Camera 79, martedì

Page 1

Camera 79, martedì Riuscii a vedere la sagoma sconnessa del Sacre Coeur tra i palazzi bianchi sporchi di Parigi. Il taxi scorreva costeggiando negozi di cellulari a basso prezzo presi d’assalto da ragazzine di colore, montagne di borse appese ai negozi degli indiani, le signore con la baguette sotto braccio uscivano dalle boulangeries dando vita ad un suggestivo caos metropolitano. Visivamente era così, una delle mille facce di Parigi. Tra una patisserie e un negozio di libri usati, Rue de Chevalier de la Barre si protraeva in salita. Il taxista mi affidò la valigia tra le mani e si intascò la cospicua mancia che gli lasciai. Rimasi lì in piedi, quasi in posa fotografica, nel mentre che il taxi risalì il traffico tra un paio di claxon di protesta. L’insegna sgangherata dell’hotel era appena appesa sull’edificio bianco, più sporco degli altri. Rimasi ancora qualche secondo fermo al mio posto, assaporando con ogni senso il mio primo tocco parigino. Il quadro visivo che mi ero dipinto in testa nel tragitto fatto in taxi venne completato dal profumo basso e multietnico di quel quartiere. Anche chiudendo gli occhi i profumi e gli odori davano consistenza fisica a quel momento. «Pardon monsieur» sospirò un ragazzo di colore con delle enormi cuffie colorate alle orecchie che mi scartò dandomi una lieve spallata. Mi svegliò dall’incanto. L’Hotel Montmartrois era lì, poco più avanti sulla destra. Trascinai la mia valigia sui gradini, oltre al ciottolato che la faceva sobbalzare, dentro alla porta in ferro battuto, salendo le ripide scale dell’hotel. Tutto in salita, come se anche quel posto volesse farmi capire metaforicamente ogni difficoltà che stavo passando. Perché non era così scontato che ad ogni salita corrispondesse una discesa. L’indiano alla reception mi accolse con un afono bonjour, mi allungò la chiave elettronica e il telecomando, con lo sguardo basso e totalmente incurante di me, disse: «Chambre settantanove, quatrième ètage.» I corridoi che portavano alla camera erano di aspetto vagamente intestinale, piccoli e stretti, si perdevano tra le curve che l’edificio obbligava. Ad un primo momento il brusco cambio di ambientazioni che i miei occhi stavano subendo mi causò un forte giramento di testa. Mi presi qualche secondo e ristabilii il contatto con la realtà. La moquette sotto ai piedi dava una consistenza strana ai miei passi. Indugiai davanti alla camera settatanove. Quella porta non aveva niente a che vedere con le centinaia di hotel che avevo avuto modo di frequentare. Nessun ampio corridoio dalle luci soffuse, nessun ragazzo in uniforme con le mie valigie in mano, nessuna suite, nessuna piscina all’ultimo piano con vista panoramica. Questo era il fratello cattivo del Ritz. L’hotel che aveva ospitato le mie decine di trasferte francesi, lo stesso della


