A volte succede

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Heyyy Biondooo... Lo sai di chi sei figlio tuuu? Sei il figlio di una grandissima puttaaaa... IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO – SERGIO LEONE

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New York City, 1978

Le luci della grande metropoli si estendevano fuori dalla finestra dell’appartamento di Luis che stava aspettando da tre ore le sue amiche per il solito incontro settimanale. Luis, ormai da un paio d’anni invitava a casa sua un gruppo di prostitute per darsi alla pazza gioia con sesso, droga e alcool, ma stasera la festa tardava a cominciare. Continuava a guardare le luci che brillavano come diamanti, sulla strada le ultime automobili sfrecciavano e i pedoni con passo veloce andavano verso casa. Viveva in un quartiere malfamato anche se il lavoro di fotografo negli ultimi tempi gli aveva fatto guadagnare un bel po’ di soldi. Luis era già strafatto e si reggeva a malapena in piedi, si era stancato di aspettare così aveva ingoiato una pasticca di morfina con al seguito due o tre sorsi di Jack Daniels. Si dovette sedere a causa dei forti giramenti di testa. Accese la televisione a volume altissimo ma faceva comunque fatica a sentirla, aveva lo sguardo fisso sullo schermo e così passò un’altra ora. Quello stato semi–comatoso che si era creato lo invitò a riflettere su molti aspetti della sua vita. Erano anni che aveva carenza d’amore e da lungo tempo non aveva un relazione fissa con una donna e questo lo deprimeva. Aveva il terrore di passare la vecchiaia da solo, senza nessuno che si prendesse cura di lui. Luis aveva una grande difficoltà a rapportarsi con le donne, fin da quando era adolescente. Sembrava che tra lui e la ragazza si formasse una lastra di vetro impedendo qualsiasi rapporto. Più di una volta gli era capitato di trovarsi davanti una ragazza e accorgersi che quella era la sua metà, che se non avesse agito in qualche maniera l’avrebbe persa per sempre, ma tutto era ostacolato da quella lastra di vetro. Si innamorava con un frequenza impressionante, senza essere ricambiato ovviamente. A volte Luis non si capacitava della bellezza di certe persone, sapeva che prima o poi quelle ragazze che lui aveva accettato perdere sarebbero state le moglie o le fidanzate di qualcun altro. Ormai si era fatto tardi, sicuramente le prostitute non sarebbero più venute. Luis non ne voleva sapere di starsene in casa così provò ad alzarsi dalla poltrona per vedere se riusciva a stare in piedi, testato per un secondo il suo equilibrio, prese il cappotto e uscì dall’appartamento tirandosi dietro la porta. Faceva fatica a scendere le scale ma appena sentì l’aria fresca della notte riprese i sensi. Sul marciapiede ormai semideserto un gruppo di barboni stavano litigando per accaparrarsi una bottiglia di whisky e alcuni ragazzi stavano contrattando il prezzo con alcune prostitute di colore. 3


Tirò su il colletto della giacca e si fece strada tra i ragazzi, non sapeva dove andare, probamente avrebbe vagato per le vie della città poi, al primo bar, si sarebbe fermato a prendere qualcosa. Gli piaceva la città di notte, era deserta, lo faceva sentire solo, aveva 29 anni e un lavoro che gli faceva guadagnare un sacco di soldi ma l’alcool e la droga gli stavano distruggendo la vita e non riusciva a trovare quel cambiamento che un giorno o l’altro l’avrebbero portato a vivere in una piccola cittadina di provincia e cambiare vita. Trovò un bar aperto, entrò, il locale era in stile country con grandi attrezzi da lavoro e foto in bianco e nero attaccate alle pareti. Luis si sedette in un piccolo tavolo e subito arrivò una grossa cameriera che gli chiese le ordinazioni, prese un Jack e Coca e le allungò un pezzo da 5. Guardava quella grossa foto in bianco e nero che era di fianco a lui, raffigurava una squadra di calcio della metà del secolo, era così vera che quasi poteva sentire l’odore dell’erba pestata, i visi di quei giocatori erano di lineamenti duri ma nello stesso tempo mostravano tutte le difficoltà che quei giovani dovevano aver passato. Anche il cocktail tardava arrivare così decise di andare in bagno, aprì la porta e la chiuse a chiave dietro di se, tirò fuori dalla giacca una bustina con dentro una polverina bianca che andò a riversare sul bordo del lavandino, con la carta di credito la sistemò in due strisce e la aspirò con una banconota arrotolata. Visibilmente su di giri, si alzò e si guardò allo specchio, era stanco e alcune particelle di polvere bianca gli cadevano dal naso. Tornò al suo tavolo dove nel frattempo era arrivato il suo drink, lo bevve quasi tutto in sorso e barcollando si avviò verso l’uscita. Nella ossa si sentiva che non sarebbe arrivato a casa, così buttò giù un altro paio di pastiglie di morfina, dopo pochi minuti il suo sguardo cominciò ad appannarsi e si ritrovò per terra con un gran dolore alla testa. Tutto il mondo girava attorno a lui e ad un certo punto una ragazza si fermò e lo aiutò ad alzarsi, era una ragazza stupenda, gli chiese se stesse male, lui con un gesto veloce della mano la rassicurò e la ringraziò del suo aiuto. Ma Luis sapeva benissimo che non stava per niente bene e che sarebbe stato un miracolo arrivare a casa. Cominciò a camminare ma non si rendeva conto in quale direzione stesse andando e la luce del mattino cominciava a farsi vedere, non si accorse che era passato tutto quel tempo. Passarono diverse ore prima che tornasse lucido abbastanza da capire dove si trovava, era in riva al mare e lo scroscio delle onde lo rincuorò un po’ della brutta nottata che aveva passato. Il vento pieno di salsedine gli muoveva i capelli e gli schizzi delle onde gli arrivavano sulla giacca di pelle. Si sedette sulla prima panchina che trovò e cominciò a fissare l’orizzonte come mai aveva fatto prima. Guardò quella barca che stava in balia delle onde, come la sua vita. Diede una risposta a tutte quelle domande che si era sempre fatto. Sognava. Erano comunque progetti a lungo termine che non potevano avverarsi in un presente vicino. Sapeva che prima o poi sarebbe ricomparsa una delle sue tante ragazze che aveva perso e questa volta non avrebbe esitato a chiederle di uscire con lui. L’avrebbe amata, guardala negli occhi sarebbe stato meglio di qualsiasi droga. L’avrebbe stretta a sé, stretta il più forte possibile affinché non lo lasciasse mai. Perché quelle poche 4


volte che Luis ha amato una ragazza avrebbe voluto stringerla a sé così forte da farle male per il bene che le voleva. Scoprire un posto tranquillo dove poter ascoltare i suoi pensieri senza bisogno di urlare, un posto dove l’aria pulita entrasse nei suoi polmoni malandati. Aveva passato una vita intensa e adesso gli andava stretta, avrebbe voluto nascondersi dal mondo, dal nervosismo, da tutti quegli occhi così comuni. Nascondersi perché un minuto di più sarebbe stato fatale. Voleva saltare per arrivare alle stelle. Ma non sarebbe servito guardare il mondo dall’alto se poi i problemi li aveva con sé. Su quella panchina in riva all’oceano pregava un dio, uno qualunque se esisteva, di portarlo dove il sole non lo accecasse, dove le emozioni non sarebbero state gratis, dove la realtà si fonde con la fantasia. Portarlo dovunque, fuori dal mondo.

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Mercurial future, forget the past

Una volta, da bambino, fingevo di avere la febbre per stare a casa da scuola. Una volta credevo che se avessi sbattuto forte le braccia sarei riuscito a volare. Una volta andavo matto per i cartoni animati. Una volta ho creduto di morire di paura. Una volta saltavo la scuola e andavo a girare per Verona. Una volta ero davvero felice. Una volta avevo una nonna che mi insegnava le cose importanti per la vita. Una volta mi sono innamorato di una mia compagna di classe. Una volta le ho scritto delle lettere a cui lei non ha mai risposto. Una volta ho provato a chiederti se volevi uscire, ma imbarazzata, hai cambiato discorso. Una volta ho conosciuto una persona che mi odiava. Una volta ho creduto di essere veramente innamorato di te. Una volta ti ho baciato e tu mi hai detto che non mi avresti mai lasciato. Una volta ti ho guardato negli occhi e ho capito che se stessimo insieme finirebbe il mondo. Una volta ho scritto una canzona pensando a te e mi sono commosso. Una volta ho creduto veramente di avere un futuro già scritto. Una volta sono svenuto. Una volta ti ho sognato e da quel giorno niente è stato più lo stesso. Una volta, una volta, una volta…. …e adesso ?

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Sorry Adalberto

Certe volte la nebbia che hai nella testa è più fitta della nebbia che c'è fuori. E allora tremi, ma non sai se tremare per il freddo o per la paura. Paura di cosa ? Paura di rimanere solo, di rimanere anonimo, di essere semplicemente uno tra i tanti là fuori. Hai una piccola tempesta dentro, tuoni, fulmini. Bassa pressione. E come avere un piccolo Giuliacci dentro te che ti dice che tempo fa, ma te lo dice troppo tardi. Ti dice che piove quando ormai hai lasciato a casa l'ombrello. Pensi che andare dal dottore risolva la cosa. Pensi che esista una pastiglia, un antibiotico o meglio una supposta, per la bassa pressione. Un bel suppostone nel culo e sei a posto. Una dose extra di felicità nel culo e via che si va. - Quand'è l'ultima volta che ha fatto gli esami del sangue ? - ti disse il dottore. - Non sono mai stato bravo a scuola... La medicina, la meteorologia, la felicità, i cellulari, non sono mai serviti ad un cazzo. Scopri di avere un raffreddore quando ormai hai il naso che ti gocciola, che piove quando hai lasciato a casa l'ombrello, le sei la persona più triste del mondo quando piangi a guardare La Prova del Cuoco, che ti stanno telefonando perchè hai un nome di merda e sei il primo ad essere chiamato quando si sbagliano. Scusa Adalberto...

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Sometimes happens

A volte capita che persone a te prima sconosciute entrino a far parte della tua vita e diventano talmente presenti da non poterne più fare a meno. Era il caso di Julia. Non so, ma fin dalla prima volta che la vidi, capii che purtroppo sarebbe stato difficile stare insieme a una come lei. Perché il mondo gira così e io non posso farci niente. Così decisi che come sarebbe entrata nella mia vita ne fosse anche uscita, possibilmente senza causare troppi danni. Ormai pensarla era diventata una routine, ma la cosa che mi spaventava di più è che Julia mi aveva fatto perdere interesse verso tutte le altre ragazze. E questo non mi sembrava un buon segnale. Mi sarei accontentato di stare insieme a lei. Anche solo vicino, per sentire il suo odore, per vedere i suoi occhi, per ammirare il suo sorriso, per accarezzarle i capelli, per prenderla per mano. Una sera di qualche tempo fa ero a letto, un letto più vuoto del solito, mi sono addormentato e ho fatto un sogno. Non so dire di preciso dov’ero ma il locale era enorme e pieno di persone di tutte le età, donne, bambini, anziani, uomini, ragazzi. Era pieno di poltrone come quelle che ci sono nei cinema, tutte foderate di stoffa rossa e di fronte ad esse un lungo palco sopra il quale riposava una misera scenografia fatta di legno dipinto. La scenografia raffigurava una specie di villaggio con una paio di baracche e tre o quattro alberi di cartone. Io stavo lì in piedi, in fondo alla sala e guardavo tutta questa gente rumoreggiare aspettando l’inizio dello spettacolo. Colpì la mia attenzione un gruppo di ragazze con dei costumi di scena molto poveri e una di loro era Julia. Stava parlando con le sue amiche. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, era meravigliosa anche con quei squallidi abiti di scena. Ad un certo punto le ragazze sparirono, il brusio in sala cominciò ad aumentare fino a che le luci non si spensero. La folla tacque. Si accesero le luci e le ragazze in costume entrarono sul palco. Julia entrò per ultima come a coronare di bellezza quella misera scenografia. Adesso non ricordo precisamente di cosa trattasse la commedia, ma parlavano in rima e le risate del pubblico si intervallavano alle battute delle ragazze. Era meravigliosa anche in quella situazione. 8


Per un momento tolsi lo sguardo dal palco, due bambini si misero a correre per tutta la sala suscitando l’ira delle mamme. Il tempo volò così rapidamente da non rendermi conto che la commedia era già finita e che il pubblico fece un bell’applauso. Le ragazze sparirono dietro le quinte nello scroscio di applausi per poi ritornare in scena per l’inchino finale e per scomparire definitivamente. Le persone in sala si alzarono dai proprio posti e, prese giacche e giacconi, si avviarono fiacchi verso l’uscita. Solo alcuni rimasero a parlare tra di loro e le giovani attrici uscirono da un lato del palco. Uscirono tutte e totalmente cambiate dai costumi di scena, adesso erano truccate e vestite con dei lunghi abiti da sera che si intonavano con quelli delle persone che erano nel teatro. Infatti tutto il pubblico, pur non essendo in un locale di classe, era elegantissimo. Le ragazze erano ancora sotto il palco, a parlare, quando mi accorsi che Julia non era scesa, quindi mi girai a destra e sinistra per controllare che non mi fosse sfuggita senza accorgermene. Nel momento in cui il panico mi stava risalendo la schiena la vidi uscire dalla porta a fianco del palco. Lei, a differenza delle altre, non aveva un abito da sera e non era particolarmente truccata. Indossava dei semplicissimi jeans e una maglietta scura. Nessuno l’avrebbe notata in quella situazione ma per me era la cosa più bella che si potesse trovare in quel teatro. Lei si fermò ad ascoltare le sue amiche. Io continuavo a guardarla e per una frazione di secondo lei fece lo stesso. Non lo so se ci eravamo già visti prima d’ora ma mi era bastata quell’occhiata per sapere tutto quello che volevo. Mi avvicinai, lei continuava ad ascoltare le sue amiche, ma arrivato a pochi metri alzò lo sguardo e mi fissò negli occhi. Dovetti rallentare, mi presentai allungandole la mano e lei fece lo stesso. Aveva un bellissimo sorriso sulle labbra e la sua mano era calda e morbida. Le feci i complimenti per come aveva recitato e lei ringraziò. Divenne un po’ rosea sulle guance per l’imbarazzo. Parlammo per qualche minuto dello spettacolo ma tutto era così bello e così perfetto che incominciai a pensare che si trattasse di una sogno. Ma non poteva esserlo perché lei era così vera e così umana che poteva essere solo la realtà. Ormai avevamo rotto il ghiaccio così decidemmo di andare a fare un giro. L’aria della strada era fresca come una brezza marina sul fare della sera, ma la sera divenne presto notte e noi continuavamo a girare per le vie luccicanti di questa sconosciuta città onirica. Camminavamo vicini ma non ci toccavamo, fu lei per prima a darmi la mano e di nuovo sentii la sua morbidezza e il suo calore. Le sue dita si intrecciavano con le mie mentre continuavamo a parlare di cose che in questo momento non riesco a sentire. Lei si era liberata della sua timidezza e cominciò a correre per la strada tenendomi per la mano. Saltava sui gradini, sui muretti e più si divertiva più il suo sorriso era sincero. Facevamo gli stupidi, ridevamo, correvamo, saltavamo. Ci fermammo a riprendere fiato e le diedi un bacio sulla guancia che lei ricambiò subito. Ci fu un fermo immagine nel quale io e lei ci guardavamo come per ringraziarci del gesto affettuoso. Riprendemmo a correre e saltammo un altro muretto, questa volta più alto degli altri. Ci ritrovammo in spiaggia, la sabbia aveva ancora dentro se il calore della giornata e Julia si levò le scarpe e mi portò con lei sul bagnasciuga. Era molto piacevole la sensazione dell’acqua di mare sui piedi e lei mi lasciò la mano per 9


appoggiare le sue braccia sulle mie spalle. Io feci lo stesso. I nostri occhi erano a pochi centimetri di distanza e i suoi, azzurri, mi ipnotizzavano. C’era il mare che si agitava con le sue onde creando una specie di colonna sonora naturale, riflettendo i raggi della luna. Ancora una volta era tutto troppo perfetto. Ma lei era ancora lì a pochi centimetri da me. Non ce la facevo più, ero sfinito. Così le appoggiai la testa su una spalla. Potevo sentire l’odore della sua pelle, mi faceva andare fuori di testa. Julia mi abbracciò ancora più forte. Eravamo una cosa sola, stretti in un forte abbraccio, senza farci dei problemi di nessun tipo. Eravamo lì e basta. Mi piaceva tenermela stretta, vicina affinché non mi scappasse mai più e nessuno me la portasse via. Avrei potuto stare lì per tutta la vita, lì con lei. Ma ancora, per l’ennesima volta mi sembrò tutto troppo irreale. E questa volta mi resi conto che era tutto un sogno, una farsa, una sciarada. La stavo perdendo, per sempre. Non riuscii neanche a salutarla, a guardarla negli occhi, o sentire, per almeno l’ultima, volta il sapore delle sue labbra. Gli occhi mi si aprirono, la realtà fece male. Ero nel letto, dove ancora si sentiva il suo odore. Mi alzai con una sensazione stranissima e con tanta, tanta tristezza. Per me questo sogno è stato un po’ come quei film che ti scuotono dentro, quelle favole che ti fanno sentire meglio con se stesso. Mai nella mia vita proverò tanto amore e tenerezza. L’unica cosa che mi rincuora e che il mio film non lo guarderà mai nessuno, non vincerà mai un Oscar, non andrà mai nelle guide tv e nessuno lo andrà mai a vedere al cinema. Perché era ed è il mio film e tale resterà. Julia, comunque vadano le cose, nei nostri futuri e nei nostri destini, in balia delle correnti che dominano le nostre vite, le differenze, i pregiudizi, le apparenze, gli anni e le persone, i sentimenti che probabilmente mai ci uniranno, tu rimarrai per sempre nel mio cuore.

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Spin of grass

Ti sei svegliato troppo presto stamattina, erano le 7, ma d'altronde non riuscivi più a dormire. Ieri sera alle nove e un quarto dormivi già, ti sei addormentato sul monologo di Jay Leno. Guardi fuori dalla finestra, c'è ancora la brina sull'erba, allora vai in doccia. Ma non ti senti molto bene, passi troppo tempo in bagno e la tempia ti pulsa. Poi, come ogni martedì che si rispetti, vai da Julia. - Ciao. Come va? Un "come va" che vorrei sentirmelo dire tutte le mattine. - Insomma... non è una gran giornata, ma i medici dicono che ce la farò. Passo una mezzora in compagnia di Julia, parliamo. Parliamo. Poi è ora di andare, la saluto, lei si gira, mi guarda negli occhi, dentro e mi saluta. - Ci vediamo dopo... - mi dice. Una giornata normale, come al solito, tra la ricerca di un lavoro e qualche piccola mansione domestica. Finisci il recinto del cane, rincorri il cane, paga il bollo dell'auto, vai a fare la spesa. Giri tra le corsie del centro commerciale, da solo, in un alone di mistica tristezza. Poi, quando meno te lo aspetti, davanti a te, come un fulmine a ciel sereno, ti appare una delle più belle creature che tu abbia mai visto. Era un miracolo della natura, una bellezza accecante. Allora, con la borsa di plastica in una mano e il salvatempo nell'altra, ti fermi. 11


No, no era proprio lì, era davanti a te. In tutto il suo splendore. La segui per le corsie semideserte. Abbigliamento femminile, libri, vini, prima colazione, dolciumi. Ormai la stai seguendo da troppo tempo, tu hai ancora la borsa di plastica vuota e hai il vago sospetto che lei si senta pedinata. Ogni tanto si gira, ti guarda e tu fai l'indifferente prendendo in mano qualche scatola di biscotti alla crusca, qualche bottiglia di vino californiano. La lasci, per un momento e vai a prendere le tue cose. La borsa adesso è piena e le dita diventano lentamente bianche sotto i manici. Fai le corsie di corsa, schivi un paio di carrelli, dai un paio di spallate. Ma non la ritrovi. No, eccola là. Dalla frutta. Allora ti fermi di nuovo, a guardarla e pensi. Pensi che una così è di un livello troppo alto per te, che probabilmente qualche ragazzo o coi soldi o molto più bello di te entrerà nelle sue grazie in men che non si dica. Le dedichi un ultimo sguardo, la saluti, dentro di te sai che rimarrà nella tua testa per qualche ora poi non esisterà più, subito rimpiazzata da un'altra. Non la rivedrai mai più. Esci, paghi. Anzi paghi ed esci. E in pochi minuti sei già in macchina, sulla strada del ritorno, narrando a voce flebile quello che da lì a poco andrai a scrivere su un foglio virtuale, bianco. - Ci vediamo dopo...

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Virtual Contacts

Rubrica, Messaggi, Invio messaggi. Testo: “ Ciao piccola come va ? Io mi sto facendo un viaggio fuori dal normale. Sono in una città d’oltreoceano, sai quelle piene di grattacieli, io sono su uno di quelli e sto pensando a te e a una mia ex compagna di liceo. Da qui riesco a vedere tutto: la ragazza con il piumino e le scarpe viola, così sensuale, il negro che mi ha chiamato fratello, il cameriere che avevo fatto inciampare, il vecchietto che aveva avuto la brillante idea di farmi qualche domanda alla fermata dell’autobus. Sai che se mi impegno un po’ riesco a vedere anche te, passando per questo oceano che visto da qua sembra un altro cielo. Ti ho visto, sei su quella bicicletta blu che tanto i tuoi amici odiavano. Mi sembri contenta. Sai, da qui riesco a vedere anche la fine del mondo, che non è così terribile come tutti dicono. Guardo giù da questo enorme grattacielo, vedo il vuoto che mi separa dalla terra che è diventata come un’immensa scacchiera dove milioni di persone fanno le loro mosse… mi viene voglia di sputare giù per vedere cosa dirà il malcapitato che se lo prenderà in testa. Sorry. È ora di scendere dal treno e fermare questo viaggio. I love you.” Invia. Invia messaggio. Messaggio inviato.

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Like When Outside Rain

Guarda, se non avessi niente da perdere, te lo direi all'istante che ti amo. Mah, io non ho niente da perdere, allora perchè non te lo dico ? Tutte le volte, tutte le volte che ti incontro mi riprometto che non dovrei vederti più. Almeno per tirare avanti. Io vorrei tirare avanti, ma possibilmente con te. Mi faccio troppi viaggi, vero ? - Ma diglielo... Ma cosa vuoi che le dica, cosa devo dirle ? Che la amo ? Che le voglio un bene dell'anima ? Che se potessi darle la luna gliela darei ? Cosa ? Dai, 7 anni di differenza sono troppi e poi lei è fidanzata. Non potrebbe mai funzionare. - Sì, in effetti 7 anni non sono pochi. Ma cosa vuoi che siano 7 anni, l'amore va oltre a questo no ? Non dicono che l'amore in una maniera o nell'altra trionfa sempre ? No ? - ... Beh, poi che adesso so che verrai a vivere non distante da me, che tu hai chiesto al tuo ragazzo di venire a vivere con te e lui ti ha detto di no, che non se la sente. Vengo io, di corsa. Porcoggiuda, cosa devo fare ? Cosa devo fare per averti ? Tutti mi dicono che stanno da merda, che hanno i loro cazzi… ...'fanculo oggi io sto da merda, è ufficiale. 14


Ci or Sofia ?

