MaMo Collection

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volumnia editrice



MaMo Collection a cura di Luca Tomìo Perugia, Loggia dei Lanari 7-21 dicembre 2018 t con il patrocinio di

Comune di Perugia

t Contributors: Alla Posta dei Donini Betti Libreria e Oggettistica Biagini 1863 Cantine Giorgio Lungarotti CDP Concessionaria De Poi Donnari Macchine Farmacia Bolli 1833 FBM Fornaci Briziarelli Marsciano Listone Giordano Margaritelli Metalprogetti Old Factory Garage Reale Mutua Assicurazioni – Agenzia di Perugia Crediti fotografici: Paolo Ficola Stefano Medici Adriano Scognamillo MaMo ringrazia Giuseppe Fioroni. t Coordinamento editoriale: Daniele Lupattelli Progetto grafico: Raffaele Marciano isbn/ean: 978-88-89024-89-8 Copyright © 2018 by Volumnia Editrice Tutti i diritti riservati / All rights reserved. www.volumnia.it Stampa: Graphicmasters, Perugia, dicembre 2018.


MAMO COLLECTION OPERE DI MASSIMILIANO “MAMO” DONNARI 2016-2018 a cura di Luca Tomìo

Volumnia Editrice



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ON AMÌÌÌ MaAa… quanto ho sempre invidiato le parole in libertà di Marinetti… ZANG TUMB TUMB! quante volte i sindaci si trovano, invece, con la penna desolata in sospeso sul foglio bianco. quante volte, alla fine, scrivono parole di circostanza – belle, magari infiorettate – ma senza voce viva. le parole hanno invece un suono profondo – hanno un senso profondo – quando sono dette fuori dai denti. e questa volta mi sono preso anch’io il mio spazio di libertà, e voglio infrangere la consuetudine e anche la punteggiatura. per dire di getto come non sia soltanto la magnificenza della tradizione a fare grande una città

come la nostra, ma anche la capacità di riaccendere fuochi di meraviglia nel presente. che poi significa gettare il cuore oltre l’ostacolo e costruire il futuro con coraggio. una città che può permettersi di avere un imprenditore che, come un supereroe, si sdoppia in un artista, ha tutte le carte in regola per affrontare con serenità e allegria le sfide che il futuro ci riserva. con la mostra di MaMo ho voluto onorare questo slancio che è patrimonio condiviso da tutta la nostra città. MON AMÌÌÌ MaAa… MaMo!

Andrea Romizi Sindaco della Città di Perugia



TABLEAUX-VIVANTS

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gni volto svelato da Massimiliano Donnari porta con sé una domanda e infinite risposte: il ritratto di quale personaggio gradiremmo vedere dipinto e assemblato da MaMo? Ammirando il dress code di “Gary” (Elizabeth II) e la mise di Iris Apfel (icona pop prossima al secolo di vita), immagino Elsa Plötz (la “baronessa Dada”), Louise Nevelson, Peggy Guggenheim, Carol Rama e Maria Lai, ma ciascuno davanti alle opere di MaMo potrà popolare la sua galleria ideale. Massimiliano Donnari, per arte e verve personale, merita di sedere al fragoroso desco del Collège de ’Pataphysique (imbandito dal 1948): l’accademia scientifica del non-sens, dell’ironia e delle “soluzioni immaginarie” alla quale André Breton invitò nel 1963 Enrico Baj (Milano,

1924-Vergiate, 2003). Ed è proprio all’eredità culturale dell’Ubu Re meneghino, maestro di collages e assemblages, e “cantore delle passamanerie”, che Massimiliano guarda con occhio ispirato, pur senza vivere l’indole polemica e satirica con la quale Baj graffiò i suoi personaggi stranianti. Giocoso e irriverente, MaMo interpreta e mette in scena i suoi personaggi con vigore immaginifico: tableaux-vivants salutati da spettatori e collezionisti in un crescendo di apprezzamenti. A tutti, Massimiliano ridona un entusiasmo generoso, coinvolgente e consapevole, alimentato dal segreto del prossimo “punto interrogativo poggiato su qualcuno” (Henri Cartier-Bresson) che alberga indisciplinato in lui. Fabio Marcelli Università degli Studi di Perugia



