Il tabarro

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il Tabarro

Marco Bertoldo N. Matr. 263379 A.A. 2007/08 Clasdip Storia e Critica del Disegno Industriale Prof. Alberto Bassi


Indice

Introduzione storica

1

Storia di un indumento italiano

2

Le colorazioni

4

Differenze sociali

4

I sartori

5

La bottega

5

La creazione

6

Il tessuto

7

Indossare il capo

8

Il tabarro oggi

9

I modelli attuali

10

L’interesse dei giornali

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Fonti bibliograďŹ che

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Introduzione storica

Storia di un indumento italiano

L’etimologia del termine tabarro sembra risalire dal latino, dove il tabardus o tabardum indicava un capo che poteva spaziare dalla veste al mantello e quindi alla sopravveste. Secoli di evoluzione ne anticipano la nascita come cono nero a panno ruotante. L’800 è il periodo che ne decreta la fisionomia tale e quale arriverà alla memoria delle generazioni del XX secolo. Il tabarro nei secoli ha assunto colori, tessuti ed accessori diversi, è sempre stata una veste democratica, indossata sia dai nobili che dai contadini.

Ai suoi esordi nel XIII secolo, il tabarro si presentava lungo e nero, di forma rettangolare. All’interno delle abitazioni mal riscaldate il popolo si vestiva col sistema a cipolla; una veste sopra l’altra e nella stratificazione compariva esternamente il tabarro, foderato di pelliccia che poteva essere di scoiattolo o di coniglio. Nel corso del ‘500 il tabarro si accorcia e si sdoppia, ne arriva testimonianza dall’opera di Cesare Vecellio, cugino di Tiziano, nel libro Degli habiti antichi et moderni di tutto il mondo, nato dall’esigenza di far conoscere gli usi e costumi locali alle altre nazioni. Nell’opera di Vecellio sono presenti due modelli di tabarro: quello per i ricchi, formato da una giacca corta e manicata aperta davanti e quella per i galeotti al remo, ossia la divisa dei condannati, di stoffa grisa con cappuccio e stretta in vita da un cordone. Il tabarro fino alla fine del ‘500 si evolve senza arrecare disturbo all’ordine sociale, di conseguenza le istituzioni lo ignorano. Nel 1668 un patrizio si presentò al Maggior Consiglio intabarrato, lo scandalo fu tale che venne emanato un decreto che ordinava a tutti i patrizi d’indossare sempre la loro veste, pena cinque anni di carcere e mille ducati di multa. Malgrado il decreto, col passare degli anni il tabarro si impose, prima coprendo la toga poi soppiantandola per un fattore di comodità. Nel ‘700 a Venezia il lusso raggiunge l’apice grazie ai commerci con l’Oriente. La città esibisce una ricchezza che si manifesta in tutte le sue forme. Lentamente il lusso entra a far parte della vita dei veneziani, ma il Governo impose una morale per ridurre ogni eccesso 1 mediante le leggi suntuarie. Queste leggi si occupavano della lunghezza degli abiti, dell’altezza dei tacchi, delle acconciature, delle scollature. In occasione della visita in città di qualche sovrano straniero, quando si trattava di esibire la ricchezza e lo sfarzo della Serenissima, le leggi suntuarie venivano sospese e per i nobili era un onore poter sfoggiare abiti d’oro e d’argento altrimenti proibiti.

Si commetterebbe un errore anagrafico chiamandolo mantello, in quanto mantello o cappa è suo padre, che è stato addirittura più longevo, nato quasi duemila anni fa, accompagnato dal cappuccio poi sostituito dalla berretta e successivamente dalla parrucca. Il mantello è d’importazione austriaca ed è costituito dal Loden, tessuto di lana cardata che tende facilmente a sfilarsi.

Bacàni è il termine che identifica i contadini che vivono nei monti veronesi, che ancor oggi indossano il tabarro

Il mantello costituito dal Loden viene trattato con la tecnica della garzatura ossia viene sollevato il pelo superiore cosicchè la pioggia scivola senza penetrare

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Copertina dell’opera di Cesare Vecellio: Degli habiti antichi et moderni di tutto il mondo

