NUMERO ZERO
MareNero NUOVE NARRAZIONI
CARLO BARLESI SARA CARUCCI PIERLUCA D’ANTUONO SABRINA DELIGIA
MARCO LISTRIERI IVO SCANNER ANTONIO TENTORI ALDA TEODORANI
MACABRO - ESTREMO - NEO-NOIR - INSOLITO - LUGUBRE - INQUIETANTE - ATROCE
″
Marenero è nuove narrazioni, uno sguardo su macabro, estremo, neo-noir, insolito, lugubre, inquietante, atroce
″
♠ Editoriale Ivo Scanner ♠ La decisione ♠ La scelta Sara Carucci ♠ L'umana morte Marco Listrieri ♠ Il debutto Antonio Tentori ♠ Il grande orrore Carlo Barlesi ♠ Gente morta Alda Teodorani ♠ Sottoterra Pierluca D'Antuono ♠ True detective Frammenti ♠ Messaggi in codice noir in mail & e-mail
editoriale
inquietanti come il fondo degli abissi, Ivo Scanner sente il bisogno di versare ancora molto sangue, Alda Teodorani crede che il futuro della letteratura siano i racconti, Antonio Tentori usa nel raccontare la sua sapienza narrativa Sono passati molti anni da sceneggiatore di da quel lontano 1994 cinema , e poi ci sono le a Trastevere quando si voci nuove, con la loro costituĂŹ il neo-noir. Le ansia di scrivere e di nostre narrazioni, le portare la loro oscura nostre tematiche, sono opera all'aperto. Gli rimaste le stesse. La altri verranno. violenza delle nostre parole non invecchia. Aggiungiamoci La voglia di raccontare immagini macabre, resta la stessa. atroci, anatomiche, Un caso fortuito ci ha articoli in tema ed fatto riunire; Sabrina ecco Marenero, per Deligia dirige il sito quelli che amano il lato Mareeonline e vi vuole oscuro. portare narrazioni Non li deluderemo.
3
oreneram
Un desiderio si espande e travolge le nostre menti e i nostri cuori: il desiderio di sangue. Il passeggero oscuro che sonnecchia dentro ognuno di noi non è mai sazio e noi vogliamo nutrirlo come merita.
marenero
Ivo Scanner La decisione Il signor Quirino è a un tavolo del suo bar preferito e come ogni giorno, prima di cominciare il lavoro, sta bevendo un cappuccino mentre legge il giornale. È un rito cui non può rinunciare, fatto di tanti momenti sereni. Assaporare il calore del liquido che ingerisce, scorrere le notizie quotidiane soffermandosi solo sugli articoli più interessanti, osservare gli altri clienti e il loro comportamento. Gli piace guardare le persone nel bar, alcune conosciute, altre ignote. C’è tanta gente, a quell’ora del mattino, nel suo bar preferito. Oggi i suoi occhi si concentrano sugli articoli che parlano della strage di pochi giorni fa. Il pullman pieno di bambini fatto esplodere da una bomba telecomandata in una piccola città. Una strage, dodici bambini uccisi, fatti a pezzi dalla bomba, il rudere del pullman diventato icona della violenza indiscriminata. La data simbolica scelta, la festa della Liberazione,
4
ha colpito tutti come un segnale cupo e terribile da parte di forze oscure. Nessuna rivendicazione, nessuna motivazione plausibile per un delitto così atroce. Nessuna pista per gli investigatori. Ma un indizio importante: una telecamera di sorveglianza ha ripreso un uomo che senza dubbio è l’assassino. Il breve filmato è stato proposto da tutti i siti di informazione. Il signor Quirino l’ha visto su youtube, guardandolo e riguardandolo più volte. Immagini sgranate, riprese da un’angolazione assurda, da una telecamera piazzata in una posizione che sarebbe parsa bizzarra persino a un regista d’avanguardia. Si vedeva un uomo sulla sessantina, ben vestito, ma non appariscente. Un impiegato qualsiasi, in una città qualsiasi. Poi metteva una mano in tasca e di certo premeva qualcosa: un pulsante, un numero su una tastiera, il signor Quirino non lo sa. Un attimo dopo l’immagine si muoveva per un secondo, scossa dalle vibrazioni dell’esplosione. Era certamente lui il killer, l’assassino, lo stragista. Per nulla turbato da quello che era accaduto, aveva tolto la mano
Mentre sfoglia il suo quotidiano, lancia occhiate ai clienti del bar. C’è una signora con il figlio che sta facendo colazione. Lei è una bella donna con lunghi capelli lisci, il ragazzo ha dei riccioli impertinenti e dev’essere un liceale in attesa di andare a scuola.
Poi vede un vecchio vestito di grigio, ben rasato e con fluenti capelli bianchi. Un intellettuale, si direbbe. E proprio davanti a Quirino, intento a bere una spremuta, c’è un altro signore sulla sessantina, con i capelli grigi pettinati accuratamente. Ha un cellulare appoggiato al tavolino, e lo guarda con insistenza come se attendesse una chiamata. È in giacca e cravatta, vestito di scuro, e Quirino nota che nemmeno un frammento di forfora si è posato sulle sue spalle. Abbandona la lettura e fissa lo sguardo sui capelli dell’uomo. Un taglio perfetto. Ma nota una stranezza: l’attaccatura dei capelli, intorno alle tempie. Ha un sobbalzo impercettibile. Rarissimo vedere chiome del genere. Eppure lui ha già visto di recente quei capelli. Su youtube, nel video che ritraeva lo stragista. Lo ha trovato, l’uomo che tutti stanno cercando. E’ lì, davanti a lui. Senza dubbio. Quirino si sente rabbrividire. Solo lui avrebbe potuto identificarlo, grazie all’ossessione per i capelli. Ma ora per Quirino si pone un dilemma. Cosa fare? Deve chiamare subito la polizia, rimanere
5
oreneram
dalla tasca e lentamente, tranquillamente, si era allontanato, fuoriuscendo dal campo visivo della telecamera. L’immagine era molto sfocata, i lineamenti dell’uomo erano indistinguibili. Del resto, la polizia non ha realizzato nemmeno un identikit, troppo pochi i dettagli di quella faccia che si possono reperire dalle immagini. Sarà perché il signor Quirino fa il parrucchiere, ma ha una vera ossessione per i capelli, fin da quando era bambino. Le acconciature, le capigliature, i diversi tipi di pettinature: ne è sempre stato attratto, e si considera un uomo realizzato e felice per aver potuto lavorare proprio come parrucchiere. Così si era concentrato sull’attaccatura dei capelli dell’uomo nel video. Aveva una particolare rientranza sulle tempie, piuttosto rara, lo sapeva con certezza un esperto come Quirino.
marenero
immobile e attendere l’arrivo degli agenti. Quella è la cosa giusta. E se invece ignorasse la sua scoperta? Se tacesse per non immischiarsi in una vicenda gigantesca, più grande di lui? Deve decidere in fretta, perché l’uomo può andarsene da un momento all’altro. Quirino sa che può fermare un assassino, consegnarlo alla giustizia. Ma sa anche che verrebbe catapultato in una situazione insostenibile. Commissariati, aule di tribunale, assedio dei mass media... Quirino è una persona riservata e timida, per lui esistono solo i capelli, da curare, tagliare, rifinire. Non potrebbe sopportare uno stress così forte. Allora Quirino deve affidarsi alla sorte. Lo fa sempre, quando deve prendere una decisione. Guarda le automobili parcheggiate. Ne fissa con lo sguardo una. Gira gli occhi verso la targa. Poi sceglie: numero pari o numero dispari? Se il primo numero della targa è dispari, farà ciò che deve fare, se è pari rinuncerà. Un giorno ha lasciato una donna, dopo anni di relazione, con quel
6
metodo. Pari o dispari. Il destino dell’uomo che ha ucciso dodici bambini è legato al numero di una targa. Quirino individua un’auto all’esterno del bar. È nera, qualcuno ha rubato l’antenna della radio, sulle fiancate ha dei segni di urti. La targa è visibile, chiara. Quirino guarda il primo numero della targa e decide. Poi si passa una mano tra i capelli e aggiusta un ricciolo fuori posto. La decisione è stata presa.
Ivo Scanner La scelta Il signor Alexander sta seduto sulla sedia di canna. Guarda le persone che ballano. Gli invitati hanno mangiato e hanno bevuto nella sala a loro riservata per il ricevimento di nozze in quell’albergo di Croff. Nella stessa sala di solito gli ospiti dell’hotel assaggiano birre e liquori. Sono quasi tutti ospiti anziani. Durante le
vacanze all’hotel riposano su poltrone imbottite, leggendo giornali e fumando la pipa. Gli invitati di oggi, invece, non sono quasi tutti anziani, sono quasi tutti giovani. Bambini e bambine di quattro anni, ragazze e ragazzi adolescenti, mariti e mogli sposati da meno di un decennio.
7
oreneram
Il signor Alexander non è sposato. È parente della bella ragazza che oggi si è maritata. La bella ragazza ha un vestito a fiori colorati e una coroncina altrettanto floreale le circonda la fronte. Lo sposo è vestito semplicemente, più scuro, con una cravatta evidente. Si sorridono davvero innamorati. Dormiranno all’hotel, questa notte, nella palazzina a due piani staccata dal grande edificio centrale. Domani si daranno il buongiorno con un bacio, prima di ripartire insieme per un breve viaggio d’amore. Il signor Alexander si alza dalla sedia di canna, esce dal salone dove tutti ballano e ridono. Cammina da solo, come sempre, lungo il vialetto tra gli alberi che dall’hotel arriva sino al greto di un fiume. L’acqua scorre tranquilla, lentamente. Il
marenero
signor Alexander trova un masso ideale per sedersi un poco, proprio in riva al fiume. Vorrebbe stare lì a riflettere e rilassarsi, lontano dai suoni della festa. Guarda il cielo, guarda gli alberi che si protendono quasi fino alla superficie dell’acqua. Guarda l’incresparsi leggero del fiume, sempre lento. E mentre guarda l’ondeggiare lieve, vede qualcosa che galleggia, davanti a lui. Sembra un sacco di stracci, oscilla leggermente, portato dalla corrente. Il signor Alexander osserva meglio: il sacco di stracci ruota su se stesso, sotto la spinta dell’acqua. E da un lato, adesso, il signor Alexander vede spuntare un oggetto
8
rosa e grigio. Si sporge e capisce. È una mano. Sulla destra del sacco ci sono anche dei filamenti che seguono il corso delle correnti. Capelli. C’è un cadavere nel fiume. Ora si è fermato su una pietra che sbuca dall’acqua e non prosegue più il suo viaggio. Resta fermo, con quei capelli sparsi sull’acqua che nuotano morti. Il signor Alexander sa che dovrebbe chiamare qualcuno, dare l’allarme. Sta per farlo. Poi si risiede sul masso, dove prima rifletteva. E torna a riflettere. Non dirà niente, il signor Alexander. È una bella giornata, tutti gli invitati sono allegri, la coppia di sposi balla e aspetta la notte. Non dirà niente. Quando il cadavere si sposterà dalla pietra che lo blocca, continuerà il suo itinerario e forse sparirà, senza dare fastidio a nessuno, senza turbare la gioia di chi festeggia. Rotolerà portato dalla corrente e poi sarà accolto dal mare. Il signor Alexander tornerà nella sala dell’albergo, prenderà un bicchiere allungato e berrà alla salute di un cadavere sconosciuto. E prima di sera bacerà la sposa.