CHE COS’È L’ARTE

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assimiliano “MaMo” Donnari mi ha colto di sorpresa. Come Leonardo da Vinci mi ha teso un agguato agli Uffizi mentre a Firenze preparavo una mostra di Alighiero Boetti, così MaMo ha distolto il mio sguardo dalle piste umbre che stavo battendo sulle orme del giovane Leonardo. La straordinaria avventura di ricerca di questi anni, raccontata in un libro scritto con il giornalista Marco Torricelli, mi ha fatto capire quanto sia vero quello che ha sempre ribadito Achille Bonito Oliva sulla necessità che l’arte sia vivificata da continui attraversamenti e soprattutto, come diceva Gino De Dominicis, quanto sia tutta contemporanea. I miei passi verso gli Uffizi di tre anni fa sono arricchiti qui, nella nobilissima Perugia, di una nuova maturata consapevolezza, ovvero che non può esistere alcun vero rinascimento senza la convergenza d’intenti di tanti compagni di strada che credono in quell’idea di bellezza, non solo estetica ma profondamente esistenziale e sociale, che sto trovando proprio a Perugia. In altre

parti dell’Umbria sono stato lasciato terribilmente solo, con al fianco solo pochi eroici amici, e anche questa è stata una straordinaria esperienza di vita, ma chi si troverà questo libro tra le mani nella Loggia dei Lanari, in occasione della mostra, o chissà dove e quando nelle profondità del tempo, sappia di tenere tra le mani, oltre che un libro (che ci dice che cos’è l’arte non per quello che dico io ma per quello che fa MaMo con le sue mani), la testimonianza concreta di un nuovo rinascimento che sta vivendo la città di Perugia e di cui MaMo è, come si diceva una volta, un fulgido figlio. Mostra rinascimentale dunque, o gioiosa avventura come mi piace pensarla, a cui sono felice abbiano voluto aderire Fabio Marcelli, che del Rinascimento da Giotto fino a Leonardo è professore presso l’Università degli Studi, e Daniele Lupattelli, di cui mi era già nota la raffinatezza con cui dirige la Volumnia Editrice, ma che mi ha colpito per le sue idee innovative, che poi sono anche le mie, per andare sempre oltre, spingersi avanti con coraggio. Di fatto, a Perugia, c’è un’idea chiara e


condivisa di cosa possa essere il futuro, e laddove in genere i sindaci agevolano mostre di artisti consacrati, e quindi anche un po’ fané, riconosco ad Andrea Romizi il coraggio di aver dato corso a una mostra che non celebra il passato ma invera proprio quell’idea di futuro che lui e la sua città dimostrano oggi di saper costruire con la convergenza di tutti e di tutte quelle forze sane e capaci di unire e non di dividere – politiche, religiose, civili, sociali, professionali, culturali. Senza dimenticare che MaMo è diventato artista per una scelta dell’imprenditore Massimiliano Donnari, la cui risolutezza nel cambiare la propria strada mi porta con il pensiero a quella di un figlio di immigrati slovacchi che nella New York del primi anni ’50 lasciò la professione di grafico e decise di diventare Andy Warhol. La scelta di diventare MaMo ci aiuta anche a capire quanto l’arte d’avanguardia sia ancora invischiata in dinamiche antagonistiche con il mercato che trovano l’apice appunto in Warhol ma che prendono le mosse dalla fine della pittura accademica, quando già Baudelaire aveva intuito la sfida dell’arte in chiave di merce assoluta, capace cioè di produrre opere, e non pseudo-oggetti, che contrastino la futilità degli sterminati prodotti consumistici, disattivandoli sul loro stesso terreno. Un’opera d’arte non ha nulla a che fare con una lavatrice. L’artista non può farsi attenuare da questa competizione impossibile, che gli consente solo falsi spazi di libertà, dentro un sistema che lo disattiva e a cui