La densità del buio che troneggia nella mia mente rasenta l’imbarazzante. Sono di fronte ad un bivio e non so che strada scegliere. La colpa è sempre loro. Mi innamoro con una frequenza terribile e questo mi crea dei problemi. Due donne, una scelta, un amico, un sera, un po’ di vergogna, una pizzeria e un sacco di cose che non riesco ad elencare. Mi sembra di essere in un qualche genere di tragedia o, che cazzo ne so, commedia romana. Ci o Sofia? Il coro non risponde. Capocomico, è pronta la pasta ! È una storia ? No, sono appunti. Parole scritte nella confusione più totale per non impazzire. Per l’ennesima volta ho prurito hai polmoni. Mi succede quando mi innamoro. Ma questa volta provo lo stesso, il medesimo, l’identico amore per due persone. Sceglierne una comporta l’eliminazione dell’altra. NOMINESCION Capocomico, la pasta è pronta ! Ci è la donna che ti fa perdere, in tutti i casi. È la donna che dice tutto e non dice niente, non so se anche lei ha prurito hai polmoni come me. Sofia, la pasta è pronta…! Sofia non la conosco. L’unica cosa che so è di averla guardata negli occhi per un periodo di tempo che gli esseri umani chiamano infinito. Gli occhi mi si chiudono, ma non riesco a farmi passare il prurito hai polmoni. La decisione è parecchio dura, vorrei rimandare a domani sera anche se so che non conterebbe niente. Perché dopo la domenica sera arriva lunedì mattina ? E’ un vizio. Depressione cronica in stato avanzato, con tumore alle cisti comatose che, con l’apporto della gastroenterite, ha danneggiato in modo superficiale le mucose neurologiche. 15


“10mg di lidocaina con supporto endovena e una buona dose di cazzi propri tutte le mattine” disse il dottore. “E non si tocchi !” In fondo la masturbazione è sesso con qualcuno che si ama. Aspetto che i fatti facciano il loro corso e che il tempo, nella sua miriade di sfaccettature, prenda tutte le decisioni al posto mio. Tante parole per un finale che so già che non ci sarà. Non c’è niente di più falso al mondo che la verità. Non c’è niente di più vero al mondo che la falsità. So di rovinarmi alla fine dell’inizio ma cosa dovrei fare ? Sperare sulla sincerità delle persone. La loro buona fede. Perché mi guardate sempre male ? Salgo su di una macchina piena di macchine per superare le mie fene dell’imperno. Ambarabaccicicicòtrecivettesulcomochefacevanolamoreconlafigliadeldottoreildottore siammaloòambarabaccicicicocò. Il tuo scudo visivo contro la nostra stella più importante ce l’ho io. Me l’hai donato per una sera. Ho letto e anche riletto ma la mia domanda resta: perché? Dai dimmelo. Una speranza… c’è?

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Accidental words

Credo che un giorno diventerò una persona seria. Mi vestirò solo con abiti firmati, niente parolacce, diventerò vegetariano e ascolterò musica new-age, leggerò libri sull'Essere e sui comportamenti umani, diventerò di sinistra, non mi perderò un concerto dei Pooh, mi troverò un lavoro, dignitoso, mi darò al tennis e due volte alla settimana andrò in palestra. A 30 mi sposerò, a 35 un figlio, a 37 il secondo, femmina, si chiamerà Gaia, lascerò tutti i miei sogni nel cassetto. Mi taglierò i capelli una volta ogni due mesi, corti, barba tutte le mattine e colazione sana. Sarò un intenditore di vini e formaggi, ogni tanto cena con gli amici in qualche trattoria. Smetterò di fumare, di suonare, di guardare film porno, di passare i sabati sera dentro un pub a bere birra. Avrò una casa mia, mutuo ovviamente, una macchina, la casa al mare, e d'inverno settimana bianca. Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Pic-nic di primavera, gite al lago, cene di lavoro, cene romantiche. Una buon conto in banca e una vita normale, troppo normale. Morirò circondato dai miei figli e da mia moglie, a 80 anni se mi va bene. Morirò e nessuno si ricorderà di me, non avrò fatto la differenza per nessuno, una piccola scia in un cielo stellato, come una stella candente. Non diciamo cazzate.

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Gulls

Sì, dalla finestra della mia stanza ho visto i gabbiani. Uno si era posato sul tetto della casa di fronte e mi fissava. Emetteva suoni che sembravano dirmi: “ Dai amico, seguimi ! Prendi le cose che ti stanno più a cuore e vieni via con me !” Un gabbiano mi sta parlando. Sono pazzo. No, è la realtà. Accetto il suo invito e così metto le mie cose in una valigia, piena di ricordi. Il gabbiano mi ha fatto minuscolo in modo da salirgli sul collo. Adesso viaggio sul dorso di un gabbiano con una valigia di ricordi. Ho dimenticato i miei sogni nel cassetto. Il gabbiano vola su monti e mari, seguendo una stella cometa che non esiste. Abbiamo volato sopra le strade che avevo percorso, sopra i paesaggi che avevo ammirato, sopra i mari che avevo navigato. Sono arrivato all’isola che sta ai confini della terra. Il gabbiano mi fa scendere e mi saluta. Guardo il gabbiano allontanarsi all’orizzonte quando rimango da solo con la mia valigia di ricordi in mano. Mi siedo sulla sabbia a fissare il mare che si confonde con il cielo. Mi guarda con occhio curioso. Ci siamo guardati per due giorni. Si fece buio. Mi sono acceso una sigaretta, come un focolare nell’oscurità della mia mente. Ritorno bambino quando niente era una preoccupazione se non che arrivasse domani. Io e il mare continuiamo a guardarci come veri amici che con un semplice sguardo si dicono tutto e niente. L’isola pensa. Si trasforma nel gabbiano che mi ci aveva portato e vola via. Il mare mi saluta.

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Mi ritrovo con i ricordi che avevo nella valigia e mi fanno paura. Il cielo stellato mi circonda. Viaggio in una nube di ricordi in mezzo alle stelle. Nel mare di stelle i ricordi si fondono con il mio corpo. Faccia a faccia con il mio io. Il silenzio è troppo assordante per resistere. Sono di nuovo in camera mia e fuori dalla finestra ci sono i gabbiani.

Sunday morning bitter coffee

Non so perchè, ma la domenica mattina mi sveglio troppo presto. La domenica è fatta per dormire e io, vaffanculo, alle 9 sono già in piedi. Mi sveglio con ancora il sapore di tabacco in bocca e un leggero retrogusto di birra. E' disgustoso. La domenica mattina, da un po' di tempo a questa parte, ho un rito. Il caffé amaro, al bar, da Lucia. Lucia fa la barista in un locale non troppo distante da dove vivo io. Cinque minuti di macchina. Che ci sia bello o brutto tempo, che abbia dormito o no, il caffé amaro della domenica mattina e soprattutto Lucia, non si saltano. Lucia, è una delle più belle cose che abbia mai visto nella mia vita. Gli occhi azzurri più profondi che abbia mai ammirato. E lei mi da il caffè, amaro, come la vita. Normalmente il bar, verso le 11e30, è sempre pieno e lei e sempre lì, alla cassa. - Un caffé, grazie... quant'è ? - 80 centesimi... grazie a te. Le do un euro, lei mi da i venti centesimi di resto. In mano. Con le dita le sfioro il palmo della sua mano e penso che mi piacerebbe sfiorarlo molto più spesso. Ma lei, come tutte le altre, si rivelerà una semplice illusione, di un po' d'amore che oltre a ricevere potrei anche dare. Non contano più, le lettere. Bevo il mio caffé amaro, come la vita, subito susseguito da un leggero conato di vomito. Riprendo il controllo di me, la guardo negli occhi azzurri, e spero di rivederla domenica prossima. Penso a come sarebbe una vita con lei, con i suoi occhi, con la sua voce. Penso che continuo a essere il solito coglione, basterebbe così poco. Ciao. Fuori dal locale, oggi, fa caldo. Mi accendo una sigaretta, la lingua, ancora ustionata dal caffé amaro come la vita, scalpita al contatto col fumo. Una lunga aspirata, di non vita. Troppa gente c'è in giro, troppe facce nuove, troppe vite che si accavallano con la 19


mia. A casa si aspetta il lunedì. Un lunedì con la speranza di cambiare qualcosa. Perchè dopo la domenica c'è sempre un lunedì, cos'è? Un vizio?

Julia

“Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Dissi così, a Julia, un giorno di inizio primavera. Non so dove tirai fuori tutto quel coraggio ma, so per certo, che se non l’avessi fatto l’avrei rimpianto per tutta la vita. Forse l’avrei dovuto fare molto tempo prima o forse, non l’avrei dovuto fare affatto. Julia, in questi 5 anni, è stata il senso della mia vita, è stato il primo pensiero quando mi svegliavo e l’ultimo prima di addormentarmi. C’è chi mi dava del pazzo, chi mi diceva che ero timido, chi diceva che stavo solo perdendo tempo, chi mi consigliava di lasciar perdere. Ma perché non glielo dici ? Mi sentivo dire. Cosa avrei dovuto dire ? Che sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di lei? Che quando la vedo il cuore mi va mille? Che con lei vorrei passare il resto della mia vita? Che tutto quello che ho fatto, scritto, ideato, pensato, composto, sognato l’ho fatto solo per lei ? Sì. “Dottore, credo di non sentirmi bene.” “Quali sono i sintomi ?” “Mi sono innamorato.” Il dottore non disse niente, rimase in silenzio e mi guardò negli occhi. “…di me ?” sogghignò ironicamente. Ho sempre odiato i dottori, sanno troppe cose e alla fine non sanno niente. Sanno quello che c’è scritto sui libri, sanno che hai il raffreddore perché ti soffi il naso o la 20


tosse perché tossisci. E allora ti danno la pillola, lo sciroppo, la supposta e suppongono di mettertela nel culo. Stronzate. I dottori non sanno guarirti dentro. “Dottore, ho il cuore impazzito, sudo, non dormo, non mangio, ho sempre quel pensiero fisso in testa. Dottore, porca miseria, mi sono innamorato ! Come devo fare ?” Il dottore continuò, nel suo silenzio ironico, a non darmi una risposta. “Dottore, si può morire per troppo amore ?” Il dottore si tirò su gli occhiali e si fece serio. “No, lo escluderei. Ma l’amore non ha cure mediche e non è una malattia, caro mio. Gente viene da me perché è depressa, è demotivata, triste. E l’elemento comune è l’amore. L’amore è causa di malattie. Sa quante cose sono state fatte in nome dell’amore ? Provi a pensare alle poesie, ai romanzi, ai componimenti musicali. Re sono caduti, nazioni sono state distrutte, guerre, battaglie. Non c’è cura per l’amore se non l’amore stesso, solo la persona che ama può salvarla dal suo male. ” Ottimo. Volevo andarmene, stavo sprecando del tempo. Mi alzai dalla sedia. “No, la prego, non se ne vada. Vede, l’amore è un sentimento molto forte. Fa parte dei 7 sentimenti che dominano le nostre vite: amore, odio, vita, morte, sesso, lavoro, gioco. Se vuole un consiglio: parli con la persona interessata oppure faccia un viaggio, provi a dimenticarla. Conosca gente nuova. Ci sono tanti pesci nel mare, no ?” Sì, il merluzzo e il tonno. Dalle pinne gialle. Uscii dallo studio del dottore, l’aria fredda di quel lunedì mattina mi picchiava sulla fronte. I rimedi medici non potevano guarirmi da quella malattia, ormai era ufficiale. Ero un malato cronico di una malattia mentale senza cura. Avevo 20 anni e amavo Julia che, oltre a non ricambiare il mio amore, non ne sapeva niente. La incontrai per la prima volta circa sei anni fa, a casa di un amico. L’ho desiderata fin dalla prima volta che l’ho vista. E adesso, sei anni dopo, sono ancora qui ad aspettarla, a sognarla di notte, a guardarla negli occhi e sperare che, un giorno, il destino l’avrebbe fatta diventare mia. Julia è meravigliosa, uno dei doni più stupefacenti della natura. Quegli occhi azzurri, profondi, che ti arrivano fino in fondo al cuore. Beh, quegli occhi mi hanno colpito così forte, così intensamente che anche oggi, dopo sei anni, Julia è ancora dentro di me. Non sono mai riuscito ad esternare quello che provavo per lei, il mondo non me lo permetteva. La storia è sempre stata parecchio complicata. Quella primavera era il momento giusto per cercare di dirle quanto la amavo. Lei doveva saperlo che, comunque fossero andate le cose, una persona su questo pianeta le avrebbe sempre voluto bene. Ma avevo paura. Avevo paura di rovinare tutto, anche quel poco che c’era. Non sapevo come fare, cosa dire e soprattutto se era giusto farlo. Non sapevo quale 21


sarebbe stata la sua reazione, e questo mi spaventava molto. Io la consideravo la persona più speciale che avessi mai incontrato ma, probabilmente, io non ero lo stesso per lei. Anzi, lei avrà, molto probabilmente, una sua persona speciale. Ma il cerchio continuava a non chiudersi. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Questa frase continuava a girarmi nella testa, impazzita al pensiero che un giorno l’avrei dovuta dire. La dicevo continuamente, come si recita un mantra, una preghiera. Dire che in quel periodo avevo in testa solo lei è riduttivo. Mi attaccavo a qualsiasi cosa me la ricordasse. Molte sere passavo davanti a casa sua, guardavo la porta d’entrata e, nella solitudine della mia auto, le dicevo a bassa voce: “Che tu, in questo momento, ci sia o no, ovunque tu sia, buonanotte. Buonanotte Julia. Vorrei potertelo dire cento, mille, un milione di volte questa frase, guardandoti negli occhi. Perché non sai quanto di amo.” Dal diario, 3 novembre: Oggi, dopo molto tempo, è stata una bella giornata. Una buona giornata. E il motivo è lei. Julia. Siamo stati insieme tutto il pomeriggio. Era tanto tempo che non stavamo insieme così, come oggi. Molti mi dicono che non è possibile che io perda così tanto tempo con una ragazza come lei. Ma io non posso farci niente, quanto ci sto insieme mi muove qualcosa dentro di infinitamente bello. Lei mi guardava, io la guardavo. Negli occhi, in quegli occhi immensamente azzurri. Lei rideva, un sorriso da favola. E io stavo male, ma male di bellezza. E' troppo, lei, per me. Si parlava del più, del meno. Della sua vita, dei suoi studi. E di come lei mi vede come un perfetto idiota. Senza futuro, senza risorse. Un peso per la società ? Un tizio senza arte ne parte ? Una persona insipida ? Ma io la amo lo stesso. E' un amore talmente naturale e sincero che non so neanche se è amore. Allora gli ho parlato, cioè volevo parlarle e... Ci siamo messi insieme. C'è solo un piccolo problema... lei non lo sa. Dal diario, 29 novembre:

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Erano due settimane che non la pensavo e così ci ricasco dentro. Julia. E io che mi ponevo degli obiettivi e cercavo di focalizzare la mia attenzione su altre ragazze. Finisco sempre lì. Oggi non riuscivo a guardarla negli occhi, faceva troppo male. Faceva troppo male sapere quanto la amo e quanto lei sia all'oscuro del mio amore. Faceva troppo male sapere che non potrò mai averla. Allora smettila di avere gli occhi azzurri. Smettila di essere così immensamente bella. Smettila di essere così prepotentemente la ragazza dei miei sogni. La cosa più triste è che non esiste cura per questa malattia, se non lei. Dal diario, 8 gennaio: Stasera una persona che non sentivo da un bel po' di tempo mi ha mandato un sms con scritto: "Come va? Io sto abbastanza bene e te ?" Io ? "Io sto bene... a parte non avere una ragazza e passarsi un martedì sera in un cinema vuoto, da solo...tutto ok" Quando sono uscito dal cinema, mi sono venute in mente tutte quante: Julia, Barbara, Mary. Tutte quante insieme, in un secondo. E allora ho perso la testa, ho messo la musica a tutto volume e sono andato a casa. Per la prima volta, non mi sono sentito così anonimo. Pensarle tutte nello stesso momento mi ha fatto male. Julia, un giorno, mi aveva detto: "Trovati una ragazza e sposati, porca miseria ! Guarda come sei messo..." "Non riesco a vedermi..." E quella volta che c'eravamo io e lei seduti ad un tavolo, l'uno di fronte all'altra. Lei stava scrivendo, io la stavo guardando, stavo ammirandola in tutto il suo splendore. Lei alza la testa, mi guarda e mi dice: "Cosa c'è ?" Io non rispondo, continuo a guardarla. "Cosa c'è?" "Ah no...niente stavo pensando..." Devo smetterla di pensare. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Che effetto avrebbe fatto a Julia questa frase ? L’avrei tanto voluto sapere. Le avrebbe creato così tanto imbarazzo ? 23


Avevo il suo numero di cellulare, ma questo non ha importanza. Il problema è che non sapevo come usarlo. Non potevo chiamarla così, da un giorno all’altro, cosa le avrei detto? Noi non frequentavamo le stesse persone, gli stessi locali, non avevamo nessun punto in comune, ma nonostante questo ero convinto che prima o poi sarei riuscito nel mio intento. Julia è la mia parte mancante, non posso fare a meno di lei. Ci ho provato ma non riesco. Una sera, pioveva, io ero a letto. Era molto tardi, credo quasi le tre e mezza. Avevo il cellulare in mano e stavo facendo scorrere i numeri della Rubrica. Arrivato a Julia, non ho potuto fare a meno di soffermarmi qualche secondo. Il suo nome era lì: JULIA. Avrei potuto chiamarla, ma effettivamente era un po’ tardi, oppure anche solo mandarle un messaggio. Darle la buonanotte. Non mi sarebbe costato niente, assolutamente, ma lei ignara di tutto si sarebbe vista arrivare un messaggio, da me. Cosa sto dicendo ? Perché non l’ho mai fatto prima ? Di che cosa avevo paura ? Una buonanotte non credo abbia mai fatto del male a nessuno. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Gliel’avrei detto, ormai non potevo più aspettare. Aspettare cosa ? Le cose erano chiare, forse fin troppo: io la amavo alla follia, e lei non ne sapeva niente. Giro di parole o frase diretta ? Giro di parole o frase diretta ? Giro di parole o frase diretta ? Come decidere ? Testa o croce. Testa, giro di parole. Croce, frase diretta. Tirai fuori dalla tasca dei pantaloni una moneta. Gli euro non hanno testa o croce. Niente, ‘fanculo l’euro. Allora, se avessi fatto canestro nel cestino con un pezzo di carta, giro di parole. Altrimenti frase diretta. Tiro. Fuori. Frase diretta. Riprovai, altro metodo. Se nella prima auto, dopo la curva, al volante ci fosse stata una donna, frase diretta. Uomo, giro di parole. Donna. Frase diretta. No, forse era meglio un giro di parole, è meno d’impatto, meno invasivo. Dai, una via di mezzo. Un breve giro di parole, per arrivare al dunque. Perfetto. “Dottore, glielo dico.” 24


“Cosa deve dirmi ?” Ma perché la gente non capisce subito al volo ? Per di più il tuo dottore, che dovrebbe sapere anche quanti capelli hai in testa. “Ma no. Niente. Lo dico a Julia, le dico che la amo. Che senza di lei non potrei mai stare. Come mi aveva detto lei.” “Come ? Julia le ha detto di dirle che la ama ?” “Come mi aveva detto lei. Lei, dottore. Lei” dissi puntandogli il dito contro. “Ah, sì, come le avevo detto io. Certo. Io speravo, in realtà, che lei la dimenticasse, che trovasse qualcun’altra con cui sfogarsi. Invece vuole continuare per la sua strada. Non credo che questa ostinazione le faccia bene.” “Dottore, porcoggiuda, io amo Julia. L’ha detto lei che l’unica cura per l’amore è l’amore stesso. Io amo Julia e glielo voglio dire.” “Sì, sì certo. Ma se Julia non fosse del parere. Se le dicesse di no. A proposito, gli esami del sangue…” “Dottore, non cambi discorso. Se Julia dirà di no… me ne farò una ragione. Io ho tanto di quell’amore da darle che, porca miseria, non so neanche spiegarglielo.” Sì era vero, avevo tanto di quell’amore da darle che avrei riempito una casa. Se devo essere sincero c’era un’altra piccola cosa a mio sfavore. Non conoscevo Julia, o meglio, la conoscevo ma non approfonditamente. Avrei dovuto viverla per conoscerla fino in fondo. “Ma come fai a dire che ti sei innamorato di me se non mi conosci neanche ?” temevo questa frase, forse più di ogni altra cosa. È una lama a duplice taglio, presuppone due spiegazione ben diverse: 1. Non mi conosci, non ti puoi innamorare di me. Ma nonostante ciò mi fa piacere. Usciamo, frequentiamoci. Poi vedremo. 2. No. Non mi interessi e, per non dirti un NO secco in faccia, preferisco glissare elegantemente. Avrei preferito decisamente la prima spiegazione. Julia mi aveva fatto anche, come dire, da terapia. In quel periodo mi stavano tornando in mente tutte le altre. Sì, le altre di cui mi ero innamorato, per la prima volta, in passato. Greta era in classe con me alle scuole medie. Prima era una tra le tante, poi un giorno, dal nulla, era diventata un ossessione. Avevo perso la testa, avrei fatto di tutto pur di averla. Venni a scoprire, in seguito, che c’era stato un breve periodo in cui lei era attratta da me, credo in seconda, mai nessuno me lo venne a dire. Quando ormai io ero innamorato perso, in terza, lei preferiva filarsela con il suo compagno di banco. Un biondino insipido, stupido e ignorate. E io, dall’altro dei miei 13 anni, li guardavamo mentre si toccavano, scherzavano e ridevano. Era la fine della terza media, durante prove per la recita di fine anno, che le scrissi una lettera. Lei faceva la Spice Girl e io il Ragazzo Albanese. Come era solito fare in quei periodi, non diedi la lettera a lei personalmente, ma ad una sua amica che poi, gliela avrebbe fatta avere. Non dormii quella notte, per niente. Pensavo alle espressioni che avrebbe fatto leggendo la mia lettera. Cosa mai avrebbe pensato. Le aveva fatto piacere ? La 25


mattina andai a scuola, Greta era già là, seduta dietro al suo banco. Non mi guardava. Non capivo. Cos’era andato storto ? “Ma, gliel’hai data la lettera, sì ?” chiesi alla sua amica. “Ah già, la lettera. Scusa, credo di averla lasciata nella cartella. Dopo, per la ricreazione gliela do, ok ? Stai tranqui.” Perfetto, non gliela aveva data. Paranoie a mille. Suonò la campanella della ricreazione e vidi l’amica trascinare Greta in bagno, per un braccio. Tornò in classe, con la lettera in mano e Greta mi guardò. L’aveva letta e a questo punto aspettavo una risposta. La risposta. La risposta mi arrivò dopo un mese. Un foglio di carta a righe, poche frasi scritte con una biro profumata, rosa fosforescente, piegato in 16 parti, tipo francobollo, arrotolato nel nastro adesivo e con la scritta “Top Secret” verde pallido. La scuola era già finita, Greta aveva avuto modo di limonare a lungo con il biondino insipido, stupido e ignorante e io avevo appena scoperto le gioie del diventare ciechi. Sara, prima liceo. Cioè, io ero in seconda e lei in prima. La vidi il primo giorno di scuola, alla stazione delle corriere, e me ne innamorai subito. Sara Bellei, un metro e sessantacinque, castana, occhi chiari, aveva sempre uno zainetto bianco sulle spalle, tranquilla, timida, di poche parole. Girava sempre con lei Stefania Dondi, venti centimetri e dieci chili più di lei, corporatura robusta, credo fosse oltre che la sua migliore amica, la sua guardia del corpo. Sara non la conobbi mai. Mi limitavo a guardarla, a distanza, a sentire quello che diceva. Ci parlai solo una volta, in corriera. “Ah, tu sei Sara Bellei, fai la prima. Sai, sei molto carina” le dissi, toccandole la spalla con un dito, con tutta la sicurezza del mondo. “Grazie” e si girò dall’altra parte. Tutta la sicurezza del mondo andò a farsi benedire da un semplice “Grazie”. Rimasi in silenzio quasi tutto il viaggio. Non parlavo, non mangiavo, non mi divertivo. Ero innamorato. Neanche fossi stato Giacomo Leopardi, la tattica “lettera” mi sembrava la migliore. Allora gliela scrissi e, come era solito fare in quei periodi, l’avrei consegnata alla sua amica, la guardia del corpo. “Stefania ? Ciao, senti, posso chiederti un favore ? È una cosa da niente, ma ci terrei se tu potessi consegnare questa lettera a Sara.” “Una lettera ? Ma per cosa ? Lo so che ti piace, se vuoi fare prima ti do il suo numero di cellulare. La chiami, forse ci fai più bella figura che con una lettera.” Avevo il suo numero di cellulare. Lei, in prima liceo, aveva un telefono cellulare e io a malapena una scheda telefonica. Fantastico. Arrivai a casa, non mangiai e mi misi subito davanti al telefono con il post-it dove Stefania aveva scritto il suo numero di cellulare. Chiamo o non chiamo ? Chiamo o non chiamo ? E se chiamo cosa le dico ? “Ciao Sara, sai sono quello della corriera ? Ti ricordi?” 26