Sara Carucci L’umana morte
Joliet aveva ventisei anni come lui quando Robert varcò per la prima e ultima volta la soglia del cancello principale. Lo accolse come accoglieva tutti i suoi figli, dando loro un posto dove dormire, pane e acqua da mangiare e castighi severi per le colpe che dovevano espiare: Joliet non aveva mai avuto figli – d’altronde non poteva averne – e il comportamento da utilizzare con i carcerati era ispirato a quello che tenevano le guardie. Così li osservava in silenzio, imponente e terrificante, in attesa che i loro crimini ricevessero la punizione adeguata. Robert non era diverso dagli altri prigionieri. Pregava il suo dio di essere liberato, attendeva il giorno in cui avrebbe rivisto la sua famiglia, raccontava alle mura di Joliet dei suoi fratellini;
9
oreneram
Nel giugno del 1884, il volto di Robert Frederick Galway era diventato tristemente noto a chiunque avesse i soldi per acquistare un qualsiasi quotidiano statunitense. I cittadini americani avevano imparato a riconoscere quel ragazzo dal volto butterato e gli occhi infossati come il “mostro di Rockdale” che, un giorno di primavera, aveva massacrato i vicini di casa con un martello da carpentiere, e con il passare delle settimane avevano dato luce alle più disparate ipotesi sulle cause del suo atto folle – o perlomeno questo era quanto Joliet aveva appreso dalle parole delle guardie. Robert F. Galway, in altre parole, era a quel tempo considerato il più crudele omicida che l’Illinois poteva vantare di esporre sui quotidiani, ma i suoi compagni di carcere sembravano considerarlo in tutto altro modo: Robert era l’ennesimo prigioniero
delle mura di Joliet, un uomo che dopo avere derubato, stuprato o ucciso la sua vittima era stato acciuffato dalla polizia e sbattuto in prigione. Era uno di loro, costretto a passare la vita in quel posto grigio e deprimente.
marenero
piangeva anche, di tanto in tanto, ripensando alla follia che l’aveva colto quel giorno di inizio estate. Nel breve tempo in cui rimase in prigione, non cercò di stringere amicizia con i suoi compagni di cella o con altri carcerati e Joliet poté solamente ipotizzare il motivo di quella intenzionale solitudine: Robert non era uno di loro, lui sarebbe stato liberato; creare dei legami con altri detenuti non aveva alcun senso, dal momento che presto sarebbero stati spezzati. Così, come Joliet, Robert osservava i prigionieri e ascoltava le loro conversazioni, rimanendo sempre in disparte. I suoi genitori assoldarono i migliori avvocati dell’Illinois, portando avanti una battaglia legale per cinque, lunghi anni. Alla fine, tuttavia, Robert F. Galway venne dichiarato colpevole e la sua condanna fu scelta: pena capitale. Ebbe il privilegio di essere giustiziato per primo sulla sedia elettrica, appena introdotta al Joliet Correctional Center, ma non aveva motivo di
10
gioirne. Il tre settembre 1889 sembrava un giorno come altri, un’esecuzione come un’altra, eccetto per Joliet: si era affezionata a quel ragazzo che di anni ne aveva quanti lei, che silenzioso si nutriva delle vite di altre persone – esattamente come lei. Joliet aveva visto morire molti carcerati, ma quel tre settembre fu sorpresa dalla freddezza delle guardie da cui traeva tanta ispirazione: sembravano distanti, eccitate com’erano all’idea di un nuovo metodo di esecuzione; parlavano di elettrodi inumiditi, di cinghie e di morte rapida e umana. Joliet aveva sempre pensato che la morte fosse umana – ecco perché lei sarebbe rimasta, al termine di ogni cosa – ma non vedeva come infliggerla a qualcuno continuasse a renderla tale. Apparteneva alla natura umana, però non c’era umanità in un omicidio. Robert aveva ucciso, Joliet ne era consapevole, eppure vedendolo accompagnare da due guardie alla sedia elettrica contava i suoi passi e sperava che non finissero mai; sudava e
sudavano le sue pareti – il direttore Strict la chiamava “umidità” – mentre Robert si avvicinava, veniva legato ai braccioli, recitava un’ultima preghiera. Joliet avrebbe voluto fuggire via, ma dovette rimanere immobile come una testimone involontaria di
quell’atto. Diciannove secondi dopo Robert F. Galway non esisteva più e il direttore Strict stava invitando Thomas Edison nel suo ufficio, pronto a brindare con lui per l’ottimo successo della sua invenzione.
oreneram
11
marenero
Marco Listrieri Il debutto Io posseggo un rimedio infallibile per il malumore, l’ansia e persino la depressione. Si trova in un cassetto del mio armadio e si tratta di un pesante oggetto metallico con la lama affilata, un coltellaccio da cucina. Mi basta guardarlo e qualsiasi traccia di insicurezza e anche di tristezza si trasforma nel fiero orgoglio di appartenere ad un ristrettissima élite. La causa per cui conservo il coltellaccio nel doppio fondo di un cassetto è che quel coltello è in realtà una sorta di tesserino, una specie di carta di identità: il coltello, infatti, segna il mio debutto nel mondo dell’omicidio. Sono passati quasi tre anni ormai dal mio esordio, quando ammazzai quell’energumeno a Villa Doria-Pamphilij. La scelta della tipologia di vittima è raramente casuale nel nostro campo e si tende
12
spesso a specializzarsi. C’è chi uccide le studentesse, chi gli omosessuali, chi i senzatetto e chi, come il nostro celebre caposcuola di fine ‘800, accoltella le prostitute. Io non sfuggo a questa legge non scritta e ho scelto le mie vittime tra gli uomini alti e robusti. Mi rendo conto che possono sembrare un bersaglio molto atipico, ed in effetti lo sono, ma diciamo che non mi è mai piaciuto avere a che fare con un avversario già battuto in partenza. No, le mie prede sono invece potenziali cacciatori, omaccioni insospettabili nel ruolo di vittime, persone spesso atletiche che repentinamente si trovano distese in una pozza di sangue! Anzi, il mutamento veloce dallo stadio di corpo sano e aitante a quello di corpo morto è una delle cose che mi piace di più tra quelle che faccio: mi affascina il concetto che un organismo possa passare in pochissimi secondi dalla perfetta salute alla morte. Qualcosa di molto simile avviene nei casi di impiccagione o di fucilazione, ma in quelle
occasioni il malcapitato è sempre più o meno consapevole di ciò che gli accadrà. Quando lavoro io, invece, l’ignaro giovanotto è del tutto spiazzato ed è per questo che mi piace assaporare sino in fondo tutte le reazioni espresse
dal suo volto. Il giorno del mio debutto la mia vittima (ho scoperto poi che si chiamava Mario) stava correndo alla tenue luce del crepuscolo tra fitti alberi. Da una mezz’ora circa faceva sempre lo stesso giro, ripercorrendo
oreneram
13
marenero
ad intervalli regolari il vialetto dove ero sdraiato io, unica persona ad essere in quella zona della villa a quell’ora. Debbo confessare con un po’ di vergogna che non ricordo con esattezza la dinamica dell’accoltellamento, evidentemente l’euforia mi offusca ancora la memoria ogni volta che ci ripenso… Ma ho delle immagini scolpite nella mente: la lama del coltello che affonda nell’addome e nella gola diverse volte; il suo ridicolo gridolino; la mia mano ricoperta di sangue… Ma la mia preferita è senz’altro l’immagine del suo sguardo. Quando scoccai i miei colpi, infatti, i suoi occhi espressero un miscuglio di emozioni davvero spettacolare: la sorpresa innanzitutto (fu il mio momento preferito); il dolore poco dopo, anche se non subito come ci si potrebbe aspettare; il terrore profondo ed infine l’abbandono mentre si accasciava a terra. La sorpresa che espresse il suo viso è impossibile da dimenticare! Il completo smarrimento che derivava dal verificarsi improvviso di una situazione assolutamente remota, la
14
totale mancanza di punti di riferimento, lo shock di quelle pupille sbarrate al massimo… indescrivibile! Dopo qualche secondo apparve il dolore, gli occhi si strinsero in fessure quasi impercettibili mentre il volto, prima teso, si contrasse in una maschera digrignante. Questo del dolore puntualmente è il momento che mi piace meno, ma fortunatamente è spesso seguito dal terrore. Con Mario fu stupendo, perché quando finii di colpirlo il suo sguardo mutò. Non c’era più sorpresa, non c’era più smarrimento, adesso cominciava la consapevolezza. Consapevolezza di trovarsi al cospetto di un assassino, consapevolezza del fiume di sangue che usciva impetuoso dal suo corpo, consapevolezza di star per morire. Il suo viso diventò pallido, per la prima volta mi guardò capendo chi ero: il suo assassino. Fu a quel punto che un terrore pieno si impadronì di lui, riflettendosi nei suoi occhi di nuovo sbarrati. È stato un vero peccato che io non abbia potuto vedere la mia di faccia quando mi godevo questo spettacolo, chissà che espressione
avevo io dal suo punto di vista! Comunque alla fine Mario distolse da me lo sguardo che cominciava a perdersi nel vuoto mentre il suo corpo cedeva pian piano: era il tempo dell’abbandono.
A loro modo tutti e quattro i successivi omicidi sono stati fonte di sensazioni uniche e memorabili, ma nessuno è riuscito ancora a raggiungere le emozioni che ho provato nell’assassinare Mario. Il coltello che ho usato con lui è l’unica arma dei miei delitti che ancora conservo e mi basta sfiorarlo o a volte anche solo vederlo per rivivere in un secondo quei momenti fantastici del mio debutto!