oggi non sembra riuscire a opporsi. Equiparata a un prodotto qualsiasi l’arte si concede così alla convenzione, cede le armi alla sola metafora della trasgressione e allora la fine dell’arte viene a coincidere con il proliferare del noioso mercato delle idee che è l’attuale sistema dell’arte. Una continua ricerca di nuovi prodotti, mascherata da ricerca d’avanguardia, che ormai si declina in sconfinate variabili sterili e omologate, disattivando così il potere gnoseologico dell’arte, il suo vero orizzonte di libertà assoluta. Un desolante panorama di infinite declinazioni di verifica della soggettività che possono al massimo assurgere a stimoli per prodotti creativi, non certo ad arte. Un’apnea. Un’atmosfera di sospensione in cui si percepisce in maniera nitida, come la forma delle cose in un banco di nebbia, come l’arte sia davvero tutta un’altra cosa. Quando troppi artisti cominciano a pensare troppo al proprio lavoro e farne così una professione calcolata e prevedibile, e non una divaricazione dal consueto volta alla libera esplorazione e costruzione del mondo, allora l’energia propulsiva si esaurisce, gli stimoli vengono a mancare e ogni cosa si trasforma in maniera, in accademismo, in coazione a ripetere. La ricerca dell’originalità si trasforma nel perpetuarsi della contraffazione. Per fare della buona arte non serve essere necessariamente sempre alla rincorsa del prodotto innovativo, come nella competizione del mercato tecnologico. È sufficiente essere curiosi. La curiosità è già di per sé

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garanzia sufficiente per interagire in maniera innovativa con la costruzione del mondo, per agire davvero sulla realtà in maniera liberatoria e non assuefatta a qualsivoglia ideologia. Mentre alla fine del ’500 tutti gli artisti si lambiccavano in esercizi di maniera, Caravaggio fece entrare aria nuova spalancando la finestra, dipingendo quello che vedeva per la strada. Non fece altro che aprirsi al mondo con occhi nuovi, con curiosità. L’innovazione, quando è effettiva ed efficace, è ragionevolmente semplice. L’arte, anche quando è meticolosamente pensata, non ha mai niente a che fare con qualcosa di strutturato, di pianificato, perché è sempre asimmetrica e discontinua rispetto a qualsiasi sistema di riferimento, anche interno, anche autoreferenziale. Quando c’erano gli artisti non c’era il sistema, ora che c’è il sistema non ci sono gli artisti: è una constatazione che mi sento ripetere ormai da molto tempo da tanti amici, quelli più lucidi, quelli che non si crogiolano nell’autocontemplazione, che hanno vissuto da protagonisti le ultime vere avanguardie degli anni ’60-’70, anche se furono proprio Andy Warhol e Joseph Beuys a preconizzare l’omologazione dell’arte alle dinamiche del consueto, con tutti i pericoli che ne conseguono, e che sono il terreno di coltura dell’impasse del tempo presente: ogni cosa è arte e ogni uomo può essere un artista, che si distorce nella pretesa della notorietà a tutti i costi, laddove l’unica garanzia di vero successo, non effimero, è quella

di sottrarsi a se stessi, non di esporsi al mondo. Se Maurizio Cattelan e Banksy sono fenomeni macroscopici di questo travaso dell’arte nella vita, che si traduce nell’opera d’arte ormai intesa solo come pretesto, davvero tutta l’arte è destinata a risolversi in questa equazione? Dall’arte paleolitica a oggi la parabola si risolve in questa effimera strategia di informazione e comunicazione che svuota non solo il senso dell’opera d’arte ma anche la sua oggettività? Forse dal punto di vista culturale il cammino che ci accompagna dalle caverne alle stelle è approdato a questo paradigma di evanescenza, che può anche dare l’ebrezza, in chi la esercita, di un potere demiurgico e intermittente sulla configurazione della società contemporanea, ma l’essenza dell’arte non si esaurisce in questo contesto sociologico, perché l’arte, per sua natura, non è assolutamente un fenomeno culturale, non è un comportamento umano moderno che conduce dalla natura alla storia, ma più propriamente una necessità biologica primordiale e inestinguibile e, di fatto, nel suo essere prassi mai asservita a nessuna ideologia, è una pratica che si riattiva sempre a contatto con qualcosa di misterioso, di magico, con la finalità di promuovere e spingere avanti i processi evolutivi ancora incompiuti, quelli che attengono alla libertà dell’azione e che danno seguito all’atto primigenio della creazione. Con buona pace di tutti i processi di dematerializzazione in atto, l’arte ha infatti sempre a che fare con il manife-

