’arma puntata, ma una combinazione letale di schiaffi, tiri di capelli ed unghiate la disarmò «Non permetterti mai più di puntare un’arma contro la mia bambina». Una volta resa innocua Frau Anneke, tutti si issarono sui rispettivi sedili per capire cosa fosse successo. «Oh Margot piccola mia» disse Léonore Savoir in Petrois, nome in codice durante le missioni operative: Chagall. Madre e figlia si abbracciarono. «Come facevi a sapere che eravamo in pericolo?» chiese Margot. «Sion ha avuto una visione e Matisse ci ha contattati. Eravamo di ritorno dalla Malesia, tuo padre mi ha portato fin qui con un Piper e mi sono lanciata col paracadute, sarei volentieri arrivata prima, ma come sai tuo padre si perde sempre quando non conosce le strade. Queste vecchie carrette hanno il portellone dei carrelli che sbuca 179
direttamente sotto il corridoio. Il resto è stato una bazzecola» rispose la donna sistemandosi i capelli. «Che ne facciamo della donna?» chiese Justine. «Leghiamola per bene e rispediamola al proprietario» rispose Léonore. Il Barone Von Kaiser era seduto sulla sua sedia rotelle spinto avanti e indietro da una delle sue guardie. Stava ripassando il monologo per sei prigionieri, quando dal cielo apparve un paracadute spiegato, fluttuante nell’aria. Frau Anneke si materializzò ingarbugliata nell’imbragatura del paracadute. Il Barone ebbe fiducia di vedere apparire gli altri sei prigionieri da sotto il telone sgonfio, ma ciò non accadde. Un malevolo grido fece migrare per sempre uno storno di corvi autoctoni «Matisseeee me la pagherai!!!»
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Capitolo 27 Sei mesi dopo
Le lezioni erano riprese e Margot stava studiando per gli ultimi esami prima del diploma. Degli altri compagni d’avventura aveva poche notizie. Grazie all’aiuto di nonno Petrois, Pierre era entrato al Ministero dove faceva da informatore per Matisse. Gli abiti alla moda e le relazioni pubbliche in città si confacevano maggiormente alle sue abilità di pavone rispetto alle missioni operative. A Natale si erano rivisti per il pranzo a casa Savoir, ma nessuna scintilla della notte passata nel deserto si fece più viva. Justine e Melodie avevano fatto coppia stabile, ma solo nella vita lavorativa. La loro relazione saffica durò circa due settimane, giusto il tempo di terminare le boccette di veleno di scorpione castrato. Attualmente la loro ultima cartolina arrivava dall’Australia. Stanley si era ritirato in pensione nella casa sul mare e spesso si imbarcava con i fratelli Jean e Philippe sul loro peschereccio per riassaporare l’ebbrezza della vita in balia delle onde. Sion era stato squalificato dalla squadra di basket per via del suo comportamento scorretto: era recidivo nel compiere il fallo antisportivo di comandare la palla col pensiero. Da qualche mese aveva trovato un nuovo passatempo nel giardino riadattato di casa Savoir. L’uovo del Gushi, dopo 181
un paio di settimane di esposizione alla luce solare chiuso dentro la cristalliera di Baptiste, si era inaspettatamente schiuso dando alla vita l’ultimo esemplare di Gushi attualmente noto. Sion divenne così il suo fidato guardiano nell’elegante giardino liberty di casa Savoir. Mr. Smith aveva aperto un’agenzia investigativa specializzata in raccolta di evidenti e compromettenti prove contro mogli fedifraghe. Dopo parecchie lotte, principalmente greco-romane, Frau Anneke si unì a lui, non solo professionalmente. François, il garzone dello Chef Poisson, scrisse interminabili lettere d’amore rivolte alla giovane Margot. Alcune delle quali allegate a cesti di frittura mista. I Fratelli Pecoretti, brevettarono un particolare incrocio di pecora il cui pelo era ancora più isolante del teflon. Per quanto riguarda Woo, senza il suo fidato amico Stanley, si era trovato a dover attendere che la sua nuova compagna di missione finisse il diploma. Approfittò di questo tempo per tornare nel suo paese natio, dove la madre da tempo aveva abbandonato il mestiere più antico del mondo per darsi allo sfruttamento di manodopera nelle fabbriche tessili. Facendo un giro per la fabbrica, che contava una produzione di circa un miliardo di foulard all’anno, Woo riconobbe più volte l’ormai familiare marchio Luis Guitton. La madre, sempre premurosa nei confronti del figlio, gliene regalò uno stock intero. Non era raro che durante le fredde sere d’inverno, Woo bussasse al vetro della stanza di Margot nel collegio, per ingaggiare una sfida a tris. Margot non ne era completamente certa, ma pare che, durante un temporale, dopo l’ennesima partita persa dal cinese, un tuono coprì un esasperato «Meld!». 182
FINE
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