Tabarro di velluto nero indossato dagli scudieri del principe 2


I panni d’oro e d’argento, simbolo assoluto del lusso vengono proibiti, ci si accanisce contro l’uso delle pellicce, vietandole sulle spalle e sulle vesti. Per eludere i continui divieti, i veneziani ormai abituati al lusso sfrenato ricorrono a diversi espedienti come ricoprire d’oro e d’argento le fodere interne degli abiti o nascondere il tutto sotto al tabarro. I sarti veneziani sforbiciavano la ruota che creava il tabarro tenendola un pò più alta sul davanti per limitare il rischio di inciampare salendo e scendendo dai ponti. Anche le donne indossavano il tabarro, veniva creato con panno di velluto o seta. Nato lungo oltre al ginocchio, col tempo si accorciò al punto di assumere l’aspetto di una mantella. Il crescendo del lusso in città si interruppe nel 1797, l’anno in cui cadde la Repubblica di Venezia, che venne conquistata da Napoleone ed annessa al Regno Italico. Spazzati tutti i lussi, anche il tabarro inizia un lento declino, soppiantato dalla moda francese. Ricomparirà nell’ottocento nelle popolazioni della pianura padana diventando abito popolare. Nel periodo fascista le prefetture cittadine iniziarono a dubitare dell’indumento per ciò che poteva nascondere sotto, vietandone o limitandone l’uso. Particolarmente presi di mira furono gli anarchici, che avevano assunto il capo come simbolo di ribellione, rafforzandone l’identità con l’aggiunta di un fiocco nero. Il tabarro era prediletto anche dai contrabbandieri, che procuravano mercanzia per vie traverse.

Le colorazioni Nel 1243 fu emesso uno statuto dai tintori di Venezia che indicava la loro capacità nel tingere i tessuti in turchino con l’impiego dell’indaco e in rosso utilizzando il Kermes ottenendo lo scarlatto veneziano; con abili tecniche tingevano gli abiti senza rovinarli. Con lo sviluppo delle manifatture e l’importazione di tessuti grezzi crebbe l’arte del tingere. Si utilizzavano limature di ferro, molature e ruggine combinate con l’aceto per ottenere certi neri. Come riconoscimento nei confronti della Chiesa per la fine della pestilenza nel ‘500 il nero divenne il colore dominante della città. La tinta si estese dagli abiti alle gondole che oltre ad essere nere dovevano avere determinate misure. Nel ‘700 i provvediementi del Senato confermano il divieto di indossare abiti colorati per i nobili. I vestiti delle donne che superavano i dodici anni dovevano essere neri e tutto nero doveva essere l’abbigliamento maschile.

Tabarro a metà gamba con cappuccio per i galeotti divenuti schiavi della galea.

Quadro di Canaletto del 1735 con vista sulla piazza di S. Marco; i nobili veneziani indossano tabarri neri mentre il popolo colorati

Differenze sociali Determinate caratteristiche del tabarro indicavano il ceto sociale di chi lo indossava. Il panno grezzo con rammendo casalingo distingueva i più poveri mentre la ruota era più ampia per i più ricchi, che non badavano al quantitativo di stoffa impiegata. Anche il cromatismo era sinonimo di distinzione sociale, il nero era d’obbligo per le apparizioni in pubblico delle classi privilegiate. I meno abbienti erano liberi di spaziare tra tutte le sfumature che andavano dal bigio al marrone. Il collo era in velluto per i più ricchi, lavorato a maglia per i più indigenti. I colori terminano il loro ruolo di indicatori di ceto sociale alla fine del ‘700, quando l’attenzione stilistica si concentra sui modelli.

1. leggi suntuarie: erano disposizioni che miravano a disciplinare i costumi morali, obbligando determinati gruppi sociali ad indossare segni distintivi;

Tabarro presente al museo Cà Mocenigo di Venezia 3

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I sartori

La creazione

L’importanza della corporazione2dei sarti a Venezia la si comprende esaminando la loro storia. Nel 1173 sono presenti a Venezia quando il doge Sebastiano Ziani offre la certezza documentata dell’esistenza dei corpi del mestiere. Orefici, gioiellieri, vetrai, come gli stessi sarti, si raccolgono in categorie che consentono di organizzare meglio la propria professione, così nacque nel 1391 l’Arte dei Sarti, scuola del settore tessile. Al corporativo sartoriale di Venezia potevano accedere anche le donne distinte tra Sartorese adibite al taglio e all’assemblaggio dei panni e le Mandarese addette al recupero e rammendatura degli abiti vecchi. La categoria era continuamente oppressa dai debiti a causa dei contributi da versare al Doge per le spese di guerra.

