ANTEPRIMA DEL MANUALE SULLE CURE PALLIATIVE

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L’etica dell’accompagnamento

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Autori

Edicare Publishing

Antonello Bellomo Dipartimento Misto di Salute Mentale AUSL Foggia, Università degli Studi di Foggia

Antonio Conversano Hospice “San Camillo” Azienda Sanitaria Locale Bari 5

Simona Donegani Psiconcologia. Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori, Milano

Massimo Bisconcin Medicina di Famiglia, Venezia. Area Formazione Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia

Nunzio Costa Medicina di Famiglia, Stornarella (Foggia). Area Oncologia e Cure Palliative Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia

Giuseppe Fasanella Medicina Legale. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia)

Filippo Boscia Consulta Nazionale di Bioetica. Dipartimento Materno-Infantile Ospedale “Di Venere”, Bari Giuseppe Bove Radioterapia. Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia Anna Maria Cairelli Infermiera. Chirurgia d’Urgenza Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia Salvatore Calò Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche. Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico di Bari Francesca Caputo Oncologia. Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia Ornella Carminati Unità Cure Palliative Dipartimento Oncologico. Azienda USL di Forlì Lucrezia Cavallo Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche. Azienda Ospedaliero Universitaria “Policlinico Consorziale” di Bari Gennaro Cera Dottore di Ricerca in Boetica. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia) Grazia Ciavarella Infermiera. Rianimazione. Casa Sollievo della Sofferenza Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia) Lucio Cinquesanti Chirurgia d’Urgenza Azienda Ospedaliera Universitaria “Ospedale Riuniti” Policlinico di Foggia Leonardo Consoletti Centro di Terapia Antalgica Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia

Anna Costantini Psiconcologia. Ospedale Sant’Andrea, 2° Facoltà di Medicina e Chirurgia, La Sapienza Università di Roma

Marisa Ficarelli Hospice Centro Riabilitazione “Don Uva”. Ospedale S. Maria Bambina, Foggia

Porzia De Filippo Infermiera. Pneumologia Azienda Ospedaliero “Di Venere”, Bari

Giovanni Filocamo Medicina di Famiglia, Milano. Area Neuroscienze Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia

Teresa De Meo Anestesia e Rianimazione. Terapia del dolore Ospedale Spirito Santo, Pescara

Maria Pia Foschino Barbaro Dipartimento di Scienze Mediche e del Lavoro. Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università degli Studi di Foggia

Vincenzo De Francesco Gastroenterologia. Endoscopia. “Ospedali Riuniti”Policlinico di Foggia

Germana Gilli Oncologia. Azienda Ospedaliera, Universitaria “Arcispedalale S. Anna”, Ferrara

Caterina De Nicola Hospice Cure Palliative degli Istituti Clinici Zucchi di Carate Brianza, Milano Giuseppe De Nobili Radioterapia. Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia Lazzaro Di Mauro Centro trasfusionale. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia) Giovanni Battista D’Errico Medicina di Famiglia, Foggia. Area Oncologia e Cure Palliative Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia Rocco Di Brina Clinica Urologica e Centro Trapianti di Rene. Università degli Studi di Foggia Guido Di Sciascio Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche. Azienda Ospedaliero Universitaria “Policlinico Consorziale” di Bari.

Luigi Grassi Clinica Psichiatrica Azienda Ospedaliera Universitaria e Azienda USL di Ferrara Marco Guido Neurologia. Università degli Studi di Foggia. “Ospedali Riuniti “ Policlinico di Foggia Francesco William Guglielmi Gastroenterologia. AUSL BAT. Presidio Ospedaliero “S.Nicola Pellegrino”, Trani Leonida Iannantuoni Medicina di Famiglia, Foggia. Area Oncologia e Cure Palliative Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia Matteo Landriscina Onco-ematologia. Università degli Studi di Foggia. “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia Giorgio Lelli Oncologia. Azienda Ospedaliera - Universitaria “Arcispedale S.Anna”, Ferrara


Michele li Bergolis Infermiere. Chirurgia Generale. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia) Rocco Laricchiuta Oncologia. Ospedale Lastaria di Lucera Asl Foggia Leonardo La Torre Oncologia. Azienda Ospedaliera. Universitaria “Arcispedale S.Anna”, Ferrara Renato Lombardi Dipartimento Farmaceutico Territoriale ASL, Foggia Tommaso Luisi Gastroenterologia. Azienda Ospedaliero “Di Venere”, Bari Evaristo Maiello Dipartimento di Onco-ematologia. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia) Marco Maltoni Unità di Cure Palliative. Dipartimento Oncologico. Azienda USL di Forlì Alberto Malvilio Medicina di Famiglia, Venezia. SIGG Società Italiana Geriatria e Gerontologia Mauro Marin Medicina di Famiglia, Pordenone. Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia

Teresa Meo Anestesia e Rianimazione, Terapia del Dolore, Ospedale Santo Spirito, Pescara Ciro Niro Medicina di Famiglia, San Severo (Foggia). Area Uro-Andrologia Aimef - Associazione Italiana Medici di Famiglia Vincenzo Orsi Psicologia. Dipartimento Misto di Salute Mentale AUSL Foggia, Università degli Studi di Foggia Caterina Palladino Infermiera. Dip. Oncoematologico day hospital, Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia)

Anna Scopa Psicologa. Hospice Villa Speranza, Roma Alessandra Semenzato Infermiere professionale in Medicina di Famiglia, Venezia

Sergio Papagni Dipartimento Misto di Salute Mentale AUSL Foggia, Università degli Studi di Foggia

Girolamo Spagnoletti Radioterapia. Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti”Policlinico di Foggia

Antonio Penna Otorinolaringoiatria. Azienda Ospedaliero “Di Venere”, Bari

Luigi Maria Specchio Neurologia. Università degli Studi di Foggia. “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia

Anna Maria Petito Psicologia. Dipartimento Misto di Salute Mentale ASL Foggia, Università degli Studi di Foggia

Giuseppe Maso Medicina di Famiglia,Venezia. Università degli Studi di Udine

Michele Raguso Otorinolaringoiatria Ospedale “Di Venere”, Bari

Giuseppe Melchionda Anestesia e Rianimazione. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia)

Cristina Rebuzzi Hospice. Dipartimento Terapia del Dolore Cure palliative Ospedale Spirito Santo, Pescara

Giuseppe Memoli Centro Antidiabete “San Luca” Ariano Irpino (Avellino)

Francesco Savino Hospice “Aurelio Marena” Fondazione “Santi Medici Cosma e Damiano” Bitonto (Bari)

Gaetano Serviddio Medicina Interna. Università degli Studi di Foggia “Ospedali Riuniti “ Policlinico di Foggia

Antonio Pugliese Medicina di Famiglia, Castellaneta (Bari). Area Dermatologia Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia

Lorella Melillo Ematologia. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia)

Marzia Salsapariglia Medico palliativista, Foggia

Carmine Francesco Panella Gastroenterologia. Università degli Studi di Foggia “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia

Silvia Mazzuoli Gastroenterologia, AUSL BAT. Presidio Ospedaliero “S. Nicola Pellegrino”,Trani

Antonio Melchionda Medicina di Famiglia. San Giovanni Rotondo (Foggia). Area Oncologia e Cure palliative Aimef

Giovanni Rossi Ematologia. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo (Foggia)

Renato Ricotti Pneumologia. Azienda Ospedaliero “Di Venere”, Bari

Ileana Tavoliere Psicologia. Dipartimento Misto di Salute Mentale AUSL Foggia, Università degli Studi di Foggia Michele Totaro Hospice “Don Uva”. Ospedale S. Maria Bambina, Foggia Viviana Turchiarelli Dipartimento di Scienze Mediche e del Lavoro, Sezione di Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università degli Studi di Foggia Emanuela Turillazzi Medicina Legale, Università degli Studi di Foggia. “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia

Annalisa Ritucci Psicologia. Dipartimento Misto di Salute Mentale AUSL Foggia, Università degli Studi di Foggia

Vanna Maria Valori Oncologia. Day hospital. Casa Sollievo della Sofferenza. Istituto a Carattere Scientifico. San Giovanni Rotondo, (Foggia)

Sante Romito Oncologia. Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” Policlinico di Foggia

Rosanna Villani Medicina Interna. Università degli Studi di Foggia “Ospedali Riuniti “ Policlinico di Foggia


Indice

Autori

7

Indice

9

Presentazione

12

Prefazione

14

Premesse

15

Ringraziamenti

17

Introduzione

18

Giovanni Zaninetta Tristano Orlando Giovanni B. D’Errico

Vanna M. Valori, Giovanni B. D’Errico

CAPITOLO 1

Gli aspetti etici di fine vita

1.1 L’etica dell’accompagnamento Giuseppe Fasanella 1.2 Quando sospendere le terapie Emanuela Turillazzi 1.3 L’accanimento terapeutico Gennaro Cera 1.4 Testamento di vita e direttive anticipate Antonio Melchionda

23 35 45 52

CAPITOLO 2

Le cure domiciliari

2.1 I fattori prognostici di sopravvivenza Giovanni B. D’Errico, Evaristo Maiello 2.2 L’ assistenza domiciliare - normativa Giovanni B. D’Errico, Nunzio Costa 2.3 L’ Hospice Michele Totaro

3.1 La comunicazione medico - paziente Giovanni B. D’Errico, Antonello Bellomo

77 85

94 102 110

117 121 129

CAPITOLO 4

Il burn out

4.1 Il burnout dell’operatore sanitario Guido Di Sciascio, Lucrezia Cavallo, Salvatore Calò

136

CAPITOLO 5

57 61 67

CAPITOLO 3

Gli aspetti relazionali

3.2 La comunicazione di cattive notizie Simona Donegani 3.3 La relazione con la famiglia: bisogni e problemi Annalisa Ritucci, Ileana Tavoliere, Vincenzo Orsi 3.4 Gli aspetti spirituali Caterina De Nicola 3.5 Reazioni psicologiche in fase avanzata Luigi Grassi, Anna Costantini 3.6 L’informazione al paziente terminale e alla sua famiglia. Aspetti psicologici, giuridici e deontologici Anna Costantini, Luigi Grassi 3.7 La comunicazione tra operatori sanitari paziente e famiglia Caterina Palladino 3.8 Il caregiver Anna Maria Petito 3.9 Il processo del lutto Anna Scopa

Il dolore oncologico

5.1 Fisiopatologia del dolore Giovanni B. D’Errico 5.2 Valutazione del dolore e scala analgesica Giovanni B. D’Errico 5.3 La gestione del dolore Giovanni B. D’Errico

147 152 157

CAPITOLO 6

72

La terapia del dolore

6.1 Terapia farmacologica Leonardo Consoletti

162


6.2 Terapia non farmacologica Giuseppe Melchionda 6.3 I farmaci adiuvanti Valentina Lombardi, Matteo Landriscina 6.4 La prescrizione dei farmaci analgesici Nunzio Costa, Giovanni B. D’Errico 6.5 Infusione sottocutanea Cristina Rebuzzi, Teresa Meo 6.6 Radioterapia antalgica Girolamo Spagnoletti, Giuseppe Bove 6.7 Ruolo dell’infermiere nella terapia antalgica Grazia Ciavarella

185

Problemi medici e 191 infermieristici 201 11.1 Cateteri Venosi Centrali (CVC)

302

205 11.2

310

210 11.3 215 11.4 11.5 11.6

CAPITOLO 7

L’ insufficienza nutrizionale

7.1 La fatigue Giovanni B. D’Errico, Rocco Laricchiuta 7.2 La cachessia Leonardo La Torre, Germana Gilli, Giorgio Lelli 7.3 Nutrizione enterale e parenterale: aspetti farmaceutici Renato Lombardi

219 224 229

8.1 Problemi di nutrizione Carmine Panella, FrancescoW. Guglielmi, Silvia Mazzuoli 8.2 Problemi gastrointestinali Tommaso Luisi, Antonio Penna 8.3 Problemi dermatologici Antonio Pugliese 8.4 Problemi neurologici Luigi M. Specchio, Marco Guido 8.5 Problemi psichiatrici Sergio Papagni, Antonello Bellomo, Giovanni B. D’Errico 8.6 Problemi nefro-urologici Ciro Niro 8.7 Problemi infettivi Lorella Melillo, Giovanni Rossi 8.8 Problema febbre Caputo Francesca, Sante Romito CAPITOLO 9

La terapia trasfusionale

9.1 Trasfusione a domicilio: indicazioni, limiti e responsabilità Lazzaro Di Mauro, Giovanni B. D’Errico CAPITOLO 10

11.7

Lucio Cinquesanti, Marzia Salsapariglia Tracheostomia Michele Raguso Aspirazione tracheo-bronchiale Renato Ricotti, Porzia De Filippo Stomie intestinali Michele li Bergolis Stomie urinarie Rocco Di Brina Gastrostomia Percutanea Endoscopica (PEG) Vincenzo De Francesco Ulcere da decubito. Prevenzione e trattamento Giuseppe Memoli, Gaetano Serviddio, Rosanna Villani

312 316 323 326 331

CAPITOLO 12

Urgenze e emergenze

CAPITOLO 8

I problemi del paziente in cure Palliative

CAPITOLO 11

237 242

12.1 Urgenze e emergenze respiratorie Maria Pia Foschino Barbaro, Viviana Turchiarelli 12.2 Urgenze e emergenze varie Marzia Salsapariglia, Giovanni B. D’Errico

268 276 281 286

363

CAPITOLO 13

247 La fase terminale 257

357

13.1 Sintomi nella fase terminale Cristina Rebuzzi, Teresa Meo 13.2 Alimentazione e Idratazione Marzia Salsapariglia, Giovanni B. D’Errico 13.3 Gli ultimi giorni di vita Ornella Carminati, Marco Maltoni 13.4 Sedazione terminale Giovanni B. D’Errico, Marzia Salsapariglia 13.5 Infermiere di famiglia: ruolo e compiti Alessandra Semenzato

378 384 394 400 410

CAPITOLO 14

La riabilitazione del 291 paziente in cure palliative 14.1 La riabilitazione Marisa Ficarelli

422

CAPITOLO 15

L’organizzazione delle cure 10.1 Lavoro in equipe. Componenti, ruolo 298 palliative L’equipe di cure palliative

e compiti Giovanni B. D’Errico, Leonida Iannantuoni

15.1 Norme regolanti le cure palliative Mauro Marin

424


19.13 Eparinizzazione CVC Raccomandazioni GAVeCeLT

CAPITOLO 16

Ricerca e formazione nelle cure palliative

16.1 Ricerca e cure palliative. Il contributo della medicina di famiglia Giuseppe Maso, Alberto Marsilio 16.2 La formazione nelle cure palliative. Situazione attuale e nuove prospettive Massimo Bisconcin 16.3 La qualità nelle cure palliative Giovanni Filocamo

427

17.1 Organizzazione e prospettive future Antonio Conversano, Giovanni B. D’Errico

18.1 L’etica e bioetica nelle cure palliative. Dichiarazioni anticipate di trattamento Filippo M. Boscia 18.2 La morte e il morire oggi. Tra scienza e fede attegiamento culturale e dignità del malato Francesco Savino 18.3 Riflessioni sul malato e la malattia di pazienti in cure palliative

513

CAPITOLO 21

443 Farmaci utilizzati nelle cure palliative 21.1 Farmaci

518

CAPITOLO 22

450 abilità gestionali 1 22.1

456 462

472

22.2 22.3 22.4 22.5 22.6 22.7

Giovanni B. D’Errico, Anna M.Cairelli, Leonida Iannantuoni Cateteri Venosi Centrali (CVC) Cateteri Venosi Periferici (CVP) Pompe Elastomeriche (Elatomeri) Sondino Naso Gastrico (SNG) Gastrostomia Percutanea Endoscopica (PEG) Gestione delle stomie intestinali Nutrizione Artificiale (NA)

526 533 537 542 547 550 553

CAPITOLO 23

CAPITOLO 19

abilità gestionali 2

Appendice

Giovanni B. D’Errico, Anna M.Cairelli, Nunzio Costa 23.1 Tracheostomia 23.2 Aspiratore tracheobronchiale

Giovanni B. D’Errico 19.1 Storia delle cure palliative 19.2 Dal codice di deontologia medica 19.3 Legge sulle cure palliative e terapia del dolore 19.4 La formazione nelle cure palliative 19.5 Carta dei diritti del morente 19.6 Carta dei diritti sul dolore inutile 19.7 Principi etici per una buona comunicazione medico paziente 19.8 Mini Nutritional Assessment (MNA) 19.9 Scala multidimensionale ESAS 19.10 Scala o indice di Karnofsky 19.11 Nomenclatore e ausili protesici 19.12 Equianalgesia degli oppioidi

Materiali per medicazioni e ausili Giovanni B. D’Errico

CAPITOLO 18

Riflessioni, esperienze

CAPITOLO 20

436 20.1 Medicazioni avanzate

CAPITOLO 17

La rete assistenziale delle cure palliative

512

473 475 476 23.3 Infusori sottocutanei 484 487 494 498

23.4 23.5 23.6 23.7 23.8 23.9

Infusori intratecali Paracentesi Toracentesi Stomie urologiche e nefrologiche Cateteri urinari Ulcere da decubito e medicazioni avanzate. Casi clinici

500 502 504 postfazione Marco Spizzichino 506 510 siti web - letture

559 562 564 567 572 574 577 579 585 587 589


Presentazione

Nella presentazione di un testo scientifico come questo manuale, è quasi un luogo comune sottolineare la novità e la necessità della sua pubblicazione: credo che in questo caso ciò corrisponda esattamente al vero. Non mancano, infatti, esempi di testi sia di autori italiani sia stranieri che affrontano, a volte in maniera monografica, più raramente in modo sistematico, il grande campo delle cure palliative nella ricchezza dei risvolti clinici, etici psicologici ed organizzativi, rivolti per lo più ad un pubblico di addetti ai lavori. Questa pubblicazione si rivolge principalmente al gruppo più numeroso di operatori, i medici di medicina generale, che hanno l’occasione e la necessità di confrontarsi con i malati nella fase terminale di una malattia cronica evolutiva e con i loro familiari. Questi medici che, finora, avevano dovuto trarre indicazioni e suggerimenti da corsi ECM, da testi specialistici o da “sentito dire” potranno trovare ben organizzati i contenuti più importanti delle cure palliative di loro competenza. L’elevato numero degli autori, che potrebbe far temere una eccessiva frammentarietà dell’opera, rappresenta però in maniera convincente la multidisciplinarità delle cure palliative e la necessità che esse si arricchiscano di competenze, di conoscenze, di attitudini solo apparentemente eccentriche, ma, in realtà, assolutamente funzionali alla complessità dell’assistenza e dell’accompagnamento di questi malati e delle loro famiglie, le cui necessità sono ben più estese del buon controllo dei sintomi o di una buona igiene personale, poiché si trovano ad affrontare la dimensione esistenziale e più ampiamente sociale del vivere e (necessariamente) del morire. Chi si avvicina alle cure palliative non da specialista (perché così speriamo si potrà definire il sanitario ad esse esclusivamente dedicato) ma da medico o da operatore che questi malati potrà comunque incontrare sulla sua strada, troverà in questo testo preziose indicazioni e precisi suggerimenti per rispondere efficacemente ai bisogni dei malati in fase terminale e delle loro famiglie. Questo testo contribuisce a rafforzare la consapevolezza che un periodo significativamente esteso delle cure palliative può ottenere una adeguata risposta proprio dalla medicina generale e dai servizi territoriali, consentendo di assistere questi malati nel


loro ambiente familiare e con i ritmi a loro più favorevoli. L’augurio che formulo è che tutti i medici di medicina generale abbiano questo testo a portata di mano per consultarlo, per esserne stimolati, per essere aiutati a considerare la cura palliativa dei malati una occasione preziosa di buona medicina, capace di confrontarsi con la persona al di là della malattia e con la vita e la morte al di là delle quotidiane contingenze. Prof. Giovanni Zaninetta

Past President SICP Società Italiana Cure Palliative


Prefazione

Il ruolo del Medico di Famiglia non si esaurisce nel tempo, più o meno breve, intercorrente tra la formulazione di una corretta diagnosi, con conseguente impostazione di opportuna terapia, e guarigione di un evento patologico d’organo o apparato, né può limitarsi alla mera individuazione di un corretto percorso con affidamento, esclusivo, del paziente ad uno specialista di riferimento. Mai, inoltre, si deve cedere alla comoda tentazione, frutto di scoramento e frustrazione, di abbassare le armi del nostro sapere e saper fare innanzi all’inguaribilità della sofferenza. L’opera, di cui ho l’onore ed il piacere di curare la prefazione, nasce, quindi, dalla profonda condivisione del pensiero di Patch Adams per cui “è compito del medico non curare le malattie, ma prendersi cura del malato”. Solo un amore profondo per il nostro simile e per la nostra professione, vissuta ancora come missione e non solo come mera occupazione, può spingere l’uomo medico a confrontarsi quotidianamente con la sofferenza, opponendosi alla disperazione di una morte prossima ed inevitabile. Il contenuto del testo, pur trattato con rigore scientifico, è pervaso dalla umanità indispensabile ad un pieno ed appagante rapporto curante/malato. Un pensiero di gratitudine è rivolto agli Autori tutti che, con la loro opera, hanno saputo donarci un testo di sicuro ausilio nei frangenti più difficili della nostra attività colmando, in un panorama editoriale nazionale non certo scevro di valide pubblicazioni scientifiche, la lacuna di testi curati da Medici di Famiglia ed indirizzati alla nostra stessa categoria. Un grazie, è rivolto a tutti quelli che hanno collaborato alla stesura dell’opera e a quelli che hanno creduto nella validità del progetto e che mai ha fatto mancare incoraggiamento e fiducia nel non breve percorso tra l’ideazione e la sua realizzazione.