Non potevo dirle così. “Quello della corriera”, chi è quello della corriera ? Un maniaco ? Come se fossi l’unico che viaggia in corriera. “Pronto ? Sara ? Ciao, volevo dirti che mi piaci, parecchio. Volevo sapere se ti andava di incontrarci qualche mattina ?” E la donzelletta vien dalla campagna. Chiamo o non chiamo ? Chiamo o non chiamo ? Dai, chiamo. Tanto, cos’ho da perdere ? Composi il numero. Squillava. “Pronto ?” disse Sara. Riattaccai. Feci così, credo, un’altro centinaio di volte. Quando tentavo di chiamarla ero sempre deciso a dirle qualcosa, poi, appena rispondeva, mi cagavo sotto e riattaccavo. Risultato ? Io cambiai scuola e lei numero di telefono. Con Julia non dovevo fare gli stessi errori. Niente lettere, niente telefonate. Se avevo imparato qualcosa da queste storie era ora di metterlo in pratica. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” L’inverno stava finendo e, quel pomeriggio, le avrei parlato. Julia era dietro la scrivania, io entrai dalla porta e la salutai. “Ciao Julia, tutto bene ?” “Ciao, sì, insomma. Tutto bene.” Ero a rischio di infarto, la bocca secca, le mani sudate. Continuavo a strofinarmele sui jeans. Dovevo parlarle assolutamente, dovevo mettere la parola “fine” a quella storia. Non potevo continuare a vivere in un sogno e rimpiangere tutta la vita di non averci mai provato, era meglio vivere la cruda realtà. Qualunque cosa lei mi avesse detto. Qualunque cosa ? Sicuro ? Sì, non del tutto, ma era l’unica strada possibile. “Julia, volevo chiederti una cosa…” “Sì, certo. Dimmi.” “Sai quando… sì, insomma… ti è mai capitato di innamorarti di una persona…? Cioè, tu ti innamori di una persona ma lei non sa niente…vorrei dirglielo…..cioè, non è che non voglia dirglielo. In parole povere, ti sei innamorato e… pensi delle cose, poi non ne sei più sicuro. Ah, poi stai male, sì male… pensi che l’amore sia una malattia e che l’unica cura all’amore sia l’amore stesso. Non mangi, non dormi… sai no, com’è quando ci si innamora…” “Sì, lo so com’è quando ci si innamora. Ci sono passata anch’io. Ma non capisco dov’è il problema ?” “No, nessun problema. È un periodo un po’ così, strano, diciamo.” Julia, per un attimo, mi guardò senza dire niente. “Adesso ho capito. Ti sei innamorato. Beh, è una bella cosa. Chi è la fortunata ?” Diglielo, dai, diglielo. Mi aveva offerto la possibilità di rendere tutto estremamente più semplice e io, stavo zitto. Dai deficiente, diglielo che è lei l’amore più immenso della tua vita. Su, devi solo dire Julia. 27


J –U – L – I – A. Non è così difficile. Ormai siamo arrivati all’epilogo di tutta la storia e rimani in silenzio ? Diglielo ! Cos’è ‘sta storia ? Parla ! Niente, stavo in silenzio e la guardavo. “Ehi. Allora chi è ?” Ecco, vai. Julia. La risposta è semplice. “Ma no, nessuno. È una ragazza, non credo che tu la conosca. È molto carina.” Bella cazzata. Con tutte le cose che potevo dire o inventarmi andai a tirar fuori “nessuno”. Mi sono innamorato di “nessuno”. Sono un idiota. Avevo tutta la mia vita su un piatto d’argento, potevo finalmente dirle tutto. Invece niente. ‘Fanculo io e ‘sti cazzo di “giri di parole”. Dovevo andare da lei e dirle: “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Stop. Diretto, semplice e chiaro. Invece non l’ho fatto. “Dottore, non ha capito niente.” “Cosa ? Cosa dovrei aver capito ?” “No dottore, non lei. Julia. Le ho parlato e non ha capito niente. Ho fatto un gran casino.” “Ah però, con questa Julia. Non vuole proprio lasciar perdere ? Vero ?” Ma perché il mio dottore voleva che non pensassi più a Julia ? E con lui sembravano d’accordo anche i miei amici. Sì, ok, era una cosa un po’ assurda questa mia ossessione per Julia, ma sarei stato bene solo con lei. “No dottore, non lascio perdere. Ormai sono arrivato fin qui e non intendo tornare indietro. Dovessi metterci mille anni per diglielo, glielo dirò. Ieri le ho parlato, avevo intenzione di dirle tutto, invece ho preso un giro di parole senza senso. Ho fatto su un casino mostruoso e lei, ovviamente, non ha capito niente.” “Vede, parlare di certe cose, soprattutto di fronte ad una persona che sia ama, non è così facile. Ma, nonostante questo, è una cosa normale, ci siamo passati tutti. Io le consigliavo di cambiare “obiettivo” solo perché, secondo me, lei ha un tantino mitizzato la figura di Julia. E questo gli impedisce di parlarle come una persona alla pari. Non so se mi sono spiegato ?” “Sì, si è spiegato benissimo. Ma c’è qualcosa in Julia. Qualcosa di infinitamente grande e infinitamente chiaro. Mi sembra di conoscerla da sempre. Non so dottore, ma sento che qualcosa ci unisce, nel profondo. Forse mi sbaglio, forse è solo l’irresponsabile pensiero di un innamorato, ma adesso, oggi, è quello che sento. Sento il bisogno di aiutarla, di starle vicino, di non farle mancare niente. Non vorrei mai e poi mai che lei soffrisse. È una cosa che non tollero. Julia va oltre a tutto, oltre a me, a lei, oltre a tutti i problemi che ho. L’unica cura per l’amore è l’amore stesso, l’amore per Julia.” Il vero problema è che ero insicuro da morire. Ero insicuro del mio aspetto, ero insicuro dei miei pensieri, ero insicuro di parecchie cose. Dovevo trovare o fare qualcosa che mi desse sicurezza. Mi ricordo che, ai tempi del liceo, un mio compagno 28


di classe, era un dio con le ragazze. Gianni Gori, detto Jean, lo consideravo un piccolo Don Giovanni. Era furbo con le ragazze, scaltro, di pronta parola. Capelli lunghi, biondi, occhi castani e voce profonda, sarebbe entrato senza problemi in Gioventù Bruciata. Bello e dannato. Avevo bisogno di lui, dovevo sapere se c’era qualcosa sulle donne che io ignoravo. “Pronto Jean ?…Ciao, come va ?…Io bene grazie, tutto ok. Senti, dovrei chiederti un favore, parlarti di una cosa. Sei vuoi ci troviamo a cena una di queste sere, cosa ne dici ?” Ci eravamo dati appuntamento al ristorante messicano. Gli avrei chiesto tutto quello che mi interessava sulle donne, dovevo assolutamente sapere se c’era qualche segreto che mi sfuggiva. Aspettavo davanti all’entrata del ristorante da venti minuti, due sigarette. Jean amava arrivare in ritardo, lo faceva sentire una star. Poi, dall’angolo della strada, spuntò una Maserati Spyder Coupè nera, con la musica, dentro, a volume altissimo. Era Jean. Fece un abile parcheggio e scese dall’auto. Erano ormai cinque anni che non lo vedevo e, quando scese dalla macchina, temevo di non riconoscerlo. Mi ricordavo che era sempre attentissimo alle mode, ma quella sera, credo che fosse un figlio naturale dei mass media. Una concentrato di moda, stile, fashion, trendy e tutti quegli altri termini moderni dei giorni d’oggi. I capelli biondi, un tempo lunghi fino alle spalle, erano tirati all’insù, occhiali neri, camicia bianca aperta sul petto, jeans firmati stretti come ad evidenziare il “pacco” e stivali bianchi, quasi da cow-boy. Qualcosa di quel “bello e dannato” era andato irrimediabilmente perso. Erano le nove di sera di un sabato di fine gennaio, io ero immerso nel mio giaccone e lui si atteggiava con una camicia bianca aperta sul petto. Camminava verso di me con un’andatura spavalda, sì, da cow-boy. Si avvicinò, si levò gli occhiali e alzò la mano, come gesto di saluto. “Ehi, my friend, gimme five. Allora, tutto okay ?” disse Jean con la sua voce profonda. “Ciao Jean, tutto occhei. Ol raigt. Dai, andiamo a cenare che parliamo un po’.” Gli risposi cercando di entrare nella parte e soprattutto nel mio pessimo inglese. Entrammo nel ristorante, la musica messicana veniva trasmessa dalla filodiffusione, camerieri dalla pelle olivastra portavano sui vassoi enormi boccali di birra. Uno di loro ci accompagnò al nostro tavolo. “Prego, señior, questo è il vostro tavolo. Vengo subito con i menù.” Ci sedemmo e Jean posò i suoi occhiali scuri sul tavolo. “Allora, my friend, di cosa dovevi parlarmi ? What’s the problem ?” Perché continuava a chiamarmi my friend ? Non potevo sopportarlo. Mi era giunta voce che Jean, dopo la maturità, grazie a suo padre, abile imprenditore del settore tessile, fosse andato a Los Angeles. Lì, a quanto si racconta, entrò in contatto con illustri personalità dello Show Business e della moda americana, così, tornato in Italia dopo qualche anno, era diventato un consulente di immagine per l’azienda del padre. Adesso parlava metà inglese, metà italiano e metà quei termini che usano i giovani, quelli che fanno tendenza. 29


“Sì, il problema è questo: c’è una ragazza di cui mi sono innamorato, si chiama Julia…” Gli spiegai tutta la storia fin dall’inizio, del tentativo che avevo fatto di dirle quello che provavo e delle mie insicurezze. Jean ascoltava, in silenzio, mangiava. Non si riempiva mai la bocca, masticava i piccoli pezzetti di carne per parecchi secondi prima di inghiottire e, ad ogni tre bocconi, era alternato un sorso d’acqua. Rigorosamente naturale. Mentre parlavo studiavo i suoi movimenti, era calmo, rilassato, padrone della situazione. Uscivano dalle maniche arrotolate fino al gomito, le braccia abbronzate, prive di peli, e giungeva fino a me un forte odore misto acqua di colonia e dopobarba. Il viso, abbronzato anch’esso, non mostrava né una ruga né un filo di barba. “I understand, vedo che le donne incominciano ad essere un problema anche per te. Se ti posso dare un consiglio…” Così, uscì tutto il playboy che era Jean e continuò il suo discorso. “…vedi, my friend, le donne sono strane. Tutte uguali e tutte diverse. Alle donne piacciono gli uomini sicuri, gli uomini maschi, gli uomini che possano dar loro qualcosa. Io so quello che le donne vogliono. I know. Per certo. Le donne vogliono che tu sia te stesso, ma sei costretto a fingere. Devi fingere di essere te stesso ma, in realtà, stai recitando una parte. L’arte del conquistare è una commedia complessa, è un gioco di ruoli. Io sono uscito con tante donne, lo so. Allora, per farti capire meglio ti faccio un paio di esempi. Well, per cominciare, se il primo approccio avviene per telefono o per sms, non chiamare mai per primo. Lascia che sia lei a farlo. Se ti manda un sms sul cellulare, wait, non rispondere subito. Tu sei troppo impegnato per risponderle subito, falla attendere. Tu fai le cose solo quando ne hai voglia. Se invece, l’approccio avviene ad una festa o in un luogo pubblico, ad esempio. Fermi il tuo target con una scusa banale, devi essere sicuro di te. Carico, determinato. A fine serata tu devi aver almeno un numero di telefono o un appuntamento. Fermane il più possibile, più ne fermi più saranno le possibilità che avrai di uscire con una di loro. Quando esci con una donna, parla. Parla tanto. Racconta della tua vita, del lavoro che fai, dei tuoi interessi. Che, guarda caso, sono simili ai suoi. Studiala, cerca di capire quello che le piace, falle delle domande, sottili, leggere, nascoste. Se a lei piace la discoteca, la discoteca piace anche a te. Se a lei piace il cinema, tu hai tutti i dvd dei suoi film preferiti. Se a lei piace la cucina cinese, tu, ovviamente, la adori. Stessi gusti. Identici. Ci sono, ovviamente, degli argomenti off limits: mai parlare degli ex, di cose disgustose o tristi, mai andare su discorsi di cultura generale troppo elevati, potresti fare o farle fare una figura di merda, quindi metterla in imbarazzo. Poi evitare discorsi su mamme, nonne, figli, matrimonio. Beh, you understand. Mentre le parli, gesticola tanto. Alle donne piacciono gli uomini che gesticolano. Sottolinea le parole più importanti con un gesto, usa termini semplici, non troppo ricercati. Piuttosto termini giovanili. Pagale sempre la cena o il drink. Alle donne piace quello che tu possiedi, alle donne piacciono i soldi. Mettiti braccialetti d’oro, collanine orientali, anelli tribali. Potrebbero essere agganci per parlare dei tuoi viaggi, delle tue avventure. Le donne amano i soldi, più ne hai meglio è. Una macchina grossa le fa impazzire letteralmente. Beh, Jean sei un dio…” 30


Questa era la sua filosofia, abbastanza discutibile dovrei dire. Era così pieno di sé che ci sarebbero voluti due corpi per contenerlo tutto. Jean parlava e parlava, quando non parlava gesticolava. Non era mai fermo. Aveva ancora tutta la bistecca nel piatto e sventolava la forchetta a destra e sinistra. Io, nel frattempo, mi ero finito la grigliata di carne, patatine fritte e quattro birre medie. “You understand ? Vedi, le donne bisogna saperle prendere.” “Ies, ies, ai anderstand. Ma, non credo che diventerò mai bravo come te, con le donne” dissi mentre giocherellavo con le poche patatine rimaste nel piatto. “Non sono un donnaiolo, ci so solo fare. Eh eh. Credo sia un dono della natura. Sono un dio.” Era modesto Jean. Io, di quello che aveva detto non avevo capito quasi niente, forse anche a causa delle quattro birre medie. Ma i punti fondamentali li avevo afferrati. Quella sera Jean parlò tanto, forse troppo. Non sapevo se ero più ubriaco d’alcol o delle sue parole. Fu quando uscimmo dal ristorante, alle tre passate, che Jean mi chiese: “Vieni a fare two jumps in discoteca ?” “Ciu giamps ? No, ti ringrazio. Mi sa che mi vado a fare ciu giamps in de bed. Ho bevuto troppo.” Andai a letto e mi addormentai subito. La mattina seguente mi svegliai tardissimo con il ricordo di aver sognato Julia. Era una domenica triste, senza programmi, e fuori dalla finestra accennava a scendere qualche fiocco di neve. Pranzai da solo, in salotto, davanti ad “Io ed Annie” di Woody Allen. Menù della domenica ? Four Jumps in Padel. Of cors. “Dottore, perché mi innamoro di ogni ragazza che dimostra un minimo di interesse nei miei confronti ?” “Perché ha bisogno d’amore.” “Io non ho bisogno d’amore, ho bisogno di Julia.” “Quand’è l’ultima volta che ha fatto…?” “…che ho fatto…?” “L’ultima volta che ha fatto sesso ?” “Dottore, quand’è l’ultima volta che si è fatto i cazzi suoi ?” Ma che sesso, ma quale amore. Io avevo bisogno di Julia. Avrei voluto aprire la finestra e gridarlo a tutto il mondo. Avevo appena finito di cenare quando, sulla poltrona, mi chiedevo dove fosse stata Julia in quel preciso istante. Era da un paio di giorni che non la vedevo e, sembrerà strano, ma mi mancava. Mi chiedevo se nella sua testa, nascosto da qualche parte, c’era un pensiero anche per me. Non mi andava di stare in casa, così presi la macchina e mi accesi una sigaretta. Era una notte fredda, tipica invernale, ai lati della strada c’erano ancora i cumuli di neve caduta la settimana prima. Il cielo era limpido, si potevano vedere le stelle, non c’era neanche una nuvola e la macchina faceva fatica a scaldarsi. 31


Passai davanti a casa di Julia, non c’era, non c’era la sua macchina. Scesi dall’auto e andai davanti alla porta d’entrata. Leggevo il suo nome sulla targhetta del campanello: JULIA. Ma lei non c’era. E anche se ci fosse stata non so se avrei suonato. Davanti al campanello, con il fumo di sigaretta che bruciava nei polmoni e il freddo che mi entrava nelle ossa, avevo un sacco di pensieri. Pensavo che mi sarebbe piaciuto portarla a Parigi, lei adorava quella città. Ho sempre desiderato chiamarla, una mattina, così all’improvviso, e partire. “Julia, andiamo a Parigi. Prepara le valige, tra dieci minuti sono da te.” Avremmo trovato una camera d’albergo a Montmatre, un albergo piccolo ma accogliente a pochi passi dal Sacre Coeur. Romantico. Tra i pittori, gli artisti di strada, le Rue, i vicoli, i Boulevard. Dalla finestra della nostra camera, con la carta da parati a fiori e una piccola orchidea sulla scrivania, come in tutti i film, si sarebbe vista la Tour Eiffel. Passeggiare sulle rive della Senna, abbracciati, tra tante altre coppie in fuga d’amore. Ci saremmo fatti fotografare davanti a Notre Dame e in un giorno di pioggia avremmo potuto visitare il Louvre. La Mona Lisa. Monet. Gli impressionisti. Nelle giornate di sole riposare all’ombra degli alberi davanti alla Tour Eiffel e, una volta saliti sopra, le avrei detto una volta per tutte quanto la amavo. Mi distrasse dal quel pensiero il suono di un clacson. Mi girai, non c’era nessuno. Guardai l’orologio, era molto tardi ed io ero ancora davanti a casa di Julia, infreddolito, stanco e pieno pensieri assurdi. Dal diario, 10 febbraio: Caro diario, non sono mai riuscito a scriverlo. Cioè, non sono mai riuscito a scrivere “caro diario”. Perché non è né “caro” né “diario”. Sono più che altro appunti, buttati lì. Sono le frasi e i pensieri che mi girano in testa. Quest’anno l’inverno sembra non andarsene mai, un po’ come il mio malumore. Non riesco a trovare un lavoro, non riesco a trovare la voglia di interessarmi a qualcosa, neanche un po’ di creatività. Non vorrei dirlo, ma credo che il problema sia Julia. Mi è entrata dentro così forte che non riesco più a toglierla. Ha preso il controllo della mia mente. No, non è lei il problema, sono io. A volte mi chiedo se Julia esiste davvero, anche i miei amici me lo chiedono spesso. E se fosse un miraggio della mia mente ? No, Julia c’è. È là, non si muove. Sto male, parecchio. L’unica cosa che in questo periodo riesco a fare è scrivere. Scrivo, scrivo e mi sollevo un po’ il morale. Cosa c’è che non va ? Cos’ho che non va ? Dov’è il problema, l’inghippo ? 32