15
oreneram
Questo è un altro momento che mi piace parecchio anche perché varia molto a seconda delle vittime… Nel caso di Mario, ad esempio, mi è persino sembrato di scorgere un mezzo sorriso sulle sue labbra morenti! Poco dopo averlo accoltellato mi cambiai la tuta e corsi a lavarmi le mani alla fontanella, tutto eccitato. Tornai a casa pieno di me, euforico e col cuore a mille. Ero entrato nella villa come un grigio impiegato comunale, in evidente sovrappeso, e ne ero uscito come un omicida, come un arbitro della vita umana che camminava ad una spanna da terra, vera libellula che usciva dalla sua crisalide! Da quel giorno, come dicevo, sono passati quasi tre anni, durante i quali ho ucciso in maniera molto simile altre quattro persone. Questo credo faccia di me tecnicamente un serial killer, ma non ne sono del tutto sicuro. Per
quanto possa sembrare strano, infatti, nessuno mai ha messo in collegamento gli omicidi, anche perché sono avvenuti a notevole distanza di tempo l’uno dall’altro e soprattutto in posti lontanissimi tra loro come Roma, Napoli, Palermo, Trieste e una volta persino all’estero, a Vienna. Evidentemente le persone che ogni anno muoiono accoltellate sono così tante che quattro o cinque in tre anni non sono poi un gran numero. A onor del vero e vincendo la mia modestia devo anche supporre di essere molto bravo a nascondere le mie tracce, anzi non mi stupirei se altre persone fossero state incriminate al posto mio.
marenero
Antonio Tentori Il grande orrore La nostra casa è in penombra, come al solito. Mi muovo a mio agio tra i mobili e gli oggetti di sempre: la loro presenza mi conforta. Seduto sul letto, tiro fuori la minitelecamera dalla sua custodia: è pronta per riprendere. Poi, esamino con piacere la mia collezione di armi da taglio, sfioro le lame e ho un brivido, mentre immagino quello che tra poco avverrà. Anche oggi Sandra non tornerà a casa prima delle otto di sera. Non sembra neanche che siamo sposati, in realtà per me non è cambiato niente. Non poteva cambiare. Ho così tutto il tempo per dedicarmi alla mia speciale attività, a quello che ormai è diventata la mia vera vita, la mia gioia e la mia schiavitù. Si chiama Tamara, un nome esotico che mi sembra completamente inventato. È una squillo, l’ho raggiunta nel suo miniappartamento. Alta, capelli neri, sui trenta. Formosa, anche troppo, quasi felliniana. Mi accoglie con addosso un baby doll
16
e nient’altro. Provo un senso di disgusto, non so di preciso per cosa, ma c’è qualcosa di sbagliato in lei. Estraggo alcune banconote, le metto su un comodino. Lei sorride. Davanti al comodino c’è uno specchio. Posiziono la telecamera, l’accendo. Mi avvicino a lei. Tamara sorride ancora, incuriosita. Arma utilizzata: rasoio. Sandra mi osserva senza parlare. A me piace. Detesto chi parla in continuazione, dicendo spesso cose senza senso. Preferisco il silenzio, l’assoluto silenzio che precede il sonno o l’oblio. Mi sento euforico, senza alcun motivo apparente. È pomeriggio inoltrato quando, per strada, incontro una prostituta. È una ragazza napoletana, sui trent’anni, di media statura, castana. Ha un bel corpo e un aspetto da dominatrice. Mi piace. La seguo fino a un condominio fatiscente. Lei si affaccia in una lurida guardiola, dove un ometto di mezza età le consegna una chiave. Non c’è ascensore. Facciamo una rampa di ripide scale. Guardo le sue natiche che ondeggiano a ogni passo sotto la gonna corta. La desidero. Entriamo in una
stanza squallida, con un letto, due sedie di legno e un tavolino, dove appoggio soldi e telecamera. Quando la vede protesta, non vuole che la adoperi. Aggiungo un’altra banconota, poi le chiedo di spogliarsi. Ora è nuda, con solo le calze autoreggenti e gli stivali. Accendo la telecamera. Il letto mi fa schifo, allora mi sdraio sul pavimento. Lei non sembra farci caso. Si inginocchia di fianco a me, dandomi la schiena. L’accarezzo, delicatamente. Sono uscito attraverso un
cortile ingombro di macerie, nessuno mi ha visto. Arma utilizzata: coltello. Io e Sandra siamo sposati da diversi anni. Mi sento protetto, a mio agio. Sandra non sa niente di me ma, a volte, mi pare che voglia difendermi da tutto e da tutti. Dalla vita. È primavera, ma fa ancora freddo. Sono di pessimo umore. Non so perché. Cammino senza meta e mi imbatto in una puttana. È una signora alta, ben
oreneram
17
marenero
vestita, sui quaranta. Mi sorride. Andiamo da lei, in un miniappartamento moderno e confortevole. C’è uno stereo con musica soft, un letto grande e comodo, riproduzioni artistiche alle pareti. Vado in bagno, pentendomi di non avere con me la telecamera. In una tasca del giubbotto infilo il coltello, in modo che mi sia facile impugnarlo, nell’altra un paio di guanti di pelle nera. Ritorno nella stanza. Lei è sul letto, in reggiseno e perizoma. Mi invita a raggiungerla. Butto il giubbotto vicino al letto, con noncuranza, poi mi sdraio. La signora mi tocca, con dolcezza si china su di me. Anch’io la tocco, impaziente. Dopo mi offre un whisky, che bevo avidamente. Quando esco il profumo della primavera mi avvolge, inebriandomi. Arma utilizzata: coltello. Sandra deve aver capito qualcosa, anche se non posso esserne del tutto sicuro. Eppure sono sempre stato attento a non lasciare niente in giro, cioé le armi o la telecamera. Non riesco a capire. Cosa avrà scoperto? Intorno alla stazione c’è sempre un pullulare di sbandati di ogni tipo. Non ci
18
passo mai molto volentieri, anche perché ultimamente la polizia controlla molto di più di una volta. Devo stare attento, se non voglio farmi prendere. Da lontano vedo una biondina, piccola e provocante. Diverse automobili si fermano e lei si accosta al finestrino. Faccio un ampio giro, in modo da trovarmi alle sue spalle. Nessuno l’ha ancora caricata. Decido di farmi vedere, le faccio un cenno e lei arriva. Non mi piace. Ha gli occhi lucidi, da tossica. Andiamo in una via deserta, vicino a un muretto. Lei rimane vestita e si inginocchia davanti a me. Arma utilizzata: filo d’acciaio. Nessuno ha fatto ancora dei collegamenti tra i delitti: non credo che possano risalire a me. Io non sono nessuno, solo un uomo tra la folla, uno dei tanti potenziali assassini di questa città. In questo momento Sandra è molto dolce con me, mi circonda di attenzioni che mi commuovono. Forse dovrei smettere. I trans, in realtà, non mi hanno mai attratto veramente. Forse mi piacevano di più prima, quando erano di meno e il fenomeno non era esploso
come adesso. Comunque, è capitato. Una sera vedo un trans che discute con un cliente, che poi se ne va in macchina. Allora mi avvicino. Non è male, capelli scuri, forme morbide, anche se l’insieme tradisce la sua origine maschile. Non sono armato. Andiamo dietro una fila di cespugli. Il trans resta vestito e armeggia con la cintura dei miei pantaloni. Non so perché, ma mi viene da ridere. Arma utilizzata: cintura.
Un altro transessuale, biondo, molto femminile. Non è da solo quando mi aggancia, ma non me ne rendo subito conto. C’è un brutto tipo, dentro un’automobile, che ci guarda. Deve essere il suo protettore. Ma ormai è fatta, non posso più tirarmi indietro. Il trans mi invita a salire in macchina. I due
Non so quanto potrà ancora durare. L’ultima volta ho rischiato troppo, stupidamente. Ho scavalcato una finestra e mi sono trovato in un vicolo. Lì c’era l’uomo del trans, che aspettava in macchina. Ho tirato fuori la pistola e mi sono accostato in silenzio al finestrino aperto. Quello si stava accendendo una sigaretta. Non mi ha visto. L’ho colpito in piena faccia con due proiettili e sono scappato. Tempo fa me ne sarebbe bastato solo uno. Sandra ha capito tutto. Ne sono sicuro. Devo trovare la forza necessaria per parlarle, se non lo farà prima lei.
19
oreneram
Per la prima volta ho paura. Paura di me stesso, di non riuscire a smettere di uccidere. Ma è come un’onda che mi sommerge ogni volta e mi impedisce di ragionare. Qualche volta Sandra mi guarda preoccupata, ma non dice niente. Non so cosa pensi di me, non voglio saperlo. Sento soltanto che devo continuare.
cominciano a parlano in una lingua che non conosco. Sono irritato e anche un pò spaventato. Arriviamo in una piccola garconniere. Avverto l’adrenalina scorrermi nelle vene. Metto la telecamera accesa davanti al letto. Il trans non dice niente, si spoglia e rimane in perizoma. Siamo sdraiati sul letto e penso alla pistola nascosta nel giubbotto, mentre sfioro con le dita i fianchi della mia prossima vittima. Arma utilizzata: filo d’acciaio. Arma utilizzata per il protettore: pistola.
marenero
La vecchia è laida, probabilmente alcolizzata, con i capelli stopposi tinti di biondo. La odio. Mi porta in una rimessa, una specie di deposito abbandonato, ingombro di cianfrusaglie. Ridacchia, non capisco di che, dice stupidaggini. Voglio ucciderla subito. Arma utilizzata: coltello. Si comincia a parlare di serial killer, di un mostro fissato con le prostitute, che uccide come se la sua fosse una missione, un perverso atto di giustizia. Parlano di traumi e di psicopatologie. Quante banalità! Magistrati, psichiatri, criminologi, poliziotti, giornalisti: nessuno ha capito niente. Si fermano tutti davanti all’evidenza, non vanno oltre i fatti, neanche i più sensibili di loro. Stasera Sandra mi ha avvertito di stare attento. L’ho presa tra le braccia e ci siamo baciati. La biondina mi guarda un pò diffidente, poi io sorrido e lei si rilassa. È piccolina, molto carina. Andiamo a finire nella stessa rimessa dove sono stato con la vecchia. Vorrei quasi andarmene, con una scusa, ma non posso. Vorrei, ma non riesco a muovermi e lascio che ogni cosa si
20
annulli, come sempre. Arma utilizzata: coltello. Sandra e io abbiamo fatto un giro in macchina, questa sera dopocena. Sono contento. Non c’è molta gente in giro e Sandra può permettersi di guidare con calma. Adocchio una biondina, ferma vicino a una cabina telefonica. È carina. Sento che Sandra mi sta osservando, ma non dico niente. La sera dopo incontro di nuovo la biondina, nello stesso posto. Andiamo in una disadorna garconniere. Mi sento in preda a una frenesia incontrollabile. Accendo la telecamera, poi afferro la ragazza da dietro e comincio a spogliarla, rudemente. Lei si ribella. Arma utilizzata: pistola. Ho la febbre e mi sembra di vivere altrove, in un’altra dimensione. Sandra è partita per qualche giorno, motivi di lavoro. Non mi va di restare da solo. Spero di non commettere imprudenze. Ha la pelle molto chiara per una nera, deve essere egiziana. È giovanissima, con i capelli raccolti. Mi porta in una pensione anonima, ma pulita. Si spoglia nuda, con
un’espressione indifesa: il suo corpo è elastico, invitante. Vorrei morderlo. Sembra offrirsi a me come fosse una vittima, mentre ignora di esserlo realmente. Accendo la telecamera, vedo che scuote la testa come se non capisse. Faccio un gesto vago. Mi sdraio sul letto matrimoniale: le lenzuola sono fresche di bucato. Lei si sdraia su di me, mostrandomi la schiena. Sorrido. Arma utilizzata: rasoio.