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starsi di qualcosa di tangibile, una vera e propria epifania. Si manifesta sempre nel punto in cui qualcosa prende forma, anche per gioco, anche per caso, e non sempre necessariamente per mano umana. Dopo aver visto tutti i musei e tutte le opere d’arte, la ricerca estetica che più mi appassiona è camminare sulla spiaggia alla ricerca di oggetti modellati dal mare in forme strane. Mi piace dare corso alla propensione dell’occhio umano a riconoscere forme antropo/zoomorfe in masse caotiche come le nuvole o le macchie sui muri – o appunto i sassi e i legni levigati dal mare. Non è certo un caso che la prima opera d’arte sia un ciottolo di fiume che un nostro progenitore di tre milioni di anni fa ha scelto, isolato, un objet trouvé primordiale, per la sua somiglianza con un volto umano. La pareidolìa è il retaggio di un’ancestrale peculiarità cognitiva finalizzata alla sopravvivenza: tra due individui, chi avesse sviluppato la capacità di riconoscere il muso di un predatore mimetizzato nella foresta, e conseguentemente darsela a gambe, avrebbe avuto più probabilità di sopravvivere di chi non avesse visto altro che l’indistinto fogliame, e non è certo un caso che Gino De Dominicis dichiarò opera d’arte una sagoma intravista proprio tra il fogliame intorno alla fontana di Palazzo Taverna a Roma. Chi guarda un dipinto del Rinascimento impostato in base alle regole della prospettiva pensa a Piero della Francesca, io alla visione binoculare che abbiamo sviluppato come cacciatori

paleolitici per valutare la distanza della preda da catturare. Siamo talmente concentrati su noi stessi, sul fiorire e declinare di effimeri cicli artistici in tempi storici, che disperdiamo immensi sforzi per circoscrivere e indagare fenomeni come il Cubismo o l’Arte Povera, che sono durati ognuno al massimo tre anni, e così perdiamo di vista il fatto che il senso dell’arte si misura in tempi che coinvolgono la nostra stessa evoluzione come specie nell’arco delle decine e centinaia di migliaia di anni. Ognuno di noi ha in tasca dispositivi digitali mille volte più potenti dei computer grandi come una stanza di soli quarant’anni fa, che avrebbero dovuto farci volare tra le stelle, ma al di là dei meri vantaggi pratici determinati dalle conquiste tecnologiche, quello che agisce ancora sulla nostra sensibilità di essere umani, anche ora che siamo tutti interconnessi come un formicaio, sono le dinamiche di quei processi evolutivi innescati agli albori dei tempi e che oggi decantano in opere che non concedono nulla alla frenesia dei tempi moderni, nulla alla ipertecnologia dei nuovi materiali, convergendo invece in stratificazioni matriarcali, quasi geologiche, quasi artigianali, come appunto le ricerche tutte al femminile di Carol Rama, Maria Lai o Lisa Ponti. Per fare arte bastano ancora strumenti semplici e uno sguardo serenamente aperto all’imprevedibilità della conoscenza, che è poi il vero senso della bellezza. L’arte non ha nulla a che fare con la proliferazione delle immagini a cui assi-

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stiamo nel vorticoso Rococò del presente, e attiene sempre alla temperatura di qualcosa di germinale, e quindi all’attivazione di nuovi rituali, momenti stranianti e fondanti al tempo stesso, anomalie, divaricazioni dal consueto che diventano coagulo di un nuovo senso condiviso, e che possono manifestarsi sia nella penombra che in piena luce, nel sottobosco o sotto cieli stellati, ma sempre come una forza primigenia che alimenta l’energia e la vita. Per vedere bene la Monna Lisa non è necessario andare al Louvre. Basta una buona immagine ad alta risoluzione. Eppure tutti vanno al Louvre per guardarla senza vederla solo perché vogliono condividere il rituale del pellegrinaggio davanti all’icona simbolo dell’Occidente. Questo cerimoniale ha a che fare con la costruzione di un’identità collettiva nuova e planetaria, come un tempo ci si riuniva davanti a un idolo, ancora una volta catalizzata dal mistero, perché non dimentichiamo che il primo sguardo nuovo, moderno, sull’opera dipinta da Leonardo cinquecento anni fa venne gettato da Napoleone che vi intravide le medesima enigmaticità della Sfinge, quella vera, quella accovacciata tra le dune della piana di Giza. È lo sguardo di Napoleone che ha riattivato un dipinto che fino ad allora non era uno dei tanti solo per pochissimi addetti ai lavori. La Sfinge d’Egitto e la Sfinge d’Occidente solo legate da un unico filo rosso che attraversa la storia che ci appartiene e che ha forgiato le nostre menti nel corso dei millenni. Et quid ama-