Potrei scrivere per ore di Julia, su questo quaderno a righe che ho dai tempi del liceo. Sembra quasi che le parole mi portino via, da qualche parte, in una sorta di universo parallelo. Un universo dove, una volta per tutte, quello che succede lo decido io. Ma, nonostante questo, qualcosa continua a non funzionare, qualcosa di infinitamente piccolo o enormemente grande continua a sfuggirmi. C’è un errore nel sistema. Ci sono troppe regole non scritte, pregiudizi, assurdità. Cose che, credo, vadano oltre a certi sentimenti. Dopotutto, cosa ci sarebbe di male ? E quella volta che ho sognato di vivere dentro ad un occhio azzurro ? Provavo a svegliarmi, nel sonno, ma non ci riuscivo. Pupilla, retina, cristallino, corpo vitreo, iride, cornea. Io ero lì, in piedi, come che fossi il re del mondo. In quell’occhio azzurro che sembrava un oceano. Continuavo a urlare: “Hai visto ? Hai visto ?” Ma nessuno rispondeva. Sarà la caffeina o la nicotina o qualche altro tipo di sostanza che finisce per “ina” che si trova dentro a tutte quelle bevande gassate, ma non riesco più a fare dei sogni normali. Tra i miei pensieri tristi, oggi è un ottimo giorno. Sarà pure inverno, ci sarà ancora la neve sui prati, ma è una bella giornata. Qualcosa è fermo tra le nuvole, tra l’orizzonte e il cielo. Oggi è così. Il decimo giorno di febbraio. ”Dottore, lo so, non ci crederà, ma sto ancora male.” Ormai, andavo dal dottore una volta alla settimana. Era un caro amico e parlare con lui, un punto di vista oggettivo sui miei pensieri, sembrava essermi d’aiuto. “Julia, vero ?” “Temo di sì, dottore.” “Sa, mi fa male vederla ridursi in questo stato. Le ho già detto, più di una volta,che deve impegnarsi per raggiungere l’epilogo di questa storia. Non può continuare così e io non posso darle nessun tipo di medicinale. Non ci sono pastiglie, pomate, antibiotici o antidolorifici. Cioè, lei è innamorato non è ammalato.” E io che credevo che fosse la stessa cosa. “Dottore, credo che mi sfugga qualcosa ?” “Cosa ? Non ha ancora capito quello che intendo dirle?” “No, no. Credo che mi sfugga qualcosa, a livello inconscio. C’è qualcosa che, nella notte, non mi fa dormire bene, qualcosa che sento di avere a portata di mano ma ancora non vedo. Non per essere banale e scontato, ma credo sia qualcosa che riguarda Julia. Come se lei sapesse già quello che provo. Una specie di sesto senso, una sensazione. Capisce ?” “…” Il dottore se ne stava zitto, immerso nella sua poltrona di pelle. Tra la sua cravatta fucsia anni ‘40, gli occhialini alla Harry Potter che gli scendevano sul naso aquilino e 33


quell’espressione deficiente da saputello, il silenzio. Non sapeva più cosa dire, cosa consigliarmi. Aveva esaurito le parole. Forse aveva ragione, stavo decisamente esagerando, ma era più forte di me. Non era uno scherzo, amavo veramente Julia. “Poi perché, dottore, mi sento in colpa per essermi innamorato di lei ? Mi sembra di farle un torto, di fare qualcosa di sbagliato. Non so perché, in fondo non dovrebbe esserci niente di strano ? O sbaglio ? Non voglio farle del male, disturbarla o entrare con prepotenza nella sua vita privata, ci mancherebbe altro. Voglio solo che Julia sappia che le voglio molto bene poi il resto non mi interessa, credo. È ovvio che vorrei stare con lei, ma non posso obbligarla. Lei deve vivere la sua vita come meglio crede. Anche se a me piacerebbe molto far parte della sua vita.” “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Erano due giorni che ero chiuso in casa, a scrivere. Fuori aveva smesso di nevicare ma, in compenso, cominciò a piovere. Incominciavo a sentire la mancanza di Julia. Avevo bisogno assolutamente dei suoi occhi azzurri, forse per viverci dentro. Stavo impazzendo, continuavo a scrivere davanti al computer, di me, di Julia, di tutto quello che mi circondava. Julia, sicuramente, non avrebbe approvato. Non avrebbe approvato il mio stile di vita, le mie amicizie, le serate nei pub, le sigarette. Beh, non ci sarebbe stato niente di male, sarei cambiato. Giuro, solo per lei. In quella serata di tardo inverno il mio tragitto preferito sembrava essere computerpoltrona, poltrona-computer. Poi, all’improvviso, mentre ero immerso sia nei miei pensieri sia nella poltrona di pelle, e dalla tv proveniva: “From New York City, the greatest city in the world. It’s the Tonight Show with David Letterman…” Il telefono squillò. Paraparaparapa paraparapa pa pa. Sullo schermo del cellulare c’era un solo nome : Jean. Subito non sapevo se rispondere data l’ora tarda ma, visto che era stato così gentile a venire a cena e a darmi tutti quei consigli, risposi. “Ciao Jean, come va ?… Ah sì ?… Beh guarda, non lo so che impegni ho…ok se insisti ci sarò, a che ora?…Va bene, a sabato allora… Ciao.” Mi aveva invitato ad una festa, sabato. La Salsa Calda era una discoteca fuori città, alla moda e con gente poco raccomandabile. La proprietaria era una di quelle cinquantenni abbronzate che, in piena crisi di mezza età, fanno un viaggio a Cuba e vengono sopraffatte dal fascino di Salsa, Merenghe e cubani giovani e prestanti. Bassa, mora, magra e decisamente troppo agitata Mara, la proprietaria, se non si soffermava a parlare con qualche ragazzo era in pista a scatenarsi come una pazza. Jean, questa volta, tardò di quaranta minuti, cinque sigarette. Complice anche l’agitazione. 34


“Ehi, my friend, è molto che aspetti ? Dai che entriamo e andiamo a ballare.” Jean era vestito esattamente come l’altra volta, se non per l’inversione di colori. Pantaloni bianchi e camicia nera. Dietro di lui, oscurata dai pettorali elettrostimolati, c’era una ragazzina credo di non più di quindici anni, agitata e felice. Jean mi prese da parte e, portando una mano al mio orecchio, mi bisbigliò: “Questa girl si chiama Samantha. L’ho portata per te, vedi di dimenticare Julia che, questa qua, tonight, ha voglia di roba long e strong. Understand ?” Eh, anderstand anderstand, Jean aveva sempre questi simpatici exploit. “Ciao, piacere di conoscerti” dissi allungando la mano a Samantha che continuava a ridacchiare ed agitarsi. Probabilmente era la prima volta che entrava in una discoteca ed era presa dall’esaltazione del momento. Entrammo nel locale, c’era caldo e decisamente troppa gente per i miei gusti. Con tutti ‘sti pettorali gonfissimi in bella mostra, capelli leccati sulla fronte e balli non del tutto normali. I ragazzi in pista ballavano freneticamente, mentre Jean e la sua amica si guardavano intorno completamente a loro agio. “Io vado a ballare con le mie girlfriends, tu diverti con Samantha e fagli vedere quanto sei long e strong.” “No, Jean, dove vai ? Aspet…” non feci in tempo a finire la frase che si era già dileguato in mezzo alla folla. Ed io rimasi lì, come un cretino, con questa pazza esagitata. “Samantha…” Ma non mi sentì, provai chiamandola più forte: “Samantha…!” Niente. “SAMANTHA !” “Sì, scusa. Dimmi pure.” “Senti ti va di sederti su quei divanetti laggiù in fondo, qui c’è troppa confusione. Non capisco neanche quello che penso.” La condussi verso una saletta più tranquilla, con divani, sedie e un bar. Le offrii da bere, una succo di frutta, alla mela. Io un gin tonic, dieci euro. Minchia. “Allora Samantha, cosa fai di bello nella vita ? Vai a scuola ?” Subito non mi rispose, sembrava più intenta a guardarsi intorno e a gustarsi il succo di frutta con la cannuccia. “Sì, faccio il liceo. Sono in seconda. Bello qui vero ?” “Sì, stupendo, un vero spasso. Beh, vai in seconda e al sabato sera vai già in discoteca fino a tardi ? Sei una ragazzina precoce.” “Ragazzina precoce un cazzo, tutte le mie amiche ci vanno ed io non posso essere da meno. Questo posto è una figata.” Continuava a girarsi a destra e sinistra, non voleva perdere un secondo di tutto quel divertimento. Come si fa, quindici anni. “Dai Samantha, dimmi quali sono i tuoi interessi, i tuoi obbis. Cosa ti piace ?” No, niente, non mi rispondeva. Molto probabilmente non mi aveva neanche sentito visto che quella cagacazzo di musica latino americana era ad un volume assurdo. Le dissi che mi allontanavo un attimo, andai in bagno dove il pavimento era già rivestito 35


di carta igienica bagnata e un lavandino era pieno di vomito. Entrai in una toilette e, chiusa bene la porta col catenaccio, mi appoggia al muro, mi misi una mano sulla fronte e tirai fuori dalla tasca il cellulare. JULIA. Guardare il suo nome sulla rubrica mi confortava, era come che per un istante lei fosse li con me. Quando tornai nel salottino Samantha, con un bicchiere di vodka in mano, era già più propensa al dialogo. “Sai, questo posto è fighissimo. Hai visto quanti bei ragazzi che ci sono ? Io mi sto divertendo un casino. Mi sa che sabato prossimo ci torno con la Fra, la Cri, la Debbi…” La verità è che era ubriaca fradicia e il suo alito lo testimoniava benissimo. Ad un certo punto iniziò a toccarmi prima le spalle, poi i capelli, il sedere. Arrivò ad un punto di incontrollabilità assoluta, non riusciva a stare ferma. Un sorriso ebete a settantadue denti. Poi, a tradimento, mi prese con un mano dietro la testa e mi baciò. Due chilometri di lingua mi comparino in bocca, le sue labbra appiccicavano a causa della vodka. Non riuscivo a staccarmela via di dosso, era un ventosa. Continua a lavorare con la lingua nella mia bocca come se ci avesse perso qualcosa dentro o che volesse controllare se avevo ancora i denti del giudizio. Feci appena in tempo a spingerla via con forza quando un getto di vomito inondò il divanetto. Lei si portò le mani alla bocca per tappare quel flusso apparentemente incessante e io mi buttai giù, per terra, onde evitare quello tzunami gastrico. Samantha piagnucolava immersa nel suo vomito, in un odore nauseabondo. Così corsi disinvolto verso l’uscita, abbandonando Samantha ai suoi succhi gastrici, senza salutare Jean e mi rifugiai in auto dove presi fiato per un attimo. Mi accorsi solo in quell’istante del silenzio che si era creato. Rimasi in zitto, quasi senza respirare. Era meraviglioso. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” E in quel silenzio irreale mi ritornò in mente Julia, in tutto il suo splendore. In quel momento avrei rinunciato a tutto pur di stare con lei, anche solo per un secondo. Iniziai a essere stanco e infreddolito, lì sul sedile della mia auto. Con il cellulare in mano riguardai il nome di Julia sulla rubrica. JULIA. L’avrei voluta chiamare, era tardi, ma non potevo più aspettare. Schiacciai il tasto “Chiama” e il numero comparve sullo schermo. Era libero, ma non rispondeva. Tu – tu –tu – tu – tu – tu – tu – tu. Anche il telefono sembrava accusarmi di qualcosa che non avevo fatto, di qualcosa che avevo pensato e che non avevo mai detto, di qualcosa che avevo detto e non avevo avuto il buon senso di pensarlo. Io – io – io – io – io – io – io – io. Cosa dovevo fare, io ? Stavo perdendo tempo ? Allora gli altri avevano ragione ed io avevo torto. Non volevo crederci. 36


Accesi l’auto e andai verso casa. Le strade di periferia, lontane ormai dalla discoteca, erano deserte. Iniziò anche a piovere. Passai davanti a casa di Julia, come ogni sera. Lei non c’era. Io non c’ero. C’era solo la sua mancanza e il suo nome sulla targhetta del campanello. “Buonanotte Julia…” Mi tornò in mente quella sera che ero sceso dalla macchina e, davanti al portone di casa sua, mi ero illuso di poterla portare, un giorno, a Parigi. Un brivido mi risalì la schiena. Un brivido gelido. Stavo morendo d’amore, il dottore si era sbagliato. Arrivato a casa, benché fossi parecchio stanco non riuscivo a prendere sonno. Quel pensiero continuava ad attaccarsi addosso, a darmi fastidio. Così, contrastando la stanchezza sia mentale che fisica, presi tutte le cose che avevo scritto e dedicato a Julia, le stampai e le misi dentro ad una busta. “Buongiorno dottore, oggi il vento mi ha portato per l’ennesima volta qua da lei.” “Buongiorno. Come siamo poetici oggi. Meno male che io sono il suo medico di base, se fossi stato il suo psicanalista credo che sarei diventato milionario.” Tutti i giorni dal dottore. Era veramente una farsa. Quest’uomo, basso, grasso e inetto stava lentamente diventando il mio guru dell’amore. Ma quando mai. Era ora di finirla. “Dottore, si limiti a fare il suo mestiere. Ho trovato la soluzione, ho capito finalmente quello che devo fare.” “Ma cosa vuole aver capito ? Cosa ? Che nessuna donna le sembra andar bene, che lei non sembra andar bene a nessuna donna. Mi faccia il piacere. Si trovi un lavoro, dimentichi Julia per sempre e pensi, piuttosto, a dar sfogo a suoi istinti. “Vaffancuore.” Uscito dallo studio del dottore, il vento stava girando, aveva dentro qualcosa di primaverile. Qualcosa stava cambiando. Poco più avanti c’era un agenzia di viaggi, vi entrai. Presi due biglietti, per Parigi. Partenza quello stesso week end. Li infilai dentro la busta che avevo preparato la sera prima e, una volta chiusa, la misi nella cassetta della posta di Julia. Ancora davanti a quel portone, con ancora milioni di pensieri che mi giravano nella testa, guardavo quella busta con dentro tutto quello che avevo di più caro. Mi sembrò quasi di vederla, Julia, aprire la busta. Con in viso un espressione tra il curioso e il sorpreso, avrebbe tirato fuori un plico di fogli con sopra canzoni, racconti, poesie, pensieri dedicati a lei e due biglietti per Parigi. Partenza quello stesso week end. E tra tutti quei fogli, uno più grande, era scritto a mano: Julia,

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certe volte si davanti a delle scelte, che non sappiamo se sono giuste fino a che non le abbiamo fatte. Sarai sorpresa, ma se ho fatto questa cosa è solo perché un sentimento molto forte mi ha spinto a farla. Se vorrai far parte di questa cosa, se pensi che nel profondo del tuo cuore, ci sia un posto, anche piccolo, per me… …ti aspetto domani sera alle sette nella prima panchina di fronte al fiume. Ciao. Il giorno dopo, alle sei, io e la mia speranza eravamo già su quella panchina. Ormai l’ora del tramonto era vicina, il sole che si faceva sempre più arancione stava scendendo al di là degli alberi oltre la riva opposta del fiume, in fondo un mare di campagna. Si era alzato un venticello profumato che muoveva i miei capelli e agitava il colletto della mia giacca. Erano i primi sintomi della primavera. I minuti non passavano, i secondi correvano lenti sul quadrante dell’orologio. Sentivo distintamente i battiti del mio cuore farsi sempre più potenti, emettevano un tonfo sordo dentro alla cassa toracica che si espandeva come un eco dalla testa ai piedi. Vennero le sette, le sette e un quarto, le sette e trenta. La mia speranza se n’era già andata, lasciandomi lì da solo, su quella panchina di legno. Mentre il sole era già sceso oltre gli alberi lasciando solamente un alone rossastro dietro sé, tra le nuvole e le prime stelle che sorgevano dall’altra parte del cielo, io incidevo sul legno della panchina con la chiave della macchina: JULIA. Ormai, come il sole, lei era tramontata, andata, persa. Avevo probabilmente fatto la cosa giusta. Adesso lei sapeva. Avevo raggiunto il mio scopo, non volevo altro. Tutto quello che ci sarebbe stato in più era tutto regalato. Lei adesso sapeva per certo che qualcuno l’avrebbe amata per tutta la vita. Fu quando ormai avevo perso ogni speranza, anche quelle che si erano nascoste più profondamente, che sentì una mano appoggiarsi su una spalla. Mi girai, era Julia. Non ci credevo, mi alzai dalla panchina, dovetti guardarla bene, stropicciandomi gli occhi. Il brivido gelido che da un po’ di tempo mi risaliva la schiena era diventato improvvisamente caldo. Julia, in piedi di fronte a me, era in silenzio con i due biglietti aerei in mano. Era una situazione assurda, l’avevo sognata milioni e milioni volte, come i suoi occhi azzurri che, credo per la prima volta, mi guardavano in modo diverso. Anch’io la guardavo, fermo immobile, sorpreso, felice, sperando che quel momento durasse in eterno. “Sai, sono 5 anni che sono perdutamente innamorato di te.” Dissi così, a Julia, un giorno di inizio primavera. Non so dove tirai fuori tutto quel coraggio ma, so per certo, che se non l’avessi fatto l’avrei rimpianto per tutta la vita.

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Online with the pleasure

"In Linea con il Piacere 899.566.XXX" diceva la pubblicità erotica trovata su di un vecchio giornale di annunci economici a casa di un amico del lago. Enrico, il mio amico del lago, mi aveva dato in mano quel giornale come passatempo, nell'attesa di una rapida e improvvisa chiamata che lo aveva condotto giù in paese. - Pronto...ah ciao...se posso, con piacere...ma proprio adesso? ...avrei ospiti a casa ma se è molto urgente vengo subito, dammi 5 minuti...ciao. - disse a telefono. Si scusò, mi disse che ci avrebbe messo non più di 10 minuti e mi diede in mano quel vecchio giornale. Le pagine, ormai sgualcite dal tempo erano zeppe di annunci di case, auto, collezioni e all'ultima pagine le pubblicità erotiche. Mi colpì "In Linea con il Piacere 899.566.XXX". Subito pensai di strappare il pezzo di giornale di tenermelo nel portafoglio, poi visto che Enrico tardava e di fianco alla poltrona c'era un telefono... Chiamai. Controllai dalla finestra del salotto se la visuale era ottimale per vedere quando la vespa di Enrico sarebbe entrata nel vialetto di casa, un'occhiata rapida all'ora ed infine spostai la poltrona davanti al telefono. Alzai il ricevitore e composi il numero. Suonava. - Pronto...- disse una suadente voce femminile. - Ah, pronto...volevo...se era possibile... - Le passo subito Sabrina... - Bene, grazie. Molto gentile. Buonaser... - Ciao bello come ti chiami ? - troncò il mio salute una vocina di ragazza, con accento dell'est. - Ciao mi chiamo Stefano e tu ? Ah già Sabrina. - Piacere Stefano, sì mi chiamo Sabrina. Con l'acca. - Sabrina con l'acca ? In che senso ? Cioè, dov'è che ci metti l'acca ? 39


Shabrina. Sabhrina. Sabrinha. Sabrinah. Era la prima volta che mi capitava una Sabrina con l'acca. Va beh. - No, ma cosa hai capito. Sabrina Konlakka. Konlakka è il mio cognome. - Già...sì...ma era chiaro, stavo scherzando ovviamente. - Allora, Stefano, cosa ti piace ? - Beh la musica, leggere, guardare film, il mar... - Che sciocchino che sei. Dicevo cosa ti piace nel sesso ? - Ah ah, nel sesso ? Sì certo. - Tette, culo, figa, sopra, sotto, blowjob, handjob, cumshot, fingering, ass, young, mature...? - Ehi ehi, piano. Stai mettendo troppa carne al fuoco. - Oh scusa bello. Allora cosa vuoi che ti faccia ? - Ma non lo so, diciamo che intanto non mi hai dato buca all'appuntamento. - ??? - Sabrina ? Ci sei ? - Sì ci sono. Ma tu così la prendi un po' larga. Diciamo che faccio io, dai ti faccio un pompino. - Ok, cosa devo fare io ? Devo mettermi la cornetta sul cazzo ? - Ehi bello, non ho tempo per i burloni ok ? - Scusa, scusa...non lo sapevo. Pardon. Ma pensa te questa cagacazzo di prostituta telematica. - Allora, sono davanti a te che ti sto succhiando la capella. - Ok... - Sempre più veloce... - ... - Ah aaah aaahh aahhh ahhh - ... Mentre la cagacazzo del l'est stava ansimando nel ricevitore, Enrico entrò dalla porta. Cazzo. Mi trovò in piedi nel mezzo del suo salotto con in mano un ricevitore che ansimava. E adesso ? - Ah nonna, sì....va bene...il rubinetto te lo aggiusto io... - fu la prima cosa intelligente che mi venne. - Aaaah ahhaahhh ahhhh...il rubinetto ? Che rubinetto ? - Ok nonna...vengo....domani...ciao eh...ciao - Ma...nonna ? cosa ? Sei già venut... Misi a posto il ricevitore, feci il disinvolto, tirai su col naso, mi misi a posto i capelli. 40


- Scusami Enrico, ho chiamato mia nonna, aveva il rubinetto che perdeva.

Gaia

Gaia è timida. Gaia è intelligente. Gaia è bella, castana, con gli occhi azzurri. Gaia ha vent’anni ed è uguale a sua madre da giovane. Però lei è interessata al cambiamento delle mode, ai cellulari, ai vestiti firmati, ai trentenni pieni di soldi. Considera i ragazzi della sua età uno spreco di tempo e di denaro, poco intelligenti e senza soldi. Nessuna attrazione fisica. Ancora troppo bambini per essere considerata carne fresca. Questi suoi movimenti di pensiero la rendono triste, pensa che mai nessun ragazzo con abbastanza carte di credito la potrà mai interessare, crede che le manchi qualcosa. Nella sua testa. Lei che con le sue amiche si vanta di quanti o quali ragazzi ha conquistato e cosa le hanno comprato, dentro nasconde un vergine spirito angelico da bambina. La sua camera è invasa di oggetti senza nessun valore affettivo. Oggetti senza anima, oggetti comprati per assicurarsi una scopata in più con una bella ragazza. Pensa fermamente che tutti gli uomini siano uguali, individui intellettualmente impotenti con un pisello al posto del cervello. Secondo lei un uomo considera la donna oggetto sessuale. Una bambola gonfiabile in vera pelle e senza batterie. Gli uomini con la scadenza. Gaia è triste. Gaia è depressa. Gaia cerca la felicità negli oggetti quando dovrebbe cercarla in se stessa. Vorrebbe cambiare il mondo, come voleva fare sua madre. Vorrebbe cambiare le persone quando non sa che la persona che dovrebbe cambiare è lei. Ha paura di essere una ragazza come tutte le altre. Lei che vorrebbe essere unica e speciale. Ha una personalità con i tacchi a spillo e una con le pantofole. È insicura, è indecisa sul suo futuro. Non sa neanche di avere un futuro. Gaia è nervosa. Gaia è arrabbiata. Gaia è incazzata con il mondo, con il governo, con i suoi genitori con i suoi amici e con le sue amiche, con la scuola, con le istituzioni, con il tempo, con Dio, con se stessa. Gaia è malinconica. Gaia è dolce, romantica. Gaia è carina. Si stende sul letto e piange se una canzone la scuote dentro, in fondo all’anima. Piange se guarda un film d’amore. Piange perché è scontenta di come va la sua vita. Piange perché le mancano delle persone care. Piange perché non riesce gestirsi come vorrebbe lei. Piange per la sua eccessiva emotività. 41


Gaia è ingenua. Gaia è bambina. Gaia ha paura del buio. Gaia non cambierà mai. E se cambierà lo farà in meglio. Questo è certo. Ci sono ragazze belle, ragazze brutte. Ragazze intelligenti e ragazze stupide. Ragazze invidiose di tutti e di tutte. Ragazze semplici, ragazze sofisticate. Ragazze speciali. Ragazze che non sanno di essere state comprate. Ragazze normali e ragazze strane. Ragazze pavone. Ragazze acqua e sapone. Ragazze simpatiche, ragazze scontrose. Ragazze che non vorresti fossero tue morose. Ci sono ragazze grezze, ragazze carine. Ragazze piccine. Ragazze rimpiazzo. Ragazze a cui non piace il c… Ragazze madri, ragazze materne. Ragazze che potrebbero essere eterne. Ragazze oggetto. Ragazze che non hanno prezzo. Ragazze che vedi solo per Natale, ragazze che non vorresti neanche al tuo funerale. Ragazze viste una volta sola, ragazze mai viste. Ragazze a cui tu pensi e diventi triste. Ragazze scadute, ragazze mature. Ragazze passate e ragazze future. Ragazze alte, basse. Magre e grasse. Ragazze sante, ragazze puttane. Ragazze che non senti da settimane. Ragazze dolci. Insipide. Amare. Ragazze che ti danno da fare. Ragazze che la danno spesso. Ragazze a cui non piace il sesso. Ragazze sprecate. Ragazze patinate. Ragazze pulite. Ragazze che non vorrebbero essersi smarrite. Ragazze da sogno. Sognate. Ragazze sognanti. Ragazze che voglio uno tra i tanti. Ragazze uguali e diverse. Ragazze che sono state perse. Ragazze di legno. D’argento. Ragazze d’oro. Beh, Gaia è la somma di tutte loro.