Dice di chiamarsi Bruna, è alta, i capelli scuri, molto formosa. Ha un’aria simpatica, sembra una donna sicura di sé. Con la sua macchina andiamo in una garconniere. Accendo
Finalmente Sandra è tornata. Festeggiamo con una cenetta romantica, in un ristorante dove andiamo di solito. Sandra mi guarda con insistenza, come se si aspettasse qualcosa da me. Non so decidermi a dirle tutto, non mi sembra il momento adatto, ammesso che ce ne sia uno. A casa abbiamo fatto l’amore a lungo, per tutta la notte. Instancabili, febbrili, mai così uniti. Valentina ha un caschetto di capelli neri, forse tinti. È piccola di statura, sui quaranta, volgare, antipatica. Andiamo in una pensione infima. Mentre si spoglia, accendo la telecamera e lei comincia a protestare, rimanendo mezza nuda. Mi innervosisce. Poi, la porta inizia lentamente ad aprirsi. La puttana non si accorge di niente. Nella ignobile stanza entra Sandra con passi di velluto ed è come se il mondo intero esplodesse dentro di me. Paura, desiderio, orrore. Sandra mi sorride e si mette un dito sulle labbra per farmi stare zitto. Poi si avvicina
21
oreneram
Sandra ancora non torna. Sto male, ho i brividi. Devo aver mangiato qualcosa di avariato, di recente. Sui giornali e in televisione non parlano più di serial killer, anzi alcuni delitti li hanno attribuiti a vendette della malavita comune, probabilmente compiute dal racket della prostituzione. L’ipotesi di un unico assassino per tutti gli omicidi sembra non venire più presa in considerazione. Meglio così, anche se in ogni caso preferisco stare sempre attento.
subito la telecamera. Ho voglia di concludere. Lei si spoglia nuda. Arma utilizzata: coltello.
in silenzio alle spalle di Valentina. Arma utilizzata: pistola.
marenero
Adesso sono felice. Non c’è stato bisogno di parlare con Sandra. Aveva capito tutto da sola, forse fin dall’inizio. Ero io a non aver compreso
22
quanto fosse dalla mia parte, quanto mi amasse. Ci guardiamo negli occhi e ci abbracciamo. È il nostro grande segreto. Linda è una allegra tunisina, un po’ grassa, sui trentacinque anni. Mi
porta in una garconniere, mentre Sandra ci segue a distanza. La nera si spoglia nuda. Sorride con denti bianchi. Ho lasciato la porta socchiusa. La telecamera è accesa. Sandra entra quasi subito nella stanza. Linda la guarda, sopresa. Poi, nei nostri occhi legge la sua fine. Arma utilizzata: filo d’acciaio.
Margherita è minuta, magra, sui vent’anni, castana. Una ragazza un pò fredda, scostante. Alba, invece, ha qualche anno in più, è maliziosa, con gli occhi chiari e un bel corpo. Nomi improbabili, per due slave. Andiamo insieme in una garconniere. Accendo la telecamera davanti a un letto rotondo, circondato da una parete di specchi. Parlano in slavo, escludendomi. La cosa mi infastidisce. Sono tutte e
Guardo nei loro occhi, prima che muoiano. Per sapere cosa c’è in quel momento, quale disperazione, quale terrore, quale splendore. Sandra uccide per impadronirsi di loro, dei loro corpi, delle loro anime. Riunirsi nello stesso corpo, nella stessa mente. Non riesco a comprendere bene cosa significhi, ma mi affascina quello che prova Sandra. Dà qualcosa in più ai nostri riti. Sandra vuole provare con un trans, perché la colpiscono da sempre. Un pomeriggio ne rimorchio uno: trentenne, biondo ossigenato, siliconato e abbrozzantissimo. Non so se a Sandra piacerà, ma non mi va di farmi vedere troppo in zone dove sono già stato altre volte. Andiamo in un piccolo appartamento. Un gatto
23
oreneram
Ora vorrei smettere, ma Sandra non vuole. Per lei è un nuovo gioco, un raffinato divertimento cui non vuole affatto rinunciare. Sandra non conosce timori, sembra non le importi niente del rischio che corriamo ogni volta. Per lei conta solo l’eccitazione, l’emozione dell’istante, il delirio del sangue.
due nude e ridacchiano. Le invito a baciarsi e toccarsi tra loro. Cominciano a esibirsi in giochetti lesbici. Le guardo e controllo con la coda dell’occhio la porta. Continuo a guardare le due ragazze sul letto e mi infilo i guanti. Sandra entra, armata di pistola. Loro non se ne accorgono, impegnate come sono. Forse sono veramente amanti. Arma utilizzata: pistola.
marenero
ci accoglie miagolando, c’è un ventilatore acceso e un divanoletto con molti cuscini colorati. Il trans si spoglia e rimane solo con un perizoma. Entra Sandra. Il trans la vede e io lo spingo sul letto. Siamo su di lui, come demoni. Arma utilizzata: ventilatore. Sandra è inquieta, mi spaventa. Sento che sta progettando qualcosa. Parliamo a lungo e decidiamo di smettere, almeno per il momento. Sta diventando troppo pericoloso, anche se nessuno sa che ora siamo in due ad agire. Prima di fermarci, però, Sandra vuole ancora un’altra ragazza. Altro sangue, altre estasi. Maria è una nera della Costa d’Avorio, dalle forme abbondanti, fasciate in un completo di jeans. Età indefinita, comunque giovane. Mi rimorchia lei, con un mezzo sorriso, dalle parti della stazione. Camminiamo per un pò e già comincio a spazientirmi. Sandra ci segue, come un’ombra. Alla fine arriviamo in un tetro palazzo, dove l’ascensore funziona ancora con le monete. Poi in un appartamento tenebroso, dentro una stanza anonima.
24
Vorrei andarmene, finire in fretta. Subito. Come se mi avesse sentito, nella stanza appare Sandra: stupenda e animata da un fuoco devastatore. Maria la guarda, sbarrando gli occhi. Arma utilizzata: pistola. Angela è greca, castana, sui venticinque anni. Magra, vestita di nero. Porta gli occhiali, che le conferiscono un’aria riflessiva, da studentessa. Ha un sorriso stanco. Penso che a Sandra piacerà. Siamo in una stanzetta, in uno squallido edificio vicino alla stazione. La ragazza si spoglia: sullo stomaco ha un tatuaggio a forma di serpente. Indossa mutande e reggiseno bianchi; il suo corpo è agile, sinuoso. Mi piace. La stanza è quasi interamente occupata da un letto. In fondo c’è un piccolo bagno. La greca mi sorride, poi impallidisce. C’è Sandra davanti a noi. È bellissima, sembra una Erinni, una Furia vendicatrice altera e tremenda, una creatura oltreumana che vive di sangue e di uccisioni, di sesso e di agonie. Ci avventiamo su Angela, ridendo. Arma utilizzata: coltello. Sandra ha squartato la ragazza greca, l’ha
preso comincia già a fare il suo effetto, ma ho ancora tempo. Sandra sposta la testa sul cuscino, dalla mia parte. Avrei preferito che non lo facesse. È troppo bella per morire. Ma deve essere così. Impugno la pistola con entrambe le mani, accosto la canna alla tempia di Sandra e premo il grilletto. La pistola fa clic. Sandra balza a sedere sul letto, scoppiando in una risata che mi fa rabbrividire. I suoi occhi sono colmi di gioia selvaggia. E di amore. E di odio. Ho infranto il nostro patto, l’ho tradita, pensando di ucciderla. Tutto mi gira vorticosamente intorno, mentre gli occhi di Sandra sono piantati come lame incandescenti su di me.
La telecamera riprende il letto dove Sandra continua a dormire. A sognare. È nuda, sdraiata bocconi. Irresistibile. Anch’io sono nudo. Reprimo a stento il desiderio di sdraiarmi vicino a lei, toccarla, fare l’amore. Ormai non c’è più tempo. Non possiamo continuare così, adesso lo so. Non si può uccidere per sempre. La telecamera mi riprende mentre mi avvicino a Sandra e le sfioro i capelli con amore, mentre l’accarezzo piano. Mi sento strano. Forse il veleno che ho
Quando mi risveglio sono nel nostro letto, a casa, tra le braccia di Sandra. Avevo preso soltanto un forte sonnifero, che Sandra aveva scambiato con il veleno. Lei mi guarda con dolce rimprovero, diversa dalla donna che rideva qualche ora prima. Ricambio lo sguardo e so che Sandra mi ha già perdonato. E so anche che tutto comincerà di nuovo, senza fine. Ma non ho paura, perché questa è la nostra indissolubile unione. Il nostro sposalizio segreto.
25
oreneram
letteralmente fatta a pezzi. Non l’avevo mai vista così. Ho avuto paura e mi sono limitato a guardare. Ora dorme, tranquilla, come se non fosse successo niente. Da quando ha cominciato a uccidere insieme a me è diventata ancora più bella, più misteriosa, più affascinante. Vorrei essere lei. Continuo a guardarla dormire e mi viene in mente un’idea terribile. Decido di scacciarla, ma non ci riesco. Ho trascorso tutta la notte così, nell’angoscia, nell’indecisione, nel panico. Poi, ho deciso. E sia, infine: maschio e femmina riuniti nello stesso corpo. Nella stessa mente. È stata lei ad avermelo insegnato. E ora ho capito.
marenero
Carlo Barlesi Gente morta Ha proprio l’aria del bravo ragazzo ma si nota, dal modo in cui indossa la giacca, che è più vecchio di quel che sembra. Se poi ci avviciniamo un po’ possiamo vedere che ci sono dei rari punti di bianco tra i suoi capelli ben pettinati e, se non fosse così perfettamente rasato, li troveremmo anche tra i peli della barba. Cammina nervoso lungo la banchina come molte delle altre persone che sono in attesa della metropolitana. Ogni tanto lancia veloci sguardi alle sue spalle, come se stesse cercando qualcuno. I suoi gesti si fanno impazienti e a essi si aggiunge il controllo ripetuto del lettore mp3 che tiene nella tasca dei jeans, da cui spunta come un viticcio il cavetto degli auricolari. Un movimento improvviso lo fa voltare verso il varco di accesso ai binari; la ragazza indossa come sempre un parka avana
26
stretto in vita da una cintura sottile, leggins neri, stivali marroni che le arrivano appena sotto il ginocchio e il solito zainetto rosso sulle spalle. Nel complesso un abbigliamento piuttosto dozzinale, che contrasta con il viso grazioso, reso ancora più gentile dal trucco leggero, sul quale spiccano le labbra carnose messe in evidenza da un rossetto aranciato leggermente opaco. “Sembra di Chanel” dice fra se il ragazzo accennando un sorriso. Nel frattempo la musica continua a riempirgli le orecchie e proprio mentre arriva il treno ecco partire il brano dei Queen. Il vinile aveva appena iniziato a girare sul piatto e la voce in falsetto di Freddie Mercury invadeva la casa quando il padre di Nico irruppe nella stanza del ragazzo, urlando: «Ancora ‘sta musica da froci? Ti ho detto che devi piantarla!» Il primo colpo lo sferrò allo stereo facendo stridere la puntina sul disco. Nico si alzò dalla sedia davanti alla scrivania lasciando cadere il libro di storia; mentre si chinava per raccoglierlo
«Salga, presto! Sta per partire.» Qualcuno lo chiama dall’interno del vagone e una mano gli afferra il polso trascinandolo all’interno mentre le porte si chiudono. «Ma che diavolo…» dice Nico ad alta voce, mentre il treno parte per la stazione
successiva. Una ragazza gli si avvicina, anzi, è la ragazza, proprio quella che aveva visto poco prima sulla banchina. «Mi scusi» - dice lei con un sorriso «la vedo tutti i giorni qui ad aspettare la metro e sembrava così distratto… Ho avuto paura che la perdesse è vestito così bene, oggi, e mi sono detta “avrà un appuntamento importante” e allora l’ho tirata dentro beh, non l’ho spaventata spero, chissà cos’avrà pensato. Oddio forse parlo troppo, non mi sono nemmeno presentata, mi chiamo Tiziana, ma per tutti sono Titti, anche lei può chiamarmi Titti.» Tutto questo lo dice quasi senza prendere fiato ma Nico non le presta molta attenzione è più concentrato sulla sensazione di calore che la mano della ragazza sta trasmettendo al suo polso e da lì su verso il cervello e poi di nuovo giù: prima al cuore e poi… Nico alza lo sguardo e la vede davvero come fosse la prima volta. Guardandola di sfuggita mentre erano entrambi in attesa sulla banchina, nei giorni precedenti, l’aveva reputata graziosa ma, ora che i loro visi si trovano a pochi
27
oreneram
il calcio lo raggiunse allo stomaco. Istintivamente il ragazzo si raggomitolò su se stesso, proteggendo la testa con le braccia, ma era la schiena il bersaglio che interessava al padre. L’uomo si sfilò rapido la cintura iniziando a menare colpi con la fibbia e sebbene Nico indossasse una felpa, questa non fu certo sufficiente ad attutire gli impatti del metallo sul suo corpo. Nico urlò, implorando il padre di smetterla, poi iniziò a piangere in silenzio, tenendo sempre il viso nascosto per paura che le lacrime potessero aumentare la rabbia del genitore. Finalmente una voce flebile si fece strada tra i rimbombi delle botte: «Sandro, smettila! Lascialo stare. Se ti vuoi sfogare vai a fare a botte coi tuoi amici, ma non toccare più mio figlio.»
