Marta dorme nel letto di tre fiumi

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Copyright @ Martina Dierico, 2015 Tutti i diritti riservati ŠBlublucasa editore Bergamo www.blublucasa.wordpress.com Prima edizione Marzo 2015 Stampa grafica Tecnograph S.r.l. Bergamo




marta dorme nel letto di tre fiumi

leo merati



A chi sa che le stelle ci sono anche a Bergamo.



Che anticorpi. Non vapora mai, come se non avesse mai l’influenza, nemmeno una dermatite o un po’ di raffreddore. Non vapora mai. Ne ho visti di camini arancioni, di plastica. Bianchi ed arancioni. Sì - ero oltre oceano. Però vaporava, come ammalata. Come se stesse facendo quelli che - la Ginzburg apprezzerebbe - in famiglia abbiamo sempre chiamato: “i fumenti - acqua bollente, foglie d’alloro e Ca2CO3”. Ci stavo sempre poco, il vapore accarezzava sempre con troppa foga e calore le mie vie aeree. Due minuti e la vita sembrava tornare. Ammettere - pri11


mo passo per sconfiggere un problema: sono IPOCONDRIACO. Sì, ipocondriaco. Ho paura di quei malanni che non ti fanno sorridere, quelle influenze meschine, che arrivano e ti stendono sul divano rosso. Ipocondriaco ed egocentrico, un mix di Super-io e temperature sopra i 36.7 (“oddio mi sto ammalando! Ed il concerto? Come faccio ad esser simpatico”- Ipocondriaco di questo tipo); insomma questo mio piccolo mondo problematico non aveva mai toccato la realtà che mi circondava, era sempre stato concentrato sulla mia cristallina e capiente persona. Però quel giorno il pensiero lo feci. Ci pensai davvero. Come è possibile che la mia città sia sempre sana? Perché New York fa “i fumenti” contro i ma12


lanni e la mia piccola città no? I tombini fumavano vapore e, singhiozzanti, tossivano. Una “salute di ferro” si dice - “una salute di cemento” mi sembrava più azzeccato per la mia cittadina. Nemmeno la sentivo lamentarsi, forse perché camminavo perennemente assordato dalla musica che mi portavo dietro. Malata-MAI influenzata-MAI raffreddata-MAI; era come se le mancasse qualcosa. Come puoi avere coscienza della “sanità di corpo” se non conosci la malattia? Un’incoerenza che mi sembrava gigantesca - quel pomeriggio tutto mi sembrava gigantesco. Stavo andando - nemmeno a farlo apposta - all’ospedale a trovare nonna e nemmeno il luogo sembrava tradire qualcosa di virale o debole, era 13


tutto fisiologicamente (e maledettamente) in ordine. Attraversai la porta, salutai nonna, mi sedetti su una sedia grigia - tutta d’un pezzo, ascoltai le sue parole, mi allacciai le scarpe e mi ritrovai di nuovo fuori da quell’ordine. Non era stata una visita rapida, però successe poco e soprattutto quel pensiero di difetto nei confronti della mia città non se n’ era andato. Si era nascosto sotto la comoda coperta delle circostanze per poi rispuntare come quando uscendo dalla trapunta ti rendi conto che hai delle piante dei piedi nel momento in cui senti il suolo freddo. Ecco, il presente aveva perso il suo tepore ed era tornato il freddo “clinico” di quell’idea. Camminavo con lo sguardo a mezz’aria cercando di mettere a fuo14


co i pensieri, quando mi accorsi che un gigantesco asse cartesiano tagliava perfettamente il paesaggio, una gru edile - gialla e perfettamente perpendicolare, schematizzava il cielo e le nuvole. Corsi a casa fino a perdere il fiato - maledetto tabacco - come convinto di dover convalidare questo pensiero per iscritto. Iniziai a scrivere, sul divano rosso con i cuscini bianchi, la storia della mia città che non si ammala mai: Correva nell’iride la via di casa: Via Trabocchi 12. Partivano, dietro l’angolo dell’occhio, le traverse che dritte portavano simmetricamente ai lati del mento. Nel mezzo: IL TRIANGOLO. Un complesso residenziale triangolare che spiccava nel centro della città. 15