principessa Diana. Questo era il Montmartrois, sotto il Sacre Coeur, a poche centinaia di metri da Pigalle. Se mai ci fosse stato del lusso questo posto se l’era completamente dimenticato. Ma se io stavo fuggendo da qualcosa, se l’araba fenice che era in me voleva morire e rinascere doveva farlo partendo dal basso. Per riassaporare nuovamente ogni conquista e ogni guadagno, ogni piccola cosa che nella vita mi sarebbe ritornata davanti. Scossi la testa, abbozzai un tiepido sorriso rimanendo incerto sulla natura buonista dei miei pensieri. Non feci in tempo aprire la porta che la stanza era già finita. Pochi metri quadri, forse appena due massimo tre, sarebbero diventati il mio habitat per i prossimi giorni. La prima cosa che guardo appena arrivo in camera solitamente è il bagno. Era appena più largo di una cabina telefonica. Scavalcai il letto e appoggiai la valigia proprio sotto la finestra. Fuori, i tetti della città. Ero stanco, accaldato. Il mio volto allo specchio appariva bianco e malato, appena un accenno di colore alle gote ricordava che nel mio viso circolava ancora un po’ di sangue. Scostai il ciuffo dagli occhi e scesi giù in strada chiudendo rumorosamente la porta alla mie spalle sentendo risalire dalla schiena un scossa di panico. Risalendo Rue de Chevalier de la Barre, poche centinaia di metri dopo, spuntò improvviso il Sacre Coeur. Hai Parigi davanti appena giri l’angolo. La bianca chiesa ti guarda le spalle mentre cerchi con lo sguardo tutto quello che puoi riconoscere tra quegli edifici. Non c’ero mai stato, nonostante le mie parecchie visite in città, avevo sempre e accuratamente cercato di evitare qualsiasi tipo di luogo turistico. Io andavo a Parigi per lavoro e per rimorchiare. Quella vista, la stanchezza che precipitava e scorreva lungo le gambe e l’aria fredda che scompigliava i capelli snocciolò dalla mia mente due fermoimmagini che raffiguravano persone che non mi sarei mai aspettato di pensare in quel momento. Giulia. Adorava quella città, la adorava sopra ogni limite. Le promisi che un giorno l’avrei portata. Ero così innamorato di lei, ero così giovane. Sparì improvvisamente dalla mia vita, senza mai causare né troppo bene né troppo male. Di lei mi rimasero solamente alcune voci che la davano sposata e con un figlio in un’altra città. Era amore vero, l’unico amore che da veramente tutto senza mai ricevere niente in cambio. Era amore platonico. Più che amore era fede, come quella che un uomo può avere per una dea. E Giorgia. Lei era stata la mia storia più importante e più duratura. Mi aveva lasciato


il giorno del mio compleanno dopo due anni che eravamo stati insieme. Accusai il colpo, dimagrii diversi chili e persi momentaneamente ogni speranza per una vita felice. Con Giorgia era stato meraviglioso, breve ma meraviglioso. Ma è così, tutte le cose meravigliosamente belle durano poco. Conoscete qualcosa di bello durato un’eternità? Un film, un libro, un fulmine, un temporale, un arcobaleno, un viaggio, una frase, un compleanno, uno sguardo, un primo bacio, una fellatio, l’orgasmo, una canzone, la pelle d’oca, uno starnuto, i Beatles. Ogni cosa bella ha nel proprio dna la parola “fine”. Giorgia aveva messo la parola “fine” al nostro rapporto ed era completamente sparita. Non riuscii mai ad odiarla né ad avere rancore nei suoi confronti. Ma ne soffrii terribilmente nelle notti gelide di fine autunno, accarezzando nel buio il suo cuscino freddo. Piangendo mari di lacrime amare. Mi fece solo una grande tenerezza quando dopo tanto tempo mi ricontattò per sapere come stavo. Lei non stava bene, lo lasciava traspirare tra le parole tronche degli sms. Più ci lavorava più la sua vita andava a rotoli. Dando continuamente la colpa agli altri e senza mai rendersi conto che avrebbe dovuto fare i conti con se stessa. Avrei voluto fare l’amore con lei in quel momento. Avrei voluto regalarle un momento breve e meraviglioso. Nei nostri racconti era Parigi la città idealmente romantica. Se ricordo bene una volta mi chiese che se mai un giorno avessi voluto chiederle di sposarla di farlo a Parigi. Aveva condiviso con me ogni giorno di quei circa trecentosettanta giorni che eravamo insieme: la scalata verso il successo, il gonfiarsi del mio conto corrente, sopportato qualche messaggio compromettente di qualche modella, i nostri viaggi ai tropici, i Natali, le gite fuori porta. Mi aveva retto la testa mentre vomitavo dopo l’ennesima sbronza e mi aveva fatto rientrare da diversi brutti trip causati da acidi scaduti. Giorgia mi aveva voluto bene, non so se mi avesse mai davvero amato, ma provava per me un sentimento forte. Io la mia parte d’amante l’avevo recitata in modo pessimo. Sopperivo alle mie mancanze fisiche riempiendola di regali, la sorprendevo continuamente facendo così diventare la sorpresa un elemento comune. Così preferì dividere i nostri destini, accorgendosi che forse quel legame non era mai stato forte come immaginavamo. Giulia, Giorgia e tutta Parigi davanti. Il vento si stava facendo sempre più insistente, mi alzai il bavero della giacca e ripresi a camminare. Scesi le scalinate di Montmatre ed evitai con uno sgarbato gesto della mano i negri che approfittano del primo turista fesso per attaccare un braccialetto e, solo dopo averglielo stretto bene al polso, chiedergli dieci euro. Mi diressi verso Pigalle. Le vetrine erano ornate da decine di giocattoli erotici, abiti sexy, manette e frustini sadomaso.