centimetri di distanza, può affermare con sicurezza che è davvero bella. Dai suoi capelli ramati gli arriva un profumo fruttato, che un sottofondo amarognolo e il sentore di tabacco rendono ancora più intrigante. Nico non fuma,
stringendole la mano tra le sue. «Titti, mi chiami pure Titti!» risponde lei. «D’accordo, Titti. Io sono Nico.»
ma non è così integralista da non sopportare neanche l’odore delle sigarette, anzi in alcuni casi lo trova intrigante. E poi vedere una giovane donna fumare lo eccita sempre. «Grazie, signorina, anzi Tiziana.» dice Nico liberandosi il polso e
della metro. A volte Nico si nasconde e, all’arrivo del treno, quando lei sembra delusa dal non averlo incontrato, ecco che lui si lancia a capofitto dentro il vagone, urlando “Tahdah!” per lo sconcerto dei passeggeri e le risate
marenero
Da quel giorno in poi, per loro diviene un rito aspettarsi sulla banchina
28
Dopo un paio di settimane sono ormai entrati in confidenza, dando quasi l’impressione di una coppia giovane e spensierata. Infatti un giorno una signora, cui Nico vuole cedere il posto, gli risponde ridendo: «Grazie,
giovanotto, ma stia pure seduto vicino alla sua fidanzata. Siete proprio una bella coppia!» E alle timide rimostranze di Nico, Titti lo abbraccia e gli sussurra: «Shhh, Nico, non vedi che la signora sta piangendo?» In effetti, una lacrima scivola lenta sulla guancia della donna, come se stesse rivedendo nei due ragazzi un lontano riflesso della sua giovinezza. Nel guardarla di sottecchi, Nico nota che indossa gli indumenti tipici di una donna anziana con pochi mezzi: un tailleur nero liso e stazzonato, una camicetta a fiori che ha visto tempi migliori e un cappottino che in origine poteva essere color prugna. Ma ciò che lo colpisce è la collana, così stretta che sembra non la tolga da anni, come quella che portava sua madre. La donna era seduta sul bordo letto e gli accarezzava la testa. Lui sentiva la fragranza del suo profumo e soprattutto vedeva brillare le perle da cui non separava mai, neanche in casa. Erano passati cinque giorni dall’ultima sfuriata del padre, e finalmente era riuscito a mettersi supino, con la schiena ben
29
oreneram
di Titti. A poco a poco si accorge che lei ora sceglie con più cura gli abbinamenti di colore, ha finalmente abbandonato gli orribili leggins da cinque euro alla bancarella del mercato e soprattutto ha sostituito gli stivali con delle decolleté. Il tacco non supera i cinque centimetri e si capisce che è ancora impacciata, ma dimostra buona volontà, e al resto penserà lui. Durante quei brevi tragitti insieme Nico scopre che, mentre lui scende ogni giorno alla stazione di Castro Pretorio, lei prosegue fino a piazza Bologna. Col passare dei giorni lei gli racconta del suo lavoro come commessa in una profumeria, di quelle che vendono prodotti di uso quotidiano ma dove, a volte, anche grandi case presentano le novità delle loro collezioni. È lì che ha acquistato il suo rossetto Chanel, lo sconto dipendenti a qualcosa serve.
marenero
appoggiata al morbido guanciale di piume che teneva nascosto nell’armadio proprio per evenienze come quelle. Sua madre continuava a carezzarlo come un cucciolo, senza accorgersi che Nico era sveglio già da un po’, finché lui le bloccò la mano dicendo: «Basta mamma, per favore. Voglio stare un po’ da solo.» «Insomma, Nico, che ti prende? » disse la donna continuando a passargli la mano tra i capelli. «Lo sai che quando tuo padre è in casa non vuole sentire quella musica da… da capelloni!» «Uffa ma’,» ribatté Nico stizzito - «ogni volta che c’è lui in casa io devo fare il macho, ascoltare la sua musica heavy metal, giocare a pallone, possibilmente spaccando le gambe a qualche avversario e magari scoparmi anche un paio di compagne di scuola davanti a lui.» Nico si pentì in fretta di quell’ultima frase, ma non abbastanza da evitare il leggero schiaffo che lo colpì sulle labbra. «Ecco, ora capisci perché tuo padre ti riempie di botte, non fai altro che provocare. Su, da bravo, resta a letto ancora
30
un po’, che poi ti porto il brodo di pollo.» La donna si alzò e mentre si voltava per uscire dalla stanza a Nico sembrò di vederla piangere. “Bologna… uscita… lato… destro” dice la voce metallica dall’altoparlante del vagone. Nico balza in piedi mentre Titti lo guarda perplessa. «Nico, che succede, ti sei addormentato? Ti ho chiamato un sacco, ma non mi rispondevi. Siamo a piazza Bologna, devi tornare indietro se vuoi andare in biblioteca.» Lui alza lo sguardo senza vederla, poi le prende la mano dicendo: «Sai una cosa, ci vado più tardi in biblioteca. Ora ti accompagno al negozio e magari strada facendo ci prendiamo un cappuccino e un cornetto con la crema, che ne dici?» Gli occhi di Titti sembrano brillare a quelle parole, ma non fa in tempo a rispondere che Nico le afferra la mano e insieme iniziano a correre verso l’uscita. Dopo aver lasciato la ragazza alla profumeria lui torna indietro, riprende la metro e si reca alla biblioteca nazionale, dove trascorre un’altra infruttuosa mattinata
tentando di preparare la tesi di laurea. Sono da poco passate le tredici quando rientra a casa.
Nico siede sul divano e divora il pasto ancora bollente direttamente dalla vaschetta. Finito di mangiare, esce di casa e scende le scale fino alle cantine; arrivato davanti alla porta 3/b si ferma un attimo a controllare il lucchetto prima di aprirlo. Nel quartiere ci sono stati alcuni furti, «Meglio essere prudenti,» si dice il ragazzo. A tentoni cerca
Nico è preoccupato, sono due giorni che Titti non si fa vedere alla stazione della metropolitana. Mentre aspetta il treno camminando lungo la banchina un addetto alla sicurezza lo avvicina invitandolo a restare di là dalla linea gialla. Nico ringrazia e si sposta rapido mentre arriva il convoglio. Salito a bordo si siede e, un istante prima che le porte si richiudano, Titti entra nel vagone. «Scusami,» dice trafelata notando l’espressione di sollievo sul viso del ragazzo, «non sono stata bene, ma nulla di grave sai, non preoccuparti ora va meglio.» Lui sorride e le cinge le spalle con il braccio. «Sai Nico» riprende Titti - «in tutti questi giorni io ti ho detto tante cose di me: che vivo con mia madre, che il mio ragazzo mi ha lasciata sei mesi fa, che il lavoro alla profumeria non è granché, ma di questi tempi, con una laurea in antropologia non è che si trovi molto altro… E tu invece, mi hai detto pochissimo di te.
31
oreneram
Lasciata la tracolla su una sedia accende il piccolo televisore nel soggiorno e va in cucina a scaldarsi qualcosa per il pranzo. Dalla stanza accanto gli arrivano le ultime note della sigla del telegiornale. Mentre estrae la lasagna dal microonde il giornalista sullo schermo mostra al pubblico due foto “… ancora nessuna notizia di Marina Ricci e Lia Mattei, le due ragazze romane scomparse tra settembre e dicembre. Gli inquirenti confermano che non vi sono legami tra le due giovani ma fonti non ufficiali non escludono che possano essere state vittime della stessa mano…”.
l’interruttore e appena la luce della lampada al neon rischiara il piccolo locale sotterraneo, sorride: è tutto a posto.
marenero So solo che vai tutti i giorni in biblioteca a lavorare alla tua tesi, pensa che non so nemmeno in cosa ti stai laureando, buffo, no? E poi, non mi hai ancora chiesto il numero di telefono, ci credo che poi ti preoccupi.» Nico la guarda, poi le prende la mano, stringendola forse un po’ troppo forte. «Hai ragione. Sai che facciamo? Domani sera vieni a cena a casa mia, così ti racconto tutta la mia vita, ok?» Titti
32
ricambia lo sguardo e accetta la stretta come fosse una promessa. «Magari porta un dolce, io per quelli sono negato, anche se a volte passo il pomeriggio a guardare programmi di cucina, non riesco mai a fare qualcosa di mangiabile. Con la pasta, invece, sono imbattibile!» aggiunge il ragazzo mentre scribacchia un indirizzo su un foglietto preso dalla tracolla di pelle. Scendendo dalla
metropolitana le manda un bacio, soffiandolo via dal palmo della mano, un gesto un po’ antiquato che le scalda il cuore.