Proprio vicino alla grande circonvallazione delle labbra. Sembrava un volto la mia cittadina - ne aveva tutte le caratteristiche. Un volto che srotolava il proprio corpo lungo tutta la provincia. Diramazioni, tendini, strade, vene e polmoni di roccia alpina-orobica. Ed io ne conoscevo il presente - il passato: “la sua infanzia” era sconosciuta, millenaria, e si perdeva nei libri e nei racconti costellati di date e nomi fuori moda. “Tanto vale - mi sono detto - di scrivere la mia storia della mia cittadina. Per come la vivo - nell’amore e nell’odio”. I miei occhi sfuggono verso l’alto, infastiditi, quando sento una persona che ne tesse le lodi, perché, a me, sembrano sempre retoriche e populistiche scontate e mantricamente ripetute e se poi compaiono nei social network ac16


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sto è il mio filtrare. Come sempre, con un po’ di sano e snob egocentrismo, esco dal tema. Perché la mia città non si ammala mai? Non perché l’asfalto non tossisce, ma perché ha anticorpi che respirano e camminano. Ebbene sì, i suoi abitanti sono piccoli lavoratori che la puliscono, la sporcano, la colorano sui muri, la inquinano e la curano. Dalle mie parti di “giramondo” ne arrivano ben pochi. C’è chi parte - lo ammetto - ma chi ci vive e chi ci ritorna lo fa perché legato da un fiocco stretto, di quelli che si appendono sulle porte delle case alla nascita di un anticorpo respirante - rosa o blu. Nasciamo già sotto il segno di un colore e con un nodo tra ventricolo destro e sinistro che si chiama - senza nessuna vena fascistoide: “patriottismo”. 19


Il Patriottismo tenace e, forse, un po’ ottuso, come la pietra delle nostre montagne, addormenta e scaccia ogni malanno, ogni “virus” ed ogni batterio. Piccole formiche che curano le buche nella strada ma che si dimenticano spesso intere parti del viso che rimangono vuote, silenziose e sporche. Curare una città sta anche nel saperla truccare e mostrare - ci vuole carisma anche in questo. Se prolunghiamo ed invertiamo il parallelo fiocco cardiaco e fiocco sulla soglia, la propria cittadina è una figlia che cresce, dall’infanzia alla vecchiaia, e spesso i momenti della sua esistenza si ripropongono proprio come in un cerchio, in un Uruboro che si morde la coda - ora sembra innamorata ed ora, adolescente, rifiuta anche chi la proteg20


ge. Guardo fuori dal filtro della mia finestra e mi sembra mansueta - matura forse. È stata MAMMA, durante la mia infanzia. Mi si mostrava come Grande Madre Primordiale, dalle curve sinuose ed abbondanti, nelle sue colline e nel suo verde mi ha fatto crescere a colori sfumati, mi ha fatto giocare nei suoi cortili e mi ha fatto piangere, perché insoddisfatto, non ricevevo tutto ciò che chiedevo. Da adolescente la rinnegavo nei suoi brufoli, nelle sue insoddisfazioni e nella sua perenne e monotematica ripetitività, nei suoi paesaggi sporchi e spogli. Poi l’ho riscoperta quando, lontano chilometri, la ricordavo e non riuscivo a filtrarla. Era lontana e mancava; il suo profumo non toccava le narici e lasciava un vuoto tra sterno e polmo21


ni, non ero abituato all’aria straniera. Ed ora la prendo per mano, la stringo come la soffice mano di un amore giovanile o come la busta di una spesa troppo pesante. Un’ ambivalenza che comincia con un: “Camminava svelta una ragazza nel Nord Italia. Forsennata scappava. Era coperta da un panno - giallo e rosso. Scappava alla ricerca di un sonno profondo, quello che solo un’ aria particolare può regalarti. [Morfeo lo sapeva bene] Respirava forte, sforzando i polmoni, faceva freddo, ma lei non si ammalava mai, mai uno starnuto e mai un’influenza - nemmeno sapeva che cos’era: “ammalarsi”. Cercava il sonno. Non ne conosciamo l’età - aveva gli occhi da adolescente ed il volto da bam22