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Rain

Piove, fuori piove e non so il perché. Non so il perché di tante cose e vorrei non saperlo mai. Vorrei solamente sapere cosa ti frulla in quella testolina, dove mai ti stanno portando i tuoi pensieri. Ma poi, se ci penso bene, non mi interessa neanche dei tuoi pensieri, perché so, che in un modo o nell’altro, finirà come sempre. Finirà che ti dimenticherò, che tu mi dimenticherai, che di quella storia d’amore che mi ero immaginato non se ne farà nulla. Ma io lo sapevo già da molto tempo. E mi chiedo se ogni tanto tu pensi a me. Anche per sbaglio. Adesso starai dormendo, ormai la notte è calata su di noi, cosa starai sognando, chi popola i tuoi sogni ? Tu nel tuo letto caldo, io per la strada al freddo, ma non è questo che ci fa tristi. Scende la pioggia ma che fa, crolla il mondo addosso a noi, per amore sto morendo. Ed entra Gianni Morandi nella mia stanza ed io, con lo sguardo di chi pensa di aver visto un suo mito, gli dico: “Ma vattene a ‘fanculo che sono le undici e mezza…” Morandi, sconsolato, se ne va. Ma tu sei ancora lì nel tuo letto, che cerchi di addormentarti e pensi a tutto quello che nella tua vita avresti potuto fare e che invece, per fortuna o per scelta, non hai mai fatto e un po’ te ne dispiace. Io, invece, cerco di capire cosa farò “da grande”. Mio zio mi diceva sempre che se non avessi studiato avrei venduto accendini ai semafori, ma io nella mia stupenda ignoranza infantile pensavo che non avrei mai trovato un semaforo che fuma. Cara, siamo così distanti ma nello stesso tempo così vicini, nell’anima, nello spirito, quello spirito che cerca così ardentemente di metterci insieme, ma il destino sembra non essere d’accordo. 43


Sai, mi è bastato un secondo e mi sono perso nel tuo sguardo, ma la stessa cosa vale anche per il tuo sorriso, per la tua bocca, per il tuo corpo, per ogni parte di te. Per viverti ci vorrebbe un navigatore satellitare. Scherzo, rido perché penso di aver trovato la parte più nera dell’amore: quella che ti fa soffrire, quella che ti tiene sveglio la notte, che ti fa perdere peso, quella che ti fa capire veramente che senza la persona di cui sei innamorato non puoi vivere. Ed è così, non puoi farci niente. Tutti mi ripetono che passerà, che è successo a chiunque e che è solo questione di tempo. Il mondo è pieno di donne, dicono che ce ne siano sette per ogni uomo. Che cazzo me ne faccio di sette donne ? Io ne voglio una, io voglio te. Ma tu per la testa hai qualcun altro, qualcos’altro e allora io aspetto, e ti guardo, ma se ti guado capisco che non posso averti e se non posso averti soffro e se soffro non mangio e se non mangio la nonna si incazza e mi dice: “Oh stèla d’oro, come sei patito…” Ma le nonne hanno sempre ragione, l’ hanno sempre avuta. Caro amore impossibile, improbabile, impercettibile è quasi mezzanotte e tu sei sempre nel tuo letto caldo e io per la strada al freddo, ma non è questo che ci fa tristi. Scende la pioggia ma che fa, crolla il mondo addosso a noi, per amore sto morendo. E Gianni Morandi rientra nella mia camera, ma questa volta sono troppo stanco per mandarlo via e così lo faccio accomodare di fianco a me. Chiedo a Gianni Morandi se, con la sua mente così piena di emozioni e sentimenti, sa come andrà a finire e lui con la sua solita tranquillità da artista nato mi risponde: “Tranquillo, passerà. È successo a tutti, è solo questione di tempo. Sai, ci sono sette donne per ogni uomo.” “Eh… Gianni…? Mi stai prendendo per il culo…?” Non ci sono più i Gianni Morandi di una volta. E fuori piove, senti come piove, madonna come piove, senti come viene giù. Jovanotti no, a quest’ora proprio no, piuttosto una martellata sulle palle. Comunque fuori continua a piovere e quando piove ci sentiamo tutti più tristi. Anche questa notte passerà, nel bene e nel male, tra un sogno e l’altro, so che mi verrai a trovare. Pensandoci bene, vorrei dimenticarti, metterti in quel cassetto del comodino delle cose dimenticate e tirarti fuori magari tra vent’anni quando, forse, avrai capito anche tu che ci si poteva almeno provare. Ma chi voglio prendere in giro, non riuscirò mai a dimenticarti, o forse sì. No, no, tutto è troppo forte, tutto ci spinge verso una direzione che non vorremmo mai aver preso, ma la vita va così. La vita è una roulette. Chi vuole intendere intenda, gli altri in roulotte. E se mi dirai di no, io cadrò in depressione e scapperò, per non vederti più, per non vedere niente che mi ricordi il tuo viso. Riunirò le mie cose in una valigia e andrò a vivere nel Monopoli. Prenderò una stanza in quel l’albergo che avevo costruito in Vicolo Corto, poi passerò dal VIA e prenderò i miei venti euro. Cazzo che culo. E poi magari mi romperò e me ne andrò sul serio, a fare l’alfiere in una scacchiera. 44


Ma basta sognare, basta dire cazzate, tanto non riuscirò a dimenticarti e anche se tu mi dicessi di no farò finta di non aver sentito. Cara, svegliati, no anzi, continua a dormire, che il mondo che ci aspetta fuori non è così facile. Mi sembra di vederti, lì, nel tuo letto caldo e io per la strada al… Gianni Morandi di merda. Ma ti vedo sul serio, sembri un angelo quando dormi. È orribile addormentarsi pensando a te, sapendo che al risveglio non sarai al mio fianco. Basta, basta, basta non ce la faccio più, sto impazzendo, ma siamo tutti pazzi. Chi è normale ? Cos’è normale ? Ho bisogno di te, mentalmente, fisicamente, ho bisogno di volerti bene, ti starti vicino, ma siamo tutti un po’ egoisti, giustamente, pensavo che un giorno durasse 24 ore, un’ora 60 minuti, un minuto 60 secondi, ma non pensavo che un istante senza di te durasse un’eternità, ma come tutte le volte me ne farò una ragione, continuerò a vivere. Continuerò a vivere ed amarti con o senza te. Ma, cara, continua a dormire che sei la fine del mondo, sei la mia rovina, sei l’acqua che spegne il fuoco, la manna che scende dal cielo, la criptonite per Superman, e se un giorno dovessi sentirti triste guarda il cielo, ogni stella che vedrai è la stella di una persona che ti vuole bene e la prima che vedrai sarà la mia.

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Between SAY and DO

Tra il DIRE e il FARE ci sono in mezzo parecchie cose. Troppe. C'è la tavoletta del cesso alzata che stamattina ha fatto si che le mie chiappe si gelassero inaspettatamente sulla ceramica della tazza. C'è l'acqua troppo bollente della doccia che improvvisamente mi ustiona la schiena. C'è la spia dell'olio della macchina. C'è la pizza di ieri sera alle 11e30. C'è il carrello del supermercato che gira solo verso sinistra. C'è il cibo del cane che costa troppo. C'è il telefono che squilla ma non riesco a rispondere in tempo. C'è il telefono che squilla ma sono in macchina e non posso rispondere. C'è il serbatoio della benzina in riserva. C'è che non ho soldi per fare benzina. C'è nuvoloso. C'è freddo. C'è il libro che ho comprato il mese scorso che non riesco a finire C'è la lista di canzoni che non riesco a terminare. C'è la lista dei pensieri che ho in testa e che non riesco ad eliminare. C'è un venerdì sera di poche speranze. C'è un penny regalato. C'è una canzone dedicata. Una parole dolce. L'amore che non viene ricambiato C'è l'amore ignorato. 46


Poi, ovviamente, c'è Julia.

A girl

Abbigliamento maschile. Abbagliamento femminile. Sport. Musica. Cinema. Elettrodomestici. Dolci. Colazione. Marmellate. Pasta. Vini. Liquori. Gastronomia. Macelleria. Frutta e verdura. Girava per il centro commerciale, senza una meta, senza nessun motivo ben preciso. Giusto per stare in compagnia, per vedere un po’ di gente. Odiava stare chiuso tra quattro mura. Il centro commerciale come un purgatorio, spiriti dispersi, anime alla deriva. In cerca di qualcosa di concreto, di qualche parola, di qualche gesto. Una moderna agorà. Aveva preso il carrello, che ovviamente sbandava verso sinistra. Non gli serviva, non avrebbe preso molta roba. Le corsie erano semi-vuote, qualche anziana signora, qualche single di mezza età, qualche ragazzo che aveva fatto fuga da scuola. Poi, ovviamente, lui. Sì fermò nel reparto dei libri, lesse tutte le quarte di copertine dei libri che gli interessavano, dei libri che aveva già letto, dei libri che avevano una copertina accattivante. E sognò di comprarli tutti. Lui, d’altra parte, era anch’esso una piccola anima smarrita. In cerca di qualche sottile alito di vento che gli entrasse nello stomaco e glielo scombussolasse. Cercava, probabilmente, un cuore infranto, stanco e solo, come il suo. Anche solo un cuore, era più che sufficiente. Il centro commerciale, vuoto nella sua mediocrità, era una via di mezzo tra il caldo e il freddo, il bianco e il nero, il bello e il brutto. In quel limbo di incertezza tra due cose troppo sicure, quella zona franca, neutrale, che c’è in mezzo a due opposti. Le corsie, sugli scaffali, negli appositi espositori tutto era in ordine, catalogato, diviso a seconda dei prezzi, dei gusti, dell’età. Nella sua testa, invece, niente era in ordine. Neanche l’alfabeto. Da un po’ di tempo la sua testa si era stravolta, ribellata, sconvolta, niente sembrava essere più al suo posto. Mancava sempre qualcosa, un 47


ricordo, una persona, una sensazione o, più semplicemente, un pezzo di vita, della sua vita. Nella sua casa neurale mancavano delle stanze. Il carrello sbandava verso sinistra e lui, per contrastare la forza, sbandava verso destra. Andavano via dritti, veloci. Tra le corsie. Cosa mancava in casa ? Niente che si potesse trovare in un centro commerciale di provincia. Con le hostess della Nutella, del vino, dei detersivi, degli assorbenti. Girava tra le corsie senza occhiali, così tutto sembrava immerso in una leggere sfocatura. I contorni svanivano, i colori si facevano meno chiari. Adesso, veramente, le persone sembravano dei fantasmi, anonimi, asessuati. Reparto gastronomia. C’era una ragazza in quel reparto, un tempo bionda, adesso mora. Bella, carina, simpatica. Lui, nel suo piccolo, la amava. Passava davanti al bancone, tra fritti misti, paella, minestre fredde, gamberoni, e la guardava. Dritto negli occhi. E, da un po’ di tempo, lei faceva lo stesso. Incrociavano gli sguardi. Ad ogni sguardo lui si innamorava sempre di più, la speranza cresceva. Se non guardava lui, guardava lei. Lo notava, con la coda dell’occhio. Una piccola storia d’amore, anzi, una piccola storia. Come un romanzo d’amore, consumato lì, tra paste e secondi. Lui l’avrebbe voluta fermare, parlarle. Lei, forse, avrebbe voluto solamente sapere se dietro quegli sguardi c’era nascosto qualcosa di più profondo. Pensava di aver trovato il suo cuore, la metà che aveva perso. Non erano quelli del reparto macelleria, di manzo, bovino, suino, ovino. Ma era quello della ragazza. Un cuore giovane, bello, pieno d’amore. Questo cuore che batteva sotto il camice plastificato della ragazza e faceva da eco a quello suo, che batteva sotto la camicia di flanella. Due cuori battevano all’unisono il ritmo dell’amore. Un amore nascosto, fragile, fugace ma pur sempre amore. Un amore senza codici a barre, sconti, punti. Forse un amore di quelli veri, di quelli da film, alla Via col Vento per così dire. Non parlarono mai, solo sguardi. Sguardi pieni di parole. Lei serviva scaloppine all’aceto e lui, fingendo di aspettare un qualcuno che non sarebbe mai arrivato, se ne stava fermo davanti al bancone. La guardava. Un giorno, apparentemente come un altro, lui andò al centro commerciale, con il solito carrello che sbandava verso sinistra. Al reparto gastronomia lei c’era, era lì. Dopo i soliti sguardi di rito, lui con il cuore in mano le disse: “Ciao…” Il mondo collassò, i suoni si fecero insopportabili e i loro cuori incominciarono a battere all’impazzata.

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There is always something

C'è sempre qualcosa, nelle vite di tutti noi, che è di troppo. C'è sempre quel pensiero che non si riesce a togliere dalla testa. Quella persona che non si riesce a dimenticare, quel dubbio che rimane in testa per troppo tempo. E non si riesce a smettere. Non è come fumare, che ti danno i cerotti. Non esiste un cerotto per i pensieri. Il nome tatuato a fuoco sulla pelle, sulla corteccia celebrale del tuo cervello. Ma fosse solo questo, sarebbe il meno. C'è sempre qualcuno che riesce a distruggerti un sogno, anche solo un pezzetto. C'è sempre il pensiero di non potere o volere fare la cosa giusta. Ci sono le persone con non senti da troppo tempo. C'è una canzone che risuona nella testa come monito di tutte le cose che vanno storte. C'è la sensazione di non essere all'altezza di quello che si sta facendo. Insomma, non c'è male. Allora si aspetta pazienti, con i sogni, speranze, amori, seduti sul sedile posteriore della propria anima. Si prova ad aspettare per vedere se il problema siamo noi o solamente il tempo che non ci è amico. Se siamo noi che non abbiamo il coraggio di vedere e provvedere. La vita è così rotonda, così piena di alti e bassi, così piena di belle e brutte cose che non possiamo fare altro che assaporarle fino in fondo. Va beh, non c'è modo di sapere come sarò domani. Come sarà il tempo, il modo, il futuro, il destino. Ciò che sarà, sarà e andrà bene così. Così. 49


When summer end

Ore 04:21. A quanto pare l’estate è finita. Tutti gli anni l’estate finisce troppo in fretta. Sei lì che ti stai godendo le prime giornate primaverili e tutto in un momento è già ora di foglie gialle e castagne. Quest’anno l’estate è stata speciale. È stato un cambiamento, un’evoluzione, un’avventura. È per questo che mi dispiace che sia finita. Avevo voglia di imparare ancora. Ho voglia di sentire l’aria che mi sfiora la pelle, il sole che mi scalda, il calore delle persone che mi sono care, che mi sono vicine. E lontane. L’inverno è bastardo, ti chiude in casa con tutti i tuoi pensieri. Ti inchioda, di stordisce, ti fa rimpiangere di non aver fatto certe scelte, di non essere stato con certe persone, di non aver detto certe cose. L’inverno ti tira un gancio al mento e ti mette al tappeto. L’inverno è triste soprattutto se sei solo. Se sai che c’è qualcuno che ti vuole bene. E non sai se te ne vuole veramente. Allora passi le giornate a scrivere davanti al computer, a scrivere tutto quello che ti passa per la testa. A scrivere canzoni d’amore, di vita, di avventure. A vomitare parole che non sai neanche se esistono, e vorresti partire, andare il più lontano possibile. E sapendo che non puoi partire, parti con la testa, con il cuore, con le emozioni. Poi arriva il giorno che ti innamori, in un quarto d’ora. E stai male, vorresti morire. Morire d’amore. Ti innamori della solita ragazza irraggiungibile, di quella con i figli, di quella con il ragazzo, di quella più grande di te, di quella lontana. Così lasci perdere e mandi a farsi fottere l’amore, te stesso e tutto quello che ti circonda. 50


Inverno bastardo.

Epitaffi blow and nynpho comedies

No, non sono morto, ne resuscitato. Non sono ne partito per un viaggio per trovare il mio io interiore, ne sono tornato. Forse, semplicemente, sono. Sono ancora qui per combattere contro le punture delle zanzare, il cambiamento di temperatura, la pizza quattroformaggi, l'autostrada Genova-Torino. E, la cosa più incredibile, è che pare che ci stia riuscendo. In questo giugno, un po' caldo, un po' freddo, la cosa più divertente è che devo ancora capire chi sono. Ma ci sto arrivando vicino. Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Per fortuna. In questo giugno, un po' caldo un po' freddo, sono perseguitato da una pazza esagitata che l'unica cosa che ha in testa è farmi un pompino. Sessanta sms al giorno dove la parola più ricorrente è “pompino”. Una pazza esagita, una disturbatrice, una palla al piede, mi sembra perfino di sentirne il fiato sul collo. Ma io continuo a vivere nel mio mondo parallelo, dove quello che succede lo decido io, dove la pizza quattroformaggi non sa così di formaggi, dove la temperatura non è così temperata, dove l'autostrada Genova-Torino è senza traffico. E nel mio mondo parallelo ci sarà qualcosa che non riesco a vedere, ma che c'è e si sente. Diventerò uno di quei tipi giacca, cravatta e ventiquattrore. Migliorerò il fatturato della mia azienda, mi comprerò una macchina nuova e soprattutto penserò che dietro ogni problema si nasconde un opportunità

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She’s the love of my life

Viaggio sempre, fa parte del mio lavoro. Treni, aerei, taxi, navi, li conosco a memoria. Faccio il giornalista, intervisto le rockstar. Ho calcolato: 4 volte il giro del mondo. Parigi, Londra, New York, Sydney, Los Angeles. Adoro il mio lavoro, ma purtroppo la solitudine è l’altra faccia della medaglia. C’è stata un volta, ormai quasi un anno fa, che la mia meta era molto più semplice, in mezzo alle montagne. Avrei dovuto intervistare una band americana esordiente, ma molto di moda in quel periodo. Gli avrei dovuti intervistare dopo il concerto che ci sarebbe stato la domenica. Ovviamente, la redazione mi pagò tutto: viaggio, hotel, pasti. Come al solito. E questo è uno dei tanti vantaggi del mio lavoro, tutto spesato e lusso a volontà. Aspettavo il treno, era mattina presto e faceva freddo. Non c’era nessuno, solo io. Il treno, preannunciato da un’insistente scampanellio, arrivò in silenzio. I treni non mi sono mai stati familiari, sono molto più abituato all’aeroplano, il treno fa così 1800. Così freddo, anonimo, quasi spettrale a quell’ora del mattino. Sedetti al mio posto, i piedi mi gelavano ancora, dentro alle scarpe di camoscio da 800 dollari comprate a New York non più di una settimana prima. Nel vagone c’era un odore strano, come di quei detergenti ospedalieri, alcol denaturato. Quasi dava alla testa. Con la musica dell’Ipod nelle orecchie, guardavo le campagne scorrere ad alta velocità fuori dal finestrino. La nebbia avvolgeva tutto il paesaggio circostante come in un forte abbraccio gelido e biancastro. Alberi spogli, terra nuda, cruda, arata, qualche comignolo fumava, si accendevano i fari delle automobili, era veramente presto quella mattina. Il sole faceva fatica a sorgere. Nel vagone, con me, poca altra gente assisteva a questo triste spettacolo. Una signora decisamente anziana leggeva una rivista scandalistica, un giovane con i capelli corti e un borsone che portava la scritta “Esercito Italiano” era anche lui perso con lo sguardo fuori dal finestrino, desideroso probabilmente di riabbracciare qualche persona cara. Un uomo ben vestito discuteva animatamente al telefono e una dolce e 52


bella ragazza dormiva, rannicchiata nel sedile in fondo al vagone. Io sembravo quasi affondare nel mio giaccone nero. Avevo freddo. Fuori dal finestrino man mano che il tempo passava il paesaggio mutava: dalle grigie e brulle campagne ai monti, con la cima innevata. Quasi ad assomigliare ad immensi pastelli bianchi piantati nel terreno, con la punta all’insù. Lassù la neve deve essere stata così bianca, soffice, immacolata. E io sognavo di essere sopra una di quelle cime, proprio in bilico sul punto più alto, su un piede solo. Bestemmiando per il freddo e per la paura. Passavano case, passaggi a livello, montagne, fattorie, fiumi, ruscelli e poi, la città. Il treno rallentò lentamente, quasi per caso. L’ultima frenata fu la più brusca, tutti i passeggeri già in piedi si piegarono in avanti per poi ritornare rapidamente all’indietro. Scendemmo tutti dal treno, l’aria era fredda. Molto fredda. Mi tirai su il bavero del capotto, con la ventiquattrore nella mano sinistra e la valigia nella destra mi avviai verso l’uscita. Parevano quasi tagliare le falangi biancastre delle mie dita, quelle valige. Un dolore atroce. Il vento continuava a sbattermi in faccia, freddo, gelido, quasi pungente. Socchiudevo gli occhi, inarcavo le spalle, respiravo affannosamente. Girai per quasi venti minuti quando mi accorsi che l’albergo non era da quelle parti e, da quelli parti, non c’era nemmeno un taxi. Ne vidi uno in lontananza, con il fiatone e le mani gelate, lo raggiunsi. “Scusi, mi può portare al Four Points ?” dissi picchiettando contro al finestrino dell’auto. Il taxista, un signore brizzolato, distinto, prese le mie valige e le ripose nel baule mentre io mi accomodavo nella vettura. L’autista non disse niente, guidava tranquillo, rilassato, come non curante della mia presenza. Si limitò solamente a dire una volta arrivati a destinazione: “Dieci euro, grazie. Buona giornata.” Il taxi si era fermato giusto davanti alla porta d’ingresso della hall, presi le valige che il taxista aveva posato poco distante da me ed entrai dalla porta girevole. La hall dell’hotel era calda, accogliente. Sulla sinistra, appena entrati il Lounge Bar, sulla destra gli ascensori e, poco più avanti la Reception. Passai di fianco ad una piccola serra di vetro con piante equatoriali, giusto di fronte agli ascensori, e solo lì notai l’ampio salone da pranzo. Troneggiava sopra ai tavoli apparecchiati, un enorme lampadario di cristallo e, sopra ad un palchetto rialzato, il pianoforte. “Prego, signore.” Mi disse un giovane con la divisa dell’albergo. Sì apprestò a farmi compilare un modulo, firmare un paio di carte e mi diede il badge della stanza. Numero 402, quarto piano. Presi l’ascensore, pigiai il numero quattro. In un secondo le porte si chiusero e pochi istanti dopo si riaprirono. Uscii dall’ascensore e subito lì, sopra un piccolo divanetto immerso nella luce arancione, una scritta. Luminosa. She’s the love of my life. E aveva ragione. Lei era veramente l’amore della mia vita, anche se nessuno lo sapeva.