I due siedono sul divanetto e Nico le porge un bicchiere pieno di vino frizzante e fresco iniziando a raccontarle del padre camionista, sparito nel nulla da cinque anni, tacendo però delle botte e delle umiliazioni. Poi le parla della madre, morta l’anno scorso cadendo dalle scale. Titti beve un sorso, lo abbraccia, poi dice: «Oh, Nico, mi dispiace!» Si porta nuovamente il bicchiere alle labbra e tenta di cambiare discorso perché le sembra di vedere una lacrima luccicare all’angolo dell’occhio del ragazzo. «Ora però devi togliermi una curiosità: cos’è che ascoltavi con tanta attenzione il giorno che ci siamo conosciuti? L’ho notato, sai, che non ti separi mai dalle tue cuffiette.» Nico si volta, le
33
oreneram
Sono le 19:30 e Titti suona al citofono di Nico. «Sali, secondo piano!» risponde lui tenendo il microfono con la spalla mentre finisce di mescolare la salsa per le scaloppine, poi socchiude la porta e quando sente l’ascensore fermarsi grida: «È aperto! Entra pure!» E lei entra, annunciata da un profumo delicato di fiori di primavera. Indossa un tailleur color crema, la gonna appena sopra il ginocchio, una camicetta a piccoli fiori gialli, scarpe verde chiaro con un per lei vertiginoso tacco otto e una borsetta intonata. Sottobraccio ha uno spolverino panna, in mano la confezione di una pasticceria tra le più rinomate della zona. «Ciao, Nico! Che bella casa hai! Questo mettilo in frigo, è un semifreddo, spero ti piaccia!» dice Titti mentre lui le da un piccolo bacio sulla guancia e contemporaneamente la libera del pacchetto e del soprabito. «Benvenuta
nel mio regno!» dice Nico con un buffo inchino svolazzante poi, mentre le fa strada verso il salottino, aggiunge: «Ho preparato l’aperitivo, è un po’ alcolico, ma se vuoi ho anche dei succhi.» «No, va bene, un po’ di alcol ci vuole. È tanto che non ceno con un ragazzo. Su dai, raccontami un po’ di te.»
marenero
prende la mano e sussurra: «Gente morta, io ascolto gente morta.» Lei si ritrae un poco poi scoppia in una risata «Sei un po’ cresciuto per essere come il bambino di quel film… Aspetta, com’è che s’intitolava… “Mi hai fatto senso”… boh no, non era così…» «No, non sono un medium, se è questo che intendi. È solo la musica che ascolto, sai: Bob Marley, Jimi Hendirix, Doors, John Lennon, Elvis, Sex Pistols, Joy Division, T-Rex, i Queen. È tutta gente che non potrà più cantare o suonare, perché sono morti. È per questo che li chiamo così: gente morta!» Titti annuisce, poi sviene. La prima sensazione è il freddo. Poi, senza ancora aver aperto gli occhi, Titti si rende conto di essere legata. È sdraiata su qualcosa di duro e liscio, che sembra essere un tavolo operatorio, di quelli di acciaio dove si effettuano le autopsie. Stringhe di cuoio le cingono i polsi, le caviglie e la fronte. Non riconosce il luogo, ma dal poco che scorge delle pareti sembra una soffitta o forse una cantina. Poi un’ombra si muove alla sua destra e una mano le chiude la bocca impedendole di gridare. «Sshhhh. Stai zitta. Anche se
34
qui non possono sentirti, è meglio per te se stai zitta… Mamma!» Titti rabbrividisce. In parte è perché solo ora si è accorta di essere nuda, ma la cosa che più la spaventa è l’aver riconosciuto la voce di Nico. La mano che le preme sulla bocca si solleva, mentre il ragazzo entra nel suo campo visivo. Il volto è quello di sempre, ma nello sguardo c’è qualcosa che non aveva mai notato prima. Un lampo di follia che lo trasfigura, rendendolo spaventoso. Titti inizia a dimenarsi, ben sapendo che si tratta di un tentativo inutile, le cinghie sono troppo strette, ma non vuole mostrarsi troppo arrendevole. «Brava,» dice il giovane, «ora che sai di non avere più speranze finalmente ti ribelli. Eppure non hai protestato quando lui ti umiliava, quando… picchiava… ME!» L’ultima parola è gridata con così tanta forza che Titti non può credere che nessuno abbia sentito. Ma Nico sogghigna si avvicina alla parete e da un colpetto col pugno «È materiale fono assorbente, di quello che usano negli studi di registrazione. Mi è costato parecchio, ma svolge bene il suo lavoro. Posso urlare
quanto mi pare, nessuno mi sente mai. Non sentiranno neanche te, fra poco.» «Nico, perché mi fai questo? Cos’è successo fra noi, cos’è successo a te… io… io… non capisco. Mi piaceva stare con te, mi piaceva mettere i vestiti che mi consigliavi, pettinarmi i capelli come volevi tu…» Il pianto le strozza il resto in gola e Titti non fa nulla per fermarlo; in realtà non può fare nulla.
Poi Nico si alza in piedi, afferra di nuovo la sega circolare, la avvia, e si avvicina alla ragazza che riprende a dimenarsi e a gridare. «Vorrei tanto che tu lo avessi fatto quando era il momento giusto. Che ti fossi ribellata quando eri ancora in tempo, che gli avessi detto che non doveva toccarti, che non doveva picchiarmi. Ma tu chinavi la testa e mi insegnavi a nascondermi come te,
35
oreneram
Continua a piangere per un tempo che le appare infinito, mentre intorno a lei sembra non esserci alcun segno di vita, come se Nico si fosse volatilizzato; eppure non ha sentito il rumore della porta chiudersi, un posto come quello deve averne una piuttosto pesante. È ancora persa nel pianto quando di nuovo il viso del ragazzo le compare davanti e stavolta Titti non può trattenersi dall’urlare. Nico è abbigliato come un chirurgo, con tanto di mascherina e cuffietta, ma non è solo quello a farla gridare, sono il sorriso sghembo disegnato sul pezzo di stoffa che gli copre la bocca e l’affare circolare che tiene tra le mani, qualcosa che
somiglia tanto a una sega… «Sì, grida, grida ancora… più forte… HO DETTO GRIDA PIÙ FORTE!» le urla in faccia. Poi inizia a colpirla, gli schiaffi si susseguono, due, cinque, poi dieci, ognuno punteggiato da un “grida” ma Titti non può, è svenuta di nuovo. Quando riprende i sensi Nico è seduto accanto al tavolo su uno sgabello, anch’esso d’acciaio. Tra la mascherina e la cuffietta da chirurgo fanno capolino gli occhi ora nuovamente tranquilli, come se nulla di strano stesse accadendo. Sente la sua mano sfiorarle il corpo nudo, ma è una carezza delicata, apparentemente senza nulla di morboso.
marenero
a “non provocare”, mi dicevi. Ma io non volevo provocare, avevo solo quindici anni, mamma! E lui mi picchiava a sangue con quella maledetta cintura. Vuoi vedere i segni mamma? Ho ancora le cicatrici sulla schiena. Se tu fossi stata più forte, lui non mi avrebbe picchiato, lui non se ne sarebbe andato e forse avrebbe imparato a volermi bene.
36
E invece lui è scappato con un’altra, forse una delle tante puttane che incontrava durante i suoi viaggi e tu… tu sei rimasta, e ogni giorno vedevo le accuse nel tuo sguardo. Sì, “è colpa tua” leggevo nei tuoi occhi, “tuo padre se n’è andato perché si vergognava di te”. Poi sei caduta per le scale e sei morta… Ma adesso posso finalmente ucciderti di nuovo, mamma!»
Alda Teodorani Sottoterra
Leon. Suo padre è morto quando lui aveva tre anni e Gaia era appena nata, così né lui né la sorella se lo ricordano.
37
oreneram
Avvicinandosi alla porta della Dedicato a me, madre, Leon si chiede ancora alla ricerca della come mai lei non si è più mia innocenza risposata. Ma a lui fa piacere, mentre Gaia, ogni volta che ha un nuovo professore o La madre gli si avvicina in che vede un bell’uomo per silenzio, convinta che stia già strada, fa di tutto per attirare dormendo. Lui, immobile, l’attenzione della madre su raccoglie il bacio dalle quei maschi. labbra di lei. Più tardi, nel “Eppure, stiamo così bene,” silenzio della sua cameretta, pensa Leon, mentre si in mezzo agli orsacchiotti accosta all’uscio di noce, e ai pupazzi dei mostri, “non ci serve niente. E anche s’è toccato a lungo, senza mamma è felice così. Se ottenere alcun risultato, se fossimo noi due soli, sarebbe non una rabbia feroce contro ancora più contenta”. tutto e tutti. Mentre riflette sulle pretese Esce dalla sua stanza, a piedi di Gaia, Leon si appoggia nudi. I capelli biondi, lunghi al muro freddo con una fino alle spalle, luccicano alla mano, mentre con l’altra luce soffusa della luna che spinge leggermente la porta. filtra dalla finestra in fondo La madre è là, seduta alla al corridoio. La porta della toeletta, Leon la può vedere camera di Gaia, sua sorella, distintamente nello specchio. è chiusa. Invece da quella È interamente nuda, e si sta di mamma esce una striscia passando sulla pelle uno luminosa, che si spande sul strato di crema. È tanto bella pavimento. e Leon freme di piacere. Socchiude ancora la porta, e Leonardo ha sedici anni. si accorge che ora la madre Da quando è uscito il film lo sta fissando. di Besson, la storia di un «Vieni avanti, bambino killer che s’innamora di una cattivo» gli dice con un tono ragazzina, tutti lo chiamano affettuoso, leggermente
marenero
velato - almeno, così gli pare - di inquietudine. «Ma non stavi dormendo?» continua la madre infilandosi troppo in fretta la camicia da notte che stava lì, accanto a lei. «Mi sono svegliato e non riesco a dormire. Prendimi nel letto con te» mugola lui. Le si è avvicinato, si specchia negli occhi di lei, che hanno l’identico colore dei suoi, un
38
azzurro intenso, che, quando lo fissi, dà l’impressione di sciogliersi dentro, di avvolgerti interamente. Leon conosce il potere dei suoi occhi. Ma la madre, appena lui le è accanto, gli dà una spinta leggera, che però lo fa infuriare, la voce è poco più di un sibilo - è sempre così quando si arrabbia - ha notato il rigonfiamento sotto
le caviglie sottili, i polpacci potenti - è un campione nell’atletica, specialmente nei quattrocento - le cosce snelle. La peluria bionda, finissima, si infittisce vicino al pube e forma un groviglio leggermente più scuro, riccioluto, intorno ai testicoli e al pene, lungo e sottile, dal glande a forma di bocciolo, che ora sta stringendo nervosamente tra le dita. Un pensiero malato gli invade la mente intanto che ascolta la voce della madre, che sta parlando al telefono con qualcuno, e ride e ride sta ridendo di me, di me, di noi della nostra vita sicuramente si tratta di un uomo non mi avrebbe mai trattato così se non ci fosse qualcuno tra di noi Leon si rigira nel letto, a pancia in giù, premendo con tutte le sue forze e con il peso del bacino sottile contro il pene. La voce si espande ancora nella camera, sconfigge i giocattoli, annienta i mostri, gli pungola il ventre, lo fa arrossire di desiderio. S’è alzato di colpo. Sa quello che deve fare. Ha aperto ancora la sua porta. Esce nel corridoio, ora è completamente nudo. Non gli importa più niente di
39
oreneram
i pantaloni del pigiama no, questo non le piace e dice «Sei grande per venire nel letto con me. Eppoi mi sto chiedendo cosa ho sbagliato con te. Va’ nella tua camera». «Dammi almeno il bacio della buona notte!» «Te l’ho già dato prima. E non ce ne saranno altri. Va’ in camera. Domani parleremo un po’». Lo spinge ancora all’indietro, mentre gli occhi gli si velano di lacrime. Il corpo sottile si piega, come se lei l’avesse picchiato, mentre invece non l’ha mai fatto. Un dolore enorme gli invade la gola, le labbra, la bella fronte candida, e scappa fuori, correndo nella sua camera. Ha sentito, prima di entrarvi, il rumore secco della porta di lei che si è chiusa per sempre tra loro due, maledice il suo sesso, quel sesso rosa, appena sbocciato, che si erge di fronte a sua madre come volesse conquistarla, un sesso lontano, irraggiungibile e scatenato, che fa quello che vuole come se fosse padrone di tutto il suo corpo. È tornato a letto, che è ghiacciato. Non si infila sotto le lenzuola, ma accende la lampada, si toglie i pantaloni e comincia a fissare il suo corpo. Ha i piedi rosei e piccoli come quelli di un bambino,
marenero
quella casa, di quella sua vita. Vuole qualcosa di più. Ha aperto la porta di Gaia. S’infila dentro. Si stende sul letto accanto a lei, attento a non fare cigolare le molle. Appena sopra la testiera, il poster di un grande angelo custode protegge i sogni della sorella. L’ha abbracciata, e lei, ancora inconsapevole, si stringe a lui. Poi, l’ha baciata sulle labbra. Lei mugola, scosta la testa, gliel’ha detto un mucchio di volte che i baci sulla bocca le fanno schifo, infatti non ha mai baciato un ragazzo. Le preme la mano sulle labbra, perché s’è accorto che si sta svegliando. Lei resiste, sta cercando di sfuggirgli, si divincola come un gatto. Leon ha acceso la lampada. «No, no, non urlare...» mormora e già la sorella gli sembra spaventosa, con tutti quei capelli neri che ha ereditato dal padre e gli occhi nocciola spalancati. Lui ha scostato le coperte, continuando a tenerle una mano sulla bocca e il peso del suo corpo su di lei, le solleva la camiciola corta, non porta le mutandine, e poi l’ha penetrata di colpo, selvaggiamente. Con un movimento improvviso delle anche e una spinta dei piedi, lei è riuscita a sfuggire all’abbraccio, e
40
anche a liberarsi del sesso di lui, che la stava frugando. Il sangue della sua verginità si spande sulle lenzuola. Lui la riacchiappa, mormora qualcosa che lei non capisce e si incunea di nuovo dentro di lei, che ora sta lottando con più energia, gli ha morso le dita, e, appena Leon ritrae la mano, prorompe in un urlo mostruoso. Leon si guarda intorno, disperato. Poi, l’ha presa per i capelli, la trascina giù dal letto, lei ora è seduta sul tappeto, sta cercando di alzarsi e allora lui, incurante delle urla, dimenticando tutto, l’ha presa per il collo e stringe, mentre le sbatte forte la testa sul bordo del comodino, finché non l’ha sentita sciogliersi e arrendersi a lui. Ha gli occhi rovesciati all’indietro, e i segni bluastri cominciano a segnare il suo collo. L’ha sollevata, la butta a fatica sul letto, le gambe penzolano senza vita, e il sangue le scorre sula camicia. L’ha stretta, la culla, le lecca il sangue sul collo, poi sta di nuovo per penetrarla, quando l’ha sentita solo un soffio, un movimento diverso nell’aria nella camera e si è voltato. La madre è lì, terrea in volto, le braccia allungate lungo il corpo, immobile.