bo nisi quod aenigma est, chiosava nei suoi dipinti Giorgio de Chirico a proposito di quella funzione dell’arte in cui vedeva sì agire i meccanismi del pensiero straniante ma al ritmo delle pennellate sulla tela, né più né meno come il Mantegna o Arnold Böcklin. Infrangendo tutte le barriere dello spazio e del tempo, l’inventore della Metafisica si dichiarava infatti un pittore classico: de Chirico come Rubens, Leonardo come Apelle. In quanto forme di comunicazione, alle arti, nel corso della storia, sono state conferite sovrastrutture ideologiche che ci hanno portato alla pretesa chiusura di quel cerchio nel tempo presente che però non estingue tutte le possibilità, le infinite possibilità di esistere care ad Alighiero Boetti, perché lo statuto essenziale delle arti è quello di essere innanzitutto, come rimarcava De Dominicis, primigenie: pittura, scultura, musica, poesia sono forme innate di espressione primordiale che potevamo ancora esperire nelle culture tribali estinte e a cui ormai possiamo assistere solo nelle manifestazioni spontanee dei nostri bambini in età prescolare. Filogenesi e ontogenesi ci aiutano a tracciare le nuove rotte. Non è un caso che Lucio Fontana abbia posto fine alla storia della pittura con squarci sulla tela che rievocano i graffi degli orsi nelle caverne preistoriche e che hanno innescato quel comportamento emulativo dei Sapiens, ma già anche dei Neanderthal, da cui è scaturita l’arte. Un graffio apre e chiude la storia dell’arte e infatti l’etimologia dei

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termini arte e orso svela questa commistione primigenia che non ha nulla a che fare con l’estetica, semmai con quella sopravvivenza che Fontana si immaginava lontano dalla Terra, con l’imperativo di trovare tutte le forme possibili di elevazione rispetto al piano terrestre, nella direzione di nuovi mondi interstellari, con quello stesso spirito con cui Gino De Dominicis cercherà di librarsi nell’aria nella performance del tentativo di volo. In età molto avanzata e visitando una scuola d’infanzia è risaputo che Picasso ebbe a dire che a quattro anni sapeva dipingere come Raffaello ma di avere impiegato tutta una vita a tornare a saper dipingere davvero, come un bambino. La cultura può essere un grande ostacolo, un macigno, e infatti il vero segreto, come diceva Vincenzo Agnetti, è far sì che la cultura diventi l’apprendimento del dimenticare. Il vero segreto sta nell’imparare a dimenticare a memoria. L’anno scorso mi stavo annoiando a sentire i discorsi puramente venali di una turba di visitatori a una mostra d’arte contemporanea, quando ho sentito la voce di un bambino che urlava estasiato, papà! guarda un Pascali! guarda un De Dominicis! guarda un Boetti! Erano tutte opere molto poco riconoscibili, sofisticate anche per un adulto molto preparato, ed Emanuele, in un recente scambio di messaggi, mi ha chiesto di ipotizzare che Walter De Maria, nella sua opera in New Mexico, fosse riuscito a catturare il fulmine di Giorgione ne La Tempesta. Questo bambi-

no ha già incredibilmente tantissimo da saper dimenticare ed è però già davvero sulla strada giusta, e anche se è davvero speciale non è un’eccezione. È stato mio figlio Nicolò, a tredici anni, a vedere per la prima volta la Cascata delle Marmore nel disegno degli Uffizi di Leonardo che tanti sedicenti studiosi non riescono o non vogliono vedere per il vizio di schemi preconcetti. È stato mio figlio Gabriele, a sette anni, a restare colpito prima di me dalle opere di MaMo nella bella casa ai margini del bosco dell’amico Carlo D’Ubaldi, il cui leggendario fiuto per i porcini è paragonabile solo a quello per gli artisti. E la questione è proprio questa: la pretesa di voler delimitare un perimetro di sicurezza per l’arte, un campo di azione specifico con specialisti del settore e finalizzato a una selezione programmata, prevedibile, tramite premi, mostre o fiere, è una vera e propria follia, una degenerazione derivata dall’instaurarsi di un sistema, con relativi interessi commerciali ed economici da difendere, che deve essere bersagliato da incursioni impreviste e imprevedibili. L’arte non ha nulla a che fare con questi traffici e con queste pianificazioni. Ha più a che fare con il tentativo di afferrare un fulmine che afferrare un concetto o pianificare un lancio sul mercato; ed è ancora Picasso a garantirci che c’è un unico olio che può alimentare questa lampada: ogni bambino è un artista. È da qui che è necessario ripartire. La curiosità dello scienziato o dell’artista è la curiosità del bambino, che sovra-