bina. Un volto grande e tondo, come circondato da vecchie mura. Il corpo piccolo ma ben formato - adulto. Correva la ragazza dagli occhi d’adolescente, il viso da bambina ed il corpo da donna. Un miscuglio di colline, montagne e piane - aveva tanto e tutto questo dentro di sé, ma non se ne rendeva conto. Un’inconsapevolezza che solo alcuni anziani raggiungono sul finire della vita, quando la semplicità dei collegamenti mentali degli infanti diventa più forte del raziocinio adulto. Aveva sete di profumi di casa e di acqua. Si fermò - respirava a fatica davanti all’incrocio di tre fiumi, di tre valli che diramano verso le pianure. Si stese sulle soffici rocce del fiume millenario. I sassi sussurravano, e dissetavano. Infilò la mano e tagliò l’ acqua, la portò alla 23


bocca e la assaggiò. Come una benda il sonno le coprì le palpebre e le rilassò i muscoli tesi dalla corsa. Sperava di sognare il motivo della sua fuga, ma forse non c’era. Aveva bisogno di stancare i muscoli e di farli arrivare là, dove i sassi sussurravano. Sassi orobici. Il nome della ragazza coperta dal panno rosso e giallo è: “Bergame”… Fu allora che bloccai le dita sulla tastiera. Un pensiero istantaneo aveva bloccato il flusso di pensieri come un’ asta in mezzo ai raggi di una ruota che gira. Scrivevo e cancellavo. Ribattevo e cancellavo. Fu dopo aver riletto per la quarta volta che capii ed iniziai a cercarla. Doveva essere la ragazza giusta, ne aveva ogni caratteristica; amavo il 24


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Postilla finale all’annuncio, via e contatti. Era pronto. Salvai il file e lo stampai - una sola copia a colori, le restanti sarebbero state delle fotocopie.

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Era sera, cenai, vidi i miei amici per una birra e feci tutto quello che si conviene per uno studente universitario: svegliarsi all’alba, frequentare lezioni piene di persone, tornare a casa e fare tutto quello su cui si aveva fantasticato durante la lezione. Nel mio caso era: fotocopiare centinaia di annunci e, finalmente, attivarsi per attaccare gli annunci. Era la parte che più mi andava di fare, perché avevo sempre sognato di - come catapultato in un film di una provincia americana - girare le strade della mia città attaccando con una spillatrice e dello scotch i volantini ai pali della luce, alle bacheche e dove mi sembrava che lo sguardo di una passante potesse cadere. Il sogno adolescenziale dell’affis35


sione amorosa venne smorzato dalla consapevolezza dell’inverno bagnato dalle piogge che stavamo vivendo, perciò dovevo trovare ripari asciutti per le mie locandine. Girai varie ore conquistando sguardi d’incomprensione ma, anche, luoghi asciutti e strategicamente perfetti per il passaggio della possibile Bergame. La speranza aveva, alla fine del pomeriggio, lasciato spazio al: “ciò che è fatto e fatto”. Avevo gettato l’amo, ora, attendevo che la campanella attaccata alla canna da pesca suonasse per avvisarmi del pesce all’amo(re). Fu dopo quel pomeriggio che un vuoto sostituì l’idea della ricerca. Volevo conquistarla e trovarla così, ora era l’attesa che doveva nascondersi sotto la coperta della quotidianità per 36


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luogo. Era una scalinata incanalata da due pareti tagliate a metà, come una scala. Una scalinata delineata da due protoscale dove solevo sedermi per fumare sigarette epifaniche riguardo le decisioni importanti della mia vita. Ci tornavo regolarmente, con una frequenza semestrale, proprio come le mie decisioni vitali. Mi sedevo e guardavo lo squarcio di cielo tra quelle scale ed il tetto della casa di fronte. Il mio angolo di cielo. Presi lo scotch, mi fumai una sigaretta ed appena il tempo e lo spazio mi dissero di agire attaccai quel volantino alla scala laterale di sinistra, sceglievo sempre la sinistra (chissà come mai, “deformazione personale”). Me ne andai senza guardare, chiusi dietro di me la porta di casa; avevo gettato ogni invito, ora non mi 39


rimaneva che aspettare, nuovamente. La cosa che più mi diede fastidio, per un “matematicamente” accorto come me, fu che non sapevo quanti giorni passarono, tra i 14 ed i 20. Numeri pari, son sempre stato caro alla divisione perfetta dei numeri pari. Bene, era un pomeriggio di Aprile, di quelli in cui è ancora possibile distrarsi prima della sessione estiva degli esami. Sdraiato sul divano, quello rosso con i cuscini bianchi, sentii il telefono chiamarmi, vibrando ed implorando di dimenticarmi della mia pigrizia per un attimo (anche se ho sempre odiato sentirmi definire pigro), perciò rantolai verso la mensola e lo portai all’ orecchio senza curarmi del numero che chiamasse, altra variabile fuori posto. 40