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In fondo al corridoio sud c’era la mia stanza, di fianco ad un enorme finestra con un vista eccezionale. Inserii il badge nella fessura e la porta sì aprì, le luci si accesero e la televisione mi dava il benvenuto. “Buongiorno sig. Marco” era scritto sul video, insieme alla pubblicità dell’hotel e le offerte della pay tv. La stanza era bella, lussuosa. Una scrivania, telefono, letto matrimoniale e cassaforte, pay tv, frigo bar con alcolici, super alcolici, Coca Cola, succhi di frutta, champagne. Non mancava niente. Mi tolsi gli occhiali, la giacca, la cravatta, la camicia e mi sciacquai la faccia. Allo specchio, il mio viso era stanco, provato e, visto l’orario, anche affamato. Il concerto ci sarebbe stato la sera successiva, quindi avevo un giorno per ambientarmi. Mi rivestii e scesi giù, al ristorante, a mangiare. Il salone da pranzo era deserto, immerso nella luce soffusa. Mi sedetti, in mezzo al tavolo un fiore azzurro e il menù. Un piatto di pasta, un bicchiere di vino rosso ed io ero a posto. Mi sentivo a disagio nella mia solitudine, tutti quei tavoli vuoti, il pianoforte chiuso, il vociare delle poche persone al Lounge Bar, dall’altra parte del salone. “Mi segni tutto sul conto della 402, grazie” dissi al cameriere. Al Lounge Bar, le poche persone che c’erano erano sedute al bancone. Disposte a coppie, parlavano di cose che non riuscivo a comprendere. Mi accomodai anch’io, mi accesi una sigaretta e feci uscire il fumo dal naso. “Prego, signore, desidera ?” “Un caffé, grazie” La cameriera, poco più di una ragazzina, era carina, i capelli castani sistemati dietro le orecchie, gli occhi pigramente nascosti dietro un paio d’occhiali forse troppo sgraziati rispetto alla perfezione del suo viso. Bianco, simmetrico. Le iridi castane, da cerbiatto, occhi profondi, penetranti. Dietro lei, sulla parete a specchio, bottiglie di whiskey, cognac, grappe, liquori ed io, riflesso. Non riconoscevo la mia immagine, così stanca, così vecchia rispetto alla mia vera età. Anche nel Lounge Bar la luce, come anche l’atmosfera, era soffusa, pacata, filtrata attraverso il fumo di sigaretta che si levava da me e dagli altri ospiti. “Ecco il suo caffé, lo segno sul conto della sua camera.” La guardai negli occhi, non riuscii a farne a meno. Lei subito imbarazzata dalla mia provocazione visiva si fece timorosa, ma non abbassò mai lo sguardo. Vinse lei, fui io il primo a girare gli occhi verso il basso. Me ne sarei innamorato, avrei voluto misurare con compasso e righello quel viso, così assolutamente perfetto. Quelle labbra rosse, leggermente sottili, come a contrastare il chiarore pallido della sua pelle. E, mentre mi allungava la tazzina, le mani anch’esse bianche sembravano non stonare affatto col colore della ceramica. Aveva le dita sottili, affusolate. Stupende. Finii la mia sigaretta, il mio caffé e decisi di tornare in camera a fare un pisolino. Mentre ero nell’hall che aspettavo l’ascensore, una ragazza dalla bellezza fuori dal normale si accostò a me, e aspettò che le porte si aprissero. L’ascensore arrivò, entrammo entrambi. “A che piano ?” 54


“Secondo grazie” disse con una voce sottile, quasi tremolante. Non riuscivo a capacitarmi della sua bellezza, doveva sicuramente essere una indossatrice o una top model. Statuaria, longilinea ma con le curve al proprio posto. Un viso innocente, stanco ma affascinate. Sì, era affascinate. Catturava al primo sguardo. Occhi azzurri, capelli biondi. Una forza della natura. Ma traspirava tristezza, malinconia. Dopo che ebbi schiacciato i pulsanti dei rispettivi piani, le porte si chiusero e si riaprirono al secondo piano. Avrei voluto parlarle, conoscerla, chiederle almeno il nome. L’avrei invitata bere qualcosa, a vedere un film, a fare shopping. Volevo scoprire cosa c’era dietro quella sua tristezza, forse intrinseca, forse parte integrante del suo essere. Lei uscì, con la sua borsetta in mano. Lasciò nell’ascensore il suo profumo, dolce, fruttato ed anche un po’ della sua tristezza. Fu quando, come preso da un raptus improvviso causato dalla mia solitudine, le urlai a bassa voce: “Aspetta...” Lei non senti e le porte si chiusero e mi portarono in un batter d’occhio al quarto piano. Sconsolato e con ancora un po’ della sua tristezza attaccata addosso, entrai nella mia camera e mi addormentai vestito, sul letto ancora fatto. Era pomeriggio inoltrato quando mi svegliai e decisi di andare a fare un nuotata in piscina, al settimo piano. Mi sbarazzai di camicie e cravatte e misi il costume da bagno. Con l’asciugamano bianco legato in vita entrai in ascensore che mi condusse all’ultimo piano. Non c’era nessuno né al banco né in palestra né nei box dove facevano i massaggi. La piscina era leggermente rialzata rispetto al piano e tutta circondata da vetrate che davano sui monti. Era deserta, in un silenzio quasi irreale. Mi tolsi le ciabatte e posai l’asciugamano sopra ad uno sdraio. Entrai, l’acqua era tiepida e gradevole. Feci qualche bracciata, stile, dorso, rana. E ancora mi tornò quel senso di disagio che mi era preso giù, nel salone da pranzo. Uscì dalla piscina con un po’ di fiatone e mi sedetti nell’idromassaggio, decisamente più caldo. Mi parve quasi di svenire o godere dal piacere, coccolato dai getti di quell’acqua calda. Lì, immerso in quella brodaglia lussureggiante mi resi conto di quanto sia inutile il superfluo. Tutte quelle comodità, quegli svaghi, quei lussi non appagavano per niente il mio senso di solitudine. Io avevo bisogno di calore umano. Piscine, Lounge Bar, frigo bar, scrivanie, casseforti, taxi, camerieri. Cosa me ne facevo di tutta quella roba se non avevo il privilegio di poterla condividere con qualcuno. Non andai al concerto, ‘fanculo l’intervista, la redazione ed il giornale, ‘fanculo il mio lavoro che mi tiene così impegnano da non pensare a me stesso. Il lavoro non è tutto, non è la vita. ‘Fanculo quelle persone che se ne stanno immerse nella loro mediocrità e pensano che lavorando i problemi non saltano mai fuori, ‘fanculo quelli che con il proprio lavoro ti rovinano la vita, quelli che con la scusa del “lavoro” ignorano chi li vuole bene, ‘fanculo quelli che lavorano per soldi e non per passione. Io la passione l’ho sempre avuta, ma ho voglia di avere passione per una persona. Quattro stelle. 55


Miss Little Goldfish

Forse ho capito. Ho capito che non ho capito niente. Ho capito che non capire niente, a volte, è meglio di capirci qualcosa. Allora il risultato di non capirci niente è, semplicemente, quello di tornare a sognarla. Datemi dello sfigato, del banale, del ripetitivo. Datemi pure della merda se volete, ma è più forte di me. E' un pensiero che non se ne va. 'Fanculo, non se ne va. Lo so, lo so. Di pesci ce ne sono tanti, di acqua dolce e di acqua salata. In mari, laghi, fiumi, oceani. Ma io, vaffanculo, continuo a voler pescare quella magnifica pesciolina rossa, in quella boccia di vetro dimenticata dal tempo. Quella pesciolina rossa, così semplice, così solo ai miei occhi, così meravigliosamente triste che, se non avessi più lacrime, piangerei sangue per lei. Quella pesciolina rossa che non riesce a vedere fuori dalla sua boccia, non vede che c'è qualcuno che continua a guardarla. - Ehi, sono qua. Pesciolina rossa, sono qua. Ho voglia di pioggia, che lavi via i miei pensieri e non li faccia tornare mai più. Mai più.

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Napoleon

Mi ricordo che, quando ero piccolo, tutte le estati, andavo a lago. Di sera, solitamente dopo cena, uscivamo per fare una passeggiata. Il cielo era sereno, estivo, pieno di stelle, la luna piena, una leggera brezza scendeva dalle montagne dietro di noi. Mi appoggiavo con i gomiti sopra alla ringhiera, sul lungolago, il lago era piatto, immobile, l’acqua sciabordava dolcemente sulla parete della banchina. Il riflesso della luna delineava i contorni del monte “Napoleone”, chiamato così perché il profilo della montagna rassomiglia al profilo del grande imperatore, dormiente. Migliaia e migliaia di luci si estendeva da nord a sud, sull’altra sponda del lago. Io guardavo tutte queste lucine, una ad una, le contavo, soffermavo lo sguardo per qualche secondo su ognuna di esse. Volevo che la vita fosse così, una distesa di lucine messe lì solo per essere guardate. Penso di essere stato felice veramente lì. Ero felice per le luci, per la brezza, per le grida degli altri bambini, per il vociare dei “grandi” nei bar, per la musica, per le monetine che mi tintinnavano in tasca, per il giocattolo che stringevo forte nella mano, per il gusto dolciastro del gelato al cioccolato che avevo agli angoli della bocca, per lo sciabordio dell’acqua sulla banchina, per il monte “Napoleone”. Poi andavamo a letto e con noi “Napoleone”, lentamente il vociare delle persone si affievoliva, i bambini smettevano di urlare, la musica si spegneva, solo il lago continuava a danzare, solo, con le stelle e luci. E adesso, che le infinite responsabilità della vita mi obbligano a crescere, vorrei essere ancora là, appoggiato a quella ringhiera in riva a lago a contare, ancora per

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l’ennesima volta, tutte quelle lucine che, dentro di me, non mi hanno mai abbandonato. A presto “Napoleone”.

Empty doors

Fermati. Sì, fermati lì dove sei. Non ti muovere, non pensare a niente. Chiudi gli occhi e non pensare a niente. Non pensare assolutamente a niente che adesso, quella porta, è vuota. Completamente vuota. Quella porta dove fino a qualche tempo fa mi fermavo a sognarti, adesso è vuota. Non c'è neanche più la tua targhetta. - Dove sei ? Non mi rispondi. Forse non lo sai neanche tu, o lo sai ma a me non lo dirai mai. Forse sei in quel posto così dimenticato da dio che non esiste neanche sulle carte geografiche. Forse sei in quel luogo dove la tua realtà si fonde con la mia fantasia. O forse sei in quel posto che mi raccontavi sempre, nascosto da tutto e da tutti, dove tu, da bambina ti nascondevi per piangere. Forse sei proprio lì, a versare lacrime amare, lacrime stupide, lacrime che non avrei mai voluto veder scorrere dai tuoi occhi. Perchè i tuoi occhi non sono fatti per piangere. - Proprio adesso che la cosa si stava facendo interessante... Beh, ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu stia pensando, io non riesco a cancellarti dalla mia testa. Vaffanculo, non ci riesco. Allora non mi resta che lasciarti impressa in queste parole fatte di inchiostro, su questa pagina. Ti spedisco nell'etere. 58


The 14

Estate 2002. Lei stava lì, a bordo piscina, con tutto il suo carico di tristezza. Mi piaceva perché aveva il viso imbronciato, triste, come se un lacrima gli fosse dovuta scendere dagli occhi da un momento all'altro. Ma forse non era triste, forse faceva parte di lei. Lei era la 14. Non aveva un nome, non riuscimmo mai a capirlo. Probabilmente era tedesca o olandese. Aveva i capelli biondi che, lunghi, gli cadevano oltre le spalle. Occhi marroni, penetranti, profondi. Noi, dal bordo piscina, la guardavamo. Aveva un fisico esile ma muscoloso, formosa al punto giusto. Non c'è niente da dire, era una gran bella ragazza. Era un 14, due 7. La 14 temporeggiava, sempre lì a bordo piscina, stava in piedi proprio sul ciglio. Ogni tanto metteva un piede nell'acqua per sentirne la temperatura. Poi si sedette con le gambe immerse nell'acqua e la tristezza immersa nella sua testa. Guardava la gente ridere e scherzare e noi guardavamo, in silenzio, la 14 che guardava la gente ridere e scherzare. Ogni tanto abbassava lo sguardo, giù, sulle sue gambe, come avesse qualcosa di cui vergognarsi. Ferma immobile, seduta sul bordo della piscina. La leggenda narra che, nella sua roulotte, la stesse aspettando Ulrich. Era il suo ragazzo, tedesco. Biondo, cattivo, ubriaco, muscoloso ma grasso nello stesso tempo. Minatore, camionista, guardia del corpo. E la 14, ipoteticamente, stava con lui. Ma non era vero, la 14 stava a bordo piscina con la sua tristezza. Non si buttò mai in acqua. Alla sera, al ristorante, mentre noi mangiavamo, la 14 si rifece viva. Un vestitino 59


leggero le avvolgeva il corpo. Svolazzava con la brezza marina vicino alla spiaggia. A braccia conserte se ne stava ferma, tra la gente, a guardare i bambini ballare. Era bella la 14, una meraviglia. Forse aveva 16, 17, 18 anni non si sa. La tristezza era sempre con lei e con la sua bellezza, ondeggiava ogni tanto il bacino a ritmo di musica e noi, sempre in religioso silenzio, guardavamo. Sono passati 3 anni ormai e non rivedemmo mai più la 14. Ma, lei, da qualche parte c'è. Sarà sul bordo di una piscina o a braccia conserte ad osservare i bambini ballare, ma da qualche parte, in questo momento, lei c'è. Sarà con Ulrich, sarà a scuola o con la sua famiglia, sarà più probabilmente con la sua tristezza. Lei e la sua tristezza.

10 things to be a good person

Al bar, davanti a cappuccini fumanti, due signori di mezza età discutono di qualcosa. Io, davanti al mio caffé, ascolto. I due signori, dall'aspetto distinto, colto, vissuto, discutono di come nessuno sembra essere in grado di stare al passo con il mondo. Che, secondo loro, non va come dovrebbe. Dicono che siamo in mano ad una generazione che non sa stare al mondo, poi mi guardano. Parlano di politica, di lavoro, di borsa, di viaggi. Poi, uno di loro, se ne viene fuori con uno strano ragionamento: - Vedi, è da un po' che ci penso ma per essere brave persone bastano poche cose, 10: 1. Lavati i denti tutte le sere prima di dormire e tutte le mattine dopo che ti sei alzato. 2. Mangia, almeno due volte alla settimana, del pesce. 3. Non fumare. 4. Bevi due bicchieri di vino al giorno, non di più. 5. Leggi un libro al mese. 6. Ascolta almeno due volte al giorno la tua canzone preferita. 7. Prenditi almeno cinque minuti di silenzio, da solo, ogni giorno. 60


8. Credi in Dio e prega tutte le sere. 9. Ama le donne. 10. Rispetta chi ti ama. Io bevo il mio caffé, pago, esco e mi accendo una sigaretta. Penso a quello che i due signori hanno detto e cerco di dargli un senso, un senso per la mia vita. Non ci trovo nessun senso. Quella lista, quelle dieci cose. E se fosse vero ? E se avesse ragione quel cagacazzo di signore di mezza età ? Io sarei una brava persona al 60%. Ah, cazzate. Stanotte ho sognato Scarlett Johansson seduta sulla sponda del mio letto, aveva la parrucca rosa e fumava.

One step to autumn

Eccolo di nuovo, quel leggero stordimento. Quella lieve sbornia naturale. Quel capogiro fragile e perenne tipico dell'autunno. L'autunno è Ryan Adams, Cameron Crowe e New York. L'inverno è R.E.M., Lost in Translation e Londra. La primavera è Jeff Buckley, Woody Allen e casa mia. L'estate è Beatles, Alfie e Toscana. Vorrei innamorarmi, in autunno. Vorrei innamorarmi di una ragazza semplice, ma con gli occhi azzurri, che sta leggendo un libro seduta su di una panchina in Central Park. Sta leggendo un libro di Kerouac. Sulla Strada. Non sono mai riuscito a finirlo. Porta gli occhiali, leggermente appoggiati sul naso. Occhiali decisamente fuori luogo rispetto a quel suo viso così incantevolmente perfetto. Ma le danno quel tocco così naif. Vorrei innamorarmi di una ragazza naif, in autunno, in Central Park, con sottofondo Come Pick Me Up di Ryan Adams. Vorrei innamorarmi di quella ragazza solo per poterle asciugare le lacrime in un pomeriggio d'inverno, per sentirle i piedi caldi sotto il piumone, per intossicarmi del profumo della sua pelle. Vorrei innamorarmi della sua giacchetta di fustagno, dei suoi occhiali sgraziati, della sua enorme sciarpa che non lascia mai a casa. Come vorrei innamorarmi di lei. Vorrei perdere la testa per quel neo appena sopra al suo seno sinistro, per quel suo modo così ironico di prendere le cose, per quel vestito nero da sera che tiene sempre nell'armadio, vorrei perdere la testa per un suo capello. Vorrei sedermi di fianco a lei, su quella panchina in Central 61


Park, in autunno mentre tutte le foglie gialle cadono sopra le nostre teste. Vorrei innamorarmi di quelle foglie e portarle tutte nel suo letto e dormirci sopra. Vorrei che al primo bacio ci fosse un fermoimmagine, in bianco e nero. Firmato Truffaut. Vorrei innamorarmi dei suoi piccoli difetti, delle sue piccole manie. Vorrei prenderla e portarla via. Dentro ad un quadro di Monet. Vorrei dirle che la amo, ma glielo vorrei dire con una poesia. Vorrei regalarle un arcobaleno o una sera al cinema. D'inverno. Vorrei che fosse felice. E quella ragazza e ancora là, seduta su quella scomodissima panchina di legno, con il libro di Kerouac in mano e il suo neo sul seno sinistro mentre le foglie gialle e arancioni le cadono intorno. Guarda in alto le cime degli alberi mosse dal vento. Chiude il libro. Si abbottona la giacchetta di fustagno e si assesta la sciarpa attorno al collo. E se na va. Non ti muovere. Sto arrivando.

Too many questions (don't tell me the answers)

C'è qualcuno incaricato su questo pianeta a poter darmi delle risposte o devo tutte cercarmele da solo ? Devo sperare che qualcuno mi venga a salvare il culo o per l'ennesima volta devo fare tutto da me? Posso continuare a credere che domani sia solo un po' migliore di oggi ? C'è un modo per poter capire di chi posso fidarmi o è semplicemente questione di fortuna ? Posso mandare a farsi fottere chi mi sta sul cazzo o rischio di essere volgare ? Perchè sento nelle orecchie la colonna sonora della mia vita ? C'è speranza che lei, adesso, da qualche parte nel mondo, mi stia pensado ? Forse quella ragazza che oggi mi ha guardato dritto negli occhi e ha accenato un debole sorriso si ricorda ancora di me ? E' probabile che domattina mi svegli e tutto quello che è stato, passato e presente, sia solo un sogno ? Perchè la vita è un sogno, non è vero ? Se non fosse così, lasciatemi dormire.