Dott. Tristano Orlando Presidente Nazionale AIMEF Associazione Italiana Medici di Famiglia


Premesse

Fino a qualche decennio fa la diagnosi di neoplasia avveniva in una fase avanzata quando ormai c’erano scarse possibilità di guarigione. I medici che si trovavano ad assistere questi pazienti dovevano essere in grado di risolvere i problemi connessi alla sintomatologia della fase terminale e di supportare il paziente e la famiglia durante tutto il percorso della malattia, poiché vi erano poche possibilità di vivere a lungo. Le competenze necessarie per svolgere questi compiti erano quelle del buon medico di famiglia di quegli anni, in cui l’esperienza e il rapporto interpersonale rappresentavano la base del proprio lavoro. Allora la scoperta della malattia in fase avanzata e non curabile comportava un percorso assistenziale breve. Oggi, invece i pazienti neoplastici vengono sottoposti precocemente a terapie specifiche per la cura e il trattamento delle complicanze utilizzando, a volte, trattamenti invasivi di difficile gestione domiciliare. Così molti di questi, trasferiti sul territorio presso la propria abitazione, si presentano con problemi “ complessi” di non facile soluzione. Il medico di famiglia si trova così ad assistere questi malati “difficili” senza aver avuto una formazione adeguata e spesso senza avere il supporto di altre figure sanitarie competenti per risolvere i vari problemi. Questo perché negli ultimi anni la necessità di ridurre e razionalizzare la spesa sanitaria ha determinato uno spostamento assistenziale dall’ospedale al territorio senza che sia seguita, almeno in una parte del paese, una adeguata strutturazione assistenziale per l’assistenza di questi malati. Questa nuova realtà ha reso consapevoli i medici di famiglia, primi interlocutori del paziente, della necessità di acquisire nuove competenze. Il fermento culturale sviluppato intorno all’assistenza di questa tipologia di pazienti ha determinato una svolta legislativa epocale che si spera dia i suoi frutti per ridare dignità ai pazienti terminali e alle loro famiglie. Per rispondere ai bisogni del malato in fase avanzata, assistito a domicilio, non basta la preparazione professionale e la buona volontà, ma è necessario una organizzazione ben definita, con specialisti e operatori sanitari che affianchino e sostengono il lavoro del medico di famiglia, che da sempre per vocazione e approccio olistico alla malattia ha dato il suo contribuito professionale e umano per alleviare le sofferenze del


paziente e della sua famiglia. Questo libro nasce per portare un aiuto ai medici di medicina generale e agli operatori sanitari che agiscono nei vari contesti per migliorare l’assistenza di questi malati. Dott. Giovanni B. D’Errico


Ringraziamenti

Alla stesura e sviluppo di questo libro hanno contribuito molte persone attraverso le loro idee, i loro consigli, le storie dei loro pazienti, e le immagini ricavate dalla pratica quotidiana. Un ringraziamento particolare và al dr. Nunzio Costa e Leonida Iannantuoni per la preziosa collaborazione nella stesura definitiva dei testi e nella condivisione del loro diverso bagaglio di esperienze professionali maturato nell’ambito di un piccolo centro rurale e nella città capoluogo. Grazie alla dr.ssa Marzia Salsapariglia che, con la sua esperienza, umanità e disponibilità, ci ha sostenuti, consigliati e aiutati nella stesura dei vari argomenti; al dr. Renato lombardi e ai suoi collaboratori, che con il loro impegno e la loro disponibilità ci hanno consentito di reperire molte delle immagini riportate nel libro; al dr. Michele Totaro, al dr. Lucio Cinquesanti, all’infermiera Anna Maria Cairelli e al Dr. Leonardo Consoletti che ci hanno permesso di arricchire di immagini il nostro manuale. Desideriamo ringraziare, infine, le aziende produttrici dei dispositivi di infusione Medtronic, Baxter e Johnson e Johnson e l’azienda Nutricia produttrice delle pompe per alimentazione enterale che ci hanno autorizzati a pubblicare il loro materiale iconografico, gli altri autori che hanno contribuito alla stesura del testo e i colleghi che hanno creduto in quest’opera. Giovanni B. D’Errico Vanna Maria Valori


Introduzione

Promuovere la cultura della vita, del sollievo e del “prendersi cura” rappresenta la via da percorrere per evitare l’abbandono delle cure e consentire il rispetto della dignità del paziente morente. Nell’ultimo quinquennio, grazie alle innovazioni ottenute con le biotecnologie, le acquisizioni della biologia molecolare hanno portato all’introduzione nella pratica clinica di tutta una serie di nuovi farmaci, di piccole molecole a bersaglio specifico o di approcci terapeutici integrati, che hanno destato grandi entusiasmi nell’ambito dell’oncologia medica. Tuttavia a fronte degli indubbi risultati ottenuti con la diagnostica precoce e con le nuove e più promettenti strategie terapeutiche, che hanno fatto osservare un significativo miglioramento della fase libera da malattia, sono state acquisite ulteriori conoscenze biologiche che spiegano la particolare aggressività di talune forme neoplastiche, ancora oggi ad evoluzione sfavorevole. Inoltre l’ottenuto ritardo della fase di ripresa di malattia, che può certamente essere considerato un risultato ragguardevole per molte patologie tumorali, è pur sempre insoddisfacente sia per noi medici che per gli stessi pazienti, che legittimamente aspirano al risultato di una completa guarigione. Dunque, ancora oggi, l’assistenza del malato oncologico in fase di ricaduta rappresenta, in certo qual senso, il centro delle attenzioni mediche nell’ambito dell’oncologia clinica, anche in considerazione dell’ aumento di incidenza della patologia neoplastica nella popolazione mondiale e della riduzione dell’età media al momento della diagnosi. Ma uno dei maggiori problemi che caratterizzano l’oncologia moderna è proprio quello di definire in maniera più precisa ed esaustiva il rapporto tra le cure rivolte al trattamento della neoplasia e quelle rivolte alla cura complessiva dei sintomi psicofisici da malattia tumorale, campo di pertinenza della medicina palliativa. In realtà la distinzione tra medicina curativa e palliativa non è mai stata netta nella storia dell’oncologia medica, ma era possibile definire due limiti di intervento medico nell’ambito della malattia neoplastica: nel primo l’interesse prioritario era la diagnosi e la cura attiva con tutti i mezzi a disposizione, come la chirurgia radicale, la


chemioterapia antiblastica, l’ormonoterapia, la radioterapia standard e/o stereotassica, l’immunoterapia specifica, le terapie traghettate o loco-regionali, mentre nel secondo era invece la cura dei sintomi minori, il sollievo della sofferenza ed il miglioramento della cenestesi. “To Cure” e “To Care” La distinzione anglosassone tra “to cure” e “to care” consentiva una traduzione in medicina curativa con l’intento di guarire la patologia e in medicina assistenziale, caratterizzata da una connotazione più umanizzante, più pronta all’accettazione dell’evento morte come inevitabile, meno tecnicistica, ma pur sempre posta al servizio della salute e della vita. In fondo l’origine etimologica da “pallium” esprime bene il significato protettivo di coprire, avvolgere, portare calore umano, fisico e spirituale al malato sofferente. Quando sembra che il malato sia senza speranza perché non c’è più nulla da fare in realtà si apre un orizzonte ancora più ampio, con tanto da fare attraverso la presenza, il sorriso e la parola. Le cure palliative portano il medico davanti al malato senza speranza di guarigione con un obiettivo che è quello di lenire le sofferenze fisiche, ascoltare e capire i bisogni, sollevare lo spirito, essere vicino, assistere, accompagnare. In tale contesto l’estensione della chemioterapia oltre le quattro, cinque linee o più, anche nelle fasi finali della vita, come pure un tardivo ricorso alle cure palliative, poteva sembrare un fattore di bassa qualità assistenziale, specie in un dipartimento di oncoematologia. Pertanto negli anni scorsi oncologi e palliativisti si sono confrontati a lungo sulla definizione della linea di demarcazione tra le due discipline, andando ad identificare l’opportunità di un approccio globale al paziente oncologico con malattia in fase avanzata come il modello più consono alla esigenze del paziente. Infatti in verità oggi questo confine non è sempre di facile demarcazione, sia perché a dispetto di tutti i mezzi preventivi e di follow-up il paziente può giungere alla osservazione degli oncologi con malattia già metastatica e con prognosi inferiore ai sei mesi; inoltre non di rado il paziente che ricade, sempre più spesso giovane, è in genere disposto a sopportare una tossicità anche significativa, perfino a fronte di un vantaggio clinico limitato e questo tanto più si verifica in presenza di una malattia aggressiva, radio o chemiosensibile. Tutto ciò assume rilevanza ancora maggiore tenendo conto dell’aumento degli effetti collaterali e dei costi delle terapie, per cui è molto importante definire con il paziente le reali indicazioni alle diverse tipologie di trattamento, in un contesto di presa in carico globale, fin dall’accertamento del cancro e non solo in quelle di drammatico epilogo. Ecco dunque che la cultura del sollievo, la cultura dell’ascolto e molti degli aspetti inerenti le cure palliative nel modello di continuità delle cure vengono ad essere applicati anche più precocemente nel corso della malattia, in parallelo alle terapie antineoplastiche. Inoltre attualmente la medicina che si occupa di Cure Palliative (CP), dopo anni di formazione specifica, meeting, convegni e sensibilizzazione politica, è in una fase di grandi fermenti per le trasformazioni inerenti all’assistenza sanitaria ed ormai sembraevidente che il modello assistenziale più adeguato è quello che vede la struttura sanitaria


ruotare con tutte le sue risorse umane e tecnologiche intorno al malato e alla sua famiglia. Questo modello vede integrati nella collaborazione i distretti ospedalieri e quelli domiciliari, con un ruolo centrale del medico di medicina generale (MMG), affiancato da collaborazioni territoriali come studi associati, guardie mediche, associazioni di volontariato, ed in taluni Comuni anche da Ospedali di comunità. Oggi parlare di CP a casa o in Ospedale non significa parlare di modalità assistenziali alternative, ma di una continuità di cura che prevede risposte specifiche ai particolari bisogni della persona e, come abbiamo precisato, sarebbe auspicabile che le varie modalità assistenziali potessero essere in un rapporto di stretta collaborazione. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad dapprima lenta e graduale, ma poi più ampia e capillare diffusione dei servizi di CP in Europa e nel mondo. Basti pensare che in Gran Bretagna, la patria degli Hospice, i servizi di CP sono oltre 400, mentre negli USA, partiti sull’onda anglosassone, con 10 anni anni di ritardo, sono già oltre 1600 all’interno del sistema sanitario pubblico americano. In Italia le CP sono entrate a pieno titolo tra i servizi sanitari erogati dalla sanità pubblica e la Legge italiana prevede e finanzia la costruzione di vari Hospice, delineando le caratteristiche di un servizio integrato di CP. Ma le principali problematiche inerenti le CP, benché affrontate, sono ancora aperte e perfettibili. Sicuramente uno dei problemi è quello delle differenza nell’erogazione di prestazioni assistenziali nei vari territori nazionali ed il lavoro da fare per ottemperare a quanto previsto dal PSN è ancora lungo. Un secondo punto, che richiederebbe una trattazione specifica più estesa, è quello delle linee guida operative a cui fare riferimento per orientare correttamente il percorso terapeutico e assistenziale da proporre al paziente che richiede di essere curato. Sono diventati argomenti di frequente ed acceso dibattito i problemi inerenti alle direttive anticipate, al rifiuto o all’abbandono delle cure, come pure di grande importanza è riconoscimento dell’autonomia del paziente, che deve essere condotto alla firma del consenso attraverso un’adeguata e coscienziosa informazione; tutto questo deve avvenire in un contesto di grande professionalità e competenza scientifica, di serenità, profondo equilibrio e nella verità. Gli argomenti testè accennati ci portano all’approfondimento di alcuni temi di bioetica, relativi al bio-diritto, alla appropriatezza del trattamento proposto, sia esso palliativo o più strettamente oncologico ed è evidente che tali problematiche si possono porre fin dalle primissime fasi della presa in carico del paziente stesso e meritano certamente una più ampia trattazione. Quasi naturalmente arriviamo a toccare il terzo ed ultimo punto nell’approccio assistenziale: il lavoro d’équipe. Nelle fasi avanzate della malattia il MMG, l’oncologo, l’infermiere, lo psicologo i vari operatori sanitari e le altre figureassistenziali, diverse e tutte necessarie a seconda dei momenti e dei bisogni valutati, svolgono un ruolo di accompagnamento, che deve essere più che mai modulato e personalizzato sulla base dei bisogni, delle


necessità, delle attese, non solo del morente, ma anche delle persone vicine al malato. I modelli assistenziali sono molteplici, di diversa ispirazione e con differenti impostazioni logistiche, ma sicuramente offrono una nuova prospettiva: la struttura ospedaliera si apre a nuovi orizzonti di cura al di là delle proprie mura ed il paziente vede realizzare l’assistenza medica, generica e specialistica, nonché infermieristica, presso la propria abitazione. E tutto questo, se ci consente di evitare l’abbandono delle cure, di accompagnare laddove non è più possibile guarire, di consolare laddove il dolore fisico e psichico diventano insostenibili, di portare pace dove c’è angoscia e dubbio, di rispettare la dignità del morente laddove sembra che le sembianze umane non siano più riconoscibili, di permettere al paziente di vivere nel proprio ambiente domestico, circondato dai propri cari, tutto questo, anche se non toglierà a noi medici la sofferenza dello stare insieme con chi soffre, ci lascerà però sereni e con l’intima consapevolezza di lavorare ed impegnarci per promuovere la cultura della vita, del sollievo e del “ prendersi cura”. Vanna M. Valori Giovanni B. D’Errico


3.5 Reazioni psicologiche in fase avanzata Luigi Grassi, Anna Costantini

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L’assistenza del paziente in fase avanzata di malattia rappresenta sicuramente un momento difficile e complesso per il medico e per tutta l’équipe. Da un lato la preparazione alla morte e al morire risulta ostacolata nella società moderna dalla tendenza a non accettare questi eventi come parte di un processo naturale, bensì come avvenimenti incomprensibili, ingiusti, irrazionali e, quindi, vissuti in termini di sconfitta e tradimento (De Santi et al., 1999). D’altra parte, come scrive Jaspers, psichiatra e filosofo, nella sua autobiografia, difficile è il compito di “reagire alla paralisi derivante dalla condizione di malato”, di includere la malattia nella propria vita, di “familiarizzarsi” con essa per poterla accettare (Jaspers, 1967). Il passaggio da una percezione della morte interpretata in senso obiettivo (la morte in quanto evento oggettivo), alla morte come evento che non ci riguarda (la morte degli altri) alla morte come evento proprio (la mia morte) risulta difficile e denso di implicazioni psicologiche e spirituali, alle quali si associano aspetti legati alla storia della singola persona con possibilità di risposte di a carattere psicopatologico che in cure palliative vanno conosciute e gestite (Grassi, 2007).

Le reazioni e l’assistenza psicologica in fase avanzata La fase avanzata delle malattie mediche si caratterizza per una serie di reazioni emozionali legate alla sofferenza somatica (ad es., il dolore, la dispnea, la riduzione della mobilità, l’astenia, l’incontinenza, i sintomi secondari alle terapie), psicologica-spirituale (ad es. angoscia rispetto all’ignoto, timori di non farcela, difficoltà a manifestare le proprie emozioni, angosce esistenziali), e relazionale (ad es. timori di abbandono, di essere di peso, di non avere più valore, di essere ripugnante, di non avere più alcun ruolo, timori rispetto a cosa accadrà ai propri cari dopo). Kübler-Ross (1969) ha indicato alla fine degli anni ’60 alcune modalità attraverso le quali l’uomo affronta la propria morte, articolando fondamentalmente il processo psicologico dell’avvicinarsi alla morte secondo un modello suddiviso in fasi:


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• fase di shock e negazione (“È impossibile, non può essere vero, si sono sbagliati”); • fase di rabbia impotente (“Non mi hanno curato come avrebbero dovuto, hanno sbagliato tutto”); • fase della trattativa e del patteggiamento (“Se anche questa volta ce la faccio, cambierò vita”); • fase depressiva (reattiva inizialmente, quindi di preparazione alla propria morte successivamente); • fase della rassegnazione e accettazione dell’inevitabilità degli eventi. In queste fasi la presenza della famiglia e la possibilità di elaborare il senso della vita trascorsa, di dare raccomandazioni, di perdonare ed essere perdonati, di ringraziare ed essere ringraziati e di poter salutare i propri cari sono elementi che, presenti in un passato lontano, sono meno attuali ora ma estremamente importanti. In anni più recenti altri autori hanno messo in discussione l’utilità di una suddivisione così rigidamente sequenziale, segnalando come gli esseri umani raramente vivano emozioni in stadi posti in serie, ma assai più frequentemente sperimentano emozioni variamente associate tra loro. Alcuni autori preferiscono inquadrare il problema attraverso una lettura che considera piuttosto l’intensità delle reazioni emotive che caratterizzano il processo del morire (Buckman, 1999). In un primo momento, tutte le possibili risposte emotive possono essere presenti (ad es., paura, ansia, shock, negazione, incredulità, negazione, colpa, speranza, disperazione, patteggiamento), talvolta mescolandosi tra loro, talvolta passando dall’una all’altra, anche nello spazio di poco tempo. Si può assistere quindi alla graduale riduzione dell’intensità delle emozioni (stadio monocromatico), con preminenza della sintomatologia disforia e depressiva (non necessariamente patologica) e il riconoscimento quindi della inevitabilità della propria morte. Possono scomparire le emozioni quali la negazione o il patteggiamento, può essere presente una condizione di tristezza e paura oppure uno stato di serenità interiore. I principali bisogni dei pazienti in fase avanzata di malattia, intimamente collegati alle risposte psicologiche di cui abbiamo parlato, sono riassunti in Tab. 1. Anche le reazioni della famiglia sono evidentemente importantissime nell’assistenza psicologica nelle fasi avanzate di malattia. La consapevolezza dell’aver esaurito gli strumenti terapeutici, l’aggravamento continuo (talvolta estremamente lento, talvolta più rapido) delle condizioni fisiche del proprio congiunto e la consapevolezza dell’ineluttabilità del percorso verso la morte, determinano un livello di sofferenza elevato per la famiglia (Wellisch, 2000). La famiglia si pone al contempo sia come “soggetto” di cura, data la funzione di supporto primario per il proprio congiunto ammalato e di strumento co-terapeutico che affianca l’équipe assistenziale, sia come “oggetto” di cura, data la necessità che i bisogni della famiglia siano ascoltati e soddisfatti. I diversi contesti assistenziali (ospedale, hospice, domicilio) influenzano il rapporto con la famiglia del paziente.


104 Manuale sulle cure palliative

La conoscenza delle modalità di risposta emotiva e delle capacità di adattamento della famiglia rappresentano in questa fase una necessità inderogabile. Le reazioni emozionali della famiglia durante la fase avanzata di malattia del loro congiunto sono spesso inquadrate nel concetto di lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio esprime un momento importante per la famiglia che si confronta con l’imminenza della perdita del proprio caro. L’attenzione e la giusta comprensione delle reazioni emozionali, degli atteggiamenti e dei comportamenti che i familiari (o il famigliare chiave) mettono in atto come preparazione alla perdita risulta estremamente importante nell’assistenza in fase avanzata di malattia (Parker, 1998). Le principali reazioni sono caratterizzate da: sentimenti di intensa paura, legati al timore di non sentirsi competenti riguardo alla attuazione di procedure tecniche, di non essere in grado di affrontare i momenti critici o il momento del trapasso; sentimenti di colpa reazione al pensiero di non essere stati o di non essere sufficientemente presenti nella condizione di maggior bisogno, oppure di aver commesso qualche errore, o di aver provato rabbia verso il proprio congiunto, o di aver desiderato, in maniera “egoistica”, che tutto finisse in tempi rapidi o di non riuscire a reggere un ruolo a cui non si è abituati; sentimenti di tristezza, legati alla perdita, graduale e inesorabile della propria identità familiare associati a sentimenti di vuoto, di inutilità e di impotenza; sentimenti di rabbia verso persone e situazioni; risposte di minimizzazione o negazione. La comprensione di tali risposte psicologiche è tesa ad inquadrare i comportamenti che i familiari possono mettere in atto (ad es. il richiedere ripetutamente il ricovero del proprio congiunto o, una volta che il ricovero avvenga, l’insistere che questo prosegua per un tempo indefinito, oppure, ancora il negare la realtà della situazione). Nell’assistenza in cure palliative è necessario che i familiari (o il familiare “chiave”) possano esprimere queste emozioni e le proprie difficoltà all’avvicinarsi della morte del loro caro. Uguale attenzione va posta, particolarmente nell’ambito della medicina generale, alla continuità del supporto alla famiglia dopo la perdita del congiunto. Tutti quanto attiene al tema del lutto che gradualmente viene elaborato e del lutto che non viene elaborato e si complica in disturbi psicologici (ad es. disturbo depressivo, lutto evitato, lutto cronico, reazione da anniversario) e comportamentali (disturbi del comportamento, uso di sostanze) deve essere al centro del percorso di cura che non finisce con la morte del paziente (Casarett et al., 2001). Quanto espressi non deve fare dimenticare che la fase avanzata di malattia riguarda di volta in volta la singola persona e la sua famiglia con la propria storia passata, la propria personalità e le proprie relazioni interne ed esterne. Tutto ciò implica in altre parole la necessità di una conoscenza da parte del team di cure palliative di questi aspetti per potere comprendere il senso specifico delle risposte emozionali e spirituali della persona e della famiglia e per potere individualizzare gli interventi. Un dato importante è quindi che questi siano basati tendendo conto delle risposte psicologiche


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e dei bisogni fisici, emozionali e spirituali della singola persona ammalata e dei suoi familiari (Morasso, 1997). Non va tra l’altro dimenticato che il complesso processo psicologico che sottende la fase avanzata di malattia comporta anche con la frequente presenza di una sintomatologia indicativa di una condizione psicopatologica che è altrettanto importante conoscere (Goy et al, 2003).

Le dimensioni psicopatologiche nella fase avanzata Benché la distinzione tra reazioni psicologiche-spirituali e quadri più marcatamente psichiatrici non sia sempre semplice alla fine della vita, la necessità di un’assistenza intergrata che consideri questi elementi risulta evidentemente fondamentale per garantire la dignità alla fine della vita (Chochinov, 2006; Grassi, 2007; Chochinov, 2000). Tra i quadri principali a questo livello segnaliamo in particolare le condizioni depressive a carattere clinico (inquadrati come sindrome depressiva nell’ICD-10 o disturbo depressivo nel DSM) e gli stati confusionali acuti (inquadrati come delirium nell’ICD-10 nel DSM). Il delirium è un quadro caratterizzato da un’alterazione acuta delle funzioni cognitive e del livello di vigilanza. È una delle più comuni complicazioni neuropsichiatriche nei pazienti in fase avanzata e terminale di malattia, con una prevalenza variabile dall’10% all’80%, quest’ultima in particolare presente negli ultimi giorni di vita (delirium terminale) (Centano et al., 2004). Numerosi sono i fattori eziologici (farmaci, lesioni del SNC, alterazioni metaboliche e idro-elettrolitiche) che spesso interagendo tra loro comportano una disfunzione delle strutture cerebrali responsabili del mantenimento dello stato di veglia (formazione reticolare mesencefalica). Disfunzioni del sistema colinergico e dopaminergico agiscono a questo livello. Sul piano sintomatologico, il delirium, si presenta come quadro polimorfo e dipendente nella sua espressione dalla gravità, caratterizzandosi per 1) l’esordio in genere acuto e conclamato con alterazione dello stato di coscienza e difficoltà a mantenere l’attenzione, 2) disturbi cognitivi, dell’orientamento (in ordine disorientamento nel tempo, nello spazio e, meno frequentemente, nel sé), della memoria (soprattutto per gli avvenimenti recenti, ma nella fase conclamata anche per gli eventi passati) e del linguaggio (frasi ripetute, lunghe pause, confabulazione, parole “passepartout”, incapacità a denominare gli oggetti e a sostenere la coerenza del ragionamento). A questi elementi si possono associare 3) disturbi della percezione (illusioni e allucinazioni, specie visive), dell’ideazione (in genere temi deliranti o paradeliranti a sfondo persecutorio) e dell’affettività (angoscia, paura, ansia, disforia, agitazione, irritabilità, tristezza). Sul piano fenomenologico-clinico, si distingue una forma ipoattiva-rallentata (riduzione


106 Manuale sulle cure palliative

del livello di coscienza o letargia), una forma iperattiva-agitata (alterazioni marcate del comportamento, ricca “produzione” sintomatologica, associata a disturbi della percezione e del pensiero) e una forma mista (la più frequente). Nelle fasi terminali di malattia, lo stato confusionale rappresenta un evento frequente con sintomi persistenti che precedono la morte (delirium terminale). Il trattamento del delirium comprende interventi diretti al controllo del sintomo e interventi etiologici. Questo si basa sulla rimozione delle possibili cause del delirium (ad es. idratazione, correzione squilibri elettrolitici, ipossia, stati infettivi, sospensione farmaci non essenziali o sostituzione), su un controllo ambientale e comportamentale (ambiente tranquillo, supporto familiare) e su un’appropriata terapia farmacologia (prevalentemente aloperidolo, antipsicotici atipici) (Caraceni e Grassi, 2011). I disturbi affettivi rappresentano una seconda area estremamente importante della psichiatria in medicina palliativa per la loro frequenza (25-30% dei pazienti con patologie mediche in fase avanzata). La tristezza, la demoralizzazione, la paura per il futuro vanno certamente distinti dai quadri depressivi clinicamente significativi in cui i sintomi sono più intensi e più duraturi e comportano una marcata sofferenza del paziente. Diverse sono le cause dei disturbi depressivi tra cui quelle biologiche (alcuni tipi di tumore, citokine pro-infiammatorie, antibiotici, interferone, interleuchina, cortisonici, dolore non trattato). Una positività anamnestica sia familiare sia psicopatologica individuale, la presenza di un disturbo della personalità ed eventi stressanti multipli possono favorire la comparsa di quadri depressivi (Chochinov et al, 2006) Sul piano clinico i disturbi depressivi si caratterizzano per alcuni sintomi che li differenziano dagli stati di demoralizzazione. Un punto importante da considerare sul piano diagnostico riguarda la necessità di basarsi sui sintomi della serie affettiva (perdita dell’interesse, senso di disperazione, visione negativa di sé e del passato, sentimenti di colpa, perdita dell’autostima) rispetto ai sintomi della sfera somatica (dolore, perdita di peso, perdita dell’appetito, disturbi della concentrazione). Interventi di tipo psicologico (counselling, psicoterapia focalizzata sul significato e sulla dignità) (Breitbart et al., 2004; Chochinov et al., 2005) e farmacologico (in particolare inibitori del re-uptake della serotonina (SSRIs) (Miller et al., 2006) rappresentano gli strumenti necessari a questo livello. Ulteriori informazioni sull’assistenza psicosociale nella fase avanzata della malattia e sulle diverse problematiche che è necessario affrontare (comunicazione, tematiche etiche, disturbi psichiatrici, problematiche familiari, cure palliative) sono disponibili nel core-curriculum multilingue della International Psycho-Oncology Society e della European School of Oncology, adattato in italiano dalla Società Italiana di Psicooncologia (www.siponazionale.it).