grande tappeto bianco intriso del suo stesso sangue, allora l’ha accarezzata, le ha chiuso delicatamente gli occhi, le ha strappato via camicia e vestaglia poi le si stende addosso in posizione fetale, ritrova il suo seno, succhia e morde, come fosse ancora un bambino e lei ancora sua madre la stessa donna che gli ha dato la vita. Le lecca il sangue dalle ferite, la culla, infila la testa tra le gambe, vicina vicina al ventre di lei come volesse tornarvi, quindi la prende dolcemente e il suo corpo sussulta, sprigionando il suo profumo e contemporaneamente l’odore del sangue, della morte, degli umori più intimi. Sprofonda ancora una volta dentro il suo corpo. Poi i capelli non sono più i suoi: sono già misere ciocche morte, opache, tinte di rosso. Gli occhi non sono più i suoi. Sono chiusi e resteranno così per sempre. Leonardo la guarda un’ultima volta, si lecca ancora il sangue di sua madre dalle labbra, poi sale in camera, si veste in silenzio, ed esce nel buio. Ha percorso le strade tranquille di quel quartiere fiorito di marzo, a pochi passi dalla Nomentana, dove la gente dice vivano tutti i vampiri di Roma. Non prova
41
oreneram
Sta rantolando come stesse morendo. «Maledetto... maledetto... » e prosegue a parlare, in una nenia senza senso, mentre lui si avvicina lei continua a non muoversi, e quando è a un solo passo da lei e si protende perché vuole baciarla, ha sollevato il braccio e gli ha dato uno schiaffo secco, dolorosissimo, sulle labbra. «Mamma! Perché non mi ami più!» urla Leon, mentre si inginocchia a subire i colpi di lei, che ora picchia alla cieca mentre lui cerca di alzarle la vestaglia, di rifugiarsi contro la pelle candida delle sue gambe, risale verso il suo sesso, segreto e nudo. Ma la madre se l’è scrollato da dosso, balza verso la sua camera, senza nemmeno accendere la luce. Leonardo l’ha seguita, anche lui correndo, ormai ne è certo, lei non lo vuole più. La madre corre al telefono, ha fatto il 113, ma lui, prima che possa parlare, ha strappato via l’apparecchio e, mentre la cornetta si stacca e vola a terra, l’ha colpita, e ancora, e ancora, sui capelli biondi di grano come i suoi, sugli occhi che sono i suoi, su quello sguardo terrorizzato no, non è più mia madre, non è più lei e quando infine lei riposa sul
marenero
niente, nessun dolore, né eccitazione. Si sente solo spossato, sente la presenza del suo sesso finalmente domato, finalmente sazio della carne di sua madre. Ha raggiunto la metropolitana a piazza Esedra, si guarda intorno: non c’è nessuno, nessuno che possa vederlo. È un rifugio sicuro. Solleva una grata e scende qualche scalino. E ancora una lunga rampa, e si ritrova in una galleria. I binari sono divelti, si tratta di un settore in disuso, sicuramente. Ogni tanto, si succedono file di lampade di sicurezza. Percorre la galleria alla ricerca di un nascondiglio, e, sollevata un’altra grata, scende accanto a un canale sotterraneo, dove una successione di nicchie a volta accompagnano il corso dell’acqua. Dalle grate sopra di lui filtra ancora un po’ di luce. La temperatura è maggiore che all’esterno. Si accomoda dentro la nicchia, stringendosi nel giubbotto. Lo sveglia un tremolio del terreno appena percettibile, seguito da un soffio d’aria che s’incunea lungo il canale. Guarda da che parte scorre l’acqua e s’infila nel verso opposto. Non pensa nemmeno per un attimo ad uscire.
42
43
oreneram
Sottoterra c’è il ventre della Grande Madre. Leon ha solo sedici anni. Percorre i canali, si stupisce dei grandi soffitti a volta delle fognature di Roma. Lo sporco delle gallerie, le privazioni, i giorni passati senza mangiare né bere non hanno cambiato il suo sguardo ingenuo. Potresti innamorarti di lui e non dimenticarlo più. Potresti desiderare di sodomizzarlo, mordendogli la nuca sotto quei capelli biondi. O vorresti farti penetrare da lui, dolce come il miele, solo per fissarlo negli occhi, cosa già sufficiente a farti godere. Però resta sempre solo un sogno. È come se all’ultimo istante anche lui svanisse dopo uno sguardo più attento. Per questo gli è facile vivere là sotto. Nessuno, tra quelli che incontra, l’ha mai molestato. È gente che ha dimenticato la luce del giorno. Le donne avvolte negli stracci lo guardano diffidenti. Qualcuna gli porge un pezzo di pane, in silenzio. Alcune lasciano che lui si attacchi alle loro bottiglie di plastica, pescate dai cassonetti della spazzatura e riempite con l’acqua delle fontanelle, alle stazioni. Leon sta dimenticando se stesso, non ricorda più il tempo di “fuori”. Un fioco
marenero
chiarore traspare sempre dalle pareti, come se l’acqua stessa fosse in grado di portare luce. Una volta ha trovato un coltello, per terra, vicino a una fermata della metro. Non è mai salito sulla metropolitana. Nessuno l’ha ancora visto, nessuno del popolo dei vivi. Perché lui è come se fosse morto. O meglio, non ancora nato. Ha raccolto il coltello, se l’è infilato in tasca.
scattare, un attimo dopo che le portiere, con un soffio potente, si sono aperte, verifica l’interno del vagone. C’è solo una donna. Leon si butta dentro. La donna ha la testa china, per terra accanto a lei una borsa per la spesa, non l’ha guardato, forse non s’è nemmeno accorta della sua presenza. Ha poco tempo. La borsa, vuole solo quella. Dalla plastica a scacchi, spunta una bottiglia di minerale. I capelli biondi di lei È come un piccolo animale, ondeggiano dolcemente. ormai. Ha molta sete e questo Lui sente che il treno sta lo spinge a guadagnare una decelerando, le si avvicina. delle fermate. Ha sentito Ha proteso una mano, sta per che i passaggi dei treni si afferrare la borsa quando lei stanno diradando e questo gli sgrana addosso i grandi gli fa capire che dev’essere occhi azzurri. Il treno si ferma, sera, la metro sta facendo le mentre lei gli agguanta la ultime corse. Arriva vicino alla mano e comincia a urlare. galleria illuminata, e guarda Le passa il braccio a bloccarle il marciapiede. Non c’è il collo e la mano corre a nessuno. Legge il nome della sigillare la bocca. Con l’altra fermata sui tabelloni rossi: mano ha afferrato la borsa. LEPANTO. È la penultima Poi si butta fuori e trascina prima del capolinea. Sta la donna verso la fine del dopo il Tevere, e dalle pareti marciapiede, verso il buio, metalliche scorrono lunghi mentre quella scalcia e si rivoli d’acqua, chiazzandole divincola. Ha lasciato la borsa di muschio. Sente tra i capelli sull’orlo del marciapiede, la l’aria della metropolitana spinge giù, buttandola per che arriva. In alto, i cavi della terra, tra i sassi dei binari. Lei corrente sibilano. Il treno urla, lui la strattona via, al è passato, si ferma con un riparo, dentro un corridoio cigolio. Leon è pronto a di passaggio tra una galleria
44
L’ha abbandonata lì, nella galleria. Dovrà riguadagnare le fognature. Ma prima, recupera la borsa, con un guizzo. Non sa se le telecamere piazzate sui marciapiedi registrino le immagini. Ma, in questo momento, non gliene importa niente. Ha avuto quel che voleva. Ha bevuto. Ora
può mangiare qualcosa. Il ricordo della donna bionda è dolce, perché era la prima volta che Leon aveva fatto l’amore, dopo sua madre. Questo l’ha spinto a risalire sempre più spesso, mentre nel cervello gli riaffiorano tutti i ricordi del sangue, del dolore e del piacere. All’inizio, non è andata bene. Il più delle volte è stato costretto a tornare nelle gallerie fognarie di corsa, e senza niente da mangiare. Si è nutrito di quel che trovava, insetti e ratti, che, quando stanno nel loro territorio, si sentono sicuri e si possono catturare abbastanza facilmente. Ora se ne sta lì, a fissare l’acqua che scorre, nel riverbero debole delle pareti. Una volta, ha visto passare un gruppo di gente. Stanno organizzando gite turistiche, come fosse una vacanza, nelle fogne di Roma, ma si tratta sempre di comitive, almeno sette-otto persone. Non può far niente, e poi non gli interessa. S’è alzato. Vuol provare ancora una volta. Percorre la galleria, e una figura gli si staglia di fronte. È una donna, la sente dall’odore. Una donna che ha visto solo un’altra volta, e di sfuggita,
45
oreneram
e l’altra. La donna continua a scalciare. Lui fruga in tasca, trova il coltello, lo fa scattare e glielo pianta in gola. Poi gli pare che lei non debba morire mai, perché continua a muoversi, anche mentre lui la prende, guardando il riflesso - ora è solo un debole luccichio - dei suoi occhi azzurri. Ricorda - è la prima volta? - sua madre che moriva e già si sente più forte, acquista energia mentre la donna rinuncia alla vita e lui la coglie, prendendola e nello stesso tempo bevendone avidamente il sangue che cola dalla ferita al collo. S’è spenta in un ultimo spasimo, rilasciando feci e urine, lui ancora attaccato al suo collo, come un vampiro. È stato proprio quello spasimo di morte che l’ha costretto all’orgasmo, e l’odore degli escrementi mescolato col profumo del sangue e dei capelli di lei.