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Room 616 (the beautiful green dressed girl)

Non ci credo, ma sono tornato. E devo dire che la mia testa ha retto. Convetion, marketing, strategie di marketing, pubblicità, manifesti, volantini, 6x3, sell-in, sell-out, promozioni, sconti, voli, viaggi. Come nelle riunioni nazionali che si rispettino tutto era così grossolanamente bello, lucido, perfetto. Una realtà pompata, glossata, incredibilmente felice. E tu fai parte di loro, ci sei seduto in mezzo. Seduto su quelle poltroncine scomode, troppo vicine l'une alle altre. Gente che prende appunti, gente che dorme, gente che ti guarda, gente che non capisce. Il vantaggio del settore in cui lavoro è che, fortunatamente, molti colleghi sono donne. La ragazza trentacinquenne di fianco a me è profumata, sa di pesca. Forse troppo. Prende appunti, guarda l'orologio e poi mi chiede: - Ma tu, l'anno scorso, quanto hai fatturato ? - Non lo so. Ho aperto da poco. Ha gli occhi scuri e non è bella. Non è neanche brutta, ma non è sicuramente bella. E' un tipo. Continua ad ascoltare il presidente della azienda. Un signore magro, exgrasso, con la testa fottutamente quadrata, che mette in mostra i denti troppo numerosi e non suda mai. Incita a fare applausi. Applaudiamo a noi stessi come scimmie lisergiche. Applaudo. Nella sala ci saranno un centinaio di persone. Tutte uguali, tutte identiche. Tranne la trentacinquenne che sa di pesca e la ragazzina bruna dall'altra parte della sala. Non ci guarderemo mai. 63


Le tre ore di convetion bastano e avanzano, torno in camera e mi preparo per il gala della sera. Il gala è tenuto in uno delle più belle ville di Roma. Tutto è ancora più pompato e ancora più irreale. Ci sono fotografi, telecamere, giornalisti. Ed io sono lì, che li guardo dall'altra parte. Non conosco nessuno. La trentacinquenne profumata alla pesca non c'è. La ragazzina bruna c'è, vestita da sera è molto, molto carina. Ma sembra essere interessata a parlare con una cicciona dall'accento vagamente napoletano. Sigarette e vino bianco mi fanno compagnia. Per riuscire a capire e vivere in modo naturale quella serata bisogna mantenere un tasso regolare di alcool e nicotina nel sangue. Se no il cervello rischia di andare in corto circuito. Dalla terrazza est della villa si apre un incredibile panorama di Roma. Una immensa distesa di luci. Dalla cupola di San Pietro all'Altare della Patria. La sigaretta nella sinistra, il vino della destra. Immerso nella mia ebbrezza di salvataggio vedo arrivare in lontananza tre ragazze. Due more e una bionda. Meravigliosamente belle. La biondina è la fine del mondo, avvolta nel suo vestitino da sera verde. Me ne innamoro subito, all'istante. Girano, ballano, mangiano qualcosa al buffet e sorseggiano un costossimo vino fruttato servito da camerieri in gran tenuta. Le guardo, le fisso, loro se ne vanno, le perdo, le ritrovo. Sedute, parlano con vecchi signori, capi d'azienda, direttori marketing. Ne sembrano annoiate. Guardo la biondina, lei mi vede, io continuo a guardarla, lei se ne accorge. Poi il gioco si capovolge: lei mi guarda, io la guardo, lei mi guarda. Ignora totalmente i direttori marketing e si gira verso di me. Mi allontano, le scorte di alcool nel sangue si stanno esaurendo e ho necessita di fare il pieno. Il cameriere in gran tenuta, con la faccia da Ambrogio, mi passa un flute di vino bianco. La terrazza con la vista mozzafiato mi sembra un luogo perfetto per riordinare un po' le idee. Ed è lì, proprio mentre mi accendo una sigaretta, che arriva la biondina. Anche lei con un bicchiere di vino. Subito non capisco, non riesco a mettere a fuoco la situazione. Lei è lì a pochi metri da me. Dopo diversi bicchieri di vino si diventa socievoli per forza. - Bella vista vero ? - le dico. Lei subito pare non interessata alla mia domanda, continua a guardare fissa in direzioni di San Pietro. - Sì, bella davvero. Contatto. Era avvenuto un contatto, si era rotto il ghiaccio. La sua bellezza mi devastava l'anima. Troppo bella, troppo perfetta. Si fanno giusto due parole, ci si scambia i convenevoli. Un po' di conversazione. Passa un'ora. Si parla ed io mi sentivo sempre più ubriaco. Lei si chiama Cristine, ha diciannove anni, studia e fa la modella, è di origini francesi, parla correttamente quattro lingue, non ha il fidanzato, ama viaggiare. E io, strafatto di lei. La volevo lì, in quel momento. Ci spostiamo dentro, l'aria di Roma iniziava a farsi fresca, dove un'orchestrina da quattro soldi intratteneva le poche persone rimaste in sala. Cristine si siede e io vicino a lei. Ha preferito 64


me, abbandonando le sue amiche a parlare con i direttori marketing assetati di giovane carne. L'orchestrina suona classici dello swing americano. E' sulle note di Under My Skin che capisco che un'occasione così non mi si ripeterà mai più nella vita. Allora finisco il vino rimasto nel flute, mi alzo dalla sedia, mi aggiusto il vestito e guardo Cristine in quei sensualissimi occhi celesti e allungandole le mano le dico: - Signorina, mi concede questo ballo ? Non vi dirò mai come andò a finire. Non vi dirò neanche se quella sera io ballai un lento insieme a lei, con l'agilità di un koala. Non vi dirò se mi ha lasciato il suo numero di cellulare e neanche se è venuta in...non vi dirò niente. Forse ci scriverò un libro, forse un film. Forse. Ma adesso sono a casa e non sono così sicuro di essere rimasto sano, nella testa

Kind of talks

LUI: Ciao, cosa c'è che non va ? LEI: Tutto non va. LUI: Bene. LEI: Bene. LUI: Pensi che la storia con lui sia ormai finita ? LEI: Sì. LUI: ... LEI: Perchè fai quella faccia ? LUI: Perchè me lo sentivo che sarebbe andata finire così. LEI: .. LUI: Perchè fai quella faccia ? LEI: Perchè sei un bastardo arrogante. LUI: Grazie. Certe cose, purtroppo, si riesco a prevedere. Non era certo la persona più adatta a te. LEI: Adesso lo credo anch'io. Ma qual'è la persona più adatta a me ? LUI: Lo devi sapere tu. LEI: Pensavo di saperlo. Ora mi è caduto il mondo addosso. LUI: Tu sei una persona fantastica, sensibile, intelligente, quella specie di ominide 65


poco sviluppato non ti meritava di certo. LEI: Bastardo arrogante. LUI: Hai bisogno di una persona che ti ami davvero, su cui poter contare. LEI: E dove lo posso trovare ? LUI: ... LEI: Ah, sei di grande aiuto. LUI: Non lo so. Devi seguire la voce del tuo cuore, quella non sbaglia mai. LEI: Era stata la voce del cuore a farmi mettere con lui. LUI: Con l'ominide poco sviluppato ? LEI: Bastardo arrogante

The importance of being a dreamer

Apro gli occhi, chiudo gli occhi. Apro gli occhi, chiudo gli occhi. E tutto rimane costantemente uguale. Apro gli occhi, chiudo gli occhi. E non c'è nessuno. Nessuno. Allora apro gli occhi e li richiudo, ma una volta riaperti, tu non ci sei. Ancora tu. Ma non sei la solita TU, sei un'altra tu. Tu sei la TU che ha smesso di sognare. Tu sei la TU che ama vivere nella merda di realtà in cui ci ritroviamo. Tu sei la TU che piuttosto che guardarmi negli occhi un millesimo di secondo, gira lo sguardo. Allora non ho voglia di insistere, se sono rose fioriranno. Ma le rose non vanno più di moda, non fioriranno più. Una rosa per ogni giorno che siamo stati insieme. Sei proprio tu. Quella TU che le era presa voglia di parlare proprio quando il gioco si faceva interessante. Quella TU che se la faceva con il biondino, il tuo compagno di banco. Tu sei la TU che ha preso il mio cuore, l'ha fatto un po' saltare in padella, e l'ha messo in quel fottuto cassetto. Non quello delle cose da dimenticare, quello delle cose dimenticate. Non ti sei neanche sforzata di dimenticarmi. Tu sei la TU che sai che potrebbe nascere qualcosa, si potrebbe almeno vedere come andrebbe a finire. Non sei curiosa di vedere la parola "fine" ancora prima che inizi ? Non basterebbero tutti i pronomi del modo. Continua pure a non sognare, ma come cazzo fai ? Ma la vita non 66


è vita senza i sogni e viceversa, allora che cazzo stiamo qua a fare ? Perchè forse, molto probabilmente, tu sei la TU che non conosco. Tu sei la TU che non mi ha mai visto. Tu sei la TU che non ha mai amato veramente. Tu sei la TU che vive dentro di me. Tu sei quella TU che ha sempre freddo, anche d'agosto. Tu sei quella TU che, cascasse il mondo, vuoi rivedere per l'ennesima volta lo stesso film, quello di sempre. Non basterebbero tutti i film del mondo per stancarti. Tu sei la TU che vive in quel tramonto, quel tramonto che tanto volevi vedere. Allora se sei veramente TU, perchè non ti fai sentire ?

In the middle of nowhere

Ci sono dei giorni che il sole non sorge. O almeno pare essere così. La luce si spegne, nessuno la accende. Così, nella penombra nel mio salotto, dalla tapparella quasi tutta abbassata, entra una tiepida luce. Una triste diapositiva dell'autunno odierno. Non so più quello che scrivo. Non so più niente. Questa pioggia mi ha cancellato tutto quello che avevo in testa. Non so più distinguere la finzione dalla realtà. Non so più sentire la differenza tra il caldo e il freddo. Non so più se vale la pena di innamorarsi. Non so più se guardarla negli occhi. Non so più se la rivedrò. Non so più se mi rivedrò. Non so più come si fa dormire. Non so più sentire certe emozioni. Non so più se sapere qualcosa o fingere di non sapere. 67


Non so più se crogiolarmi nel mezzo del nulla è una cosa buona o solamente uno stupido vizio.

The game of love. The game of life

Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Aveva il caminetto acceso. Arriva dicembre sempre troppo presto e, sempre troppo presto, è Natale. Natale. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Pensava a lei. Continuamente. Pensava ad un futuro mancato. Ad un amore abbandonato. Ad una speranza ormai svanita. Lei era tutto quello che lui non era mai stato. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. E l'amava segretamente ancora. Amava ogni parte di lei. Anche quelle più nascoste. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Cercando una spiegazione agli errori che aveva fatto, gli venne da piangere. Non piangeva mai. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Pensando alla Spagna. Aspettando sei mesi. Sei. Sarebbe stato solo un misero rimpiazzo. Un fasulla imitazione di lei. Una fasulla imitazione di se stesso. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Sperando che lei fosse lì. A farsi accarezzare il gomito. Quel gomito tanto sporgente e tanto eccezionalmente 68


pieno di erotismo. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. A riempirsi di rabbia e di compassione. Piangeva ridendo, con le labbra tirate ed un sorriso sarcastico. Gioiva di tristezza. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Guardava fuori dalla finestra la pioggia che si posava sull'asfalto. Lei gli aveva detto: - Bel maglione, dove l'hai preso ? Lui le rispose: - Chi ? Era il meglio che poteva rispondere. Con lei, perdeva letteralmente la testa. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Guardandosi il maglione. Lo strinse forte al petto e lo lacerò proprio in corrispondenza del cuore. 'Fanculo il maglione. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Ascoltando la canzone più triste che aveva. Moon River. Gli venne voglia di masturbarsi. Il dolce e salato. La tristezza e l'autoerotismo. La panna con il sale. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. E pensava al giorno del suo matrimonio. - Se qualcuno è contrario a questa unione...parli adesso o taccia per sempre - avrebbe detto il parrocco. - Io ! - Disse un uomo in fondo alla navata - io non sono d'accordo. Quella persona era lui stesso che entrava a sorpresa nel proprio matrimonio e si opponeva. Se ne stava seduto in solitudine sulla poltrona del salotto. Aspettando. Aspettando chi ? Era il meglio che poteva domandarsi.

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Destiny, fate and my life - The trial

Signore e signori della giuria, giudice, pubblico in sala... sono qua, presente a questo processo in qualità di avvocato di me stesso. Mi avete chiamato davanti a questa giuria per aver commesso un reato che non è reato. Mi avete accusato di opporre resistenza al destino, al futuro. Mi avete incolpato di aver creato il mio futuro come io preferivo, disertando i vostri voleri. Beh, signori della corte, io mi ritengo innocente. I fatti di questi ultimi giorni mi rendono partecipe di quanto voi siate inermi davanti al mio futuro. E' stata la casualità. E, se non fosse stata casualità, sicuramente non era un destino creato da voi. Voi non create destini così straordinari. Voi create destini inutili, banali. A mia difesa voglio far deporre, a mio favore, il primo test della difesa. Forrest Gump. - Forrest Gump, lei conosce una frase che le insegnò sua madre, durante la sua infanzia. Questa frase è molto significativa per quello che intendo io...vuole dircela, 70


per favore. - La vita è come una scatola di cioccalatini. Non sai mai quello che ti capita. Avete sentito signore e signori della giuria, "La vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita". Questo la dice lunga. Vedete signore e signori è proprio quando il vostro disegno sta per compiersi che capita quello che voi non vi aspettavate. Ed è quello che è successo a me. Un evento inaspettato. Una persona. Una persona che neanche conoscevo. Che neanche sapevo che esisteva. Ma che nasconde dentro di se quello che da una vita, per tutta la mia esistenza, ho cercato. Una persona talmente semplice da essere straordinaria. Questa persona, un granello di sabbia, nella spiaggia dei vostri disegni ha devastato quello che voi avevate progettato per me. E se voi, giudice, signori della corte, mi accuserete di aver ostacolato i vostri progetti, allora sono colpevole. Se sognare, illudersi, mettere la propria testa sotto il cuscino e pensare che forse qualcosa sta cambiando è un reato. Sono colpevole. Se immaginarsi un futuro non così di merda come mi avevate disegnato voi, allora, giudice, sono colpevole. Se sognare di stringere a se una persona fino a farle male, per il bene che le si vuole, sono colpevole. Signore e signori della giuria sono colpevole di sognare e, finché voi, non mi riserverete un futuro più dignitoso, io continuerò a farlo. Sognare non è un reato, sognare è quello che ci spinge ad andare avanti. E voi potrete mettermi in galera, potrete togliermi gli occhi, l'anima, il cuore, il cervello, ma io non smetterò di sognare. Io continuerò a tenere per mano quella persona. Potrete pure uccidermi, signori della corte, ma il mio sogno continuerà a vivere. Per sempre.

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The 8th of december (in memory of John)

L'otto dicembre del millenovecentottanta moriva una delle persone più importanti per me, per la musica, per il mondo. Ucciso a colpi di pistola da uno squilibrato mentale che era stato, fino a poco tempo prima, un suo fan. Io, venticinque anni dopo, sono qua. Nel salotto di casa mia. A godermi un grigio otto dicembre. Il mondo è diventato irrimediabilmente in bianco e nero. Il colore tornerà solo la prossima primavera, quando i fiori fioriranno. Dicembre è triste. Dicembre è dei bambini. Dicembre è di chi crede ancora a Babbo Natale che, nel mondo di oggi, è già tanto che non faccia la fine di Michael Jackson. Babbo Natale è morto, il Natale è morto. Babbo Natale è figlio della Coca-Cola, che ci droga di modernità, di bollicine e di surrogati chimici della cocaina. Babbonataledipendeti. Rosso e bianco. Quando arriva l'otto dicembre ormai sei fottuto, amico mio. Lennon insegna. Lennon will live forever. L'otto dicembre è una partita che va vissuta fino in fondo. Fino all'anno prossimo. Allora io mi lascio annegare in questo otto dicembre e casualmente mi si riempie il cuore. Casualmente. Ehi John, casualmente ! 72


Un dicembre fatto ti parole, di sensazioni, di battiti cardiaci accelerati, di fumo di sigaretta che esce timidamente dalle narici. L'otto dicembre è dei sognatori, dei sogni, dei romantici. Sempre casualmente. John, you may say I'm a dreamer but are not the only one. L'otto dicembre mi prende a schiaffi, nella gioia plastifica di un ipermercato di provincia, con le dita che si sbiancano dal freddo. John, take a sad song and make it better. Non era tua, ma ti piaceva. L'otto dicembre è una canzone triste, che sa di jazz. Malinconica. Una canzone che entra in tutti i cuori, in tutte le case del mondo. Una canzone piena di speranza, di futuro, d'amore. L'otto dicembre è l'anticamera del Natale. E, a Natale, si diventa tutti più buoni. A Natale le guerre finiscono. Happy X-mas, John, the war is over. L'otto dicembre è una piccola speranza. La speranza che qualcosa nella propria vita, forse, sta cambiando. Come se vivessi la vita contromano. La speranza che forse ,il proprio "miracolo di Natale", come dicono in Alfie, ce l'hai davanti agli occhi. E ancora non lo sai. Take care of you, John. Bye.

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All my thoughts (always in my mind)

Seduto sul divano, nuovo, con le mani nei capelli, guardo verso il basso. Sento ogni singolo movimento del mio corpo, percepisco ogni singolo pensiero, quasi rendendolo concreto. Ho freddo. Tremo. Troppo freddo per venire da fuori, troppo freddo per restare dentro. Rock'n'roll baby. Con le mani nelle mani e i piedi ben saldati per terra. Poggiano su di un futuro non ancora ben definito. Ed ho paura. Paura che tutto possa finire. Che tutto finisca, come al solito. Take my hand, baby. Ho bisogno di una stretta di mano, di un forte abbraccio. Di guardarti negli occhi. Vedo qualcuno nello specchio. Lo specchio dei tempi passati. Vedo qualcuno, qualcuno che non vedevo da molto tempo. Ma che fa piacere rivedere. Quel qualcuno che è stato innamorato. La sua prima cotta, dieci anni fa. E adesso si sente come lui. Con un occhio sul cuore ed uno sul cellulare. Baby, I'll call you. Lei è là. Lei è un giorno di primavera. Lei è quella scossa, leggera e piacevole, che si sprigiona dentro di me. Lei, sperduta tra le mura di quell'immensa città. Troppo lontana, ma mai così vicina come ora. I'll never say you goodbye. Lei è dentro di me, nella mia testa, nascosta in quell'angolo tenuto solo per lei. 74


Seduto sul divano, nuovo, con le mani nei capelli, con lo sguardo sempre rivolto verso il basso. Penso. I miei pensieri mi fanno compagnia. Baby, we can slide away. Una parola per te. Una per me. Una per te. La più dolce che esista. Che ti tenga calda il cuore. Lei è una notte insonne. Passata tra un suo pensiero e le pagine fredde di un libro appena comprato. Lei è tutto il una notte. La luna, le stelle, la brina che si posa sull'erba. Silenzio. Solo silenzio. Lei è il silenzio dopo una parola piena di emozione. Lei è la voce tremolante di un sentimento che pensavi di non sentire mai più. Tra tutte le parole che esistono, le tue, sono sicuramente le migliori. Baby, you're the one. Goodnight, sweet night, sleep tight. Principessa, ogni giorno che passa è un giorno in meno senza di te.

Sorry for the love

New York City, il millenovecentosessantacinque è dietro l’angolo. Ero in uno di quei bar dove tutto ha un senso solo dopo le tre del mattino. Erano le tre del mattino. Io ero seduto al bancone, avvolto nel mio completo grigio, capello in testa, barba di tre giorni ancora da fare. Era una di quelle notti dove tutto sembra tornare a galla. Come la merda, che non affonda mai. Cazzo, New York. Una vita passata a scrivere un libro che non mi avrebbe mai cambiato la vita. Una donna che, invece, ci era riuscita a cambiarla. Sempre strafatto d'amore, di whisky, di caffé. Troppo sonno arretrato. Le sigarette non erano mai abbastanza in quel periodo. Il mal di testa era un lunga lama argentea che si conficcava nella testa e la trapassava da parte a parte. New York è jazz, cazzo. Solo jazz. Coltrane. Credo che stessi impazzendo. Credo che avessi bisogno di una donna. - Altro caffé, sir ? - disse Lloyd. L'anziano cameriere, con troppe rughe in faccia, con troppa vita alle spalle. - Certo Lloyd, altro caffé. - Qualcosa la turba, sir ? 75


- No Lloyd, nulla. Solo la vita. - Capisco, sir. Ha finito il libro, sir ? - Eh, il libro. Il libro si è fermato dove si è fermata la mia vita. Sulla porta di casa sua. - E' una donna, sir ? - E' sempre una donna. Sei sposato, Lloyd ? - No, sir. Ma sono stato innamorato di una donna, sir. La tavola calda era vuota. New York era avvolta dalla nebbia. Alle tre del mattino, a New York, solo gli innamorati sono ancora svegli. Quelli che non riescono a staccare il pensiero dalla proprio sogno a metà. - Cos'è l'amore secondo te, Lloyd ? - L'amore, sir ? L'amore è quando...quando senti che una persona ormai fa parte della tua vita e senti che non ne uscirà mai più. L'amore è quando fai la sostanziale differenza per qualcuno, credo. Era entrata una donna nel frattempo, dai capelli biondi. Indossava un impermeabile e un paio di scarpe rosse. Si sedette al tavolo con la prima edizione del giornale sotto braccio. Lloyd la servì, una tazza di caffé. Aveva la tristezza negli occhi e nessuno, quella notte, l'avrebbe potuta consolare. Stava cercando dove aveva perso il filo della sua vita. Era meravigliosa. - Vedi, Lloyd, quella donna ? - Certo, sir. - Potrei innamorarmi di lei in meno di dieci secondi. E' meravigliosa, nella sua tristezza. E' un angelo a cui dio ha fatto un torto. Piange. - Ho visto, sir, è molto triste. Cosa pensa le sia successo, sir ? - Beh, Lloyd, con tutti i caffè che servi, ormai dovresti sapere come va il mondo. - Sì, sir, ma voglio che me lo dica lei. - Credo che qualche ora fa sia tornata a casa dal lavoro. Sarà stata stanca, esausta. Il lavoro è sfiancante in questo periodo, soprattutto, per chi come lei, lavora in un giornale. Fa la giornalista. Il suo uomo deve essersi fatto trovare mentre la sua migliore amica le stava facendo un servizietto. Orale. Lei probabilmente ha perso la testa e, a sangue freddo, ha chiuso la porta di casa alle sue spalle. Lo sospettava che prima o poi sarebbe successo. Era solo questione di tempo. I segni del rossetto sulla patta di lui lasciavano ben poco all'immaginazione. - Incredibile, sir. E adesso cosa farà ? - Probabilmente tornerà a casa da sua madre, in Carolina. Lascerà il lavoro e troverà un impiego nella caffetteria del paese. Finché non ritroverà la vita e un nuovo amore. - Pensa che sarà felice, sir ? - Oh, probabilmente prima o poi lo sarà. Chi non è stato felice. - Certo, sir. Lei è stato felice, sir ? - Sì, sono stato felice. La donna, finita la tazza di caffè, si rimise l'impermeabile e uscì, perdendosi nella fitta nebbia di New York. Io trangugiai, in un rapido sorso, il caffè che era rimasto e mi accesi l'ultima sigaretta della notte. La prima del resto della mia vita. - Sì è fatto tardi, Lloyd. E' meglio che me ne torna a casa. 76


- Va bene, sir. - Scusami tanto per l'amore, Lloyd. - Non si preoccupi, sir. E' sempre un piacere.

Always before Sunday (when I miss you)

E' proprio quando il cielo sembra non voler piovere mai che mi manchi. Infatti, adesso, mi manchi. Anche se sembra una banale scusa, perchè mi manchi sempre. Giro per la casa in maniche di camicia, con una sorta di malinconia assopita che sembra fare capolino da dietro ogni porta. Giro per casa con il tuo pensiero davanti a me. Infatti adesso ci sei. Sei lì, subito dopo lo schermo del portatile, mi stai guardando e sembri sorridere. Lo fai quando alzo gli occhi dallo schermo e ti guardo. Ti sei alzata un secondo, Jack ti ha tenuto dietro. Sei scesa dalle scale, stando attenta ai gradini, sei arrivata fino giù. In giardino ai raccolto quasi tutte le margherite che c'erano e ne hai fatto un mazzetto che hai adagiato sul tavolo, in una bottiglia di plastica tagliata a metà. Ti ho seguito con gli occhi, mentre Jack continuava a starti vicino, con quel rumore delle tue ciabatte di pezza che ti scivolano sempre dai piedi. Ti sei seduta sul divano, o meglio, quasi distesa. Dai un'occhiata alla tv, una a me ed una a quel mazzolino di margherite. Sembri così soddisfatta. Ti sei messa a fare zapping, mentre Jack tenta di salire con le sue zampette sul divano. Poi, annoiata dalla scarsa programmazione televisiva, ti sei alzata. Stirandoti hai emesso uno strano mugugno 77


di stanchezza. Fuori piove. Sei venuta verso di me, ti sei seduta sulle mie gambe ed hai voluto leggere a tutti i costi quello che stavo scrivendo... Ho scosso la testa, stropicciato gli occhi e non c'eri già più. A quasi quattrocento chilometri di distanza, sento ancora il tuo profumo. Sento che sono dentro al tuo cuore. Sento che ci sei e se non ci sei. Perchè niente è lo stesso se non ci sei tu. Qualsiasi delle TU tu voglia essere. Il ghiaccio si scioglierà, le nubi si diraderanno, le pietre diventeranno sabbia, la pioggia sarà neve che si scioglierà al sole. Al tuo sole, al mio. Niente è abbastanza per te, non per me. Che ti vorrei dare tutto, e di più. Io che vorrei essere sempre con te, per esserci quando hai bisogno. Allora fuggo dalla realtà. Da queste righe, da tutte le parole, da tutti i ricordi che ci danno fastidio. Fuggiamo da quella realtà che adesso ci va stretti. Tu ed io.