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Esemplificazione clinica La paziente è una donna di 54 anni che, da quando è malata, vive in casa con la anziana madre. Non si è mai sposata e non ha figli. Ha sempre lavorato in un’altra città in una residenza protetta. È stato colpita da un anno da adenocarcinoma dell’ovaio diagnosticato in stadio avanzato. Non ha potuto essere sottoposta ad intervento chirurgico, ha avuto marcati effetti collaterali alla chemioterapia, che è stata sospesa, ed è ora ricoverata in hospice. Viene richiesta una valutazione per uno stato depressivo clinicamente significativo. Al colloquio la signora è parzialmente disponibile a parlare di sé, è informata della diagnosi ma appare poco consapevole della propria situazione. Riporta sentimenti di colpa essenzialmente legati all’impossibilità ad andare a lavorare e ad essere di aiuto per le persone della residenza che hanno bisogno di lei e a cui ha dedicato molti anni della sua vita. Si approfondiscono alcuni aspetti della situazione attuale (difficoltà e preoccupazioni presenti, paure) e del passato (storia personale, valori di vita), definendo lo spazio per una relazione d’aiuto e di alcuni altri colloqui, che la signora accetta, non emergendo elementi indicativi di una necessità di un intervento psicofarmacologico. Negli incontri emerge un dato sconosciuto a tutti: la signora ha adottato a distanza da tempo alcuni bambini di una missione africana ed è in contatto con loro per via epistolare. Il senso dell’impegno e della pre-occupazione per gli altri (inclusi gli ospiti della residenza protetta in cui lavorava) rappresenta un elemento chiave della storia della paziente, fonte di inadeguatezza ora , viste le condizioni mediche, ma al contempo di grande profondità sul piano spirituale e dei valori interiori. Nel corso dei colloqui lo stato di demoralizzazione si riduce e alcuni eventi significativi (una telefonata da parte dei colleghi della struttura protetta, un breve dialogo telefonico con alcuni degli ospiti, una inaspettata visita presso l’hospice di operatori e degli stessi ospiti della struttura) diventano elementi importanti per cogliere il senso di quanto fatto nel corso degli anni e della possibilità ora di ricevere aiuto a sua volta, data la situazione di malattia. La consapevolezza della condizione medica viene gradualmente affrontata e la paziente riesce ad accettare quanto il futuro potrà presentarle, mantenendo un livello si speranza non solo rivolta alla guarigione (impossibile) ma alla testimonianza che ha dato nel corso della sua esistenza attraverso il suo lavoro e il suo impegno. Riesce a contattare un’amica alla quale parla a lungo dei bambini della missione africana adottati a distanza, chiedendole di proseguire nel cammino di sostegno nel futuro.


108 Manuale sulle cure palliative Tab. 1 - I principali bisogni del paziente (da Grassi, Biondi, Costantini, 2003) Bisogni fisiologici

Bisogni di sicurezza

Attenzione ai bisogni Non sentirsi di base (es. Alimenta- abbandonati zione, sonno) Non sentirsi Riduzione dei sinto- ingannati mi e della sofferenza (es. dolore, dispnea) Percezione di un’assistenza fattiva Interventi su riduzione della mobilità e Percezione di attenzione rispetto della performance alle proprie difficoltà

Bisogno di appartenenza

Bisogno di autostima

Percepirsi in rapporto Sentirsi apprezzato con gli altri Poter mantenere il Mantenere la proprio ruolo comunicazione Poter intervenire nei Poter esprimere i processi decisionali propri pensieri ed (es. terapie, luoghi emozioni di cura)

Bisogno di autorealizzazione Poter esprimere le proprie progettualità (es. il futuro, le ultime disposizioni) Rivalutare il senso della propria esistenza

Raccomandazioni di pratica clinica • Tenere in considerazione i bisogni del paziente e della famiglia che devono essere ascoltati e soddisfatti. • Essere attenti e comprendere le reazioni emozionali, gli atteggiamenti e i comportamenti che i familiari (o il famigliare chiave) mettono in atto come preparazione alla perdita del proprio congiunto. • Valutare se dopo la morte del congiunto il lutto viene elaborato o meno e individuare la comparsa di eventuali disturbi psicologici.

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Reazioni psicologiche in fase avanzata

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3.6 L’informazione al paziente terminale e alla sua famiglia. Aspetti psicologici, giuridici e deontologici Anna Costantini, Luigi Grassi

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La comunicazione medico paziente in situazioni difficili costituisce un’abilità clinica centrale in oncologia e di fatto uno dei compiti più frequenti per un clinico. È stato calcolato che nel corso della propria carriera un oncologo medico dà informazioni non favorevoli migliaia di volte; un medico ospedaliero con 40 anni di attività farebbe tra i 150.000 e i 200.000 “colloqui difficili” con pazienti e familiari. Per colloqui difficili si intendono colloqui in cui devono essere date quelle che sono state definite da Buckman (1992)“cattive notizie”: informazioni che colpiscono in modo grave e negativo la visione del futuro di un individuo. Tra queste le più critiche in oncologia sono considerate la comunicazione della diagnosi o di recidiva, il fallimento terapeutico, la prognosi infausta, gli effetti collaterali irreversibili, il passaggio alla terapia palliative, possibili discussioni sul testamento biologico, la comunicazione ai familiari del peggioramento improvviso o della morte imminente del loro congiunto malato. L’importanza della comunicazione è stata sottolineata da numerose iniziative negli Stati Uniti quali ad esempio quella del National Cancer Institute che ha designato la comunicazione in Oncologia un’area di “straordinaria opportunità scientifica” e l’American Society of Clinical Oncology che ha incluso “Breaking bad news” nel suo Supportive Care Curriculum. Il National Comprehensive Cancer Network ha sviluppato “Linee guida sulla comunicazione di cattive notizie” e l’Institute of Medicine nel suo report “Improving palliative care for cancer” ha nominato la comunicazione come una “core clinical skill”. Oggi, in diversi Paesi europei quali ad esempio l’Inghilterra, il Belgio, la Svizzera esistono programmi formativi specifici per medici ed infermieri del Servizio Sanitario che iniziano a lavorare in Strutture oncologiche. Nonostante l’importanza e i benefici misurabili di una buona capacità di comunicare su argomenti critici molti medici non hanno di fatto adeguate abilità comunicative. L’insegnamento delle abilità comunicative non costituisce una materia inserita ufficialmente nel curriculum formativo in medicina. In Italia solo di recente alcune Facoltà di Medicina (La Sapienza di Roma e le Università di Milano, Torino, Ferrara), grazie a collaborazioni personali positive e fruttuose tra oncologi, psiconcologi e chirurghi, hanno introdotto l’insegnamento delle abilità


L’informazione al paziente terminale e alla sua famiglia

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comunicative in Oncologia. Particolare interesse rivestono a tale riguardo esperienze di adattamento alla nostra cultura di training sulle Communication Skills, basati sulle evidenze, di provenienza anglosassone. Tra questi il modello Oncotalk per comunicare cattive notizie, finanziato negli USA dal National Cancer Institute, e introdotto da Costantini e al si è dimostrato efficace nel migliorare abilità ed attitudini sia di medici con oltre vent’anni di esperienza clinica, sia di giovani specializzandi in formazione.

Dagli aspetti deontologici e giuridici alla pratica clinica Alla base del diritto/dovere all’informazione e all’esercizio dell’autodeterminazione esistono solidi fondamenti giuridici e deontologici quali nello specifico: • l’art. 2, 13 e 32 della Carta costituzionale italiana; • la L. 28 marzo 2001 n.145 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa dell’aprile 1997 per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (“Art. 5 - ” Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia prestato un consenso libero e informato. Questa persona riceve preventivamente un’informazione adeguata riguardo sia allo scopo e alla natura dell’intervento, che alle sue conseguenze e ai suoi rischi. La persona a cui è diretto l’intervento può in ogni momento ritirare liberamente il proprio consenso”); • la legge 31/12/1996, n. 675 sulla tutela della Privacy e sue successive integrazioni, il Codice deontologico del medico 2006 (10) , in particolare il Capo IV Informazione e consenso: art 33 Informazione al cittadino (“Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta…”, art 34 Informazione a terzi (L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all’Articolo 10 e 12, allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri. In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili., art 35 Acquisizione del consenso (Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si


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renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’Articolo 33 In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona……)., art 38 Autonomia del cittadino e direttive anticipate (“Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa. Il medico se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”); • la Dichiarazione Congiunta sui Diritti dei Malati di Cancro approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale della European Cancer Leagues nel giugno 2002 a Oslo (“Art VI Diritto all’informazione all’informazione: 4.1. Il malato di cancro ha diritto ad essere compiutamente informato sulle proprie condizioni di salute, incluse le implicazioni mediche; sulle procedure mediche consigliate, con riferimento anche ai potenziali rischi e benefici di ognuna; sulle eventuali alternative alle prescrizioni proposte, inclusi gli effetti dell’assenza di trattamento, nonché su diagnosi, prognosi e decorso del trattamento”); • le richieste di autodeterminazione della European Cancer Patient Coalition esemplificate nel motto “Nothing about us without us” (nessuna decisione su di noi senza di noi) ripreso come uno dei fondamenti etici alla base degli ultimi Piani Sanitari Nazionali. A tali riferimenti si aggiungono i recenti orientamenti giurisprudenziali ( ne è solo un esempio la sentenza della Cassazione Civile n. 7027 del 23.05.2001 in cui si specifica come l’informazione “non può provenire che dal sanitario che deve prestare la sua attività professionale. Tale consenso implica la piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative…”; e la Sentenza del Tribunale di Venezia n.13 dicembre 2004 in cui la struttura ospedaliera è responsabile in solido con i medici di un paziente che non è stato informato dello stato della patologia tumorale in quanto “nell’ambito del contratto di spedalità rientrano, oltre le prestazioni di diagnosi e cura, anche tutta una serie di prestazioni ulteriori, fra cui quella di raccogliere il consenso del paziente e, quindi, quella di fornire a quest’ultimo un ampio bagaglio informativo, parametrato anche in relazione alle capacità dello stesso, al fine di poter decidere consapevolmente in ordine ai trattamenti”). Nonostante tali precisi vincoli giuridici e deontologici il comportamento dei medici italiani risulta ancora ancorato all’idea di nascondere la verità per proteggere il malato e alla convinzione che il paziente in fondo non desideri essere informato. La conseguenza di tale atteggiamento è che la consapevolezza di malattia nei pazienti


L’informazione al paziente terminale e alla sua famiglia

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oncologici con cancro avanzato è ancora scarsa e sui familiari ricade ancora spesso il peso di comunicare la situazione al loro congiunto malato. Indagini effettuate su pazienti con cancro avanzato indicano come la consapevolezza della propria condizione clinica non sia migliorata dal ‘90 ad oggi. La maggioranza di pazienti in fase avanzata non è consapevole di avere una malattia “difficilmente curabile” o non è stato informato di effettuare una “chemioterapia a scopo solo palliativo e non curativo”. Una indagine di Costantini e al. su 1271 caregivers di pazienti italiani deceduti per cancro nel 2002 rappresentativi dei circa 160.000 morti per cancro annuali, ha evidenziato che solo il 37% dei pazienti deceduti aveva ricevuto l’informazione circa la diagnosi, e solo il 13% l’informazione sulla prognosi sfavorevole. Una consistente percentuale di pazienti, anche se non informati, conoscevano la loro diagnosi (29%) e la prognosi sfavorevole (50%). Gli AA. hanno inoltre osservato che la probabilità di essere informato era maggiore per pazienti nel Nord Italia, giovani, con livello scolarità più elevato, con sopravvivenza più lunga, con cancro mammario e del distretto testa/collo). Un precedente studio dell’Italian Group for Evaluation of Outcome in Oncology nel 1999 su 2088 pazienti con cancro in fase avanzata ha dimostrato risultati simili: oltre la metà di essi aveva una scarsa consapevolezza di malattia. Il 53% degli intervistati pensava di avere una “malattia non grave” e solo il 26% era consapevole che fosse una malattia “difficilmente curabile”. Costantini e al in uno studio del 1992 su 80 pazienti del centro Italia con cancro polmonare metastatico da inviare in terapia palliativa domiciliare, hanno osservato come solo il 17.6% avessero ricevuto dal medico la comunicazione della diagnosi, anche se nel 75% dei casi secondo i familiari “avevano capito” la loro condizione. Pronzato e al riportano come su 100 pazienti con cancro in fase avanzata 62 pensavano di avere una neoplasia benigna o una malattia non neoplastica e degli 87 in chemioterapia solo l’11% aveva una percezione corretta dell’intento palliativo, mentre l’87% credeva di fare una “terapia preventiva”. Studi sulle attitudini dei medici italiani confermano in modo speculare tale situazione. I risultati di uno studio di Tamburini e al del 1988 riportano come circa il 90% dei medici era solito discutere prima - con un familiare - che cosa comunicare al malato di cancro. La metà dei medici intervistati era dell’opinione che il malato avrebbe potuto subire un irreversibile shock psicologico se avesse saputo che il suo cancro era incurabile e soltanto un terzo riteneva che i malati in fase terminale dovessero essere informati. Grassi e al in una indagine su un campione di 675 medici del Nord Italia rilevano come tali attitudini siano ancora radicate: solo il 25.4% dei sanitari “comunica sempre la diagnosi di cancro” e l’85% di essi si trova a gestire i familiari che chiedono di non dire la verità al paziente. Alla base della evidente difficoltà di rendere operative le indicazioni di legge e del codice deontologico sono ipotizzabili vari fattori, molti di questi certamente inerenti aspetti profondi connessi alla nostra cultura mediterranea, la paura di distruggere la speranza, la incapacità di gestire le reazioni emozionali, e non ultimo per importanza


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la mancanza di training (40%). In un’ indagine ASCO (American Society of Clinical Oncology) su 700 oncologi di tutto il mondo la maggioranza degli intervistati riferisce di non avere in mente un piano per sostenere un colloquio in cui sono previste notizie infauste. Nell’indagine citata su 675 medici del Nord Italia l’86% desidererebbe avere linee guida su come dare “cattive notizie”. Tale carenza nella tecnica del colloquio aumenta di fatto la natura stressante del compito. Molti dei medici intervistati hanno imparato “sul campo” a comunicare con pazienti e familiari su argomenti critici da colleghi più anziani ma tale modalità di apprendimento non è considerata ottimale. Indagini empiriche hanno dimostrato infatti che la sola anzianità di ruolo non migliora di fatto le strategie di comunicazione e gli “anziani” continuerebbero ad esempio ad utilizzare comportamenti “di blocco” che non favoriscono l’espressione dei problemi da parte dei pazienti.

La comunicazione nella fase avanzata e terminale di malattia Gli aspetti relativi alla comunicazione nella fasi avanzate della malattia rappresenta sicuramente un aspetto centrale delle cure palliative. Alcuni elementi chiave nel processo comunicativo sono stati ripetutamente delineati da Baile et al. e Buckman che hanno messo a punto un modello utile sul piano formativo, oltre che clinico, definito Spikes. Alcune variabili costituiscono i cardini del processo comunicativo in generale e nelle cure palliative in particolare. In particolare è necessario definire: • il luogo (avere uno spazio tranquillo che assicuri la privatezza, garantire che non vi siano interruzioni); • il tempo (stabilire il momento più adeguato per il paziente, definire un tempo congruo con quanto si deve comunicare, non avere fretta, dare una cornice temporale per l’incontro, offrendo ulteriori momenti di incontro); • la struttura (comunicare vis-a-vis, mantenere il contatto visivo, eliminare barriere fisiche, permettere il contatto fisico - se non imbarazzante per il paziente, stabilire col paziente l’utilità di avere figure di riferimento presenti - coniuge, familiari stretti, amici intimi). Diverse sono poi le abilità che si pongono durante la comunicazione, sintetizzabili in alcuni punti, specificamente: • valutare cosa il paziente ha compreso della propria situazione e cosa desidera sapere (fare attenzione a discrepanze possibili tra informazioni ricevute e consapevolezza attuale; rispettare il desiderio del paziente a non voler sapere, se è il caso); • dare “informazione segnale”, quindi le informazioni specifiche in maniera graduale; • incoraggiare il paziente ad esprimere le proprie emozioni e dare spazio alle domande e valutare frequentemente cosa il paziente ha capito;


L’informazione al paziente terminale e alla sua famiglia

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• proporre intervento, mantenendo aperte le speranze e verificando l’accordo del paziente e l’alleanza terapeutica; • riassumere la strategia di intervento e dare informazioni sulle opportunità di ricevere aiuto e mantenere la continuità terapeutica. Un punto centrale a questo proposito è dato dalla capacità di mantenere la speranza, riuscendo ad uscire dall’impasse che veda la speranza unicamente legata alla guarigione (quindi impossibile se la guarigione è impossibile). È necessario dunque riformulare il senso della speranza in termini più ampi (ad es., la speranza di non essere abbandonati, la speranza che i propri cari potranno vivere felici, la speranza di mantenere la dignità, la speranza di lasciare valori in eredità alla propria famiglia) e, all’interno del percorso comunicativo, mettere a fuoco e cogliere quegli elementi che riducono i sentimenti di disperazione. È dimostrato infatti che percepire di essere svalutati e di essere solo un peso per gli altri, percepire di essere stati abbandonati e traditi (congiura del silenzio), percepire che l’équipe non ha obiettivi o che vi è conflitto tra i suoi membri, cogliere che i propri sintomi non sono adeguatamente presi in considerazione, sono fattori di disperazione. La spiritualità, intesa non unicamente come fede e credo religioso, ma come insieme di valori individuali e trascendenti, risulta estremamente importante nella relazione di aiuto e nella comunicazione in cure palliative. Tutto quanto attiene all’atteggiamento (dimostrare di aver colto la preoccupazione del paziente e rispondere in maniera empatica, trasmettere calore e rispetto, non assumere atteggiamenti di giudizio, garantire di non abbandonare il paziente), al linguaggio (linguaggio semplice e diretto, scegliendo i termini più appropriati, evitando il gergo medico e gli eufemismi) e le modalità (seguire e rispettare il passo e il ritmo del paziente e dei familiari), nonché il monitoraggio del proprio stato emozionale e dello stati emozionale dell’équipe rappresentano ulteriori elementi del percorso comunicativo. Ulteriori informazioni sul tema della comunicazione nella fase avanzata della malattia e sulle diverse problematiche che è necessario affrontare (comunicazione, tematiche etiche, disturbi psichiatrici, problematiche familiari, cure palliative) sono disponibili nel core-curriculum multilingue della International Psycho-Oncology Society e della European School of oncology, adattato in italiano dalla Società Italiana di Psico-oncologia (www.siponazionale.it).

Raccomandazioni di pratica clinica • Non lasciarsi condizionare dai parenti nella cattive notizie. • Dare sempre una prospettiva di speranza ai pazienti affetti da malattia inguaribile.


116 Manuale sulle cure palliative

Bibliografia 1. Fallowfield L., Lipkin M., Hall A., “Teaching senior oncologist coomunication skills: results from phase I of a comprehensive longitudidal program in the United Kingdom”, J Clin Oncol 1998; 16:1961 - 1961. 2. Fallowfield L., Jenkins V., Farewell V., Saul J., Duffy A., Eves R., “ Efficacy of a cancer research UK communication skills training model for oncologist: a randomised controlled trial”, Lancet 2002; 359:650 -656 3). 3. Back AL., Arnold RM., Tulsky JA., Baile W., Fryer - Edwards KA., “Teaching communication skills to medicaal oncology fellows”, J Clin Oncol 2003; 21: 2433 - 364). 4. Razavi D., Merckaert I., Marchal S., Libert Y., Conradt S. et al., “How to optimize phisicians’ communication skills in cancer care : results of a randomized study assessing the usefulness of posttraining consolidation workshop”, J Clin Oncol 2003; 21: 3141 – 31495). 5. Parle M., Maguire P., Heaves C., “ The development of a training model to improve health professionals’ skills,self efficacy and outcome expectancies when communicating with cancer patients”, Soc Sci med 1997; 44: 231 - 2406). 6. Baile W., Buckman R., Lenzi R., Glober G., Beale EA., Kudelka AP., “ Spikes a six step protocol for delivering bad news: application to the patient with cancer”, The Ocologist 2000; 5: 302 - 3117). 7. Marinelli A., Costantini A., Relazione medico-paziente e consenso informato, In Bianco AR a cura di Manuale di Oncologia Clinica McGraw-Hill Milano 2007). 8. Costantini A., Baile W., Lenzi R., Grassi L., “ Teaching communication skills to senior oncologists”, Rapid responses to Kidd J, Patel V, Peile E., Carter Y. (Editorial) Clinical and communication skills. British Medical Journal, 330: 374-375, 2005.9). 9. La Comunicazione con il paziente e la famiglia. In Grassi L., Biondi M., Costantini A. Manuale pratico di Psiconcologia. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2003. 10.Codice di Deontologia Medica 2006. In Bollettino dell’Ordine Provinciale di Roma dei medici Chirurghi e degli Odontoiatri. Anno 59 n° 1-2007. 11. Costantini M , Morasso G2, Montella M ,Borgia P 4, Cecioni R 5,Beccaro M, Sguazzotti E, Bruzzi P, on behalf of the ‘ISDOC Study Group’.,” Diagnosis and prognosis disclosure among cancer patients. Results from an Italian mortality follow-back survey”, Ann Oncol 2006;17:853-859. 12. Ruggeri B., Cortesi E. e al., “ Awareness of disease among Italian cancer patients: is there a need for improvement in patient information?”, The Italian Group for the Evaluation of Outcome in Oncology (IGEO) Ann Oncol 1999; 10:1095-1100. 13. Costantini A., De Marinis F., Noseda M.A., Fusillo L., Pallotta G.: “La famiglia del paziente con cancro polmonare: indagine psicologica preliminare all’istituzione di un servizio di assistenza domiciliare” Annali del Forlanini,3,276-282,1992. 14. Pronzato P., Bertelli G., Losardo P., Landucci M. ,” What do advanced cancer patients know of their disease?”, A report from Italy. Support Care Cancer 1994; 2: 242-244.


CAPITOLO 11

Problemi medici e infermieristici 11.1 Cateteri venosi centrali (CVC) Lucio Cinquesanti, Marzia Salsapariglia © Copyright Edicare Publishing

I cateteri venosi centrali (CVC), o accessi venosi centrali, sono dei presidi di lunghezza diversa costruiti in materiale plastico bio-compatibile come il silicone, il poliuretano o il PVC, aventi l’estremità a punta aperta, o valvolata, a uno o più lumi. Questi presidi, consentendo un accesso al sistema venoso centrale, rispondono alla necessità di infondere per via endovenosa terapie con sostanze che potrebbero essere dannose nei confronti dell’endotelio se introdotte in vene di piccolo calibro, avendo la garanzia di mantenere un accesso venoso stabile e sicuro nel tempo per poter infondere, in tempi anche prolungati ed a infusione continua o a bolo, non solo chemioterapici ma anche terapia di supporto, quale l’ idratazione, e quando necessario farmaci per sedazione palliativa, rispettando uno dei principi fondamentali delle cure palliative, ridurre al minimo le manovre invasive e dolorose per i pazienti. Tra le sostanze che si possono infondere con i CVC, ricordiamo: 1. farmaci; 2. chemioterapici vescicanti; 3. nutrizione parenterale iperosmolare; 4. sostanze a pH acido o basico. Il loro posizionamento, inoltre, viene richiesto quando il paziente, pur necessitando di infusioni, non dispone di accessi periferici. Il loro utilizzo può avvenire sia ambiente ospedaliero che in hospice, o a domicilio. Diversi sono i CVC in commercio, ciò permette, dopo una corretta programmazione medico-infermieristica, una ampia scelta del presidio da utilizzare. Il criterio della scelta del tipo di CVC si basa su: • uso in ambiente ospedaliero in modo continuo - breve termine; • uso a domicilio o in day hospital con un uso discontinuo - medio-lungo termine; • sostanze da infondere; • caratteristiche del paziente e della patologia correlata. Il sito d’impianto può essere centrale o periferico (PICC) ed il necessario per l’impianto è normalmente contenuto in un Kit costituito da: catetere, ago, guida metallica, introduttore e tunnellizzatore (Fig. 1).