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strutture troppo rigide rallentano e disinnescano con l’intromissione di blocchi di pensiero. Albert Einstein si chiedeva se alla necessità logica della semplicità con cui è stato creato il mondo fosse rimasto qualche margine di libertà a cui aprirsi ed è proprio in questi interstizi che si intrufolano squarci di meraviglia, pensieri nuovi, increspature e burrasche, immagini umbratili e polivalenti. Un proverbio marinaresco ci ricorda che i mari calmi non fanno buoni marinai. Il pensiero deve sempre essere un’apertura, una possibilità, una ricerca incessante di stupori che si alimentano anche nella nicchia dell’elusività e dell’ambivalenza. Fissare un pensiero o un’immagine significa depotenziare un flusso che deve sempre restare inafferrabile e mobile. Molti pensano che sia figo occuparsi di arte contemporanea, aggirandosi tra asettici vernissages facendo finta di capire quello che altri non capiscono perché in realtà non c’è nulla da capire. Essere criptici il più delle volte significa malcelare la vacuità del pensiero. Solo Duchamp o Emilio Prini potevano permettersi di mettere sotto scacco il pensiero. Non mi piace quell’élite intellettuale algida e fredda che si aggira come un clan snobistico per i musei e le gallerie di mezza Europa a celebrare i fasti di un’arte ormai sterile e convenzionale nella sua ottusa autoreferenzialità. Sono tristi e patetici come i borghesi che frequentavano i Salons parigini di fine Ottocento, mentre fuori da lì, in mezzo alla gente, gente come Cézanne, primitivi di

un’epoca futura, davano fuoco alle polveri. Come i Futuristi che ai musei preferivano le sale da ballo. La mossa vincente, in arte, come nella vita e in battaglia, è sempre quella asimmetrica del cavallo, che negli scacchi sprigiona la maggior forza nella centralità e nell’avamposto, posizioni che si addicono perfettamente anche a potenziare al meglio le precipue funzioni dell’arte, a posizionarle al meglio sul campo d’azione, di lato ma al centro e sulla linea del fuoco, sempre avanti, con coraggio. Non è certo un caso che Marcel Duchamp, portando alle estreme conseguenze la sua strategia di autocontraddizione, trascorse molto più tempo a giocare a scacchi che a occuparsi di arte – o forse in fondo era la stessa cosa? Il vero segreto di ogni artista è quello di sapersi sottrarre a se stesso, mettersi sotto scacco e diventare altro da sé. Io credo che sia venuta a compimento la parabola dell’arte intesa come fenomeno mentale, che non è una prerogativa di Duchamp o molto prima di lui di Leonardo da Vinci, ma innanzitutto di quei cacciatori paleolitici che nell’arte parietale avevano compreso la tesaurizzazione visiva delle informazioni e l’accelerazione che avrebbero impresso alla loro trasmissibilità per via orizzontale, culturale, e non genetica. In questo senso, l’arte intesa come veicolo educativo, socio-culturale, ovvero la grotta, il tempio, la chiesa o il museo, è confluita in una sorta di progetto ecologico, avrebbe detto Joseph Beuys, planetario, non solo umano ma comprensiva-

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mente biologico, in cui le idee e i mestieri di tutti, così come le interconnessioni tra tutti gli esseri viventi e non gli istinti, conducono a un sistema di convivenza equilibrato e ottimale, un Paradiso ritrovato. Si potrebbe anche parlare di un’arte che è confluita in una sorta di progetto politico, sempre che si voglia intendere ancora la politica come un progetto di costruzione sociale finalizzato al bene comune, ma questo progetto non necessita solo di pianificazioni controllate, di azioni misurate e programmate, bensì di colpi di scena, di colpi di genio e colpi di testa in grado di continuare a esplorare tragitti non condivisi, asimmetrici e vivificanti. E con questo non voglio dire che l’artista deve essere solo votato baldanzosamente all’azione e totalmente disinteressato al pensiero. Forse perché ne abbiamo avuto davvero abbastanza di pensiero, e soprattutto di immagini. Per dirla con Hegel, l’arte si manifesta in tutte le declinazioni possibili di libertà ma sempre in un contesto storicamente e culturalmente determinato, e il nostro è quello dell’assuefazione e dello stallo. Per come devono andare le cose, lo zampino ce lo mette proprio la noia e forse proprio perché cerchiamo sempre nuovi stimoli o antichi, ormai perduti, primordiali, l’arte d’avanguardia ha avuto un ruolo talmente importante nella nostra vita che a un certo punto è confluita nella vita stessa e non riusciamo più a distinguerne il confine, come quando un bambino guarda la televisione per tutto il giorno, per paura