Because

Perchè avrei voluto svegliarmi vedendo il tuo sorriso. Perchè avrei voluto vederti piangere di felicità. Perchè avrei voluto vederti guardare il mare. Perchè avrei voluto divedere con te un tramonto sulla spiaggia. Perchè avrei voluto cenare con te a lume di candela. Perchè avrei voluto passare a letto con te una domenica piovosa di novembre. Perchè avrei voluto sentire il caldo estivo sulla tua pelle. Perchè avrei voluto vederti abbronzata, ad agosto. Perchè avrei voluto vederti vestita da sera. Perchè avrei voluto farti un regalo quando non te l'aspettavi. Perchè avrei voluto metterti un fiore tra i capelli. Perchè avrei voluto farti ridere fino a rimanere senza fiato. Perchè avrei voluto averti ancora seduto sopra le mie ginocchia. Perchè avrei voluto sentire ancora la tua schiena. Perchè avrei voluto farti sentire parte della mia vita. Perchè avrei voluto allontanare la tristezza dalla tua vita. 78


Perchè avrei voluto fare una passeggiata con te e Jack. Perchè avrei voluto farti assaggiare la mia matriciana. Perchè avrei voluto che dormissi ancora nel mio letto. Perchè avrei voluto che il tuo profumo rimanesse ancora sui miei abiti. Perchè avrei voluto dirti "ti amo" credendoci. Perchè avrei voluto fare ancora quelle lunghissime telefonate mentre giravo in auto. Perchè avrei voluto baciarti tutte le volte che ne avevo voglia. Perchè avrei voluto ancora sentire le tue mani su di me. Perchè avrei voluto scriverti una canzone e cantartela mentre non te l'aspettavi. Perchè avrei voluto scrivere un libro con te. Perchè avrei voluto sussurarti nell'orecchio quella poesia si Neruda. Perchè avrei voluto vederti alla luce del fuoco del caminetto. Perchè avrei voluto dirti parole di conforto quanto di sentivi giù. Perchè avrei voluto portarti la colazione a letto. Perchè avrei voluto sentire con te un altra volta "Come Pick Me Up" di Ryan Adams. Perchè avrei voluto vederti in autunno. Perchè avrei voluto essere la tua cura. Perchè avrei voluto un tuo bacio per il mio compleanno. Perchè avrei voluto vederti ancora mentre dormivi. Perchè avrei voluto vederti ancora mentre ti asciugavi i capelli. Perchè avrei voluto ancora tenerti la mano mentre camminavamo per la strada. Perchè avrei voluto fare shopping con te. Perchè avrei voluto portarti a Parigi. A Londra. A New York. Perchè avrei voluto entrate nel tuo cuore e non uscirne più. Perchè avrei voluto fare un sacco di cose con te. Perchè volevo te. E lo voglio ancora.

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The sidewalks of New York

Stanotte l'ho sognata, di nuovo. Lei, New York. Me ne sono reso conto questa mattina quando, guardandomi negli occhi gonfi allo specchio, mi è venuto un flash. Io che aspettavo un aereo davanti al Gate52 di qualche misterioso aeroporto. Giacca e cravatta, valigia di pelle. Seduto su una sedia di plastica, nella più completa solitudine. Ero preoccupato. Non sapevo se avrei trovato un posto dove dormire, tutti gli alberghi sembravano occupati. Ma dovevo andare a New York. Davanti allo specchio, con in testa un'esplosione di capelli, mi sembrava di essere su uno di quei marciapiedi di New York. Quei marciapiedi che sono un po' di tutti e un po' di nessuno. Quei marciapiedi dove si incastrano e si scontrano un sacco di vite, un sacco di emozioni, tutte nuove, tutte diverse. Ho sognato di volare oltre al Dakota Building, dove ha vissuto ed è stato ucciso Lennon. Oltre a quel palazzo, il Central Park. Esploso di primavera. Volando sopra quella panchina dove l'avevo vista. Quella ragazza dalla giacca di fustagno e la sciarpa al collo, con il libro di Kerouac in mano. Sono planato, in un 80


volo statico davanti a quella panchina e mi sembrò quasi di vederla. Adesso, lei, con una strana maglietta a righe teneva gli occhi fissi su di una raccolta di poesie di Neruda. Aveva i capelli raccolti, dietro la testa, dietro la vita. L'aria triste, di una ragazza apparentemente felice, ma con un passato non risolto. Continuavo a fissarla nel suo immenso splendore. Quella ragazza di cui mi sarei voluto innamorare in autunno. In un fermoimmagine in bianco e nero di Truffaut. Teneva una margherita tra i capelli, teneva una mano sul cuore. Aveva un sorriso da favola. Le foglie rosse e gialle di cui il Central Park si era coperto sono state sostituite da una infinità di margherite. Quella ragazza è ancora là, seduta su quella panchina di legno del Central Park e ci rimarrà per molto tempo. Finché un ragazzo non la vedrà, la prenderà per mano e la porterà nella felicità che ha sempre sognato. Lei, la margherita e il suo libro.

Suitcases on my bed

Le valigie fatte sul letto. Il letto ancora da fare e la testa ancora da mettere in ordine. Diceva mia nonna: tutto a posto e niente in ordine. Ci sono libri da leggere. Poesie da rispolverare. Racconti da scrivere. Canzoni da suonare. Cado nel vuoto quando dormo. Scattando sul letto con degli spasmi inverosimili per paura di cadere nel vuoto. Avete presente, no ? Quella sensazione di cadere, ma non si cade. Continuo a sognare città. Stanotte, Venezia. Benché non ci creda, ci sono un sacco di segnali che il destino sembra di volermi dare. Sembra quasi volermi costruire davanti una mappa, mi mette davanti a indizi che inevitabilmente ricollego a certe persone, a certi sentimenti, a certi posti. Segnali del destino che guardo ma non seguo. Che sento ma non ascolto. Forse un giorno lì seguirò. Forse il destino mi vuole portare da qualche parte per farmi capire quello che adesso non comprendo. Stamattina, guardandomi allo specchio, con gli occhi che avevano tutte le cinque ore che ho dormito, ho fatto un sorriso irreale. Un sorriso. Mi sono fatto a me stesso una strana smorfia. Ho scosso la testa come se non ci fossero più speranze. Sono tutto matto. Scappo in America, tanto, le valigie, le ho già fatte. Ma, adesso, si ritorna dalle palme e dalle onde. Sperando che la pioggia non le bagni troppo. 81


When a star fall in my heart

Caro amore mai nato, è quasi mezzanotte e io non riesco a fare a meno di pensare a te. E non so perchè. Nella solitudine del mio salotto, al buio, nel silenzio, mi sono portato una mano al petto e mi sono accorto che qualcosa mancava. Mi sono accorto che il mio cuore era scomparso. L'ho cercato, mi sono chiesto dove fosse andato. Credo di averlo lasciato da te, in qualcuna delle stanza di casa tua. Forse nella vasca. O forse fuori, appena prima di entrare a casa. Piccolo amore mai nato, ho rivisto le tue foto ed è come che non fossi mai andata via. Perchè quel cuore, quel cuore che ho lasciato lì, batte ancora. E batterà per sempre. C'è qualcosa nell'aria, qualcosa che non se ne vuole andare. Qualcosa in questa aria di pioggia continua a sussurrami il tuo nome, qualcosa nei sogni continua ad indicarmi te. E ti vedo, nei sogni, col tuo sorriso, con la tua mano nella mia. Perchè non riesco a stare senza di te. I sogni non mi abbandonano. Allora ripesco quel regalo, quello che non ti ho fatto. Quel mappamondo preso un mattina fredda di metà febbraio, al quale avevo attaccato un post-it. Era ancora incartato, sopra l'armadio.

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Piccolo amore mai nato, sarai tu o non sarai tu. Ma io non riesco a chiuderti in quel cassetto. Quello delle cose dimenticate. Perchè non sei una cosa dimenticata. Cerco di non pensarti, cerco di dimenticarti, cerco di guardare avanti, cerco di non pensare che qualcun'altro adesso stato godendo del tuo sorriso. E, quel qualcun'altro, non sono io. Sei stata la mia stella cadente, in una limpida notte d'estate. Breve ma intensa. Una di quelle stelle cadenti che quando le vedi dici "ooohhhh". Una di quelle stelle cadenti che vedi una volta in una vita. Ma non riesci a dimenticarti. Perchè quella notte limpida rimarrà per sempre nel tuo cuore. E vorresti non finisse mai. Così, caro e dolce amore mai nato, con ancora il tuo profumo nelle narici e i tuoi occhi nei miei. Mi manchi. Mi manchi come se mancasse una parte di me. Posso solo pregare, qualunque degli dei che possano esistere, che tu sia felice. Perchè voglio che tu sia una persona felice. Io, qui, dal mio mondo in bianco e nero le stelle cadenti si vedono ancora ma non come te. Buona vita.

Count Jay W.

C’era lo sciabordio delle onde che non mi lasciava dormire. Sentivo distintamente la pioggia sul mio viso. E’ come saltare giù da quel famoso precipizio. Tiri quella pietra nell’acqua, la reazione è a catena. Un cerchio che si allarga e si allarga e si allarga. All’infinito se fosse possibile, così per non dimenticarti mai. L’ho conosciuto stamattina, quando ancora fuori l’alba tardava ad arrivare. Ed io avevo freddo. Jay W. dice di essere un Conte e ne ho preso coscienza solo stamattina. Il conte Jay non è delle nostre parti, è un poeta e dice di venire da molto, molto lontano. Ha i capelli corti, lo sguardo intenso di chi nella sua vita, di sicuro, ne ha viste veramente tante. - Dentro di te c’è parte della mia vita. Io sono l’eccesso e tu hai bisogno delle mie parole. Ha detto standosene seduto sul bordo del letto. Poi se ne andato. Mi sono sdraiato nell’erba quando il sole era in perpendicolare su di me. Con gli occhi fissi al cielo è passato. Dritto nel cielo. Seguiva quella direzione, dannazione. 83


Ovest. Sempre ovest.

Drunk of love and life

Dolce Audrey, ti scrivo per non sentirmi solo. Ti scrivo perchè se ci fosse il mare, qui, probabilmente questa lettera la affiderei alle onde. Il mare. Ti scrivo perchè da qui, dal mio mondo in bianco e nero, non riesco a capire di che colore è l'amore. Non riesco più a capire di che colore sono fatte le emozioni, gialle o blu ? Non riesco più a capire che colore ha il gelato. Piccola Audrey, tu, come un dardo infuocato sei entrata nella mia vita. Ma non mi hai passato, mi sei rimasta conficcata dentro e continui a bruciare. Sono giorni strani, giorni lunghi. Il tempo, senza di te, sembra non passare mai. Passo le giornate lavorando, pensando, cercando di capire e di stabilire un piccola connessione con te. Perchè non riesco a non pensarti. Più me lo impongo, più non riesco. 84


Passo i miei momenti morti, che sono parecchi, a pensare a tutte le poesie che non ti ho dedicato, a tutte le parole che non ti ho detto, a tutti i baci mancati. Avrei voluto una sera d'estate prenderti per mano e portarti sul bagnasciuga di quella spiaggia che vedo ogni notte, in sogno. Avremmo sentito la sabbia tiepida sprofondare sotto i nostri piedi e le onde, placide, infrangersi contro le nostre caviglie. Mi sembra quasi di vederti, lì su quella spiaggia, con il vento tra i capelli, con la pelle liscia delle tue braccia sapere ancora di salsedine. Sarebbe stato il tramonto, con il mare liscio come l'olio, con il silenzio assordante come un tuono. Avremmo guardato il sole scendere, sprofondare nel mare, oltre l'orizzonte, cercando di assimilare gli ultimi raggi caldi dell'estate. Ti avrei stretto tra le mie braccia, forte, per non lasciarti scappare mai più, guardandoti negli occhi avrei visto quanto era bello tutto ciò. Il tuoi occhi, con quel colore così simile a te. Poi tu, con un sorriso, avresti sciolto la mia anima, quello che ne restava. Avrei preso tra le mie mani il tuo viso, grazioso, accerezzandoti il collo avrei dolcemente appoggiato le mie labbra, sulle tue. Come quei baci che piacevano a noi, quelli di cui parlavamo sempre quando ci eravamo conosciuti. E sarei voluto morire, lì. Qui, nel mondo in bianco e nero, non c'è l'estate. Qui la realtà è un immenso sogno lucido e io, ubriaco d'amore e di vita, sono in bilico tra i miei pensieri. Talmente ubriaco di quel nettare dolciastro che è l'amore che le uniche parole che mi escono sono queste. Sono nel 1700 e sono morto. Sono un fottuto poeta maledetto, ubriaco d'amore, che dedica la sua più grande poesia a un dardo infuocato che gli è rimasto incastrato nel cuore.

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Standing under the apricot tree

Era la luna piena che entrava dalla tapparella non del tutto abbassata della mia camera che non mi lasciava dormire. Ci dev'essere qualcosa di rotto nel mio corpo ultimamente, qualcosa che non mi fa sentire al massimo della forma. Allora con gli occhi ben aperti, guardavo la luna entrare e invadere i miei privatissimi spazi. Pensavo che una serata in discoteca mi desse la possibilità di arrivare prima alla meta. Così si incontrano facce conosciute, facce già viste ma non particolarmente interessanti. Facce con cui avevo già avuto a che fare. Pisa in discoteca. Dormo, dormo un sonno poco chiaro. Poco riposante. Sogni scoordinati, sogni eccitanti. Quasi da vergognarmi di me stesso, ma che avrebbero esaltato il Conte Jay. Allora i giorni passano, lenti, ma passano. Trovando per ognuno una forma ed un sentimento ben definito. Con uno stato d'animo simile al tempo. Variabile. Mi viene da ridere quando mi ritrovo in piedi sotto l'albicocco. In piedi. Per quasi un'ora a pensare, a credere, a cadere dentro me stesso. In una sorta di viaggio spirituale, alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che so bene cos'è. Togliendo resina dai rami secchi, come togliere ricordi dalla propria testa. Domani, come un vecchio e stanco eremita, mi metterò sulla strada del lago. Nella mia solitudine, nella mia personalissima ricerca di parti di me mancanti. Sigarette, parole, respiri, gocce di pioggia, poesia e cuore. Solo per te. Adios.

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My dear little flower

Silenzio. Nient'altro. Ho bisogno di silenzio, c'è troppa confusione nelle mie orecchie. C'è troppa confusione, in generale. C'è troppa voglia di chiudere gli occhi e sognare. C'è troppa voglia di sentire il tuo profumo. Allora chiudo gli occhi, vaffanculo, come non facevo da un po' di tempo. Chiusi. Forte. Quasi da far male, per sentire dove sei. Dove sei ? E mi sembra di vederti. Mio caro piccolo fiore. Tu, con la tua pelle liscia, con le tue spalle minute, con il tuo sguardo stregato. Tu, con il tuo sorriso da infarto. Tu, che minuziosamente cerchi te stessa, alla luce abbagliante di un freddo sole di Giugno. Tu, seduta su un treno di panna che ti porta verso il passato. Tu, con il tuo carico di ricordi. Tu, con un pezzo di te nel mio cuore. Ci sono troppi treni, troppi chilometri. Troppo spazio vuoto da riempire, inutile. Tu, con la tua voglia di cantare. Tu, con quelle tue piccole orecchie. Tu, piccolo bacio. Quanti "tu" hai dentro ? Mio caro piccolo fiore di primavera, che sempre passa e mai arriva. Come le cose belle. Le cose belle passano sempre troppo in fretta e sembrano non arrivare mai. 87


Tu, mia piccola musa. Mia piccola nota dentro ad ogni canzone. Ogni verso. Tu, mia piccola trama di racconto, rima baciata, lieto fine. Tu, mio piccolo fiore alla ricerca di te stesso. Perso nel sole, nella tua solitudine, nella tua vita. Che sembra quasi un telefilm. Che sembra quasi vita. Dritto, piccolo, sul tuo stelo che mai si piega al vento. Che non appassisce. Mio caro piccolo fiore, la primavera tornerà. Sempre.

Cigarettes and cups of coffee

Il Conte Jay era di fronte a me, davanti a qualche sigaretta ed un'enorme tazza di caffé. Nero. Perchè sentivamo il bisogno di definire cosa c'era che non andava. CJ - Cosa c'è che non va ? P - Oh, niente. CJ - Puttanate, cosa c'è che non va ? P - Niente, te l'ho detto, niente. CJ - Non dire cazzate, sei felice ? P - Sì, no, non lo so. Sì, sono felice, e con questo ? CJ - Non è vero, non hai l'aria di una persona felice. P - Sì, non ho l'aria di una persona felice. E sai perchè ? Perchè io ho conosciuto cosa vuol dire essere felici. Non quelle tue puttanate orgiastiche, tutte sesso, alcol e droghe. CJ - E cosa sarebbe questa tua felicità che hai conosciuto ? P- Oh cazzo, Jay, tu non hai idee di cosa sia la felicità. E poi non era felicità, la felicità non esiste. Non diciamo cazzate...io ero innamorato. Sai, è dall'età di dieci 88


anni che ho sempre avuto il bisogno di essere innamorato di qualche ragazza che non avrei mai avuto. Essere innamorato di un sogno che non si sarebbe mai realizzato. CJ - Come Julia ? P - Sì, come Julia. Ti ricordi cazzo ? Quanto sono stato innamorato di lei, sei anni ? C'eri anche tu la sera che la vidi per la prima volta, se non ricordo male. Lei, sì, cazzo che mi aveva fatto girare la testa. CJ - Me lo ricordo, cazzo. Eri continuamente a parlare di lei. P - Eh già, Julia, chi ci pensava più. CJ - E poi, cos'è successo ? P - E successo che… mi stavo innamorando di nuovo. Di una stella cadente. Magnifica, meravigliosa. Una di quelle stelle cadenti che puoi vedere nelle notti di agosto, quando il cielo è limpido, senza luna. Solo stelle. E lei è passata, davanti ai miei occhi. Così, semplicemente. Non si dava le arie della serie lapiùbellastellacadentedelcielo. Era così meravigliosa, così magica, che volevo non finisse mai. Ha attraversato tutto il cielo, da est a ovest. Poi è svanita, lasciando dietro di se una scia lattiginosa. Polvere di stelle. CJ - Non l'hai più rivista ? P - Le stelle cadenti le vedi una sola volta. E' uno spettacolo unico, fantastico. E mi manca non poterla vedere più. Rimane quella sua polvere di stelle, addosso a me. CJ - Perchè ? P - Perchè questa è la mia vita, Conte Jay. Innamorarsi di stelle cadenti, di sogni. Perchè io rimarrò innamorato di quella stella cadente fin quando nel cielo non ne passerà un'altra che mi faccia perdere la testa. Perchè ho bisogno del mio sogno. Ho bisogno di qualcosa di irraggiungibile in cui credere. Perchè essere innamorati è la cosa più bella del mondo. Perchè tutto prende un sapore e un gusto diverso. Perchè, quando si è innamorati, un giorno di pioggia è un giorno di primavera. Perchè ci si sveglia per andare a lavorare e ti sorprendi di averne voglia, perchè è come che lo facessi per lei. Perchè, quando si è innamorati, vale la pena di farlo, per lei. Perchè per lei, la stanchezza non è mai troppa e l'amore mai abbastanza. Perchè, quando si è innamorati, c'è sempre il sole, anche di notte. Perchè ti manca sempre quando non c'è. Perchè sai che solo i suoi baci possono guarirti. Perchè, quando sei innamorato, lei è parte di te, fisica. CJ - Sei un fottuto romantico. Togliti dalla testa tutta quella merda. P - Sì, lo so. Sono un fottuto romantico che non riesce a togliersi dalla testa un cazzo. Ma sarei ipocrita a dire che dimentico e poi non lo faccio. Credo nel mio irraggiungibile. Echissenefrega... CJ - Ci rimarrai secco, te lo dico io. P - Probabilmente sì. Ma non mi interessa. Morirò d'amore. La mia stella cadente era la più bella che potessi vedere. L'avrei presa, con uno di quei retini con cui si prendono le farfalle. L'avrei fatta mia, avrei fatto in modo che non si spegnesse mai. L'avrei fatta diventare una di quelle stelle magnifiche. Nel mio cielo. Avrei fatto di tutto. CJ - E cosa ? P - Avrei... 89


Alone, in my castle

Da solo, nel mio castello. Con tutto quello di cui ho bisogno. Chiudo gli occhi e sogno, spero. Aspetto la mia dama, la mia principessa. Chissà da quale incantesimo dovrà svegliarsi. Aspetto, da solo, nel mio castello, che succeda qualcosa. Il destino ha voluto privarmi della mia piccola principessa, confinandomi in questo castello sotto una meravigliosa volta stellata. Passo le mie giornate vagando per ampi saloni, corridoi, giardini, finestre. Scrutando l'orizzonte, a volte così vicino, a volte così distante. C'è troppo spazio nel mondo per una persona sola. C'è troppo spazio vuoto nel mio cuore che solo tu poi riempire. Dolce principessa. Di notte, mi sdraio sulla terrazza a guardare le stelle. Sembrano cadermi addosso, tutte quei puntini bianchi. Pulsano a ritmo dell'amore, a ritmo del cuore. Sogno lei, nel mio letto, freddo, immenso. La musica di un triste carillon mi tiene compagnia quando la luce della luna smette di entrare dalla finestra. Qui il mondo è 90


in bianco e nero. E' nel salone delle feste che l'orchestra di musicisti inesistenti suona un waltzer solo per me. Solo per lei. Un waltzer, dolce, armonioso, che io e lei balliamo senza mai stancarci, fino alle prime ore del mattino. I fiori del giardino sanno ancora il suo profumo. Piccola principessa. Addormentata da un'incantesimo troppo potente perchè possa salvarla. Nei miei sogni corro da lei, su di un destriero bianco, armato di spada e scudo. Pronto per combattere le avversità della vita, del male, del destino. Fiero, sul mio cavallo. Sarà il re che ci sposerà. In un giorno di festa, di sole, d'amore. Il popolo, in festa, lancerà petali di rose su di te mentre percorrerai l'ingresso del palazzo reale invaso da candele. Avrai tutti gli occhi su di te. Principessa, vestita di seta di nuovole, bianche, candide. Paradigma d'amore. Un'angelo di felicità. La folla griderà il nostro nome e le colombe si alzeranno in volo su tutti i cieli del regno portando a chiunque gioia e prosperità. Ammireremo il tramonto farsi rosso sul mastio più alto del castello, appoggiando dolce mente le mie labbra alle tue, mentre ancora il popolo gioirà di noi fino a tarda notte. Mentre mi sveglio, ebbro di vino ancora troppo giovane, tra le mura fredde del mio castello. Sognando di te. Danzando waltzer immaginari, scrivendo poesie d'amore. Nascosto dietro il mio sottile strato di malinconia. Con ancora il fuoco del camino che arde. Come il mio sentimento per te.

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