Cateteri venosi centrali

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Può essere posizionato da un infermiere adeguatamente addestrato, anche a domicilio, ed il loro impianto necessita della pervietà delle vene brachiali. Anche per i PICC dopo il posizionamento bisogna controllare la corretta posizione della punta tramite Rx toracico. Un accenno meritano i cateteri Midline. Tali cateteri, a punta aperta, vengono inseriti nelle vene del braccio per mezzo di venipuntura percutanea ecoguidata; avendo una lunghezza compresa tra i 20-30 cm e non raggiungendo la cava superiore rimangono in ascellare o in succlavia, per tale motivo non sono da annoverare tra i CVC ma vengano considerati sistemi venosi periferici e non permettono l’infusione di sostanze ipertoniche o vescicanti. Permettono un uso discontinuo e sono molto ben gestibili anche a domicilio. La loro durata è inferiore a quella dei Picc, ma superiore a quello di un agocannula. Questi presidi possono essere inseriti in una vena presente e visibile al gomito o, sotto guida eco-guidata, in una vena distante da tale articolazione riducendo, in tal modo, le complicanze causate da traumi indiretti dovuti ai movimenti del braccio. Quale lato scegliere È importante, prima del posizionamento di qualsiasi CVC, scegliere il lato sul quale impiantarlo valutando il tipo di patologia del paziente, pregressi posizionamenti di CVC, preferenze del paziente, sue abitudini ecc.

Complicanze Le manovre di posizionamento dei CVC possono essere gravate da complicanze che, su base cronologica, possono essere distinte in: • immediate; • precoci; • tardive. Le complicanze legate alla gestione o alla compliance del paziente si distinguono in: • infettive; • meccaniche. Le complicanze infettive possono essere distinte in locali, e/o generalizzate. I segni ed i sintomi delle infezioni locali, eritema cutaneo e/o essudato, sono da ricercarsi sia nel punto di uscita del catetere, sia sulla cute al di sopra del tunnel. Il sintomo principe nelle infezioni generalizzate rimane la febbre con brivido, insorgente da una a due ore dopo il posizionamento o l’uso del CVC. La batteriemia può essere correlata al sistema di infusione o al CVC stesso. Una cultura del liquido di infusione e del sangue prelevato ci permettono di individuare il microrganismo, batterio o miceto, responsabile della setticemia. L’esame culturale dovrà


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essere eseguito sia sul sangue che sulla punta del CVC, che sul sangue e sulla cute sede di emersione del CVC. Le complicanze meccaniche possono sorgere in conseguenza a: 1. occlusione del CVC per trombosi intra catetere o trombosi venosa; 2. stravaso a causa della rottura del CVC, o del dislocamento dell’ago di Huber; 3. mal posizionamento del CVC con migrazione della punta; 4. Sindrome del Pinch-off, compressione del catetere tra la I° costola e la clavicola, quando posizionato in succlavia per via per cutanea.

Raccomandazioni di pratica clinica • Conoscere le caratteristiche dei vari cateteri per poter intervenire in caso di bisogno. • Controllare periodicamente il catetere e la zona circostante per rilevare eventuali infezioni o anomalie. • Consultare il centro di riferimento per problemi non risolvibili a domicilio.

Bibliografia 1. Pittiruti M. , Accessi venosi centrali a medio/lungo termine: classificazione e caratteristiche tecniche, CNR-IASI Sez. Fisiopatologia dello Shock Università Cattolica, Roma. 2. Treiman GS, Silberman H., “ Chronic venous access in patients with cancer. Selective use of the saphenous vein”, . Cancer 1993; 72(3): 760-5. 3. D’Angelo FA, Ramacciato G, Aurello P et al., “ Alternative insertion sites for permanent central venous access devices”, Eur J Surg Oncol 1997; 23(6): 547-9. 4. Agresti M., Gli Accessi Venosi Centrali a lungo termine: indicazioni, scelta e Gestione del sistema, Bard, luglio 2000. 5. Campisi C., Pittiruti M., Gruppo CAVeCeLT, Gli Accessi Venosi Centrali A LungoTermine: Indicazione, Impianto e Gestione , CD Rom - Bard Roma, 2000. 6. Manuale Bard., Uso e manipolazione dei cateteri per accesso vascolare. 7. Hickman, Broviac e Leonard, Guida per l’infermiere, Prima edizione giugno’93 e successive revisioni. 8. Casaro S. e al., Guida all’uso del catetere venoso centrale a lungo termine in oncoematologia pediatrica. Azienda Ospedaliera di Padova. 9. Marchetti P. et al., Linee guida per la prevenzione delle infezioni, la gestione dei dispositivi e delle linee di infusion, . Revisione della letteratura: dalla linee guida dei CDC di Atlanta ad oggi. - Atti


Cateteri venosi centrali

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del Congresso Nazionale Aniarti, 1998. 10. De Cicco M., La trombosi venosa da cateteri centrali long-term, Atti I Congresso Nazionale Gavecelt. Roma, aprile 1998. 11. Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Linee guida per la prevenzione delle infezioni associate a catetere intravascolare, Giornale Italiano delle infezioni ospedaliere 2002;9:110-37. 12. Procedure, protocolli, linee guida di assistenza infermieristica, C. Spairani, T. Lavalle, ed Masson . 13. Royal College of Nursing, “Standards for infusion therapy. Royal College of Nursing 2005”, 14.Anderson N.R. Midline catheters. J Infus Nurs 2004 Sept-Oct; 27 (5):313-321. 15. Hawer ML., “A proactive approach to combating venous depletion in the hospital setting”, J Infus Nurs 2007 January/February;30(1):33-44. 16. Ianbeck P, Oldenholt I, Paulsen O. , “Perception of risk factors for infusion phlebitis among Swedish Nurse”, J Infus Nurs 2004; 27(1):25- 30. 17. Kathryn A, Smith Higuchi, “ Development of an evaluation tool for a clinical practice guideline on nursing assessment and device selection for vascular access”, Supplied Br Libr J 2007;30(1):45-53. 18. Registered Nurses Association of Ontario, Nursing Best Practice Guideline, Assessment and device selection for vascular access. Toronto, Ontario: registered nurses association of Ontario: hptt://www.rnao.org/ 2004. 19. US Centers for Disease Control and Prevention, Guideline for the prevention of intravascular catheter-related infections(MMWR: 2002- 733-100), Washington, DC: CDC; 20022000;23:1-72.


12.2 Urgenze e emergenze varie Marzia Salsapariglia, Giovanni B. D’Errico © Copyright Edicare Publishing

Chi si occupa di cure palliative e si accinge ad affrontare le emergenze che si possono incontrare nell’accompagnamento del paziente in fase avanzata di malattia, deve assumersi una grande responsabilità etica cercando di soddisfarne tutti i principi, ordinandoli secondo criteri di priorità individuale e soggettiva per raggiungere, come ultimo fine, il miglior bene per il paziente. Ricordiamo, innanzitutto, i quattro principi dell’ etica principalistica: l’autonomia del paziente (che impone il rispetto per l’autodeterminazione del malato), la beneficialità (che impone di fare il bene del malato), la non maleficialità (che impone il non fare il male del malato) e la giustizia (che, nella versione distributiva, impone il promuovere un equo accesso alle cure ed un’equa distribuzione delle limitate risorse). Negli ultimi anni, nuovi studi di bioetica hanno portato a fondare altre teorie più specifiche di quella principalistica quali: l’etica della qualità di vita e l’etica della sacralità della vita. La prima contempla sia una versione deontologica, (moralità delle azioni in base al rispetto del dovere di rispettare la qualità ella vita) che una versione consequenzialista ( moralità delle azioni in base alla conseguenze prodotte sulla qualità di vita), entrambe caratterizzate dall’assenza di doveri assoluti. Risulta fondamentale come, in merito alla qualità della vita, debba essere rispettata la volontà del malato essendo valido solo il giudizio espresso autonomamente dall’interessato. Il bene migliore dell’ammalato viene raggiunto rispettando il principio etico di autonomia, che vede tre momenti fondamentali: il consenso informato, le direttive anticipate, il giudizio sostitutivo. L’etica della sacralità della vita è, al contrario, caratterizzata dal divieto assoluto di interferire sul finalismo della vita umana e per questo viene anche denominata etica della indisponibilità della vita. In questo caso il principio di beneficità, al contrario dell’etica della qualità della vita, prevale su quello dell’autonomia essendo la vita indisponibile.

I sintomi L’avanzare della malattia ed il progressivo aggravamento del paziente ci obbligano a modificare continuamente l’approccio terapeutico, eliminando tutte le terapie


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e/o indagini diagnostiche che non siano, unicamente, finalizzate al sintomo e al miglioramento della qualità della vita e del morire. Una particolare attenzione va posta al sintomo stesso, che può presentarsi come: • sintomo difficile, comunque trattabile in tempo breve con terapie tradizionali; • sintomo intrattabile o refrattario, che nonostante le terapie tradizionali non recede. Secondo una definizione riconosciuta a livello internazionale, si definisce sintomo refrattario “un sintomo che non è controllato in modo adeguato, malgrado sforzi tesi a identificare un trattamento che sia tollerabile, efficace, praticato da un esperto e che non comprometta lo stato di coscienza”. Tra i sintomi refrattari, che possono portare ad una morte imminente ed essere considerati delle vere urgenze, ricordiamo: • la dispnea ingravescente nel paziente lucido, accompagnata da una grossa carica di angoscia e da una percezione di morte per soffocamento; • i sanguinamenti massivi, non più aggredibili chirurgicamente o con altre terapie, soprattutto quando sono sanguinamenti esterni, visibili dal paziente, in uno stato di piena consapevolezza. In entrambi i casi, la sedazione palliativa deve essere presa in considerazione come trattamento di emergenza ed unico trattamento per evitare la sofferenza fisica e psicologica del morente di fronte ad un evento drammatico che evolve verso l’exitus. Altri sintomi, anche se non causa di morte imminente ma non rispondenti alla terapia, possono creare grande sofferenza fisica e psicologica al paziente, anche in questi casi può essere posta indicazione per una sedazione palliativa come unico trattamento possibile. Tra questi sintomi ricordiamo, il delirio, il rantolo terminale, la nausea ed il vomito incoercibile, il dolore refrattario, distress psicologico, il dolore totale. Per sedazione palliativa viene intesa “la riduzione intenzionale della vigilanza, con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo altrimenti intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo che risulta, quindi, refrattario” e collegato alla fase finale della vita, con percentuali differenti a secondo dei diversi luoghi di cura, (ospedale, hospice, assistenza domiciliare), aree geografiche e cultura.” La durata della sedazione ha una media di 2.8 giorni e, da una recente revisione, il tempo di sopravvivenza dei pazienti sedati non si differenzia da quelli non sedati. Al contrario, se il tempo della sedazione supera la settimana, i pazienti sedati hanno dimostrato una sopravvivenza maggiore. Sotto l’aspetto etico, nelle cure palliative di fine vita, la giustificazione ad una sedazione palliativa la troviamo sia nell’etica principalistica che nell’etica della qualità e della sacralità di vita. In quest’ultima, la giustificazione morale si può fondere con la


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dottrina del doppio effetto nella quale, comunque, ritroviamo i criteri di intenzionalità e di proporzionalità. L’eventuale anticipazione della morte, intesa come effetto negativo della teoria del doppio effetto, può essere prevista ma non voluta e non deve essere il mezzo per ottenere l’effetto positivo. Ancora l’intenzionalità può essere verificata valutando frequentemente le condizioni cliniche del paziente, la refrattarietà dei sintomi alle terapie convenzionali, i tipi di farmaci usati e il loro lento incremento oltre che le diverse vie di somministrazione. Le emergenze nelle cure palliative possono presentarsi durante tutto il periodo dell’accompagnamento del paziente, riconoscendo una maggior incidenza durante la fase terminale della malattia oncologica, intesa come quella fase nella quale la malattia presenta metastasi e non risponde più alle terapie mediche. Sotto l’aspetto temporale risulta ancora difficile e non univoca la sua definizione. Diversi studi in letteratura la riconoscono in quel periodo comprendente gli ultimi 90 gg (tre mesi) di vita, anche se altri autori definiscono fase terminale quella comprendente le ultime 24-48 ore di vita, dove la sintomatologia si modifica e si aggrava ulteriormente fino all’exitus. Avere la possibilità di valutare il paziente all’interno del proprio tessuto sociale, culturale e storico aiuta a riconoscere le esigenze soggettive dell’ammalato, evitando comportamenti paternalistici e creando una corretta assistenza che deve essere condivisa per prima dal paziente stesso, dai parenti e dall’equipè, nel rispetto del bene e della volontà del paziente. Il successo nel controllo dei sintomi e l’instaurarsi di empatia e dialogo, garantendo al paziente un sostegno come lui vuole e lo intende, risulta essere fattore determinante nell’accompagnamento del paziente oncologico nella fase terminale della malattia. Riuscire a garantire una buona qualità di vita , ma soprattutto saper garantire anche una buona qualità di morte o del morire, alleviando sia i sintomi che provocano sofferenza, sia il dolore come definito da Cecely Saunders: dolore totale, riuscendo, quindi, a soddisfare tutti i bisogni del paziente, sia relazionali, come la richiesta di ascolto e di comprensione, d’amore, di appartenenza, di autostima, di fiducia, che fisici, come il controllo dei sintomi e la cura del corpo che quelli spirituali. In letteratura diversi studi confermano come i sintomi refrattari siano maggiormente presenti in pazienti affetti da patologie tumorali maligne del tratto gastro-enterico, del polmone, della testa-collo e della mammella. Tab. 1 - Comportamenti da adottare nell’accompagnamento del paziente • • • • • •

Spiegare e prevenire le possibili evoluzioni e le eventuali urgenze (durante le visite domiciliari) Sospendere ogni farmaco non necessario al controllo dei sintomi Sospendere i farmaci capaci di creare effetti collaterali disturbanti Privilegiare la via parenterale ( sottocute) e le infusioni Non eseguire indagini diagnostiche se non finalizzate al controllo dei sintomi Rivalutare continuamente il paziente ed i trattamenti in corso personalizzando le terapie


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Rapportarsi di frequente con i familiari per dare informazioni e rassicurazioni sull’evoluzione della malattia del proprio caro Predisporre farmaci al bisogno

Nei punti 1 e 7 si sottolinea come una buona, continua e corretta comunicazione tra equipe ed unità paziente-famiglia sia necessaria e parte integrante del processo di cura, per favorire la partecipazione del paziente al processo decisionale che lo riguarda, per descrivere e condividere i trattamenti ed averne il consenso, per raccogliere le eventuali direttive anticipate e per rassicurarlo che verranno rispettate le sue volontà , tenendo sempre presente le variabili del caso e la tolleranza emotiva del paziente. Ancora una comunicazione chiara ed il frequente rapportarsi con i familiari, aiuta ad anticipare e comprendere, come in una terapia di tipo cognitivo comportamentale, i comportamenti da adottare, i farmaci da somministrare, come affrontare la morte del proprio caro, accettando le eventuali volontà espresse o la scelta, a volte obbligata, da parte dell’equipè della sedazione palliativa, come unica terapia dell’emergenza di fronte a sintomi refrattari. Tutto questo può evitare, per quanto possibile, momenti di panico o un carico emotivo eccessivo ed un conseguente “brutto ricordo” dell’evento morte, che verrebbe ad inficiare la rielaborazione del lutto con la nascita, spesso, di ingiustificati sensi di colpa. Purtroppo l’abitudine ad una comunicazione chiara e trasparente che si dovrebbe avere col paziente già dal momento della presa in carico, rispettandone sempre la volontà psicologica ed emotiva e le diverse variabili del caso, ancora fa difficoltà ad entrare nella nostra cultura. Le cure al malato non implicano soltanto l’aiuto materiale, ma dedizione spontanea alla persona e al suo contesto sociale.

Tab. 2 - Sintomi che possono più frequentemente diventare urgenze • • • • • •

Dispnea /emottisi massiva Rantolo terminale Emorragie acute Agitazione/Delirio Nausea e Vomito incoercibile Dolore

Sintomi respiratori Frequente è la presenza di sintomi respiratori in fase avanzata di malattia, soprattutto


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nelle ultime 24-48 ore, con una maggior incidenza (21-78%) nei pazienti affetti da patologia neoplastica polmonare e mediastinica, ma anche associati ad altre patologie. Dispnea, emottisi massiva si manifestano spesso come sintomi refrattari mentre, il rantolo terminale diventa un’urgenza soprattutto per i familiari. Dispnea Viene definita come la sensazione soggettiva di “ fame d’aria” o di “ mancanza di respiro” associata, spesso, ad un senso di oppressione, con o senza ipossia e/o ipercapnia. E’ un sintomo angosciante difficilmente quantificabile ( può essere misurata con il VAS o con lo STAS) e, oltre ad essere presente nelle patologie neoplastiche polmonari o mediastiniche, si può riscontrare anche in pazienti con versamenti pleurici e/o addominali, con compressione/ostruzione della cava superiore, con ostruzione tracheale o bronchiale, con versamento pericardio, anemia, astenia, linfangite, dolore, scompenso cardiaco, oppure per cause iatrogene legate a trattamenti radio-chemio terapici. Essendo la genesi della dispnea di tipo multifattoriale, importante è la sua corretta valutazione per poter impostare una terapia più idonea possibile. La comparsa di dispnea risulta essere un sintomo di peggioramento del paziente e purtroppo un indicatore di breve sopravvivenza.Tra le problematiche principali che presenta questo sintomo riconosciamo il coinvolgimento, oltre che del paziente, anche dei familiari e degli stessi operatori. Essendo la dispnea un sintomo soggettivo, viene vissuto in modo diverso dal paziente rispetto ai familiari e all’equipè, tanto da poterne condizionarne il trattamento. Importante è, dunque, creare attorno al paziente un clima per quanto possibile di tranquillità onde evitare che l’emozione possa scatenare una crisi dispnoica acuta o peggiorarne una preesistente. Questo sintomo si può presentare come crisi acuta o come dispnea terminale in paziente lucido.

Tab. 3 - Consigli in presenza di dispnea • • • • •

Corretta ventilazione e temperatura della stanza, evitando l’affollamento di persone Posizione idonea del paziente Corretta umidificazione del cavo orale, soprattutto se il paziente respira a bocca aperta Educazione psicologica del paziente e della famiglia Tecniche di distrazione e di rilassamento

Terapia La terapia della dispnea è principalmente farmacologica, associata ad una ambientale e psicologica ( Tab.3). Nel trattamento farmacologico della dispnea i principali farmaci sono: broncodilatatori, corticosteroidi, oppioidi, benzodiazepine, neurolettici, ossigeno terapia nonché la sedazione terminale quando la dispnea risulta refrattarie a tutte le


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terapie. Nelle crisi dispnoiche acute, la dispnea compare improvvisamente, senza motivazioni, creando un notevole stato d’ansia nel paziente e in chi lo assiste. Cercarne la causa, risulta essere il primo passo per mettere in atto le procedure sia non farmacologiche che farmacologiche. I corticosteroidei trovano ampia indicazione sia durante le fase di esacerbazioni della dispnea, accompagnata da broncospasmo, che nelle patologie interstiziali o post attiniche. I due cortisonici maggiormente usati sono il desametasone con un dosaggio di 4-8 mg ogni 12-24 ore ed il prednisolone con un dosaggio che può variare tra i 10 e i 60 mg/die. L’uso della morfina, come oppioide di prima scelta, migliora la dispnea riducendo la frequenza respiratoria anche in pazienti con concomitante presenza di BPCO, senza causare depressione respiratoria. Questo miglioramento è esercitato da diversi effetti, quali: sedazione e analgesia del paziente, riduzione dell’ansia e della sensibilità alla Co2, miglioramento dell’attività cardiaca. Si preferisce somministrarla per os o per via sottocutanea, la via inalatoria può determinare broncospasmo, anche se non esistono studi scientifici che possano supportare tale teoria. Per quanto riguarda gli altri oppioidi, in letteratura troviamo alcuni studi condotti sul fentanyl nebulizzato il quale, non determinando la liberazione di istamina, non causerebbe effetti collaterali come il broncospasmo, ma il suo uso è ancora ad oggi limitato; l’idrocodone, idromorfone e diidrocodeina sembra migliorino la dispnea, mentre non efficaci risultano la codeina e la diamorfina. Il dosaggio iniziale di morfina a pronto rilascio, nei pazienti non precedentemente trattati con oppioidi (pazienti naive), è di 5 mg di morfina ogni 4 ore con un aumento graduale della dose start fino ad ottenere una risposta soddisfacente. Un dosaggio minore (2,5 mg ogni 4 ore) potrebbe essere usato per pazienti molto defedati. L’uso della morfina a lento rilascio avrà, per i pazienti naives, un dosaggio iniziale di 10 mg ogni 12 ore, mentre nei pazienti che già fanno uso di oppioidi il dosaggio iniziale può partire da 20 mg ogni 4 ore , con aumenti successivi pari a circa al 25% della dose singola utilizzata. Benzodiazepine e fenotiazine sono farmaci importanti nella dispnea associata ad ansia, riuscendo ad interrompere il circolo vizioso dispnea, paura di morire, ansia, panico, aumento della dispnea. Tra le benzodiazepine il lorazepam, grazie alla sua azione rapida e breve emivita, risulta quello più usato in medicina palliativa ai dosaggi di 0,5-1 mg per os che per via sub linguale, 2-3 volte al giorno. Meno duttile è il diazepam che può avere assorbimento non costante e per questo di difficile dosaggio. Il midazolam sia per la breve emivita che per la possibilità di poterlo somministrare per via s.c., sia in bolo che in infusione continua, risulta essere un farmaco idoneo con dosaggi che vanno dai 15 ai 30 mg nelle 24 ore, purtroppo non è disponibile sul territorio essendo un farmaco ad esclusivo uso ospedaliero. La clorpromazina, a dosaggi di 25-50 mg ogni 8 ore, è la più usata tra le fenotiazine soprattutto quando lo stato d’ansia è molto elevato.


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Si ricorre all’aloperidolo, 12,5-25 mg ogni 6 ore, sia s.c. che e.v., quando oltre alla dispnea è presente anche delirio o allucinazioni. In letteratura viene riportato anche l’uso di buspirone, ansiolitico che eserciterebbe il proprio effetto non solo nella riduzione dell’ansia ma anche nella stimolazione del respiro, alle dosi di 15 mg/die in 2-3 somministrazioni. Controversa è l’efficacia dell’Ossigeno nel trattamento della dispnea nell’ammalato oncologico in fase avanzata di malattia. Il suo impiego dovrebbe essere riservato ai pazienti oncologici con pregressa BPCO associata a ipossiemia ( facendo attenzione alla concentrazione di ossigeno erogato, per non inibire lo stimolo respiratorio determinato in questi ammalati dall’ipossia). Si consiglia un uso intermittente, con l’ausilio degli occhialini generalmente più tollerati rispetto alla maschera. La sua efficacia, massima nei pazienti con ipossiemia, si esplica anche come effetto psicologico rassicurante sia per l’ammalato che per i familiari. La dispnea terminale in paziente cosciente Risulta essere tra le più difficili situazioni da affrontare per il paziente, per la famiglia e per gli stessi operatori. La riduzione della capacità respiratoria e la consapevolezza di una morte per soffocamento, scatena nel paziente e nei familiari una grande quantità di sofferenza e di angoscia. Nei confronti del paziente abbiamo un compito importante da svolgere, quello di rispettare e non violare la sua dignità anche nella morte, evitandogli un cammino di grande sofferenza cercando di alleviare un sintomo altrimenti incoercibile, ricorrendo alla sedazione palliativa, che ci permette di accompagnarlo monitorandolo continuamente, fino ad uno stato di sonno profondo, senza dimenticare che la dignità di una persona scomparsa continua a vivere nel ricordo delle persone che l’hanno conosciuta. “La morte di una persona è un momento importante nel ricordo per di chi continua a vivere. Per rispetto di questo ricordo, ma anche per rispetto del morente, è nostro compito sia conoscere ciò che provoca sofferenza e dolore, sia conoscere i sistemi per lenire queste sofferenze. Ciò che può accadere nelle ultime ore di vita di un uomo, può guarire ferite già aperte, ma può restare come ricordo insopportabile che ostacola il percorso del lutto” (Cicely Saunders – Fondatrice del movimento Hospice)

La terapia farmacologia risulta essere uguale a quella citata per le crisi acute di dispnea, quando questa non sarà più sufficiente e si vorrà iniziare una sedazione, si somministreranno farmaci ipnotici e morfina a dosaggi adeguati per una sedazione palliativa.