di restare in silenzio, e alla fine, quando i cartoni animati finiscono, il silenzio si riprende i suoi spazi e con essi fa di nuovo capolino la paura: l’arte è sempre il mostro in agguato sotto il letto, il pericolo che si nasconde dietro l’angolo, anche perché i principali balzi evolutivi l’uomo li ha sempre compiuti stando sull’orlo del baratro dell’estinzione. I veri grandi artisti non li trovi mai alla fermata del tram ma arrivano sempre all’improvviso facendoci bu! dallo stanzino più defilato di casa. Come forma di resistenza attiva alle forze reazionarie di ogni status quo, l’arte è baldanzosa volontà di conquista di nuovi spazi di realtà con l’ausilio di oggetti che aprono nuovi spazi di conoscenza. La filosofia tende a stabilire delle gerarchie fittizie non solo tra le arti ma anche tre le cose, che vengono distinte in varie specie, in primis naturali e culturali; ma nella mia esperienza personale attraversare un bosco o una città o una quadreria sono esperienze che si equivalgono, anche perché in mezzo a tanta legna da ardere i veri alberi sono pochi, in mezzo a tanti anonimi edifici le architetture sono poche, in mezzo a tanti quadri le opere d’arte sono poche. L’unica gerarchia possibile è in quella disposizione della forma delle cose che, più che con il nostro occhio, si accorda con la nostra anima, la quale non sa distinguere tra natura e cultura, ma è attratta da tutto ciò che è preternaturale, l’anomalia che viene avvertita come un dono, l’arte come manifestazione profana

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del miracolo, sulla soglia di varie forme di ignoto, tra cui quello indeterminato è sorgente sia dell’arte che della scienza. È infatti Albert Einstein a ricordarci che la più bella sensazione è il lato misterioso della vita, è il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza pura. Davanti a un’opera d’arte, come davanti a un tramonto, non devi metterti a pensare, non devi afferrare le cose tramite concetti, ma devi metterti a piangere, o saltare dalla gioia, perché ogni spazio sottratto all’ignoto porta con sé non solo nuovi orizzonti di conoscenza ma anche un’ulteriore espansione e fascinazione dell’ignoto. Nell’arte non c’è nulla di apodittico, non c’è una verità parziale, soggettiva, unilaterale da affermare e difendere, ma le infinite strade possibili, gli infiniti raggi che dalla circonferenza si dipartono verso il centro. Ancora una volta la mossa del cavallo: la centralità dell’arte viene sancita da uno scarto di lato, da una sottrazione; e i migliori artisti sono quelli principalmente capaci di sottrarsi a se stessi, che non cadono nella trappola di volersi raccontare. Non mi interessa capire l’arte di 30, 300 o 3000 anni fa. Non mi interessa l’arte come fenomeno di cultura. Mi interessano i suoi albori, che non sono distanti da noi migliaia di anni, nella profondità del tempo, sperduti nella leggenda, ma sono qui davanti a noi, a portata di mano, ogniqualvolta un bambino fa un disegno o un artista, vero, mette mano a una nuova

apertura al mondo, che per potersi chiamare arte deve innanzitutto scrollarsi di dosso tutte le sovrastrutture possibili del tempo dato. MaMo è così, e soprattutto il suo lavoro ha suscitato in me queste riflessioni. Non mi interessa spiegare il suo lavoro. L’arte non ha bisogno di sottotitoli. Non mi interessa quello che fa. Quella è una questione tutta sua. Ormai gli artisti non necessitano più di alcun curatore. Nel tempo in cui ogni sedicente artista ha un proprio curatore, quasi un personal trainer, gli artisti più evoluti sono autonomi e l’esercizio della critica non deve essere quello di essere traduttori o traghettatori, che nelle finalità del mercato diventa un vero e proprio orientamento manageriale, ma deve fare tutto il possibile, oggi più che mai, per ridare fuoco alle polveri, per riaccendere la miccia che faccia deflagrare di nuovo la guerriglia permanente, la lotta alla prevedibilità, la bellezza dell’ignoto. Non la morte dell’arte nella noia del sistema, ma la crisi dell’arte intesa come soglia, tra il gioco e il conflitto, costellata da tante imprevedibili meraviglie e soprattutto senza limiti, norme, condizionamenti o divieti. È la crisi intesa come apertura, trasgressione, libertà assoluta a garantire il perfetto funzionamento dell’esercizio della critica, votata a guardare al di là del visibile, al di sotto della forma, dove si celano, per dirla con de Chirico, quei meccanismi del pensiero che la sottendono. Se per Achille Bonito Oliva, come per Leonardo da Vinci e Gino

