Renato Sclaunich Visual thinking
Edizioni
Scarabocchio
Edizioni Scarabocchio Via Nicolò Rasmo, 73 - 39100 Bolzano Senza regolare autorizzazione scritta dell’autore è vietato riprodurre questo volume, anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, neppure per uso interno e didattico.
PRIMO TESTO FRANCO Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire. sostituire. Testo da Testo da sostituire.
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Supercalifragilistichespiralidoso. Il pellegrinaggio in tutte le sue forme è la metafora della vita: procedere da soli e in lande sconosciute è sempre stata l’occasione di guardare dentro se stessi, ma ciò non sarebbe possibile senza la percezione e una certa modalità di osservare, sentire, astrarre, che è stimolata costantemente dall’esterno. Oggi quell’esterno è letteralmente popolato di suoni e segni, di parole e musica, di simboli e linguaggi visivi. Il peregrinare è sempre più intersecabile con l’atto spontaneo del guardare da vicino (skopèo lo chiamavano gli antichi), che diventa anche guardare dentro: pensiero visivo, Visual thinking. Dopo il secondo Dopoguerra c’è una particolare ricorsività fra i fenomeni della comunicazione e le correnti della neo-avanguardia artistica italiana. In un preciso lasso di tempo tanto i criteri del relazionarsi che le forme dell’arte hanno cercato di rispondere ad una esigenza: quella di individuare nuovi modi per integrare le tecniche e le metodologie della relazione. Nascono una poesia concreta e una visiva, un’arte concreta e la Visual art, fatta di astrazione e sperimentalismo ma già adulta alla metà degli anni Settanta. Le figure dell’antica Ars Retorica escono dalla Grammatica e si impossessano delle immagini: la citazione, la ripetizione, l’endiadi, il chiasmo, la simmetria, la sineddoche, ecc. si insinuano fra altre immagini, quelle della parodia, dell’improvvisazione, della caricatura, che già fanno parte dei linguaggi verbali e della società democratica. Si evolve all’unisono fra il piacere di esprimersi nel gesto creativo e la necessità individuale di farsi “capire” e “sentire” dagli altri; con quel significato sinestetico e l’intenzionalità reciproca che Susan Sontag ha già declamato da tempo con Against Interpretation del 1966. Non è una concessione al popolare, tutt’altro: Cattelan interseca Penone, il dadaismo dialoga con la malinconia, l’abitudine di osservare perde improvvisamente peso e dalla materia povera di Burri si va all’arte ottica di Enzo Mari, fra gli altri percorsi possibili. Non è l’arte dei menestrelli, la Street art, che si limita a divertire, sedurre, confondere: è la mappa geografica di un luogo infinitamente interiore in fondo al labirinto infinitamente grande che è l’essere umano. È la Poesia visiva. Ad un artista che pratica questo genere di territori, come Renato Sclaunich, piace pensare alle similitudini, cercare dentro il suo agito tracce di altri, che lo hanno preceduto. Ma il suo è anche il bisogno umano di cercare il proprio simile, per guardarlo negli occhi e capire; per parlare. È una dimensione antropologica che viene descritta nei primi passi della Genesi, quando la divinità capisce che Adam è solo e che ciò fa male: perché l’uomo non può vedere, non può dire parola, non ha nessuno con cui fare una parte del suo cammino. Se una similitudine mi pare appropriata per i lavori di Renato Sclau-
nich è quella ideale con i binari della musica Jazz: soprattutto quelli di Honky Tonk Train Blues, che li traduce ritmicamente. La musica è nel panorama di Sclaunich, come lo è per altri, Cage e Kandinskij fra i migliori. Passando accanto al binario dell’artista goriziano, dal Novecento il panorama delle parole e del reade made applicato all’arte visiva è letteralmente infinito. Ma la caratteristica che fa distinguere le realizzazioni di Renato Sclaunich e che le pone in risalto rispetto ad una qualsiasi altra forma pur nobile di interpretazione in un mare così ampio, è la ponderazione. Che nelle sue visioni rende tutto immediato e chiaro, escludendo quello che non serve. Spesso il segno significante è un’allusione, una ripetizione o una sostituzione: l’invenzione della realtà è un processo che coinvolge il tempo del fruitore, perché ognuno riconduce a un’idea e traduce in metafora quel gesto, così insolito e straordinariamente assennato, ponderato appunto, “dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento” (Paul Watzlawick, 1971). Visual thinking è un taccuino di viaggio dentro di sé. Paolo Zammatteo
L’alfabeto visivo di Renato Sclaunich. L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. Paul Klee