I clienti arrivavano in bottega col rotolo di panno che veniva steso dal sarto nei suoi 6 metri eliminando con grande perizia la minima increspatura e la più piccola bolla d’aria. Nella parte centrale del tessuto veniva segnato col gesso un modello a mezzaluna con l’incavo del collo, quindi il modello veniva ribaltato per tracciare l’altra metà del tabarro; collo e sottocollo venivano ritagliati dal panno restante e se avanzava ulteriore stoffa ci si ricavava un cappello. Le due mezzelune venivano unite da un’unica cucitura perfettamente lineare sulla schiena con l’aggiunta del collo. Il capo è privo di taglie, lo si allunga o lo si accorcia ma la misura rimane unica. La tipicità della creazione sta nel taglio a vivo, cioè quando una stoffa viene tagliata dalle forbici senza sfilarsi, senza richiedere alcuna cucitura; questo dipenderà oltre che dalla bravura del sarto anche al trattamento al filo del 3 tessuto e all’armatura del filo stesso. Il taglio a vivo resta la prova d’arte con la quale il sarto ricavava la grande ruota, mai uguale alla precedente, ogni capo era a sè stante. Sulle aperture ogni tabarro veniva bordato con raso di seta mentre il colletto veniva cucito e sostenuto da un’anima in canapa. L’ultima operazione consisteva nell’apporre ai lati del colletto i mascheroni: placche d’argento con impresso il leone di S. Marco, trattenute da una catenella. Nei tabarri popolari il gancio che trattiene il capo sulle spalle viene chiamato ganghero; il detto popolare “uscire dai gangheri” si riferisce a qualcuno che riesce a far saltare il gancio in seguito all’ingrossamento del collo a causa di un’arrabbiatura.

Aprire una bottega non era affare semplice, non tutti riuscivano a superare la severa prova d’esame che qualificava “Maestri Sartori”. L’aspirante doveva sostenere una prova orale e dimostrare di saper tagliare magistralmente. La prova prevedeva il taglio della velada, equivalente alla giacca. La scelta non poteva cadere sul tabarro perchè richiedeva un’estrema competenza nel taglio e l’utilizzo di una base d’appoggio smisurata.

La bottega

La Fondamenta dei Sartori dov’erano presenti i fabbricati delle Corporazioni

Cucitura del tabarro

La bottega era identificata dallo stemma, al suo interno era presente sul pavimento uno spazio di 6 metri per 2, ben battuto e pulito, che rimaneva a disposizione dei clienti che giungevano col rotolo di panno sottobraccio e che richiedevano la confezione di un tabarro. La porzione di pavimento sarebbe risultata indispensabile per stendere la stoffa, tagliarla e ricavarne il manto. La mezzaluna del tabarro veniva tracciata con gessetti bianchi per indicare il contrasto su stoffe scure e pesanti, pastelli colorati per tracciare su stoffe colorate o bianche. Si utilizzava il ferro da stiro per stirare i capi, il cui peso era di 7 kg ed era alimentato a carbone.

La ruota di panno, con colletto e cucitura

I tabarri vengono chiusi con mascherone veneziano, con raffigurati i leoni o col mascherone d’argento dove viene impresso lo stemma della famiglia

3. armatura: unità minima dell’intreccio dei fili d’ordito e di trama;

2. corporazione: associazioni create dal XII secolo per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale;

I sei metri di panno vengono stesi e pressati in modo da togliere ogni bolla d’aria 5

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Indossare il capo

Il tessuto In passato per confezionare il tabarro veniva utilizzato il panno di lana, che veniva importato grezzo dalle Fiandre, dai Paesi Baltici, dalla Spagna e successivamente lavorato dai veneziani. Nel 1272 il Senato aveva messo a disposizione gratuitamente degli edifici a Rialto per chi volesse esercitare l’attività di trasformazione della lana. Per favorire la stabilità dei lanifici fu imposto ai pubblici ufficiali di vestire solo abiti prodotti a Venezia. Esistevano però dei problemi nella produzione dei panni finiti perchè oltre al processo di cardatura4 e tessitura,5 occorreva una gran quantità di acqua dolce per il processo di 6 follatura. La città di Venezia è circondata da acqua salmastra, fortunatamente l’aiuto arrivava dall’entroterra, Padova e Portogruaro erano in buoni rapporti collaborativi. Bagnando e pressando la lana dopo averla tessuta a telaio si provocava un ispessimento che la rendeva più idonea per difendersi dal freddo. Per creare il tabarro, il tipo di intreccio dei fili 7 8 utilizzato è la corda rotta in batavia.