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Altre cause di dispnea Versamento pleurico Quando un versamento pleurico diventa importante causa di dispnea, in tali casi la toracentesi rimane un valido procedimento. Prima di decidere di drenare il versamento bisogna, comunque, valutare sempre le condizioni generali del paziente e le sue aspettaive di vita, la gravità della dispnea rispetto alla manovra da eseguire, il tempo nel quale il versamento si ripresenta dopo il suo drenaggio. Il drenaggio diventa un procedimento traumatico e psicologicamente stressante quando il tempo intercorrente tra una manovra e quella successiva è di pochi giorni, in questi casi, valutando tutti i criteri sopra riportati, si può prendere in considerazione la pleurodesi come soluzione più idonea e duratura o la sedazione palliativa se l’aspettativa di vita è molto ridotta in presenza di un sintomo refrattario. Ostruzione della vena cava superiore La dispnea che compare nella sindrome della vena cava superiore non sempre è un emergenza, ma la diventa quando compare compressione della trachea, angolazione dei grossi vasi e conseguente compromissione della gittata cardiaca. La terapia farmacologia è legata alla somministrazione di diuretici e di elevate dosi di cortisonici. La clinica e le aspettative di vita del paziente di fronte ad un sintomo che può diventare refrattario, ci porta a prendere in considerazione anche in questo caso la sedazione palliativa. Linfangite carcinomatosa La dispnea che si presenta in corso di linfangite è severa ed è presente anche a riposo. La sua eziologia è determinata dall’invasione neoplastica del parenchima polmonare o linfatico del polmone. La terapia farmacologica si basa essenzialmente su cortisonici quali il desametasone con dosaggi di 8-16 mg/die associata ad oppioidi e ad ansiolitici. Emottisi massiva Si definisce emottisi la presenza di sangue nell’espettorato. Può essere lieve con qualche striatura nell’espettorato, o massiva con la presenza di una quantità di sangue che può andare dai 200 a 1000 ml nelle 24 ore. Le neoplasie che in maggioranza determinano emottisi sono i tumori broncogeni. Nelle forme lievi l’uso di acido tranexamico, a dosi di 1,5 g in bolo, può riuscire a risolvere il sintomo; nelle forme massive la terapia farmacologia si avvale di morfina e benzodiazepine, fino ad arrivare alla sedazione palliativa, per evitare una morte per soffocamento in paziente lucido. La comparsa dell’emottisi massiva, essendo legata alla sede del tumore, diventa in parte prevedibile. Questo ci deve aiutare a preparare i familiari che assistono il paziente, sia psicologicamente, sia nell’adottare comportamenti semplici come quello di preparare


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asciugamani o lenzuola scure per confondere il colore del sangue e ridurre l’importante impatto emotivo per il paziente e loro stessi. Rantolo terminale Nelle ultime ore di vita, in pazienti con debolezza estrema ed incapacità a tossire o in stato comatoso, il rantolo terminale è un sintomo frequente e fortemente predittore di morte, avendosi l’exitus nel 80% dei pazienti entro 48 ore dall’esordio. La sua causa è determinata dal passaggio di aria attraverso le secrezioni tracheo - bronchiali e/o saliva che si vengono ad accumulare in trachea e faringe, secrezioni che il paziente non riesce ad espellere o deglutire. L’urgenza di questo sintomo è legata al solo disagio psicologico che crea nei familiari, ingenerando un brutto ricordo dopo la morte del proprio caro. Importante risulta una corretta informazione sulla genesi del sintomo e sulla terapia che si somministra. I farmaci usati sono: scopolamina transdermica in cerotti retroauricolari da cambiare ogni 48-72 ore, butilbromuro di joscina 1 fl. da 20 - 40 mg s.c. o e.v. ogni 6 ore, oppure a dosi di 20-60 mg nelle 24 ore in infusione continua. Il cambiamento della postura, quando è possibile, potrebbe ridurre il rantolo. L’aspirazione risulta dolorosa e fastidiosa, pertanto è da non prendere in considerazione specie nel paziente a domicilio. Emorragie massive I pazienti maggiormente a rischio di emorragie massive risultano essere quelli affetti da patologie neoplastiche inoperabili a carico degli apparati ORL, polmonari e gastro esofageo. Anche in questo caso, come nell’emottisi massiva, con la emissione di poca quantità di sangue l’uso di acido tranexamico viene consigliato per tentare di fermare piccoli sanguinamenti, ma, se la quantità di sangue è massiva si deve cercare di raccogliere il sangue con teli verdi o colorati per evitare l’impatto psicologico e, prima possibile, sedare il paziente avendo l’accortezza di metterlo in posizione laterale. Delirio Si definisce delirio una alterazione acuta e globale delle funzioni mentali, che si sviluppa in breve periodo di tempo, generalmente ore o giorni. Gli elementi fondamentali, del delirio, secondo il Diagnostic and statistical manual of mental disordes - DSM IV, sono: • disturbo della coscienza; • alterazione delle facoltà cognitive; • sviluppo in un breve lasso di tempo; • eziologia organica. A questi, possono associarsi alterazioni del ritmo sonno veglia, con un peggioramento del sintomo durante le ore notturne, andamento fluttuante nelle 24 ore, presenza di


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allucinazioni, disorientamento spazio-temporale, e attività ridotta o aumentata. Alcuni studi riportano come, nel paziente oncologico in fase avanzata di malattia, la frequenza del sintomo delirio risulta essere presente in una percentuale dell’80-90%. La genesi del delirio può essere multifattoriale, pertanto è indispensabile ricercare le cause trattabili. Alcuni farmaci e alcune alterazioni possono essere responsabili della comparsa del delirio, quali:

Farmaci responsabili di delirio

Alterazioni varie responsabili di delirio

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Corticosteroidi, inducono normalmente una sensazione di benessere ma, possono portare alla comparsa di delirio, soprattutto a dosi alte, come il desametasone con dosaggi di 8-16 mg/ die Benzodiazepine con una lunga emivita possono determinare un effetto paradosso Oppioidi ad alte dosi o la loro brusca sospensione Anticolinergici Antistaminici Antiemetici Chemioterapici

Alterazioni idroelettrolitiche Patologie neurologiche Disturbi endocrini e metabolici Infezioni Carenze nutrizionali Sintomi non controllati come il globo vescicale o l’impattamento fecale

Il delirio nel paziente oncologico in fase avanzata di malattia, è un fattore prognostico negativo e si associa ad una breve aspettativa di vita. In corso di malattia, il 50% degli episodi di delirium nelle cure palliative sono reversibili. La terapia si basa, in primis, nell’individuare la causa e quindi rimuoverla. Sospendere i farmaci che più facilmente possono causare il delirio, correggere eventuali carenze o alterazioni endocrino-metaboliche, praticare cateterismo urinario e svuotamento di eventuali fecalomi. Nel tempo bisogna monitorare lo stato mentale del paziente ed educare i familiari sulla malattia del proprio caro. I farmaci da somministrare sono: • Aloperidolo: neurolettico di prima scelta in pazienti con delirium, può essere somministrato sia per os, per e.v., che s.c. Nei casi più lievi può essere sufficiente un dosaggio di 12.5-25 mg ogni 6 ore, rivalutando spesso il paziente per individuare eventuali effetti extrapiramidali o cardiotossici. • Benzodiazepine: non sono indicate in quanto potrebbero alimentare il delirio, possono essere utili nel paziente terminale se associate a narcotici o in pazienti che non rispondono ai neurolettici. da evitare in altri casi. Il Lorazepam, in tali casi, risulta essere il farmaco di prima scelta avendo una breve emivita. I dosaggi consigliati sono: 0,5-1-mg per os, per una rapida sedazione e.v. 1-2 mg. • La clorpromazina, in alternativa all’aloperidolo, determina maggior sedazione, i


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dosaggi per os variano da 10 - 25 mg sino a 50-75 mg ogni 8 ore, per via e.v. il dosaggio consigliato è di 25-50 mg ogni 6 ore, in tal caso si suggerisce prudenza per il possibile instaurarsi di ipotensione ortostatica. • La promazina è capace di produrre una rapida sedazione per os o e.v., ai dosaggi di 25-50 mg ogni 8- 12 ore. Il midazolam, (farmaco ospedaliero), e.v. o s.c. 20-100 mg 24 ore, per una sedazione continua con sintomi refrattari. Importante anche il trattamento non farmacologico volto a calmare e orientare il paziente, quali rassicurazioni verbali, sia al paziente che alla famiglia, che si presenta altrettanto spaventata, creare un ambiente tranquillo e ben illuminato, evitare eccessive stimolazioni sensoriali, mettere oggetti familiari vicino al paziente, orologi e calendari vicini e ben visibili. Si consiglia il ricorso prudente a tali farmaci per il loro effetto paradosso in quanto potrebbero determinare una ingravescenza delle manifestazioni cliniche del delirio. Vomito e nausea Anche il vomito e la nausea possono avere, nel paziente oncologico in fase avanzata di malattia, un’origine multifattoriale obbligandoci, come sempre, ad una corretta diagnosi etiologica prima di applicare qualsiasi terapia. Prima di tutto dobbiamo correggere le eventuali cause reversibili come ascite o squilibri elettrolitici, o cambiare l’oppioide, ricordando che il fentanyl transdermico o il metadone riducono la stipsi che può diventare causa di vomito o nausea. Ansia, occlusione intestinale, gastroparesi, ipertensione endocranica, alterazioni metaboliche e oppioidi sono tra le cause più comuni. Vanno utilizzati farmaci gastroprotettori, per ridurre l’iperacidità. L’ansia, spesso presente, trova sollievo nel ricorso a uso benzodiazepine come il lorazepam, con dosaggi che vanno utilizzati farmaci gastroprotettori per ridurre l’acidità. Occlusione intestinale L’ occlusione intestinale è una complicanza frequente nelle neoplasie del tratto gastrointestinale o dell’ovaio. Può essere estrinseca causata, quindi, da masse tumorali esterne, mesenteriche od omentali, o da fibrosi post terapiche. intraluminale dovuta alla presenza nel lume intestinale della massa neoplastica o intramurale, ad es. nella linite plastica. L’occlusione intestinale può essere anche funzionale, causata da alterazioni della motilità conseguente ad infiltrazioni tumorali del mesentere, dei nervi, dei muscoli o per coinvolgimento del plesso celiaco; altre cause di occlusione intestinale sono rappresentate da una neuropatia paraneoplastica, frequente in pazienti con cancro polmonare, da formazione di fecalomi, da farmaci (oppioidi) e da disidratazione.


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La terapia nell’occlusione intestinale si avvale di diversi farmaci ma, se il paziente presenta dolore di tipo colico, si devono sospendere tutti i farmaci procinetici, che possono provocare vomito, ed i lassativi, favorendo l’evacuazione con clisteri. Nella modalità di somministrazione è sconsigliata quella per os, essendo i pazienti affetti, generalmente, da nausea e vomito pertanto all’inizio si consiglia la via parenterale per passare solo in un secondo tempo a quella orale. L’uso di scopolamina in cerotti retro auricolari, da sostituire ogni 48-72 ore, o di butilbromuro di ioscina (1 fl da 20 - 40 mg s.c. o e.v. ogni 6 ore, oppure 20-60 mg nelle 24 ore in infusione continua), aiuta a diminuire le secrezioni. L’octreotide, farmaco più efficace nel ridurre le secrezioni, può essere somministrato sia per via e.v. che sottocutanea con dosaggi cha vanno dai 50 ai 200 mcg ogni 6-8 ore s.c. In caso di occlusione intestinale completa, si ricorre all’infusione continua nelle 24 ore iniziando con un dosaggio minimo che può essere aumentato del 50% in caso di maggior necessità. I corticosteroidei come il desametasone, hanno la capacità di ridurre l’edema peritumorale riducendo, quindi, l’occlusione intestinale, il dosaggio consigliato va da 6 a 16 mg per via endovenosa o s.c./die, fino ad arrivare in casi estremi ad un dosaggio che va da 8 a 60 mg/die quando si sospetta una grossa componente flogistica o edematosa. Il dimenidrinato viene utilizzato, nell’occlusione intestinale, per ridurre le secrezioni in pazienti che presentano spiccati effetti collaterali agli altri farmaci. Anche la morfina, in associazione con aloperidolo e butilbromuro di ioscina, per la spiccata azione antisecretiva, risulta essere un farmaco importante nell’occlusione intestinale. È da ricordare che la scopolamina, a differenza del butilbromuro di ioscina, supera la barriera ematoencefalica dando come effetto collaterale una certa sonnolenza che, in alcuni casi, potrebbe anche risultare positiva. L’aloperidolo, a dosaggi inferiori di quelli usati nelle psicosi, risulta essere il farmaco d’elezione per il controllo della nausea e del vomito, anche di origine metabolica. I dosaggi dell’aloperidolo variano da 2 a 10 mg nelle 24 ore, in somministrazione s.c. o i.m. ( anche se questa via potendo provocare dolore, è poco consigliata in cure palliative) in una unica dose giornaliera, preferibilmente serale o in pompa in associazione con morfina, butilbromuro di ioscina e octreotide. Se l’aloperidolo viene utilizzato per via orale la dose iniziale è di 1-2 mg ogni 3-6 h (si può aumentare se necessario fino a 5-10 mg al giorno in dosi frazionate). Nel vomito e nella nausea causati da gastroparesi, per migliorare lo svuotamento gastrico, è consigliato l’uso di metroclopramide a dosaggi di 10 mg ogni 4-6 ore fino a raggiungere, nei casi più gravi, 60-120 mg nelle 24 ore, in infusione continua s.c., sempre che non sia presente dolore colico. Gli antogonisti 5-HT3, come l’ondansetron a 4-8 mg per os o e.v. ogni 4-8, ha la capacità di bloccare i recettori serotoninergici e i chemocettori del centro del vomito soprattutto in corso di chemioterapia. Altri due neurolettici risultano efficaci per il controllo di questi sintomi quali la


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proclorperazina a dosaggi che vanno da 5-10 mg ogni 6-8 ore, sia per via e.v., i.m. che endorettale, e la clorpromazina e.v. o i.m. con un dosaggio da 25-50 mg ogni 6-8, per poi passare appena possibile alla terapia per os. Nel vomito da cause cerebrali, determinato sia dall’ ipertensione endocranica che da infiammazioni, viene indicato l’uso dei corticosteroidei a dosaggi di 16-mg /die all’inizio per poi, dopo alcuni giorni, ridurre la dose a 4-6 mg/die. L’uso del sondino naso-gastrico, essendo poco sopportato dai pazienti, viene consigliato solo per un breve periodo. Dolore Il controllo efficace del dolore, nei pazienti in fase avanzata di malattia, rimane un punto cardine delle cure palliative. Dalla letteratura si evince come, negli ultimi giorni di vita, il dolore aumenti nel 70% dei pazienti, con una intensità riferita che varia da moderata a severa nel 40-50% e da molto severa a intollerabile nel 25-30% dei casi. Il dolore e’ sempre una esperienza soggettiva e la sua intensità è proporzionale sia al tipo del danno tissutale, sia alla sua estensione. La terapia antidolorifica con gli oppioidi non deve ne essere sospesa ne diminuita, al contrario se il dolore non è adeguatamente controllato, la dose totale può essere aumentata dal 25 al 50%, fino alla scomparsa del sintomo. Importante risulta essere la valutazione del dolore. Secondo uno studio di Foley risulta che il 77% dei casi di dolore è causato dalla espansione del tumore, il 19% dai trattamenti, ed il 3%, da cause non collegate alle precedenti. Il dolore dunque, come sintomo multidimensionale legato, anche, alla storia del paziente ed al suo vissuto. L’insieme di aspetti psicologici e biologici, interagendo determinano diverse risposte emotive e comportamentali nei pazienti affetti da dolore. Questo ci obbliga ad una corretta ed adeguata analisi del dolore, non solo sotto l’aspetto biologico ma anche sotto quello psicologico. Ancora uno studio condotto da Clark, mette in evidenza come l’intensità del dolore sia legata alla componente emotiva, molto presente nei pazienti affetti cancro. Dolore come problema psicofisiologico. “Una morte umana è una morte nella quale il dolore fisico non la faccia da padrone; è una morte nella quale anche la medicina palliativa deve contribuire a creare condizioni di possibile consolazione e serenità, nelle quali il morire, pur non perdendo il suo carattere drammatico, non sia tuttavia espropriato definitivamente della sua caratteristica naturalità”. Per un buon controllo del dolore ci si deve basare sia sulla genesi organica che sulla percezione individuale, determinata dal vissuto e dal contesto nel quale il paziente stesso ha vissuto e vive. Dopo queste considerazioni, risulta ancora attuale il testo edito da Cicely M. Saunders dal titolo “The Management of Terminal Disease” dove si sottolinea come il prendersi cura del paziente debba essere di tipo totale, di tutte le sue componenti, psicologica, fisica, sociale, spirituale, economica. Su questo concetto si basa anche l’OMS nella definizione delle cure palliative, che trovano come obiettivo una morte dignitosa ed un


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trattamento adeguato riconoscendo diversi obiettivi quali: il controllo dei sintomi e non della malattia, la “qualità di vita”, il supporto delle esigenze esistenziali, sociali e psicologiche.

Raccomandazioni di pratica clinica • Preparare i parenti alla possibile comparsa di una emergenza ( emorragie massive ecc.) e su come comportarsi. • Valutare la possibilità di intervenire con una sedazione palliativa in caso di emergenze da sintomi refrattari.

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13.5 Infermiere di famiglia: ruolo e compiti Alessandra Semenzato © Copyright Edicare Publishing

Accompagnare il morente attraverso la fase terminale della vita è indubbiamente uno dei compiti umani più profondi e complessi che, non solo l’infermiere di famiglia, è chiamato a svolgere. Un compito che presuppone l’aver elaborato e fatto propri alcuni prerequisiti e alcune conoscenze concernenti appunto l’atto del morire. Cosa questa non certo scontata dal momento che viviamo in un’epoca storico-culturale che nega la morte in ogni sua espressione. Ma il tempo del morire è un momento di profondo valore, che deve essere rispettato per poter restituire dignità umana all’individuo che ne sta facendo l’esperienza. Accompagnare questo tempo presuppone innanzitutto da parte di tutti coloro che circondano il morente, l’accettazione dell’ineludibile, cioè della morte. Che paradossalmente significa accettare questo evento come l’ultima espressione dell’esser vivi, evitando di abbandonare alla solitudine. Si tratta di trovare a livello personale, il modo di vincere il tabù della morte; riconoscendo che è un tabù che riguarda in prima istanza la sfera intima; quella profondità dell’essere che richiede espressioni di verità, di contatto umano sincero e che passa attraverso il contatto fisico, visivo e verbale. Perché ognuno di noi infine, desidera essere riconosciuto e confermato nella propria dignità umana (M. de Hennezel 1998). Inoltre, questo ultimo atto vitale potrà trasformarsi in un atto di profonda consapevolezza solo se vissuto accanto alle persone significative e nel proprio ambiente di vita. Tuttavia, la possibilità di morire a casa propria rappresenta ancor oggi una scelta difficile, che presuppone una forte presa di coscienza da parte del paziente, dei familiari e di tutti gli operatori sanitari. Si tratta d’intraprendere insieme un percorso assistenziale, che si sviluppa attraverso un processo costituito da fasi, elaborato e modellato attorno alle aspettative del malato. Numerosi sono i riferimenti filosofici, morali ma anche culturali che possono ispirarci: ricordiamo la descrizione approfondita di E.Kubler-Ross delle fasi del morire, l’approccio spirituale di Marie de Hennezel, le riflessioni di Cicely Saunders e di tutti coloro che a vario titolo si sono occupati di questo momento di passaggio così delicato.


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Potremmo anche guardare al nostro patrimonio culturale trascorso rintracciando come, sin dal Medioevo ad oggi, il processo del morire si sia trasformato da evento naturale in tabù. L’ars moriendi, fu un genere letterario nato in un periodo storico tra medioevo e rinascimento; il termine ars qualificava scritti atti a guidare i comportamenti umani, tra questi le ars moriendi appunto, considerando la morte come un processo naturale per il quale l’uomo ha bisogno d’essere accompagnato, davano indicazione sul come avvicinarvisi. Così come l’uomo deve essere aiutato a entrare nella vita, così deve essere anche aiutato ad uscirne. Il ruolo di aiuto non spettava tanto alla medicina, quanto all’etica filosofico-religiosa. Il morire infatti, non era considerato meramente un processo “corporeo”; esso riguardava prevalentemente le sfere spirituale ed intima della persona. Il morire era così un processo che riguardava la coscienza: non ci si poteva appropriare del significato della morte solo sul punto di morire, se per tutta la vita la morte era stata assente. L’ars moriendi era un apprendistato permanente, grazie al quale la persona evitava di trovarsi di fronte al momento ultimo come ad una realtà estranea (S.Spinasanti; Una “art moriendi”per il XXI secolo?). La buona morte dunque era quella attesa e annunciata, poiché dava modo alla persona di prepararsi spiritualmente all’evento. Si trattava inoltre, di una morte ‘pubblica’, non occultata dal falso pudore dei nostri giorni, che si traduce spesso nella reticenza, nell’emarginazione e nell’isolamento nei confronti del morente, rimosso come se già non esistesse più. In passato, il malato non doveva essere privato o espropriato della propria morte ed era per questo motivo che la sola morte temuta era quella improvvisa. Fino alla prima metà del secolo scorso così, si moriva prevalentemente a casa dove parenti e amici si assumevano il compito di accompagnare il morente ed insieme di sostenere la famiglia, durante la malattia, nella fase terminale e fino all’elaborazione del lutto. L’avvicinarsi della morte era un evento sociale, sacro, di grande trasformazione che obbligava al confronto con l’impotenza verso la morte, e col dolore del distacco. Ma fatto altrettanto importante, consentiva la condivisione e la trasmissione di valori e credenze. Era un vero e proprio passaggio di consegne di vita da una generazione all’altra che consentiva al morente di accomiatarsi dando un senso al proprio esistere, ed ai familiari di metabolizzare l’evento estremo consentendo loro l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze ed esperienze da trasmettere ai posteri. Oggi la nozione della buona morte appare completamente ribaltata: il malato deve dapprima confidare nella guarigione oltre ogni realtà, in ciò spesso forzosamente sostenuto dall’ottimismo ostentato dei parenti; successivamente, una volta intimamente arresosi alla terminalità della vita che si approssima, deve dimostrarsi capace di ingannare se stesso e gli altri, per risparmiare sofferenza, panico e disperazione (A. Carotenuto 2002). In tale frangente, i familiari e gli amici - una volta a conoscenza della prognosi infausta di un loro caro - si accordano, più o meno consciamente e tacitamente, a farne un minore da proteggere dalla verità.