Vedere per pensare. Per sentire, per capire. Vedere per andare oltre il senso comune. Per trasformare lettere in immagini e viceversa. Per costruire una grammatica dei sogni fatta di colori e di segni che si trasformano in idee curiose, mai scontate. E’ questo e molto altro ancora l’intento di Renato Sclaunich e il suo realismo esistenziale. Un percorso che ha radici lontane, che parte dai calligrammi del xv secolo, arriva alle parole in libertà di Marinetti percorrendo le avanguardie del Novecento fino alla mail art. I riferimenti e le assonanze di Sclaunich con le correnti del ‘900 sono tante, in particolare con alcuni autori italiani di poesia visiva da Sarenco, a Ori, a Carrega. Ma gli spunti di interazione nascono anche dalla base del linguaggio post moderno, dal lavoro di artisti che si sono riappropriati dello spazio e del tempo come Marcel Duchamp e John Cage. Se la poesia visiva è intreccio di linguaggi, di comunicazione, se arriva ad eliminare i confini tra icona, verbo, musica, talvolta di quei confini si serve per portare allo sconfinamento, alla reinvenzione. La forma stessa diviene messaggio, spesso perentorio, anche nel gioco – pieno di sottotesti del nonsense. Sclaunich partendo dalle sue ricerche, recupera la parola, l’oggetto quotidiano, spesso banalizzato, nevrotizzato dall’uso e dall’ambiente, per farne un moderno “ready made”. Nei suoi pentagrammi verbali prende a prestito la musica (e non solo) per dire altro. La sua è una reinvenzione della realtà con tanto di grammatica che transita attraverso nuovi mondi. Il testo genera la texture, e viceversa. Il messaggio è segno, ma a sua volta il segno necessita del messaggio per specchiarsi su se stesso, e rivelarsi. Il visibile, allora, nella sua forma codificata va in conflitto con i codici precostituiti, sconfina, crea associazioni che innescano la miccia dello stupore e dell’intuizione. In tale apparente conflittualità nasce il paradosso e con esso l’altro da sé, il nuovo significato. La quotidianità, usurata e ridondante, fornisce all’occhio critico innumerevoli spunti di analisi, di scollamento altisonante in cui le parole cantano i versi della denuncia sociale. I linguaggi si incrociano, si dilatano, si compenetrano, in un continum di meticciamenti creando la re-visione del conosciuto. Tutte queste immagini apparentemente innoque obbligano lo spettatore a cambiare la rotta di quei codici precostituiti, il segno tipo/grafico di Sclaunich, svela come motivo fondante soprattutto la sua valenza
simbolica che diventa cifra della sua poetica. Si pensi agli emblematici Scripta – volant, AEIOU, Think different, Ecce Homo, o negli “autoritratti” (un omaggio al lavoro di Enrico Baj), dove significato e significante, intrecciandosi, subiscono la metamorfosi del qui e ora. Stereotipie verbali e visive, che si smontano e rimontano, diventano “ibridi”, che si prendono gioco dei contesti che le hanno generate e poi imprigionate. Molti dei lavori di Sclaunich innescano, nello spaesamento, un atto di difesa e di amore come quelli “dell’ombrello e della macchina per cucire distesi sul tavolo operatorio” scoperto dal sesto senso surrealista di Andrè Breton. I lavori presenti in questo testo sono una riflessione mescolata a ironia, ma anche denuncia e proposito. Ed ecco allora che una vecchia macchina da scrivere, fermata dall’artista nella sua essenza dal lapidario motto: “la memoria è un dovere”, diviene monito e risuona inevitabilmente con la condizione umana: “come quel eguale belato fraterno al mio dolore ...”. Paola Smith
Il mio spirito 2012
Le mie parole 2012
C’è posto per tutti 2012
Overture per un amico 2012
Syncopation 2012
Io esisto 2012
8x8 2012
Anch’io alzo la voce 2012
Fluxus is here 2012
Red passion 2012
Terzo occhio 2012
Capriccio per una pulce 2012
Scripta volant 2012
Ascolta con gli occhi 2012
No art reality 2012
Valzer dell’amo (re) 2012
Qualsiasi cosa 2012
A pilgrim 2013
A place 2013
Abracadabra 2013
AEIOU 2013
Arbore 2013
Beef sale 2013
Love is ... 2013
Homo habilis 2013
I want you 2013
Concerto dei dadi 2013
Create your possibilities 2013
Domino suite 2013
Dreaming my dreams 2013
Ecce homo 2013
It’s fluxus time 2013
Aggiungi un posto a tavola 2013
Avanti popolo 2013
Good luck! (omaggio a M. Cattelan) 2013
Omaggio a lotta poetica 1 2013
Omaggio a lotta poetica 2 2013
Idrante poetico 2013
Love story 2013
Mail attack 2013
Nido 2013
Open sesame 2013
Microcosmo 2013
All you need is love 2013
Platone & Aristotele 2013
Poesia a 4 tempi 2013
Poetic licence 2013
Punto di raccolta poetico 2013
Autoritratto 1 2013
Zodiacal costellation 2013
Save fluxus 2013
Beatle sound 2013
Augh 2013
Silence 2013
Sinfonia dei colori 2013
Taxi poetico 2013
Tempus fugit 2013
Sonata per due occhi e clarinetto basso 2013
La vita è bella 2013
Voglio scendere 2013
Volere è volare 2013
Autoritratto 2 2013
Totem not taboo 2013
Autoritratto 3 2013
Waiting Godot 2013
Why Zarathustra 2013