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De Dominicis, l’artista è un errore biologico rispetto all’opera perché l’artista muore e l’opera resta, così per me è la forma rispetto all’idea che la invera e mi piace pensare che le forme in cui si invera via via l’arte, attraverso i secoli e i millenni, siano come i tocchi lievi di antenne brulicanti con cui a tentoni, avendo sempre avanti a noi i territori dell’ignoto, cerchiamo non la strada più giusta ma le infinite strade possibili per evolverci dalle caverne alle stelle. Nel desolante panorama dell’accademia dell’avanguardia ingenerato da un sistema che riduce l’arte a mera mercificazione di sterminati prodotti creativi, sempre più assimilabili a prodotti consumistici, è molto curioso che MaMo, tra l’altro riscuotendo un successo di pubblico strepitoso, imbocchi proprio la strada inversa, quella dell’imprenditore che diventa artista. Come dire, invertendo l’ordine dei fattori il risultato per MaMo cambia e cambia sensibilmente, travolgendo il

pubblico della sua città, e infrangendo così anche la regola del nemo propheta in patria, in una sorta di vortice energetico che straccia l’algida sterilità di tanta arte di sistema e induce me non a parlare delle sue opere, che parlano da sole, ma del ruolo alto che può avere ancora l’arte oggi, senza necessariamente doversi conformare al mero processo produttivo delle merci di consumo. Ed ecco che se la mostra nella Loggia dei Lanari serve a farsi prendere dall’energia travolgente dei mirabolanti personaggi di MaMo, terapeutici come direbbe una sua estimatrice della prima ora, questo catalogo diventa una sorta di librocatalogo in cui un imprenditore – diventato artista – e un curatore – non più curatore – giocano sul filo, e senza rete, a far finta, ma in fondo ci credono davvero, che l’arte, quella vera, possa davvero ancora avere un senso. Luca Tomìo

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Drake – Tributo a Enzo Ferrari Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 80 × 120 cm 2018

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E. D. – Tributo a Lucio Dalla Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 100 × 100 cm 2018

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GeneraLEGO Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm 120 Ă— 80 cm 2018

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Il Generale della Stampa Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm 60 × 60 cm << 2017

Il Generale della Musica 2.0 – Tributo a Umbria Jazz Tecnica mista/materica su tela, 60 × 50 cm 2017

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L’Avvocato Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm 80 × 120 cm 2017

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Fashion Queen Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm, 100 Ă— 70 cm 2017


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Leo Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 120 Ă— 80 cm 2018


Il Signor Fiat Tecnica mista/materica su multistrato da 18 mm, 75 Ă— 55 cm 2018



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Abraham Lincoln Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm, 72 Ă— 52 cm misure originali della New York City Subway Map 2018


Il Generale della Cioccolata – Tributo a Perugia Tecnica mista/materica su tela, 50 × 40 cm / 2016

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Space Lady Tecnica mista/materica su multistrato da 8 mm, 120 Ă— 20 cm 2018



40


Re Pom ex Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 70 Ă— 50 cm 2018


Andrea da Perugia Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm, 60 Ă— 60 cm 2018

42


Generale del Web Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm, 70 Ă— 70 cm 2017

43


Mister Millelire Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 60 Ă— 60 cm / 2017

Space General E.T. Tecnica mista/materica su multistrato da 6 mm 100 Ă— 100 cm / 2017

44


Battisti & Mogol Tecnica mista/materica su multistrato da 4 mm, 60 Ă— 60 cm 2017

Iris Apfel Tecnica mista/materica su tela 70 Ă— 70 cm / 2017

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Wedding Queen Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 70 Ă— 60 cm / 2018

Ornella Vanoni Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 120 Ă— 80 cm / 2017


Re Carlo di Borbone Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 110 × 60 cm / 2017

The King – Gianfranco Vissani Tecnica mista/materica su multistrato da 10 mm 70 × 50 cm / 2018




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