412 Manuale sulle cure palliative

Quel che conta in fondo, non è tanto che il malato sappia o meno, quanto che nasconda di sapere (P. Aries 1975). Alla luce di queste sintetiche riflessioni, agli operatori sanitari è dunque richiesto di affrontare il compito dell’assistenza al malato terminale riconoscendo innanzitutto la necessità di una nuova ‘umanizzazione’ della morte. Il che significa restituire dignità alla persona, sottraendola all’isolamento e all’anonimato e riconsegnandola infine, alla sua storia personale e alle sue relazioni significative. Per tale ragione, l’intero percorso assistenziale riguardante le fasi finali della vita, superato il momento in cui si realizza la presa di coscienza dell’inguaribilità e dell’approssimarsi del morire, si deve collocare possibilmente al domicilio, all’interno di un contesto di relazioni personali e professionali nel quale l’individuo si riconosce come tale e può continuare a vivere la propria umanità di sentimenti, valori e affetti, circondato dai propri cari e dai propri oggetti familiari. Attualmente, sono attive in Italia numerose esperienze di cura e assistenza palliative, esterne all’ambiente ospedaliero, sia di tipo domiciliare, sia di tipo residenziale, come gli hospice. Ciò che accomuna le diverse esperienze è una forte volontà di integrazione delle diverse figure coinvolte: il medico di famiglia, l’équipe di assistenza infermieristica domiciliare, lo psicologo, i familiari, ecc… Tratto comune di tali modelli ed esperienze è la centralità del malato, il rispetto della sua dignità di individuo e del suo voler essere, fino alla fine. Il che significa il voler essere confermato, ascoltato, compreso anche nelle sue espressioni di rabbia e dolore fisico e spirituale. Le cure al malato terminale si caratterizzano per essere finalizzate a fornire un sostegno, un sollievo e una disponibilità professionale, allorquando non vi siano più evidenti aspettative di guarigione. Offrire un sostegno è un modo per aiutare a sopportare e nello stesso tempo, a resistere a qualcosa di penoso. Da un punto di vista etimologico la sofferenza significa appunto capacità di sopportare, tollerare, resistere al dolore; dolore invece riguarda il solo atto del sentire. Il soffrire dunque rappresenta uno stato di grande difficoltà che, nei momenti vicini alla morte, richiede comprensione e condivisione per poter essere accettato e vissuto consapevolmente. Conoscere la psicologia del morente è perciò indispensabile per poterlo accompagnare: lo sconvolgimento che l’inguaribilità produce in chi ne è il soggetto è una realtà che va considerata con la massima attenzione, cura e compassione. E. Kubler-Ross ha avuto il merito di descrivere l’intero percorso psico-affettivospirituale che il malato terminale affronta, suddividendolo in cinque fasi: rifiuto/ ribellione, collera, depressione, patteggiamento, accettazione (E.Kubler-Ross 1982). Queste varie fasi del morire vengono elaborare e superate con fatica: superato il primo shock, la crisi del morire, è seguita da una profonda trasformazione legata agli interrogativi umani sul senso dell’esistenza. In questi termini la morte potrà essere vissuta non come un fallimento, bensì come “l’ultima tappa della crescita”. In questa prima fase il dolore


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psichico che si prova aiuta a prendere coscienza di quanto sta accadendo, provoca ed insieme facilita il distacco e l’allentamento dei legami relazionali. La persona malata sperimenta il cordoglio di sé, la pena profonda che deriva dalla consapevolezza di doversi separare da tutto ciò che si ama e l’angoscia derivante dalla paura del futuro, dalla perdita della progettualità, dell’integrità e funzionalità fisica, del ruolo familiare e sociale, ossia della propria identità fino ad allora vissuta. A questa fase iniziale faranno seguito altri cinque momenti di passaggio che non sono da considerarsi una rigorosa sequenza cronologica: possono avere una durata variabilissima, si possono sovrapporre in tutto o solo in parte per evolversi in modi e forme spesso differenziate, secondo le caratteristiche individuali. Non è detto che una persona attraversi tutte le fasi e non è detto che attraversata una fase non ci possa essere un ritorno alla fase precedente. Oppure possono rimanere strascichi di fasi attraversate.

Prima fase: il rifiuto Il venir a conoscenza della prognosi infausta porta l’individuo alla negazione di questa nuova verità e all’isolamento. In questa fase il malato continua a ripetere a se stesso: “Non può essere vero, io no”. In un primo momento egli cerca d’ignorarla: tuttavia questa fase presenta una sua utilità, è un meccanismo di difesa che consente al malato di cominciare ad adatta­rsi in maniera graduale all’idea del morire. È evidente che il rifiuto nasce dall’inaccettabilità inconscia della propria morte. È opportuno che l’infermiere non contraddica il malato, negandogli i propri progetti futuri; è più utile in questa condizione, rispettare i suoi desideri anche se vanno contro il principio di realtà.

Seconda fase: la collera/rabbia In questa fase il malato si pone la domanda: “Perché proprio io?”. Alla fase del rifiuto segue quella della collera che è caratterizzata da sentimenti di rabbia e risentimento direzionati verso tutti. Sono tipici di questa fase anche i sentimenti di invidia nei confronti delle persone sane e che hanno la possibilità di continuare a vivere. In questa fase il malato avrà da lamentarsi di tutto e di tutti: saranno ricorrenti l’insoddisfazione per le prestazioni mediche e infermieristiche, e la freddezza nei confronti dei familiari. Non si dovrà commettere l’errore di pensare che la rabbia del malato sia direttamente rivolta a chi lo assiste, evitando così di reagire in modo inopportuno. Uno dei possibili motivi attribuibili alle manifestazioni di rabbia del malato terminale, e che è consigliabile tenere in debito, conto può essere la perdita di ruolo nell’ambito sia familiare che sociale: mettersi a gridare significa per il malato


414 Manuale sulle cure palliative

attrarre su di sé l’attenzione degli al­tri, che non lo stimano più come prima.

Terza fase: la trattativa In questa fase il malato dice a se stesso: “Sì è toccato proprio a me però ...”. A questo punto inizia una sorta di patteggiamento con un’entità superiore (sia esso dio o il destino), nel tentativo di ottenere una proroga temporanea. La persona cerca di assumere atteggiamenti di bontà, remissione ed ubbidienza, entrando in un momento di regressione psicologica, in cambio di una settimana od un mese di vita. Questa fase di patteggiamento costituisce ancora un ennesimo tentativo di fuga dalla realtà, meccanismo di difesa funzionale solo all’attenuazione della profonda angoscia.

Quarta fase: la depressione In questa fase il paziente afferma: “Sì sono proprio io”. Il miracolo non è avvenuto, le condizione fisiche sono peggiorate ed oramai non c’è più scampo: il malato cade in una profonda depressione. Si sente un peso per i parenti, è completamente impotente e spesso ha molti dolori fisici. È un momento questo di profonda intensità che richiede la capacità di rapporti umani serrati ed intensi, in cui non solo l’ascolto attivo sarà determinante, ma anche la presenza ed il contatto fisico.

Quinta fase: l’accettazione Se tutte le precedenti fasi vengono superate positivamente allora il malato sarà pronto, se aiutato opportunamente, ad accettare la normale fine del proprio corpo. La cerchia degli interessi in questo momento è molto ristretta: il malato si sente profondamente stanco, ha un vuoto intorno a sé ed ha un desiderio di riposare. In genere non desidera avere accanto a sé molta gente, gradisce solo la compagnia delle persone che gli sono più care. L’elemento che caratterizza questa fase è il silenzio. Silenzio da rispettare perché permette al morente di accomiatarsi dall’esistenza sentendosi ancora un essere integro. Dovremmo perciò frenare ogni nostro desiderio di voler riempire quello spazio con parole e gesti inutili. Sullo sfondo di queste cinque fasi c’è comunque sempre la speranza. Lo sfondo dominante il cui valore sta nel tingere di toni meno cupi la sofferenza e l’angoscia, rendendole tollerabile. Sarà quando il malato rinuncia anche a questa senza disperazione, che è pronto ad accettare la sua inevitabile fine.


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Il processo di accompagnamento Il principio cardine su cui si fonda il processo di accompagnamento al morire abbiamo visto essere la centralità del paziente ed il rispetto e la salvaguardia della dignità umana. Dal punto di vista medico lo scopo che si prefigge l’équipe di cura è il mantenimento di uno stato di salute soddisfacente, stimolando e valorizzando, nei limiti del possibile, la collaborazione del paziente stesso. Gli obiettivi specifici di tale servizio assistenziale dovranno essere: • evitare il ricorso improprio alle strutture ospedaliere e assistere i pazienti non autosufficienti a domicilio; • favorire il mantenimento e/o il recupero delle funzioni residue, anche attraverso una più semplice e razionale erogazione dei presìdi assistenziali necessari; • assistere in un contesto ricco di elementi relazionali e attento alla qualità della vita. In un gruppo di lavoro, l’aspetto prioritario riguarda l’integrazione tra i vari operatori che, pur avendo ruoli distinti, sono complementari. Essi devono saper collaborare per fornire risposte adeguate e tempestive a bisogni complessi. Inoltre, durante la presa in carico nelle fase terminale, occorre spesso rivalutare periodicamente la complessità dei bisogni della persona assistita, allo scopo di limitare i danni dovuti all’insorgenza o all’evoluzione di problemi correlati alla precipitazione del quadro clinico e, conseguentemente, alla perdita dell’equilibrio bio-psico-sociale. In tale contesto, per assicurare la qualità di vita al paziente, risulta fondamentale la circolarità delle informazioni tra medico curante, team assistenziale e medici specialisti coinvolti, secondo un set minimo di dati finalizzato a fornire: • plausibilità e coerenza nelle cure palliative; • continuità nell’assistenza di base e nel supporto psicologico; • coerenza dell’informazione al paziente e ai suoi familiari; • essenzialità negli approfondimenti diagnostici, eventualmente necessari; • protezione sociale per i membri del nucleo familiare a maggior rischio di disagio.

Ruolo e competenze infermieristiche nella fase terminale Tra le attività che si eseguono a domicilio, sono comprese le prestazioni infermieristiche di base come il controllo dei parametri vitali, la gestione delle irregolarità dell’alvo, le iniezioni e fleboclisi, la nutrizione parenterale totale, la sostituzione e la gestione dei cateteri venosi periferici e dei cateteri vescicali, la medicazione e la gestione delle tracheostomie, dei sondini nasogastrici, della PEG, la broncoaspirazione. Così come il controllo dei ventilatori, la gestione delle pompe da infusione, e l’esecuzione di medicazioni complesse. Al di là delle attività di tipo tecnico, l’équipe assistenziale deve dedicare costantemente


416 Manuale sulle cure palliative

una buona parte del tempo alla comunicazione e all’educazione dei familiari, per sostenerli nella gestione della routine quotidiana e per insegnare ad individuare le situazioni a rischio. Mediamente, nell’arco di dieci giorni i familiari possono raggiungere una sufficiente ed autonoma abilità per le cure quotidiane: seguire l’igiene del malato, prevenire le lesioni da decubito, organizzare l’alimentazione e sapere chi chiamare in caso di bisogno (l’infermiere, il medico, il servizio d’emergenza). Tutte le figure che intervengono nel processo di accompagnamento vengono coinvolte in un’ esperienza di profonda umanità, di fronte alla quale ogni individuo è messo alla prova. Non è raro che l’incontro con la sofferenza susciti particolari reazioni emotive: un eccesso di loquacità, la voglia di scappare, un attivismo disordinato. Ma se si sanno interpretare questi fenomeni secondo la loro natura essenzialmente emotiva, allora si può tentare di fermare la sequenza reattiva, volgendola in comportamenti di tipo proattivo. In tal modo, anche il più semplice atto di cura diviene vera presenza, attraverso il farsi carico dei bisogni elementari del malato - come l’igiene personale, la regolazione della luce nella stanza, il silenzio, il tono caldo della voce, l’uso della gestualità, le carezze, il contatto fisico. La comunicazione nel processo di accompagnamento si realizza soprattutto attraverso il livello fisico, lo sguardo, le mani che non temono il toccare. Questa presenza è un vero dono per il malato, che si sente riconosciuto, confermato, stimato e degno di vivere. Anche la comunicazione verbale è spesso piena di difficoltà: molte volte le parole sono provocanti, scontrose, infantili, aggressive e chi le ascolta si impegna in un duro lavoro di accoglienza e di traduzione. Come operatori sanitari, il nostro compito si esprime nel supporto alla famiglia, nella comprensione di queste dinamiche sottili. Stimolando, laddove sia possibile, lo sviscerare le problematiche, le paure, i desideri; discutendo poi insieme le possibili strategie per appianare, semplificare, risolvere. Compito questo, che richiede una preparazione e una competenza specifica, per la quale non può essere sufficiente l’apprendimento sulla base dell’esperienza personale. Inoltre, vanno comprese le dinamiche relazionali e strutturali di ogni tipologia familiare: quando uno dei componenti il nucleo familiare ammala gravemente, vengono profondamente modificati anche i comportamenti di tutti gli altri membri, nonché le regole generali che ne orientano l’organizzazione quotidiana. La famiglia sana, generalmente, si configura nel tempo come un sistema costruttivo, nel quale la comunicazione interpersonale è elemento vitale. Si stabiliscono ruoli, regole di relazione e confini, che favoriscono il buon andamento del sistema stesso. Ma nei momenti critici dell’esistenza, esso viene messo a dura prova, cosicché alcuni ruoli devono essere ridefiniti; comunque tutti i membri del sistema familiare acquisiscono una valenza molto forte, capace di influenzare l’atto delle cure. L’improvviso doversi confrontare con una situazione destabilizzante e piena d’angoscia obbliga la famiglia ad una serie di nuovi adattamenti: la modificazione del ruolo che il paziente svolgeva nella famiglia; la difficoltà a ridefinire tale ruolo; l’incertezza circa le aspettative; la sospensione


Infermiere di famiglia

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delle attività normali di vita, nell’attesa della prognosi; l’assunzione della responsabilità delle cure; la necessità di contattare enti ed istituzioni esterne; l’integrazione di persone esterne al nucleo familiare (infermieri, medici, amici, volontari, parenti, ecc…); le difficoltà economiche. Tutto questo deve essere tenuto in debito conto, nel programmare il piano assistenziale. Anche perché la famiglia non solo rappresenta il contesto ideale nel quale attuare le cure palliative, ma ne costituisce anche la risorsa fondamentale. Tutte le competenze e le abilità professionali fin qui esposte, indispensabili per poter accompagnare il morente ed i suoi familiari nel percorso della terminalità, possono essere meglio lette attraverso una serie di griglie che ne evidenziano i prerequisiti, le conoscenze e le capacità da sviluppare, con particolare riferimento: alla comunicazione, all’educazione, alla capacità di assicurare la qualità degli atti assistenziali, allo sviluppo delle conoscenze cliniche e alla gestione del lutto. Tale proposta è stata elaborata sull’analisi di un lavoro del Royal College of Nurses inglese: “A Framework for Nurses Working in Specialist Palliative Care”. Per prerequisiti s’intendono quelle attitudini personali che il professionista sviluppa partendo dall’attenta osservazione dei contesti e dei significati utilizzando gli strumenti dell’ascolto attivo, della compassione, dell’empatia e dell’exotopia. L’exotopia origina dal concetto di empatia, ma lo disancora dalla soggettività emotiva, dal ritenere che la nostra comprensione abbia valore universale e dal rischio dell’assimilazione, puntando alla parità dei diritti dialogici e al diritto alla diversità. Infatti, le emozioni su cui si basa l’empatia non ci informano su cosa stiamo guardando, ma su come stiamo guardando. Tale approccio, perciò, permette di lasciare libero spazio all’espressione altrui, all’espressione della diversità, liberandoci dal dare risposte precostituite. Otteniamo così la possibilità di guardare all’altro, scevri da idee preconcette, da pregiudizi e senza passare attraverso il filtro della nostra personale esperienza ed emotività (D.Cozzi 2003). 1.Comunicazione Dal momento che la comunicazione è il principio cardine su cui si fonda qualsiasi relazione interpersonale è necessario che ogni professionista ne conosca perfettamente le modalità, gli aspetti, le implicazioni. Nella consapevolezza che comunicare significa essere partecipi ad un sistema di relazioni agite sia consapevolmente che inconsapevolmente, da persone che utilizzano canali e codici verbali e simbolici significativi per quel dato contesto socio culturale. Ciascun elemento dell’équipe sanitaria utilizzerà consapevolmente conoscenze e abilità comunicative specifiche, allo scopo di promuovere un’efficiente interazione col paziente e i suoi familiari. Inoltre, stabilirà una relazione terapeutica attraverso forme di counselling, allo scopo di promuovere la collaborazione del paziente e dei familiari nella gestione delle cure.


418 Manuale sulle cure palliative Prerequisiti

Conoscenze

Sensibilità.

Ambito disciplinare, finalità e meto- Stabilire una relazione efficace col paziente, coi familiari, con i colleghi. dologie delle cure terminali

Assertività. Consapevolezza. Responsabilità. Disponibilità. Creatività.

Capacità

Meccanismi e interazioni che influenzano la comunicazione e sue ricadute sul benessere del paziente e dei familiari.

Incoraggiare in maniera empatica e realistica il paziente nell’espressione dei suoi bisogni.

Problematiche e reazioni psicologiche del paziente (collera, rabbia, depressione, patteggiamento) e loro implicazioni.

delle problematiche psicologiche, emotive, spirituali.

Individuare eventuali impedimenti alla comunicazione (difficoltà di ascolto, di espressione, Tecniche di relazione, di comunica- di linguaggio, scrittura, ecc.). zione ed educative (ascolto attivo). Stimolare, quando possibile, la discussione

Principi e metodi del counselling

Mediare, quando richiesto, le interazioni tra il paziente ed i familiari.

Supportare le famiglie nei momenti critici, faValore terapeutico della relazione tra vorendo la discussione delle scelte terapeutiche e delle strategie di gestione. infermiere e paziente Dinamiche familiari, teorie e modelli Incoraggiare il mantenimento di un ambiente per fornire supporto nei momenti cri- rassicurante e positivo. tici Suggerire una serie di obiettivi, desunti dalle valutazioni del paziente e nel rispetto della libertà di scelta.

2.Educazione L’educazione, in questo contesto, è intesa sia come capacità di educare gli altri, i fruitori delle nostre cure, sia come capacità di trovare nuove fonti di apprendimento e di aggiornamento per migliorare le nostre competenze. Nell’ambito educativo è possibile cogliere in prima istanza i bisogni d’informazione del paziente e della sua famiglia, per poter poi indirizzare nel reperire le fonti più adeguate. In un secondo momento lo scambio comunicativo permetterà il passaggio di conoscenze e capacità inerenti gli interventi sanitari. Sempre tenendo in debito conto la circolarità della comunicazione; anche l’equipe di cura avrà così modo d’essere stimolata nello scambio reciproco del sapere. Prerequisiti

Conoscenze

Capacità

Riflessività

Teorie e metodologie educative e loro applicazione

Fornire informazioni semplici e comprensibili

Tipologie dei bisogni di informazione del paziente e dei familiari e forme di accesso alle conoscenze (riviste, pubblicazioni, siti Internet, libri, associazioni, ecc...)

Adattare il linguaggio e le conoscenze professionali ad un livello base

Curiosità Attenzione Comunicatività Consapevolezza Esperienza Creatività Innovazione

Educare i familiari a prendersi cura del proprio caro Riconoscere il bisogno dei familiari di partecipare attivamente alla gestione delle cure Riflettere in maniera costruttiva sull’esperienza coi colleghi, anche attraverso incontri periodici


Infermiere di famiglia

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3. Qualità assistenziale Ciascun professionista contribuisce all’elaborazione e alla realizzazione di programmi assistenziali personalizzati, alla luce delle caratteristiche e delle aspettative del paziente, nel rispetto del contesto familiare e sociale. Prerequisiti Consapevolezza autocritica Osservazione Analiticità Responsabilità Impegno Creatività Chiarezza

Conoscenze

Capacità

e modalità di Valutare e registrare accuratamente i bisogni e Natura manifestazione dei bisogni assistenziali del paziente terminale Svolgere solo attività per le quali si è sicuri di essere Motivazioni professionali ed competenti etiche che determinano ogni Rilevare gli effetti dell’uso inefficace e inopportuno di decisione clinica Principi risorse dell’Evidence-based Practice Identificare e riportare accuratamente ogni variazione (EBP) delle condizioni del paziente Identificare i possibili fattori di rischio

Innovazione

Attenersi a protocolli e linee guida per orientare la pratica Gestire le risorse efficacemente attenersi all’EBP Riflettere attorno all’esperienza attraverso l’analisi critica al fine di sviluppare linee guida di riferimento

4. Sviluppare conoscenze cliniche ed abilità pratiche specifiche Sviluppare conoscenze cliniche ed abilità di tipo pratico inerenti l’ambito delle cure palliative, sulla base dell’Evidence-based Nursing (EbN), significa assicurare le migliori cure adeguate ai pazienti terminali. Occorre tenere in debito conto tutte le implicazioni specifiche della malattia terminale, nell’interpretazione delle situazioni cliniche, nelle valutazioni, nella formulazione degli obiettivi e infine, nell’erogazione dell’assistenza. In questa fase è opportuno sottolineare l’importanza del lavoro di gruppo, la capacità di comunicare con i colleghi, la consapevolezza che ogni decisione va comunque presa coralmente. Prerequisiti

Conoscenze

Capacità

Empatia

Sintomi e segni che possono compromettere il benessere del paziente (nausea, stipsi, astenia, insonnia, singhiozzo, mucosite, ecc…)

Promuovere lo stato di benessere del paziente

Autocoscienza Sicurezza Comprensione Riflessività Creatività

Valutare l’impatto e le conseguenze immediate e a lungo termine delle decisioni prese, per il paziente e i suoi familiari

Princìpi e metodologie per il controllo Utilizzare la verifica e la ricerca per determinare dei sintomi la pratica migliore Dosaggi, vie di somministrazione ed Valutare globalmente gli aspetti psichici, culturaeffetti collaterali dei farmaci li, sociali, etici che influenzano il benessere, le Reazioni psicologiche e dinamiche fa- cure e le scelte terapeutiche del paziente miliari nella fase terminale Riconoscere opportunamente le implicazioni Fattori modificanti la percezione del personali nella decisione dei percorsi terapeutici (età, aspettative di vita, problematiche lavorative dolore


420 Manuale sulle cure palliative da pianificare) Valutare i risultati, variando eventualmente gli obiettivi e gli interventi, conseguenti alle variazioni cliniche del paziente Sviluppare relazioni costruttive coinvolgendo il paziente e la famiglia nelle scelte terapeutiche Dare consigli, informazioni e supporto psicologico ed emotivo Identificare idee e strategie che contribuiscano allo sviluppo di linee guida e protocolli di cura

5.Gestione del dolore, della perdita, del lutto Gestire le ultime fasi dell’accompagnamento rappresenta forse l’aspetto più impegnativo dell’intero percorso. Nelle ultime fasi della vita non ci sono molte attività pratiche da svolgere e spesso è nel semplice silenzio dell’ascolto attivo che, come infermieri, possiamo efficacemente stare accanto al malato, allo scopo di aiutarlo ad accomiatarsi dalla vita dolcemente. Ci sono poi i familiari, anch’essi bisognosi di cura. Il processo del lutto per la famiglia inizia già nell’ultimissima fase terminale, quando viene comunicato che non vi sono più speranze di guarigione e il decadimento organico del malato è reso evidente. La possibilità di continuare ad amare, assistere ed accudire il proprio caro, mentre pian piano ci si distacca da lui, aiuta a riconoscere tutto ciò che riguarda la relazione. Sia che si tratti dell’affrontare e risolvere concretamente problemi pratici che riguardano il periodo dopo la morte o dell’occasione di chiarire problemi relazionali irrisolti, di manifestare sentimenti taciuti, con i gesti e le parole non dette. Lasciando sì spazio al dolore, ma anche alla quieta rassegnazione. Chi muore deve sentire di potersene andare serenamente, perché questo è il destino dell’uomo e chi resta deve avere il coraggio di lasciar andare il proprio caro. Ci sono realtà in cui i sanitari rimangono a prendersi cura dei superstiti, perché il lutto va affrontato, nelle sue diverse fasi: va rispettato il dolore, ma incentivata la ricerca di una nuova dimensione di vita. Il lutto fisiologico implica che chi resta possa sperimentare che la vita continua, trovando nuovi modi di riorganizzare la quotidianità. La presenza dello psicologo, o comunque di una figura in grado di fungere da counsellor, diventa prioritaria per offrire alle famiglie un supporto importante ed una possibilità di comprensione maggiore, laddove vi siano difficoltà introspettive. Prerequisiti

Conoscenze

Capacità

Empatia Sensibilità Fiducia Sicurezza Ascolto attivo Exotopia

Identificazione e riconoscimento dei particolari bisogni del morente (luce, rumori, profumi, sete, contatto fisico, ecc.) Risorse e limiti del fornire sostegno Fasi del lutto e bisogni dei familiari

Saper trattare gli aspetti riguardanti il morente e la morte Fornire ascolto, vicinanza e sostegno al morente Consigliare i familiari sugli aspetti pratici Rispettare i valori e le usanze altrui Assicurare forme di counselling ai familiari Consigliare eventuali percorsi terapeutici per la gestione del lutto


Infermiere di famiglia

421

“Nascita, vita e morte sono fenomeni transitori. L’idea stessa di un’esistenza individuale, separata da quella degli altri, è un’illusione. Perché ogni singolo individuo è connesso all’intero universo in un rapporto intimo ed indissolubile. La morte non può toccare chi giunga a comprendere questo” (F.e.L. Cavalli Sforza,1997 La scienza della felicità Milano).

Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Aries P., (1975), Storia della morte in occidente, Milano. Bonetti M., Ruffato M.T. (2001), Il dolore narrato, Torino. Carotenuto A. (1996), Le lacrime del male, Bologna. Comitato Gigi Ghirotti e Ministero della Salute (a cura di) (2002), Approccio globale al dolore cronico. 5. Cozzi D. (2003), La gestione dell’ambiguità. Per una lettura antropologica della professione infermieristica, Brescia. 6. M.de Hennezel (1998), Il passaggio Luminoso, Editore Rizzoli . 7. Kubler-Ross E. (1982), La morte e il morire, Assisi: Cittadella Editore. 8. Royal College of Nurses (2002), A Framework for Nurses Working in Specialist Palliative Care, Londra. 9. M.de Hennezel, Il passaggio Luminoso, Editore Rizzoli 1998. 10. S. Spinasanti, Una “ars moriendi” per il XXI secolo?. 11. A. Carotenuto (2002), Le lacrime del male, Bologna. 12. P. Aries (1975), Storia della morte in occidente. Milano. 13. E. Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi: Cittadella editore, 1982. 14. D. Cozzi, La gestione dell’ambiguità. Per una lettura antropologica della professione infermieristica, Erreffe. La ricerca folklorica 2002; 46:35. Editore Grafo, Brescia. 15. F.e.L. Cavalli Sforza (1997), La scienza della felicità, Milano Oscar Saggi Mondari.


18.2 La morte e il morire oggi. Tra scienza e fede atteggiamento culturale e dignità del malato Francesco Savino © Copyright Edicare Publishing

“La gente muore. Non solo i pochi che conosco, ma innumerevoli persone ovunque, ogni giorno, ogni ora. Morire è l’evento umano più naturale, qualcosa che tutti dobbiamo sperimentare. Ma moriamo bene? La nostra morte è qualcosa di più di un destino inevitabile, qualcosa che semplicemente non vorremmo esistesse? Può diventare in qualche modo l’atto di una realizzazione, forse più umana di ogni altro atto umano?” H. Nouwen

L’evento della morte Non è possibile parlare del morire, senza fare un breve accenno all’evento della morte di fronte al quale si dispiegano numerosi interrogativi: Perché la morte? Quando la morte? Come la morte?... Ognuno di noi, ad un certo momento della vita, si è posto o si pone queste domande e non vi riesce a rispondere con persuasione. Eppure la morte è un evento ineluttabile, non rimovibile, di fronte al quale possiamo fare un atto di accettazione o di rivolta o di rassegnazione. Tutti, ogni uomo muore, perché ogni vita è mortale e la morte è un fenomeno naturale, eppure di fronte a tale evidenza noi manifestiamo angoscia e paura… Perché? Qoélet risponde: «Dio ha messo la nozione di eternità nel cuore degli uomini, senza però che gli uomini comprendano l’opera compiuta da Dio dall’inizio alla fine» (Qo 3, 11). Infatti, quando giunge l’evento della morte, l’uomo si sente toccato nel profondo. La morte è intesa come sparizione, solitudine, fine di ogni relazione e di ogni comunicazione con i viventi. Come fare a superare l’angoscia e la paura di fronte alla morte?


La morte e il morire oggi

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L’urgenza di una riflessione. La morte scandalo e doloroso paradosso Nel testo edito da Einaudi a cura di Daniela Monti, sei pensatori del nostro tempo, di matrice culturale diversa, si confrontano su che cosa vuol dire morire. Facendo sintesi, mi pare di poter dire che attorno alla morte non esistono idee rassicuranti e quello della «morte amica» è un mito. Attorno alla morte il patrimonio di riflessioni accumulato nei secoli non regge più. Sulla morte “il nostro mondo sta faticosamente elaborando risposte nuove. La sensazione è quella di trovarsi in mezzo a un guado”. Abbiamo bisogno di una nuova teoria della morte. Una teoria che faccia da sintesi fra le promesse della medicina e la necessità di guardare oltre, verso un orizzonte capace di dare un senso più pieno alla vecchiaia e non solo (sempre più lunga, spesso vissuta con salute incerta) e, dunque, alla morte moderna, che la scienza ha convertito da acuta in cronica. Della morte non sappiamo nulla. Alcuni interrogativi. • Ci si può preparare alla morte? • Esserne preparati, aiuta ad andare incontro a una “buona morte”? • E ancora: che cos’è diventata la morte nell’epoca della tecnica? Marguerite Yourcenar, in chiusura delle “Memorie di Adriano” fa dire all’imperatore ormai anziano: “Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…”. Una frase che condensa la migliore lezione egli antichi. Entrare nella morte a occhi aperti significa temerla, ma insieme essere preparati. Adriano sa di dover morire: “Le medicine non mi soccorrono più”. Così ha predisposto tutto: il mausoleo in cui le sue ceneri verranno custodite, l’aquila incaricata di recare agli dei l’anima dell’imperatore, l’avvenire per i propri amici, che già piangono per lui. Adriano “fino all’ultimo istante sarà stato amato d’amore umano”, scrive la Yourcenar. È anche questo amore che gli dà il coraggio di compiere l’ultimo passo: “Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…”. • E oggi? Iona Heath sostiene che “La morte ci dà la possibilità di dare compiutezza alla vita”. Morire sul colpo è il nuovo sogno, la fine che ciascuno augura a se stesso. Siamo così impreparati di fronte alla morte che l’unica risposta che la nostra cultura ipertecnologica sa offrirci è fingere che non esista. Costruire una nuova cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile, è l’unica strada possibile. Di più: è un compito di cui essere all’altezza. “A chi vive seriamente” - scriveva Kiekegaard - “il pensiero della morte indica la giusta direzione nella vita e la giusta meta verso cui indirizzare il viaggio”. È proprio questa la sfida: la morte acquista un senso soltanto se intrecciata a un rinnovato sguardo sull’esistenza. La riflessione sulla morte diventa così una riflessione sulla vita: una lente di ingrandimento con cui osservare la quotidianità, strappandoci a quel “sonnambulismo” che ci condanna a vivere senza lucidità gran parte del nostro tempo. Conferire di nuovo dignità alla morte,


464 Manuale sulle cure palliative

strappandola dalla terra di nessuno in cui è stata confinata. • E la tecnologia? “La tecnica non è né buona, né cattiva, è la ragione umana a dover integrare la scienza in una visione razionale del mondo”, dice Aldo Schiavone. Che però avverte: mai come ora abbiamo bisogno di uno scatto in avanti, di un “nuovo umanesimo” capace di riequilibrare i valori in gioco perché “il rischio è lo sbilanciamento: una scienza e una tecnica sempre più potenti di fronte a un’etica sconclusionata, un diritto asservito, una politica timorosa, una percezione di noi stessi debole”. Per ridare un senso alla vita e alla morte l’unica via è, dunque, cambiare mentalità. Per Giovanni Reale la via da percorrere è un ritorno ai concetti di natura (creata da Dio), persona e amore che stanno alla base del pensiero cristiano: “La cultura scientifico - tecnologica, con le sue sorprendenti e continue vittorie, ha travolto tutto: ciò che resta fuori del suo mondo - il sacro, il mistero dell’uomo - viene eliminato. I corpi dei defunti sono diventati materiale da smaltire. Anche il senso della morte è stato vanificato, rimosso. Ma la tecnica non ripristina la natura, le si sostituisce. Non ridà la vita, ma una larva di esistenza, perché la vita è molto di più della semplice sopravvivenza e dell’autoconservazione artificiale”. La morte rimane uno scandalo, un doloroso paradosso. L’uomo davanti alla morte “Se tu sei, la morte non è; se è la morte, tu non sei”, questa espressione di Epicuro dice bene qual è stato e qual è tuttora l’atteggiamento dell’uomo davanti alla morte. Paura, sgomento e angoscia caratterizzano quest’evento… tanto che si sente il bisogno di negare tale realtà rifugiandosi in sotterfugi razionali. Secondo Freud nessuno di noi crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, ognuno di noi è inconsciamente convinto della propria immortalità. Il nostro inconscio non accetta l’idea di dover morire. La Kübler-Ross parlando della psicologia del morire, parla di varie fase di reazione: • della negazione; • della collera (“perché io e non gli altri”?); • dello spostamento; • del patteggiamento; • dell’accettazione. Ella descrive così gli atteggiamenti del malato morente. All’inizio, la maggior parte dei duecento e più malati intervistati reagiva alla consapevolezza di avere una malattia mortale con frasi tipo: «No, io no, non può essere vero»: espressione di rifiuto che, frenando l’emergere improvviso dell’angoscia, permette al malato di ritrovare il coraggio e mobilitare, col tempo, difese meno radicali. «Perché io?» era la domanda che spesso seguiva e che veniva accompagnata da sentimenti


La morte e il morire oggi

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di rabbia, invidia e risentimento: e la collera era scaricata sui medici, le infermiere, i familiari o altri ancora; e anche su Dio. A volte il comportamento di questi malati somigliava a quello dei bambini quando vogliono ottenere qualcosa che viene loro negato: cercavano di contrattare e venire a patti, con Dio innanzitutto, ma anche con gli altri, nel tentativo di ottenere qualche vantaggio, magari «per buona condotta». C’è poi un momento di particolare dolore che il malato vicino alla morte deve affrontare per prepararsi alla sua ultima separazione da questo mondo: è il momento della depressione, per le perdite subite ma anche per le perdite che stanno per accadere. Alla fine, se ne ha avuto il tempo ed è stato aiutato a superare le fasi sopradescritte, il malato raggiungerà lo stadio, l’accettazione in cui non sarà né depresso, né arrabbiato per il suo «destino». I pazienti non seguono necessariamente questo schema in modo rigido e prefissato. A volte presentano nei loro atteggiamenti caratteristiche di più stadi simultaneamente. E gli stadi non si presentano sempre e per tutti nello stesso ordine. Sono però atteggiamenti che vale la pena imparare ad osservare a capire perché li troviamo spesso nei malati terminali. Ciò che generalmente permane attraverso queste fasi, e nei vari momenti della malattia, è la speranza.

La morte nei secoli Per una comprensione più “sapiente” della morte ci domandiamo: Quali sono stati gli atteggiamenti dell’uomo di fronte alla morte nel corso dei secoli? Il francese Philip Ariès (1978) ha raggruppato i modi di rapportarsi alla morte in quattro atteggiamenti prevalenti che spiego di seguito. La morte addomesticata Questa visione abbraccia la storia dell’uomo per molti secoli e ne è testimonianza un enorme patrimonio artistico, prevalentemente di carattere religioso. Per un lungo arco di tempo, dalla preistoria all’antichità, la morte viene vista e accettata come destino collettivo della specie umana; non desta né paura né disperazione. Atteggiamenti caratteristici dinanzi a questo evento inevitabile sono la familiarità, la naturalità e il suo carattere pubblico. Questo atteggiamento porta a vivere la morte come qualcosa di “domestico”. In questo senso la morte assume una dimensione di familiarità, perché il capezzale del morente è circondato dai familiari, dai bambini, dal medico. Ma anche di naturalità, perché accomuna i poveri e i ricchi, gli anziani e i bambini, e, a causa delle malattie, delle epidemie, delle guerre, è presente ovunque, è una minaccia concreta che incombe continuamente sulla fragile vita dell’uomo. La morte, in un certo senso, è l’espressione della forza della natura di fronte all’impotenza dell’uomo. La morte, fino


466 Manuale sulle cure palliative

al primo Medioevo, ha anche un carattere pubblico, perché la camera del moribondo si trasforma in luogo pubblico, tant’è che “(…) i medici si lagnavano del sovraffollamento delle camere degli agonizzanti (…). Anche i passanti che incontravano per strada il piccolo corteo del prete che portava il viatico, lo accompagnavano ed entravano dietro di lui nella stanza del malato”. La morte di sé Attraverso cambiamenti graduali, dal XII al XV secolo si va consolidando un atteggiamento che registra uno stretto rapporto tra la morte e la biografia di ogni persona. All’idea del destino collettivo si sostituisce un’accentuata consapevolezza della propria individualità e della propria morte. Attraverso le disposizioni testamentarie, l’individuo esprime le sue volontà, i suoi pensieri, la sua fede e i segni che vuol lasciare. Anche l’arte trasmette una prospettiva nuova spostando i suoi temi dal Giudizio universale al Giudizio individuale: “Ogni uomo è giudicato secondo il bilancio della sua vita, le buone e le cattive azioni sono scrupolosamente separate sui due piatti della bilancia”. Il Giudizio avviene nella camera del morente, che è a letto, circondato da amici e parenti, quando succede qualcosa che i presenti non vedono, ma è riservato solo a lui: “Degli esseri soprannaturali hanno invaso la camera e si affollano al capezzale del giacente. Da una parte la Trinità, la Vergine, tutta la corte celeste, e dall’altra Satana e l’esercito dei demoni mostruosi”. Il tema centrale non è tanto il giudizio di Dio sul morente, quanto la prova o la tentazione cui viene sottoposto e che determinerà la sua sorte nell’eternità: “Il moribondo rivedrà tutta la sua vita, e sarà tentato sia dalla disperazione per i suoi errori, sia dalla vanagloria delle sue buone azioni. Il suo atteggiamento, nel lampo di quell’attimo fugace, cancellerà di colpo i peccati di tutta la sua vita, se respinge la tentazione, o, al contrario, annullerà tutte le sue buone azioni, se vi cede”. In sintesi, questa fase storica registra un’accresciuta consapevolezza del significato della propria morte con un’enfasi particolare sulla tentazione finale, quale banco di prova per il premio o il castigo eterno. La morte dell’altro A partire del XVIII secolo, l’uomo è meno preoccupato della propria morte, mentre drammatizza la morte dell’altro, soprattutto quella dei propri cari. Il capezzale degli agonizzanti diventa luogo per l’espressione del dolore e la manifestazione delle emozioni: i presenti piangono, pregano, svengono, digiunano. C’è un forte turbamento dinanzi alla separazione: “Dopo sette secoli di sobrietà, il XIX secolo è l’epoca dei lutti che l’odierno psicologo chiama isterici (…) la morte temuta non è dunque la propria morte, ma la morte dell’altro, la morte del tu”. Il tumulto di sentimenti ed emozioni trova espressione nel culto delle tombe e dei cimiteri, che va estendendosi nei due secoli successivi. Chi sopravvive alla morte dell’altro porta abiti da lutto, si moltiplicano i pellegrinaggi alle tombe, si tramanda il culto della memoria.


La morte e il morire oggi

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• a non morire nell’isolamento e in solitudine; • a morire in pace e con dignità.

Conclusione “Volevo essere tutto me stesso prima di morire”. Così scriveva Carlo Massa, giornalista, nel suo “diario” prima di morire. Essere se stessi anche prima di morire. Essere se stessi, cioè vivere nell’autenticità, sempre, anche prima dell’evento della morte. Affido ai versi del grande poeta Rainer Maria Rilke, che sempre mi afferrano per la loro esattezza di preghiera, il compito di concludere queste mie riflessioni sempre aperte: “Oh Signore, dà a ciascuno la propria morte, una morte che scaturisca da una vita in cui ciascuno abbia avuto amore, senso, pena”. Una morte che sia davvero una morte è quella che riesce a essere specchio di ciò che in una vita è essenziale: l’amore, che è la passione che ci guida e le relazioni che intrecciamo; il senso, sapere a cosa si è destinati, a quale compito siamo chiamati; e la pena, perché è anche nella mancanza (in ciò a cui manchiamo e di cui manchiamo) che cresciamo man mano in umanità e comprensione.

Bibliografia 1. Gordon D., Peruselli C., Narrazione e fine della vita, Franco angeli Editore, Milano, 2001. 2. Marzi A., Morlini A., L’hospice al servizio del malato oncologico grave e della famiglia, Mc Graw Hill, Milano 2005. 3. Lizzola I, Aver cura della vita. L’educazione nella prova: la sofferenza, il congedo, il nuovo inizio, città aperta, 2002. 4. Kubler - Ross E, Domande e risposte sulla morte e il morire, RED, Milano, 1997. 5. Fornero G, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano 2005. 6. A.R., Jonsen, M. Siegler, W.J. Winslade, Etica clinica, un approccio pratico alle decisioni etiche in medicina clinica, Edizioni Italiana a cura di A.G. Spagnolo, Milano, Mc Graw-Hill, 2003. 7. Andolfi M., D’Elia A. (a cura di), Le perdite e le risorse della famiglia, Cortina, 2007. 8. Bartoccioni S., Bonadonna F., Sartori F., Dall’altra parte, a cura di Paolo Barnard, BUR, 2006. 9. Campione F. (a cura di), The last dance , L’incontro con la morte e il morire, Clueb, 2005. 10. Di Nola A.M., La nera signora - Antropologia della morte e del lutto, Newton & Compton, 2001 (1995). 11. Colombo S., Accanto a colui che muore, in: Spinanti S., Un tempo, un luogo per morire. Quaderni di Janus, 2003. 12. Kubler - Ross E., La morte è di vitale importanza, Milano, Armenia, 2006.


CAPITOLO 22

abilità gestionali 1 22.1 Cateteri venosi centrali (CVC) Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Leonida Iannantuoni © Copyright Edicare Publishing

I Cateteri Venosi Centrali sono dei dispositivi, in grado di realizzare una comunicazione tra l’ambiente esterno e il sistema venoso profondo, utilizzati nelle cure palliative per la somministrazione di nutrienti e farmaci tra cui chemioterapici. La maggiore complicanza clinica, in termini di frequenza e di gravità, è ancora oggi rappresentata dall’instaurarsi di processi infettivi. Il miglior modo per ridurre il rischio che questi si manifestino è rappresentato dalla prevenzione, ottenibile con una corretta gestione del catetere. La manutenzione di questi cateteri venosi centrali è relativamente semplice e di facile comprensione sia da parte del paziente che dei familiari. E’ importante che il paziente, e in particolare il familiare che si prende cura in prima persona del paziente, sia correttamente addestrato alla gestione del catetere. Poche ma fondamentali regole, vanno seguite per poter garantire il buon funzionamento e la lunga durata del sistema.

Accesso Venoso in paziente oncologico Vene periferiche integre Via periferica Durata del sistema < 20 giorni

Vene periferiche non agibili Va centrale Durata del sistema < 20 giorni CVC a breve termine

Accesso Venoso a medio termine (< 3 mesi) Vene periferiche integre PICC, Midline

Vene periferiche non agibili CVC non tunnellizzato (Hohn)

Accesso Venoso a lungo termine (>3 mesi) Catetere esterno tunnellizzato (Groshong)

Sistemi totalmente impiantabili (Port)


Cateteri venosi centrali

Fig. 16 - Ago di Gripper e di Huber

Fig. 17 - Ago di Gripper posizionato

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Fig. 18 - Lavaggio con ago di Huber

setto perforabile, riconoscibile al tatto, inserire l’ago fino al fondo della camera. L’ago va infisso perpendicolarmente al piano cutaneo facendolo penetrare il più possibile, l’operatore esperto riesce a percepire il rumore metallico dovuto al contatto tra la punta dell’ago ed il fondo della camera. Non c’è rischio di trapassare la capsula in quanto la parete non può essere perforata dall’ago. E’ preferibile coprire il punto di infissione con una medicazione trasparente in modo da poterla monitorare. Per l’infusione si possono utilizzare delle pompe. I possibili problemi che si possono manifestare durante l’uso di questi cateteri e delle pompe sono rappresentate dal blocco dell’infusione. In questi casi bisogna: controllare se l’ago è inserito correttamente; se l’ago ha perforato completamente il setto e/o se non è in sottocute (gonfiore cutaneo) od occluso; se i morsetti di chiusura del set o dell’ago sono aperti; se la pompa ha un qualche malfunzionamento. In quest’ultimo caso si può provare a infondere Fig. 19 - Cateteri di Port soluzione fisiologica come per il lavaggio e vedere se il catetere si rimette a funzionare, in caso di inefficacia della manovra è preferibile contattare un esperto. Diversi sono i vantag­gi offerti dal Port: • posizionamento sotto cute; • minima manutenzio­ne senza necessità di medi­cazione esterna; • minimo rischio di infezioni. Fig. 20 - CVC breve termine a tre vie posizionamento in succlavia


532 Manuale sulle cure palliative

Fig. 21 - Hohn monovolume in giugulare con fissaggio senza punti di sutura Statlock

Fig. 22, 23, 24 - CVC a breve termine in succlavia

Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Guidelines for the Prevention of Intravascular Catheter-Related Infections CDC (2002). Assessment and Device Selection for Vascular Access RNAO (2004). Care and Maintenance to Reduce Vascular Access Complications RNAO (2005). Pratt RJ, Pellowe CM, Wilson JA, et all “National evidence based guidlines for preventing Healthcare associated infections in NHS Hospitals in England”; Journal of Hospital Infection Febbraio 2007 65S, S1-S64. Liliane Juchli, A. Vogel, “L’assistenza infermieristica di base”, Rosini Editrice, Firenze. AA.VV., Linee guida per la gestione degli accessi venosi centrali, CDC, Atlanta, 2002. S. Calsesk, Intravenous therapy in nursing practice: vascular accessing acute care setting, ed. Doughertyl Lamb.J., Edimburgo-Churchill-Livingstone, 1999-2000. C. Mallett Bailey, “The royal marsden manual of clinical nursing procedures”, IV ed., ed. Oxford Blackwell Science, 1996. Mazzufero F., Gli accessi venosi centrali a lungo termine , in Oncologia e cure palliative a cura di Carpanelli I., Canepa M., Bettini P., Viale M. - Mc Graw-Will, Milano 2002.


22.3 Pompe elastomeriche (Elastomeri) Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Leonida Iannantuoni

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La pompa elastomerica è un dispositivo utilizzato per l’infusione, continua ed a velocità costante preimpostata, di farmaci in soluzione, per via endovenosa, sottocutanea o peridurale. È costituita da un palloncino-serbatoio in materiale elastico (elastomero) che esercita, sul fluido in esso contenuto, una pressione costante; questo dispositivo è connesso a un tubo, provvisto di una val­vola di flusso, tramite il quale il fluido viene spinto lungo una linea d’infusione. La perfusione del farmaco è determinata dalla pressione positiva e da un regolatore di flusso. Il suo funzionamento dipende dal­la pressione generata da due strati di mem­ brana elastomerica contenuti nel guscio esterno, rigido, in PVC. La caratteristica fondamentale della membrana è quella di contrarsi, dopo una sua espansione dovuta a riempimento, fino a quando raggiunge nuovamente la sua forma originaria, dopo aver ceduto il contenuto. Ad una estremità del guscio di PVC, è presenta una valvola di riempimento e una linea di infusione contenente un filtro particellare, un filtro di eliminazio­ne dell’aria e una valvola di regolazione del flusso. La valvola di riempimento è unidire­zionale e una volta caricato il farmaco, questo non può essere più rimosso. La valvola di flusso consente di regolare la velocità del flusso da infondere (ml/h).