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“Pronto?” “Ciao, piacere Marta. Sai una cosa? Non ho mai provato una sciarpa gialla e rossa. Mai, proprio mai. Non saprei nemmeno dove trovarla. Potresti regalarmela, prima di capire quanto mi stia bene. Il problema è trovarla. Non ho mai trovato una sciarpa perfettamente rossa e gialla in nessun negozio. Ma se ha delle stampe va bene lo stesso? Dipende da cosa pensi. Ma poi a cosa ti serve? Io ho chiamato perché era una proposta che, non so, mi faceva ridere. Assurda…Non sei un maniaco vero? No perché in quel caso cancella subito il mio numero. Allora… Se sei un maniaco metti giù al tre- uno…Due…Tre… (respiro) pronto? Ci sei ancora?” Ero tanto soffocato da secchia42


ta di parole che riuscì solo a grugnire. Ero cosciente della follia che avevo fatto ma non pensavo davvero esistesse una possibile “Bergame” tanto pazza da chiamare - da parlare tanto - pensai allora. “Ciao. Wow, mi hai colto di sorpresa, non pensavo che qualcuno avrebbe chiamato davvero. Piacere Leo”. Saltando tutte le chiacchiere di convenienza, sembrava lei a dovermi convincere. Quando misi giù il telefono non riuscì a sdraiarmi di nuovo sul divano rosso. Eravamo d’accordo di vederci il giorno dopo, nel pomeriggio, in un luogo pubblico che mi fece sorridere, la stazione (sembrava sempre che questo luogo cadenzasse i miei sbuf43


fi amorosi, come treni che partivano uno dietro l’altro. La canzone dei miei amori era stata quella voce robotica tipo: “Stazione di X”). “Ma che cazz…”. Infossai la testa nelle spalle e portai una mano sul volto. Era successo, o meglio, stava per succedere. Mi sembrava di essere in un racconto, in una realtà parallela. Fu allora che un’ ombra sfiorò i miei pensieri. Dov’ era la sciarpa? Se la mia scrivania era una stratificazione geologica, la mia stanza era un sottobosco amazzonico, così dovetti farmi largo a colpi di machete per poi trovarmi di fronte al fatto che l’unica salvezza sarebbe arrivata da chi l’ ordine lo aveva nel DNA [essì che siamo fratelli]. Urlai: “Davide! Davide! Hai vi44


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un’ insoddisfazione che mi infosserebbe. Avevo fatto un pacchetto con la sciarpa ed avevo utilizzato la carta di giornale come carta regalo, idea che le piacque moltissimo, non capii il suo entusiasmo. Le chiesi di non aprire ora la confezione e di non vestire la sciarpa fino al prossimo incontro - ci sarebbe stato un prossimo incontro perché l’Ecce Bombo in versione Marta e Leo doveva continuare ed avrei, e questo glielo dissi, voluto vederla comparire con la sciarpa addosso e basta, senza cerimonie che ne avrebbero quasi spezzato l’unità. Tornai a casa con la musica nelle orecchie - cantavo - e stranamente skippavo ogni canzone triste cercasse di invadere le orecchie. Cercavo 51


musica soleggiata. A cena con i miei mi crogiolavo, come ancora al sole di quel parco, che, devo ammetterlo, mi aveva cotto senza pretese, a fuoco lento. Marta. Mi si presentò, così, senza pretese. Era seduta su un panchina di marmo, accovacciata e con la sciarpa larga, aveva caldo ma l’aveva addosso lo stesso. Guardava un comignolo ed in mano aveva un sacchetto di plastica verde, come quelli che ti danno per la birra i Pakistani - dalla borsa spuntava un obiettivo di una macchina fotografica. Mi guardò e mi venne incontro. “Sciarpa rossa e gialla, visto? Andiamo, anzi, guarda…” Nel sacchetto due pennelli e due tubetti di tempera, uno rosso ed uno 52