La fila verticale di quadretti rappresenta un filo di ordito mentre l’orizzontale la trama. Il quadretto nero indica il passaggio del filo sopra la trama e con quadretto bianco, la trama passa sopra al filo; questa è la struttura del tabarro

1.il tabarro si trattiene a rovescio davanti a sè, tenendolo con le due mani, le braccia rimangono semirigide

2.tenendolo per il colletto si ruota attorno alle spalle, mentre si allarga lo si posiziona trattenendolo attorno al collo

3.il capo è indossato, lo si trattiene per il colletto e lo si sposta leggermente in avanti

4.con un colpo d’ala lo si fà avvolgere attorno al corpo

5.si porta un lembo oltre alla spalla, mentre il lembo sottostante scivola nella direzione opposta

6.dalle spalle in giù ci si trova protetti da un doppio strato di tessuto

Con la batavia si ottiene un numero rilevante di coloriture, fra cui le stoffe quadrettate, è una delle armature più impiegate nei tessuti per drapperia e laneria

4. cardatura: è un’operazione per mezzo della quale si aprono e sgrovigliano i fiocchi di fibre facendoli passare attraverso dei cilindri; le fibre vengono separate, orientate nello stesso senso e liberate dalle impurità; 5. tessitura: intreccio di due serie di fili, una forma l’ordito l’altra la trama; 6. follatura: operazione di lavaggio della lana in acqua calda per provocarne l’infeltrimento, rendendola più spessa, compatta e resistente; 7. corda rotta: particolare intreccio di fili che permette di ottenere effetti di disegno formati dal contrasto fra l’ordito e la trama; 8. batavia: intreccio di fili senza rovescio, è la più impiegata nella laneria; 7

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Il tabarro oggi

I modelli attuali

A riproporre il tabarro ai giorni nostri ci ha pensato Sandro Zara, artigiano tessile dell’entroterra veneziano, che dagli anni ‘60 ha iniziato ad interessarsi a questo capo. Dai ricordi dello stesso Zara, alla fine degli anni ‘50 al lunedì mattina al mercato di Mirano la maggior parte delle persone indossava il tabarro, abito popolare, che scomparve completamente col passaggio generazionale alla metà degli anni ‘60.

Il Tabarrificio Veneto confeziona 8 modelli di tabarro che rappresentano i tipi più interessanti raccolti nel corso della ricerca; i materiali utilizzati sono il panno nobile, il panno pastore, panno laguna e velaur alta uniforme.

Il Tabarrificio Veneto fondato da Sandro Zara, si propose di fare uno studio approfondito sui modelli esistenti, ricercando nelle soffitte i vecchi abiti, raccogliendone oltre 600 provenienti dal Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. Successivamente scelse di riproporre i modelli più interessanti ma senza successo di vendite, in quanto negli anni ‘70 il tabarro ricordava la povertà e la miseria del dopoguerra. Dovette aspettare i primi anni ‘90 per incrementare le vendite, avendo un notevole successo anche sul mercato estero come Usa e Giappone. ...”Questi sono i primi tabarri a sbarcare in America senza l’emigrante dentro”.

Modello Ruzzante: prende il nome dal commediografo Angelo Beolco, in arte Ruzzante, il cui padre faceva il notaio a Padova; Immagine tratta dal depliant del Tabarrificio Veneto

Mercante Padano: modello in origine utilizzato da un commerciante di granaglie che lavorava nel ferrarese;

Lo stesso Zara era affascinato dalla storia del costume e della tradizione lagunare. Iniziò a visitare musei e collezioni, ricercando le tradizioni popolari e raccogliendo capi usciti dall’uso e dalla memoria.

Brigantino: capo ritrovato nel castello di Paderna tra Parma e Piacenza. Era stato sequestrato ai briganti dal bisnonno del proprietario del castello che faceva la guardia; Sandro Zara fondatore del Tabarrificio Veneto

Caorliega: tabarro popolare originario della famiglia Munerati abitante in via Caorliega a Mirano;

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L’interesse dei giornali Centesimi: originario della famiglia Spolaore di Mirano detta Centesimi; capo corto per permettere a chi lo indossava di utilizzare la bicicletta con maggior facilità;

Lustrissimo Nobiluomo: il modello si ispira a quello indossato da un nobile veneziano, dove all’interno dell’abito c’era scritto prima del suo nome Lustrissimo, che stava per Signor;

Via Emilia: tabarro leggero e corto, presente nelle zone romagnole, fu indossato da Fellini;

Accessori

mascherone d’argento

fiocco anarchico

mascherone veneziano

spazzole per la pulitura del capo

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Fonti bibliografiche CESARE VECELLIO, Degli habiti antichi et moderni di tutto il mondo, Parigi, 1590 LEVI PISETTZK R., Storia del costume in Italia, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1964 MANCO C., I classici dell’arte: Canaletto, Rizzoli, 2003 PIZZATO F., Tessuti & C, Albano Sandro Zara Editore, Mirano, 1992 PIZZO-TURRI, Tabarro: storia di cavalieri, dame e sognatori, Mulino Don Chisciotte, Verona, 2004

Fonti orali Visita al Tabarrificio Veneto con intervista a Sandro Zara Intervista ad Antonello Zara, laureato nel 2004 con la tesi: “Il lusso accessibile”

Fonti web www.tabarri.it

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