La mia solitudine era presa di mira da vecchi spettinati odoranti di kebab con la barba ispida che mi invitavano nel loro locale urlando senza badare a mezzi termini: «Monsieur! Mister! Sex? Scopare! Scopare!» Arrivai fino al Moulin Rouge, attraversai la strada e tornai indietro. Ogni odore era mescolato, l’inquinamento sonoro era dei più variegati e mi domandavo insistentemente cosa si consumava dentro a quei teatrini erotici. Entrai in un sexy shop dove tra le centinaia di titoli di film porno, cazzi di gomma e ovetti vibranti, in fondo c’erano le cabine per la visione. Con tanto di seggiola e fazzolettini. Il mondo è un immenso film porno e la vita è solo la trama per non renderlo soltanto una cruda scopata. La maggior parte della persone su questa terra, oggi, cerca queste tre cose: denaro, potere, sesso. Non precisamente in questo ordine, senza magari dare a ognuno la stessa importanza. Ma poco importa, uno è causa diretta dell’altro. Il resto è subordinato da questi tre semplici elementi. I grandi della terra si misurano i missili e fanno a gara per infilarlo prima nel territorio dell’altro. Si misurano insistentemente le pistole facendo gara a chi ce l’ha più grande e a chi spara più lontano. Storie già sentite. Multimilionari ostentano le loro macchine di grossa cilindrata per sopperire le loro scarse dimensioni genitali e le discutibili doti amatorie. Anche la casalinga non vede l’ora di fare un pompino al marito e non c’è nulla che dia più potere nel vederlo soffrire mentre un secondo prima che venga, lei si fermi. Poi si invecchia, il desiderio sessuale diminuisce e quando il momento di tirare le somme si avvicina, si capisce che non da nessuna soddisfazione essere la tomba più ricca e più virile dell’intero cimitero. Così tutto si spegne, l’immensa bolla di sapone scoppia e rimaniamo solo delle carcasse di organi vaganti, glabri e rugosi, senza esserci mai accorti di aver mai vissuto veramente. Io ero uno di loro. Si stava facendo buio, la Place du Tertre, la piazzetta degli artisti di Montmatre, si stava lentamente svuotando. Entrai al Au Clairon des Chasseurs, un duo jazz musicale stava suonando La Ragazza di Ipanema. Ordinai un Croque Monsieur e una lager. Si sedettero vicino a me un gruppo di ragazze e con loro un ragazzo palesemente omosessuale. Chiacchieravano rumorosamente, erano felici. Nonostante il mio pessimo francese riuscii a capire quando una ragazza chiese alla sua amica se potevano scambiarsi di posto. Mi guardò e una volta seduta fece un sorriso compiaciuto. Mi guardò un paio di volte e io le studiavo la scollatura. Aveva un piercing appena sotto al labbro inferiore. Era carina. Io non sapevo quali sarebbero stati i miei piani e il panico che avevo avvertito prima in hotel era sempre in agguato lungo la colonna vertebrale. Non sapevo se avevo paura o se stavo solo evitando certi


pensieri. Don Chisciotte andava bruciato. Avrei voluto bere troppo quella sera, svenire in mezzo alla piazzetta degli artisti, risvegliarmi e ritrovarmi nel letto di casa mia. Ma non bevvi troppo quella sera, finii a fatica il mio Croque Monsieur e tornai in hotel. Fu una prima notte travagliata, forse anche grazie ai diversi caffĂŠ che mi ero bevuto il giorno prima. Mi svegliai parecchie volte cercando il lucernario della mia camera, alla ricerca di un qualsiasi punto di riferimento famigliare. Fuori tardava a fare giorno. Le lenzuola, come quelle di tutti gli alberghi del mondo, mi scivolavano sotto il corpo. Avevo freddo.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.