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pore. Fui sbalzato da una fantomatica Berlino a quell’intreccio, un salto spazio-temporale enorme per la mia testa che in quel momento si dimenticò un battito di cuore per poi riprendere quando si rese conto di dov’era e che stava succedendo. Non posso dire che mi colse impreparato, qualcosa nell’ aria c’ era. Mi sporcò il viso con la tempera che le era rimasta fresca tra labbra e naso. Mi dipinse il volto con il suo. Mi sembrò un gesto incredibile, al di là del bacio, un volto-pennello che mi colora per non rimanere uno. Eravamo colorati e questo ci distingueva da chi intorno a noi camminava per chissà dove e non ci capiva. Un bacio di colore, ne seguirono altri. Passarono fotografie e baci colo55


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rati e dentro di me andava sviluppandosi un’idea: avevamo colorato il volto, era il momento di colorare la città. Colorare la città per Marta. Eravamo feticisti del colore. Presi il telefono e chiamai Marta: “Stasera non torni a dormire, dillo al babbo”. Ero certo del fatto che non avrebbe mai risposto: “No”. Marta non dice “NO”. Infatti la sentii attraverso la cornetta urlare a suo padre che non avrebbe dormito lì stanotte. Ci vollero qualche urlo e qualche preghiera perché il padre accettasse - accettò. Le dissi che ci saremmo visti sul tardi, prima dovevo fare un po’ di cose. Non chiese spiegazione. Allora presi la bicicletta ed andai al negozio di bricolage più vicino. 57


Fu quando entrai che mi resi conto delle dimensioni di quello che dovevo comprare e dell’impossibilità fisica di trasportare tutto ciò con la bicicletta. Tornai a casa e presi la macchina, abbassai i sedili per fare spazio nel retro; se mio fratello avesse scoperto il mio “trasporto eccezionale” sulla macchina condivisa l’avrebbe sicuramente inganasciata. Comprai moltissime aste di legno, sottili ma lunghe, sinuose nei loro due metri e mezzo. Poi sgommai verso un ingrosso di articoli di cancelleria, si trovava in uno di quei punti della città che avremmo definito: “imperfezioni cutanee”. Un capannone grigio e dimenticato, che, con inefficace intento, era stato decorato con ringhiere di colore verde, un verde troppo trascurato 58


per un capannone pieno di colori. Un luogo che in potenza nascondeva tutto ciò che esternamente non riusciva a mostrare, un cuore grigio pieno di pastelli. Mi parve ancora più incoerente appena parcheggiai la macchina. Avevo in qualche modo bloccato il bagagliaio con una corda, in modo da mantenerlo aperto e far riposare nella loro lunghezza le aste appena comprate. Chiusi la macchina che squittì. Mi diressi al reparto della carta colorata e cercai il maggior numero di rotoli di carta crespa, riempii il resto del bagagliaio vuoto. Stavo guidando una carrozza di legno e carta crespa. Parcheggiai a casa e, meno male, in casa non c’era nessuno; scaricai e mi trovai nella taverna davanti ad un mucchio di legno e carta colorata. In59


cominciai a costruire, tagliare ed incollare. Ore dopo, quando ancora nessuno aveva attraversato la soglia di casa, scrissi un post-it per i miei: “Torno tardi, sono fuori con Marta. Non aspettatemi alzati. Leo”. La casa mi salutò, silenziosa ed io, mentre percorrevo il tragitto in macchina, mi immaginavo la solitudine di quel post-it sulla tavola. Un’ isola gialla su un mare bianco. Un messaggio in una bottiglia per i miei genitori. Avevo “preso in prestito” un imbrago ed alcuni moschettoni al babbo, e sicuro mi arrampicai. Scavalcai cancelli e, nel buio, mi arrampicai per sei volte. Fortunatamente ero scout, e con un po’ di spago riuscivo tranquillamente a mettere in pratica quello che poi decisi di definire a Marta: “Regalo per 60


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