Fig. 1, 2, 3 - Elastomeri di diversa capacità


538 Manuale sulle cure palliative

Fig. 4 - Componenti dell’elastomero

Fig. 5 - Ricarica dell’elastomero

Trova utilizzo nel post operatorio per il dolore acuto, in campo oncologico per la somministrazione di farmaci chemioterapici e in cure palliative per l’infusione di farmaci, quando non è possibile la somministrazione per os, e nella terapia del dolore. Può essere utilizza­to anche per la somministrazione di antibiotici o antivirali. Il farmaco che viene spinto dalla pompa nella linea di infusione, attraversa prima il filtro particellare e poi il filtro d’aria per giun­gere infine al regolatore di flusso. Particolare attenzione deve essere posta alla valvola di flusso, quando sprovvista di sistemi di bloccaggio, che deve essere tenuta a vista e, se possibile, fissata sui vestiti o sulla cute, per impedire che la regolazione della velocità si modifichi. Modalità di utilizzazione degli elastomeri • lavarsi le mani e usare la massima sepsi; • svitare il tappo della porta per il riempimento, senza toccare con le mani tale porta; • aspirare i farmaci con una siringa da 50 ml e, se necessario, diluirli fino a raggiungere il massimo della carica dell’elastomero; • collegare la siringa, priva di ago, alla porta di accesso mantenendo il sistema verticale; • attivare la valvola di flusso sulla velocità massima fino al riempimento del deflussore, poi posizionarla sulla velocità che si desidera (ml/h); • se c’è la presenza di aria, che potrebbe bloccare il sistema, aspirarla servendosi del rubinetto a tre vie, tramite una siringa in aspirazione; • posizionare sull’involucro esterno dell’elastomero una etichetta dove saranno riportate: data di riempimento, farmaci e le loro quantità e diluizione. Importante, la soluzione di farmaci deve rimanere trasparente, non deve assumere aspetto lattiginoso o con precipitazioni, che hanno significato di incompatibilità tra farmaci, controllare anche dopo qualche ora che questo non accada e, in tale eventualità, cambiare in toto il sistema. Controllare quotidianamente che l’elastomero funzioni e si svuoti, controllando il livello della soluzione per mezzo della scala presente sull’involucro esterno. Controllare il sito di ingresso quotidianamente, la cute non deve presentare arrossamenti, tumefazioni e non deve essere dolente. Il paziente con elastomero, se non specificato dalla casa costruttrice del dispositivo, non può viaggiare in aereo.


22.5 Gastrostomia Percutanea Endoscopica (PEG) Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Leonida Iannantuoni © Copyright Edicare Publishing

La Gastrostomia Endoscopica Percutanea, o PEG, è una metodica che permette di soddisfare i fabbisogni nutrizionali dei pazienti. La PEG nelle cure palliative si rende necessaria quando il paziente è affetto da patologie neurologiche (M. di Parkinson, Sclerosi Multipla, Vasculopatie cerebrali, M. di Alzheimer, Sindrome pseudo-bulbare) o oncologiche del tratto gastrointestinale, che li rendono incapaci di alimentarsi per os ed abbiano un’aspettativa di vita maggiore di un mese. La possibilità di una alimentazione enterale tramite PEG permette, a differenza di quella parenterale, di mantenere la funzionalità intestinale indispensabile per impedire la traslocazione batterica e di ridurre per quando possibile l’alimentazione enterale tramite sondino naso gastrico (SNG), presidio poco e mal tollerato dal paziente oncologico in fase avanzata di malattia. Risale al 1979 l’utilizzo di questa metodica, denominata Gastrostomia Endoscopica Percutanea (PEG), che permette l’inserimento della sonda nel tratto digestivo durante una normale gastroscopia. L’impianto di tale ausilio ha ridotto sensibilmente il numero di complicanze, i costi, il periodo di degenza e favorisce il reinserimento precoce del malato in famiglia, oltre ad essere di facile gestione. In molti casi si è rivelata un

Fig. 1 - Dispositivo Low profile (bottone)

Fig. 2 - Sonda per PEG


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presidio determinante nel migliorare la qualità di vita residua poiché, pur avendo alcune patologie di base una lenta evoluzione, permette di correggere in modo fisiologico il deficit nutrizionale ad esse correlato.

Gestione della sonda Attraverso la PEG è consigliabile utilizzo di prodotti per nutrizione entrale ufficialmente commercializzati, riconosciuti, con facile calcolo dell’apporto calorico (Ensure, Ensure Plus etc.). Tali alimenti sono in genere forniti dalla farmacia distrettuale o ospedaliera a seguito di richiesta specialistica. Sconsigliabile l’uso di frullati preparati in casa dall’incerto apporto calorico. La toilette superficiale giornaliera può essere eseguita mediate perossido di idrogeno o mercurio-cromo con copertura esterna con garze. Tutti i pazienti che presentano una sonda, sia per via nasale che per stomia gastrica, devono essere scrupolosi nel mantenerla in buone condizioni igieniche in modo che possa funzionare regolarmente. La toilette superficiale giornaliera può essere eseguita mediate perossido di idrogeno o mercurio - cromo con copertura esterna con garze. La medicazione va cambiata una volta al giorno per la prima settimana, a giorni alterni per gli 8-10 giorni successivi, poi si effettueranno medicazioni settimanali. Ricordarsi di asciugare bene la zona senza utilizzare mai garze tra la cute e il fermo esterno della sonda. In caso di formazioni di incrostazioni attorno alla stomia, queste, possono essere rimosse con acqua ossigenata a 10 volumi. Se le garze si bagnano bisogna sostituirle per evitare macerazioni della cute. Verificare la presenza di arrossamenti, irritazioni o fuoriuscite di succhi gastrici o materiale purulento. In tal caso consigliarsi con il centro di riferimento. La toilette della sonda deve essere eseguita, alla fine di ogni pasto, con normale irrigazione di acqua (siringone da 60 ml con 30-60 cc di acqua). La rimozione e sostituzione della PEG deve comunque avvenire dopo il sesto e non oltre l’ottavo mese di utilizzo. Se la somministrazione è continua, la sonda va lavata periodicamente ogni 3-4 ore poiché i sondini per la nutripompa sono di calibro sottile. Nei periodi di non utilizzo chiudere la sonda con un tappo adatto (conico da catetere o similari), non pinzare la sonda. Controllare periodicamente la posizione della sonda tramite i riferimenti presenti sulla sua superficie. Non utilizzare alcool etilico per la sua disinfezione perché può esiccare eccessivamente la cute, provocare lesioni alla pompa e diminuirne la durata. Le pomate antibiotiche devono essere utilizzate solo se necessario. Se il paziente avverte fastidio o dolore all’imbocco cutaneo della sonda, bisogna valutare se il dispositivo di fissaggio esterno è eccessivamente adeso alla cute o se si è verificata una dislocazione della sonda. Nel primo caso basta spostare l’anello esterno più in alto, nel secondo caso bisogna consultare il team sanitario.


Gastrostomia percutanea endoscopica

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La distanza ottimale tra cute e anello esterno deve essere di circa 3 mm (Fig. 5-6). Settimanalmente far compiere dei giri di rotazione completa alla sonda o al bottone per verificare il corretto posizionamento. Se la sonda risulta fissa consultare il centro di riferimento. Nel caso in cui la PEG sia rimossa accidentalmente bisogna intervenire tempestivamente inserendo un catetere Foley di 14-16 F per evitare che la stomia si chiuda e recarsi successivamente presso il centro di riferimento. Il tempo di permanenza della PEG dipende dal materiale della sonda: • silicone 6 mesi; • poliuretano 2 anni; • carbotano > 3 anni.

Fig. 3 - Sonda posizionata

Fig. 4 - Sonda posizionata

Fig. 5 - Anello della sonda

Fig. 6 - Anello della sonda

Somministrazione di farmaci I farmaci non devono essere mescolati con gli alimenti, ma somministrati a parte. Sono preferibili i farmaci in forma liquida, ove ciò non sia possibile, polverizzare le compresse e somministrarle una alla volta con acqua, irrigare con 5 cc di acqua tra un farmaco e l’altro, quindi risciacquare la sonda. Registrazioni Registrare giornalmente la quantità di soluzione nutritiva somministrata e settimanalmente il peso corporeo (se le condizioni del paziente lo permettono). Pulizia del cavo orale e igiene personale La pulizia giornaliera del cavo orale è altresì importante poiché viene a mancare la pulizia meccanica naturale ottenuta con la masticazione; inoltre le labbra devono essere idratate frequentemente con sostanze specifiche (burro-cacao, olio di vaselina). E’ possibile far praticare l’igiene personale (doccia) dopo 7-8 giorni dall’impianto della PEG.


22.7 Nutrizione Artificiale (NA) Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Leonida Iannantuoni © Copyright Edicare Publishing

Il ricorso alla nutrizione artificiale, volto a contrastare la cachessia neoplastica migliorando lo stato nutrizionale, si fonda sul presupposto che nel paziente neoplastico terminale la malnutrizione determina un impatto negativo sia sulla qualità che la durata di vita. La Nutrizione Artificiale (NA) è, pertanto, una procedura terapeutica mediante la quale è possibile soddisfare i fabbisogni nutrizionali di pazienti non in grado di alimentarsi sufficientemente per via naturale. La Nutrizione Artificiale Domiciliare (NAD), con le sue varianti NPD (Nutrizione Parenterale Domiciliare) e NED (Nutrizione Enterale Domiciliare), è l’insieme delle modalità organizzative della NA condotta a domicilio del paziente, quando consentito dallo stato clinico del paziente e dalla sussistenza di condizioni socio-familiari, tali da assicurare sicurezza ed efficacia del trattamento al di fuori dell’ambiente ospedaliero (L.G. Ministero Salaute). La NA consiste nella somministrazione di sostanze nutritive, direttamente nel torrente circolatorio per via venosa (Nutrizione Parenterale) oppure, direttamente nelle vie digestive (Nutrizione Enterale). Ogni qualvolta si pone l’indicazione alla NA e il tratto gastrointestinale è “funzionante”e “praticabile”, la via enterale deve rappresentare la prima scelta. Nei paziente oncologici in cure palliative, la NA è indicata nei casi in cui la prognosi finale è condizionata più dalla malnutrizione/ipofagia che dalla progressione della malattia, purchè la qualità di vita del paziente sia accettabile. Nel caso rappresenti terapia praticata alla fine della vita o nello stato vegetativo permanente, la Nutrizione Artificiale dovrà rispondere ai criteri di beneficenza in Medicina o di Medicina Compassionevole e cioè sarà assicurata e/o interrotta rispettando le documentate convinzioni etiche del paziente e del suo ambiente di vita (DGPP). Vi sono due modalità di somministrazione delle sostanze nutritive: 1. Nutrizione Enterale (NE) 2. Nutrizione Parenterale (NP) La Nutrizione Enterale consiste nella introduzione di soluzioni nutrizionali nell’intestino


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Preparazione degli alimenti: gli alimenti possono trovarsi in forma liquida, in sacche preparate e già idonei ad essere collegati alla linea infusione PEG, oppure in polvere da costituire in soluzione. Posizione del paziente: terminata la preparazione degli alimenti, far assumere al paziente la posizione semi-seduta sollevando la testiera del letto o utilizzando alcuni cuscini. Tale posizione, atta a facilitare la somministrazione del preparato, deve essere mantenuta per almeno un’ora dal termine del pasto onde evitare pericolosi rigurgiti gastroesofagei. Controlli per l’alimentazione • valutare l’esatta posizione della PEG, verificando la sede della tacca di riferimento presente nella superficie esterna; • valutare la quantità di residuo gastrico:prima di ogni pasto se la somministrazione è intermittente,ogni 3-5 ore se continua. Se il residuo è superiore a 100cc interrompere la somministrazione per 1-2 ore, se questa avviene per bolo, rallentare la velocità se continua. Qualora il residuo gastrico persista o la sonda risulti dislocata, sospendere l’alimentazione ed avvisare il medico. Si raccomanda di osservare costantemente il paziente durante la somministrazione del pasto per rilevare la eventuale comparsa di sintomi quali: a) tosse, difficoltà respiratoria, cianosi, causati da aspirazione o reflusso alimentare nelle vie aeree, sospendere l’alimentazione; b) nausea, vomito, diarrea, alterazione della coscienza.

Fig. 4 - Sacca a caduta

Fig. 5 - Pompa per nutrizione enterale mobile

Fig. 6 - Pompa per nutrizione enterale fissa

Bibliografia 1. Tandon, S.P., Gupta, S.C., Sinha, S.N., Naithani, Y.P., 1984, “Nutritional support as an adjunct therapy of advanced cancer patients” Indian Journal of Medical Research 80, 180-188. 2. Heys, S.D., Walker, L.G., Smith, I., Eremin, O., 199,” Enteral nutritional supplementation with key nutrients in patients with critical illness and cancer: a meta-analysis of randomized controlled clinical trials”, Annals of Surgery 229, 467-477.


23.4 Infusori intratecali Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Nunzio Costa © Copyright Edicare Publishing

Nonostante nella gran parte dei pazienti (80%), il dolore può essere controllato dagli analgesici assunti per via orale o trasdermica, nel rimanente 20%, la comparsa di effetti collaterali non tollerabili limita la possibilità di incrementare il dosaggio. In questi pazienti, la somministrazione di farmaci analgesici per via spinale rappresenta una valida scelta di terapia antalgica, consente di concentrare i farmaci in sede midollare con distribuzione segmentaria, drastica riduzione del dosaggio totale del farmaco somministrato e minimizzazione della sua azione periferica. La somministrazione spinale di analgesici è indicata per il dolore: • pelvico-perineale-rettale; • arti superiori • e/o inferiori; • a distribuzione dermatomerica a livello dorsale. L’infusione di farmaci per via spinale è molto utile ed efficace nei dolori neuropatici per la possibilità di associare clonidina ed anestetici, farmaci efficaci in questo tipo di dolore. La scelta del sistema utilizzato, nella via spinale di somministrazione di analgesici, dipende da: • prognosi della malattia; • condizioni cliniche del paziente; • localizzazione e patogenesi del dolore; • disponibilità tecnologiche (inclusa la possibilità di riempimento del serbatoio di pompe infusori; • esperienza acquisita. Nei casi in cui non si è in grado di soddisfare pienamente queste discriminanti saranno scelti sistemi semplici, a basso costo e di facile gestione. Il catetere può essere posto nello spazio epidurale o subaracnoideo. 1. Impianto epidurale: è preferito per il rischio inferiore di complicanze infettive e per la presenza della barriera delle meningi. Consente, inoltre, la somministrazione d’anestetici locali e clonidina ad alto dosaggio, associata ad oppioidi.


568 Manuale sulle cure palliative

2. Impianto subaracnoideo o intratecale: è preferito per terapie prolungate. I farmaci analgesici possono essere somministrati per via spinale con diversi programmi. Nel paziente oncologico in cure palliative domiciliari è utilizzata l’infusione continua con collegamento a pompa d’infusione. Consente la somministrazione di morfina a basso dosaggio. Le pompe d’infusione possono essere: • esteriorizzate, con possibilità di sistema PCA, riutilizzabili per più pazienti, ma gravate da un’elevata frequenza di complicanze infettive in particolare quando utilizzate domiciliarmente dal paziente (9 %); • totalmente impiantate, di costo elevato, con necessità di allungare i tempi operatori per l’impianto dell’apparecchio.

Pompa programmabile sottocutanea L’infusione subaracnoidea è una tecnica che permette la somministrazione di farmaci direttamente nel liquor. Si utilizza un catetere ed una pompa, preventivamente impiantata nel tessuto sottocutaneo, rifornita periodicamente mediante una piccola iniezione cutanea (Fig. 2). La tasca sottocutanea viene preparata chirurgicamente nella parete addominale inferiore (Fig. 3) ed il catetere di collegamento viene tunnellizzato lungo il fianco, in sede sottocutanea, fino al rachide. L’intervento di impianto viene eseguito, generalmente, in anestesia locale. La ricarica dei farmaci viene effettuata ogni 30-60 giorni per via transcutanea ed in tale occasione è possibile la programmazione o una nuova riprogrammazione con eventuale modifica della dose giornaliera e del flusso giorno/notte. Il medico provvede a programmare la pompa ricaricabile dall’esterno tramite un programmatore wireless portatile (Fig. 4,5,7). Diverse sono le caratteristiche di questa modalità di infusione: • capacità di erogare una quantità costante di farmaco nell’ordine di mcg/die;

Fig. 1 - Kit per impianto di catetere spinale

Fig. 2 - Rifornimento pompa

Fig. 3 - Pompa sottocute in regione addominale


23.7 Stomie urologiche e nefrologiche Giovanni B. D’Errico, Anna M. Cairelli, Nunzio Costa © Copyright Edicare Publishing

Stomie nefrostomiche Il catetere nefrostomico serve a scaricare, quotidianamente e per altra via, le urine prodotte dai reni che, a causa di una compressione neoplastica, non possono più, percorrendo gli ureteri, raggiungere la vescica (Fig.1).

Stomie urologiche 1. Ureterocutaneostomia Consiste nell’abboccare direttamente gli ureteri alla cute addominale (Fig. 2-3-4). Ampiamente utilizzata in campo oncologico in caso di cistectomia, è caratterizzata dalla necessità di inserire, negli orifizi della stomia, dei cateterini (o stent) per evitarne la chiusura. Non ci sono indicazioni particolari sull’alimentazione se si esclude l’assunzione di almeno 2 litri di acqua al giorno e la riduzione dell’assunzione di alcuni alimenti responsabili di un incremento del Ph urinario e dell’insorgenza di cattivo odore come: cipolle, asparagi, cavolfiori, broccoli, peperoni, insaccati, uova, formaggi. Per quanto concerne la gestione dell’ureterocutaneostomia, oltre alla quotidiana igiene della cute peristomale, da effettuarsi con soluzione fisiologia ed eventuale

Fig. 1 - Nefrostomia

Fig. 2, 3, 4 - Ureterocutaneostomia


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di creme protettive/lenitive, è indicata la sostituzione periodica dei cateterini. In caso di ostruzione si tenterà la disostruzione iniettando soluzione fisiologica con una siringa, ove tale manovra sia infruttuosa, si procederà alla rimozione tutore uretrale ostruito (esistono anche le ureterocutaneostomie non intubate) e provvedere alla sua sostituzione. 2. Epicistostomia Consiste nell’ introduzione, per via sovra pubica, di un catetere in vescica. Il ricorso a tale metodica, si rende necessario quando non è possibile drenare all’esterno le urine per via uretrale. L’ancoraggio del catetere in vescica è affidato ad un palloncino gonfiabile (nel catetere a due vie), in altri casi il catetere può avere l’estremità a “pig tail”, o anche dotato di ali di ancoraggio tipo Pezzer. Generalmente viene fissato anche alla cute con dei punti di sutura o con sistemi adesivi di ancoraggio. Si segnala, inoltre, la possibilità di impiantare cateteri epicistostomici a tre vie che consentono anche l’irrigazione vescicale.

Fig. 5, 6, 7 - Epicistostomia

Bibliografia 1. W.E. Goodwin, P.T. Scardino, “Ureterosigmoidostomy”. J. Urol., 1977; 118: 169. 2. E. Jackson Fowler jr, Manual of urologic surgery, Little, Brown and Company, 1990; 119-143. C. Clearance, Saelhof Professor of Urology and Chief of Urology, University of Illinois College of Medicine, Chicago. 3. G.D. Webster, B. Goldwasser, “Urinary diversion - Scientific foundation and clinical practice”, Isis Medical Media Ltd., 1995. 4. P. Cortellini, S. Ferretti: Atlante di uretero-anastomosi, Ed. CESI, Roma, 1996.


Postfazione

Dal 15 marzo 2010, data della definitiva approvazione in Parlamento della legge n. 38 riguardante “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, l’assistenza palliativa e la terapia del dolore avranno maggiori garanzie di essere erogate ad un pari livello di omogeneità, adeguatezza e qualità su tutto il territorio nazionale. La legge individua nel suo articolato, in modo diretto e puntuale o rimandando a successivi atti programmatori, le disposizioni attraverso cui organizzare le due reti assistenziali; applicando i principi enunciati è possibile assolvere all’obbligo espresso nell’art. 1 della legge stessa: “La presente legge tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Già sono stati raggiunti risultati importanti dalla data di emanazione della legge ad oggi: l’approvazione presso la Conferenza Stato-regioni il 16 dicembre dello scorso anno delle “linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli interventi regionali” obbliga le regioni e le strutture aziendali a prevedere nel proprio organigamma una funzione specifica che abbia la finalità del governo della rete assistenziale mediante un azione di monitoraggio, così come richiesto al Ministero della Salute all’art. 9 della legge. L’obiettivo prioritario è ottenere una piena consapevolezza della qualità attuale dell’assistenza palliativa nel nostro paese per costruire la rete del futuro. Un ambito sul quale sarà obbligatorio investire in modo tale da dare certezza del livello di qualità richiesto è quello formativo. Garantire la conoscenza, “il saper fare” e la condivisione delle esperienze acquisite in anni di attività nell’ambito delle cure palliative è l’espressione della volontà degli operatori del settore di assicurare quella tutela espressa come un obbligo indiscutibile dal citato art. 1 della legge. Proprio in quest’ambito di tutela si sviluppa una serie di iniziative formative e informative di cui il presente testo rappresenta un esempio significativo. La possibilità di penetrare capillarmente nel territorio per fornire al domicilio del paziente l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali identificati dal


piano di cura ha come presupposto l’obbligatorietà dell’elevato livello formativo degli operatori coinvolti; in tal modo è possibile assicurare ovunque identica qualità delle prestazioni erogate riuscendo ad ottenere soluzioni per le diverse problematiche emerse nei singoli casi trattati. Con queste finalità è strutturato il presente volume. In particolare nella parte finale, grazie all’utilizzo di un numero consistente di immagini fotografiche, viene messa a disposizione l’esperienza e la professionalità degli autori in modo tale da garantire un adeguato livello di assistenza ai pazienti e ai loro familiari evitando loro sofferenze inutili. Dott. Marco Spizzichino

Dirigente responsabile del settore Cure palliative e terapia del dolore del Ministero della Salute


NOVITA’ EDITORIALE 2011 Pag. 600 - Autori 80 - Immagini e foto a colori 130 Cure palliative nel paziente oncologico. Come migliorare la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie. Il "MANUALE SULLE CURE PALLIATIVE - Un’opera per il medico di famiglia e gli operatori sanitari che si dedicano alle cure palliative" di Giovanni B. D´Errico e Vanna M. Valori, edito da Edicare Publishing. Promuovere la cultura della vita, del sollievo e del "prendersi cura" rappresenta la via da percorrere per evitare l´abbandono delle cure e consentire il rispetto della dignità del paziente morente. Il libro, rivolto principalmente ai medici di medicina generale che hanno l´occasione e la necessità di confrontarsi con i malati nella fase terminale di una malattia cronica evolutiva e con i loro familiari, contribuisce a rafforzare la consapevolezza che un periodo significativamente esteso delle cure palliative può ottenere un´adeguata risposta proprio dalla medicina generale e dai servizi territoriali, consentendo di assistere i malati nel loro ambiente familiare e con i ritmi a loro più favorevoli. Nella pubblicazione sarà infatti possibile trovare, ben organizzati, i contenuti più importanti delle cure palliative: coloro che si avvicinano alle cure palliative non da specialista, ma da medico o da operatore, potranno reperire in questo testo preziose indicazioni e precisi suggerimenti per rispondere efficacemente ai bisogni dei malati in fase terminale e delle loro famiglie. L´elevato numero degli autori rappresenta in maniera convincente la multidisciplinarità delle cure palliative e la necessità che esse si arricchiscano di competenze, di conoscenze, di attitudini solo apparentemente eccentriche, ma, in realtà, assolutamente funzionali alla complessità dell´assistenza e dell´accompagnamento di questi malati e delle loro famiglie, le cui necessità sono ben più estese del buon controllo dei sintomi o di una buona igiene personale, poiché si trovano ad affrontare la dimensione esistenziale e più ampiamente sociale del vivere e - necessariamente - del morire ( Dalla prefazione del Prof. G. Zaninetta - Past President SICP). Sei interessato all’acquisto del libro? Richiedilo subito. Ti sarà inviato dopo aver effettuato il versamento con bonifico bancario di 60 euro all’indirizzo: info@edicare.it

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