marenero
mentre si infilava in una galleria. Ha lunghissimi capelli, ed è interamente nuda. Lei gli si ferma di fronte. Allunga la mano, gli sfiora la guancia con le unghie. Appena percettibile, la sua voce chiede: «Cos’hai da mangiare?» poi, al suo diniego, gli tocca ancora il petto e se ne va. Come l’altra volta, è salito sull’ultimo vagone. Adesso c’è un uomo anziano, con la coppola in testa, la barba di tre giorni e che, quando lui si avvicina, deforma il volto in una smorfia di ribrezzo. Sul sedile accanto a lui, una valigia e una busta di plastica da supermercato. «Cazzo vuoi, barbone?» gli ha chiesto il vecchio, mentre lo raggiunge il lezzo di rancido del suo alito. Leon l’ha preso per il collo, deve fare in fretta, lo costringe ad alzarsi e poi lo sbatte violentemente sulla sbarra di sostegno, finché non vede il sangue spruzzare
46
dalla fronte. Lascia che il vecchio si accasci per terra, raccoglie velocemente la busta e la valigia e corre via. Lei è all’imbocco della galleria, come se lo stesse aspettando. Leon guarda dentro la busta: un cartone di latte, che a lui non piace, un sacchetto di mele, uno di pasta. E niente altro.
«Miserabile!» borbotta all’indirizzo del vecchio, scuotendo i capelli, mentre la donna, seduta ai suoi piedi, sta bevendo avidamente dalla busta del latte. «Vieni, andiamo via di qui,» dice lui, raccoglie tutto, tranne la pasta, e corrono via. Hanno riguadagnato le fogne. Dopo che hanno
47
oreneram
divorato ogni cosa, Leon s’è spogliato. Sceglie alcuni abiti del vecchio e abbandona il resto. Se ne va senza voltarsi. È stato facile, entrambe le volte. Ora che hanno aperto una nuova linea della metropolitana, Leon ha a disposizione tante fermate da non doversi più preoccupare di essere preso. Sale sempre quando è sera tarda, quando la gente abbassa le difese perché ha sonno oppure è stanca. Spesso ha incontrato la madre, ha fatto l’amore con lei, l’ha uccisa ancora una volta e ne ha bevuto il sangue. Oltre al sesso, prende solo quello che gli serve. Da mangiare e da bere. Ogni tanto pensa di essere immortale, e che non invecchierà mai. Se oggi ti capitasse di incontrare Leon, quando sei l’ultima persona nell’ultimo vagone, specchiati nei suoi occhi. Sono innocenti come il sangue.
storieSerie visioni notturne
marenero
Pierluca D’Antuono True Detective In origine True Detective è il nome di quello che è considerato il primo true crime magazine americano, nato a New York nel 1924. Una pubblicazione sozza e oscura, con splendide copertine che hanno fatto scuola e titoloni come “Naked and shameless”, “The Riddle of Oregon Dismembered Brunette”, “The inside story of Kansas City’s shocking police massacre”, “Easy to kill, hard to die!”. La rivista ospita racconti hard-boiled, articoli ameni e pruriginosi ed epocali pubblicità in bianco e nero di portentosi occhiali a raggi X. Il magazine cessa le pubblicazioni nel 1995, nello stesso anno in cui prende piede, nel serial di Nick Pizzolatto, l’intricata indagine affidata agli agenti Rust Cohle (Matthew McConaughey)
48
e Martin Hart (Woody Harrelson). I due true detectives sono alle prese con una oscura serie di omicidi rituali, sullo sfondo di una New Orleans preda di un male apparentemente
e alla consuetudine nei suoi confronti. Strada facendo molto è andato perduto, altro è apparso superfluo, l’eccessivo carico di elementi e rimandi letterari è risultato difficile da gestire e si è schiantato contro un finale imprevisto e deludente. Il percorso che porta Pizzolatto a scrivere e realizzare True Detective parte nel 2003, l’anno in cui pubblica su «The Atlantic» i racconti brevi Ghost-Bird (sottotitolo What we think is a gesture of freedom is a symptom of our cage, una frase che potrebbe tranquillamente far parte del bagaglio retorico di Rust Cohle) e Between here and the Yellow Sea (che darà il titolo alla raccolta di racconti apparsa nel 2006). Seguirà nel 2009 il romanzo Galvestone: il protagonista, Roy, lavora per un mafioso di New Orleans e ama costruire omini di latta intagliati da lattine di birra Lone Star; dopo aver scoperto di avere un cancro terminale ai polmoni, scampa a un attentato e fugge in compagnia di una giovane prostituta e della sua bambina di tre anni. La narrazione si sviluppa lungo due piani temporali
49
oreneram
invisibile e dalle radici profonde, immersa in spazi sconfinati e vertiginosi e in un tempo incerto e desertificato (potrebbero essere indifferentemente gli anni Cinquanta o Settanta), avviluppato sul nastro di una struttura a flashback che frammenta la narrazione lungo almeno diciassette anni di inchiesta e tre piani temporali. Le intenzioni autoriali sembrano svelate con chiarezza fin dalla prima puntata, quando Hart decide di autodefinirsi come il «Regular type dude with a big-ass dick» dopo aver passato in rassegna i vari tipi di detective che conosce («The bully, the charmer, the surrogate dad, the man possessed by an ungovernable rage, the brain»). La sensazione è di assistere a un noir che racconterà, attraverso i canoni di genere e per mezzo di continui ribaltamenti di prospettive, le ossessioni, le ambiguità e il disfacimento di personaggi tormentati e complessi, dalle psicologie non complementari né irriducibili, messi di fronte a ciò che chiamiamo male, alle sue innumerevoli forme e declinazioni (pedofilia, corruzione, satanismo, infanticidio), al suo fascino
marenero
intersecati (1987 e 2008) e ospita tra le altre cose una banda di motociclisti che producono metanfetamina. La prima opera dalla risonanza importante rappresenta spesso, per un autore, il compendio di quanto fatto in precedenza. Vale, nel caso di Pizzolatto, per la concezione stessa e la costruzione dei protagonisti assoluti di True Detective (il “nichilista” Rust Cohle e i paesaggi sterminati della Louisiana), e per la riproposizione di un certo tipo di ambientazione e di temi già rodati come l’eterna lotta tra bene e male e la solitudine disperata come stato esistenziale d’elezione. Le cose si complicano quando entra in gioco una cornice sovraccarica e incontrollata di simboli ossessivi, atmosfere incerte e presunte afferenze letterarie, alcune rivendicate dall’autore, altre suggerite dalla visione. Pizzolatto riconosce l’influenza sulla sua opera di Chambers, Bierce, H. P. Lovecraft, Ligotti, Alan Moore e Grant
50
Morrison. Nomi impegnativi ed eterogenei su cui l’autore punta e insiste fino alla fine, ma che di fatto non determinano snodi o svolte narrative decisive e non incidono in maniera coerente sulla atmosfera stessa del
serial. The Yellow King, ad esempio, l’entità malefica e impalpabile collegata in qualche modo alla presunta e potente setta di pedofili (probabilmente il vertice stesso), è ripreso – solo nominalmente – da The King in Yellow, un’antologia di racconti fantastici, orrorifici e weird tale di Robert W. Chambers
(1895). La raccolta tratta di una misteriosa opera teatrale eponima che fa impazzire chiunque tenti di leggerla. C’è un momento in True Detective in cui sembra che il testo maledetto possa rivivere nel diario di Dora Lange (che
51
oreneram
riporta citazioni estese della inesistente opera teatrale) o nel quaderno da tax-man di Rust, ma è soltanto una suggestione che svanisce in fretta, insieme al diario, al taccuino e, nel finale, al Re Giallo. Il libro maledetto fa naturalmente pensare al famigerato “Al Azif” (“Il
suono degli esseri che strisciano nella notte”), meglio conosciuto come “Necronomicon”, il più famoso pseudo-libro della storia, che H.P. Lovecraft ideò (attribuendolo al poeta Abdul Alhazred, altro parto della sua mente) ispirato dall’opera di Chambers. E anche di Lovecraft, in True Detective, c’è davvero poco o nulla: mancano (seppure inizialmente suggerite) elementi sovrannaturali e divinità ctonie, non c’è traccia di “sublime immondo” e di “orrida estasi”, sono assenti l’anti-umanesimo e il materialismo che caratterizzano l’universo lovecraftiano, dove gli eroi della narrazione sono sempre fenomeni o condizioni, mai persone in carne e ossa (destinate alla perdita della ragione e alla trasformazione in ciò che più le terrorizza). Come ha scritto Giorgio Manganelli: «Nell’universo di Lovecraft solo il negativo può generare miracolo». Da Chambers, Lovecraft ha ripreso la figura di Hastur (“L’Innominabile”), un essere immaginario (ma anche un luogo fisico) che appare per la prima volta in Ambrose Bierce, l’autore del racconto breve Un abitante di Carcosa, un luogo immaginario, una
marenero
antica città in rovina che un uomo scorge in lontananza dopo aver attraversato un deserto sconosciuto ed essersi ritrovato in un cimitero abbandonato, dove leggendo il suo nome su una lapide scopre di essere morto. A differenza dell’uomo di Carcosa – che non sa di essere morto fuori da sé e può guardare nella notte come se ci fosse la luce – Rust sa di essere morto dentro dopo l’accidentale scomparsa di sua figlia, e torna in vita (e a vedere la luce) nel momento in cui scopre che la morte non dissolve i sentimenti e i legami resistono al buio. Rust rappresenta allo stesso tempo il più grande enigma e il maggior fraintendimento di True Detective: introdotto come affascinante nichilista e rigoroso interprete di un indirizzo nietzschiano senza fondamento, si rivela granitico nel suo dolore profondo e probabilmente affetto da una sindrome depressivamaniacale, che lo porta ad accumulare dissertazioni proto-filosofiche a senso unico sulla esistenza e fissazioni non superate che si scioglieranno solo nell’epifania finale. Sebbene risulti oscurato e penalizzato dalla
52
ingombrante presenza di Rust, Marty è sicuramente un personaggio più ricco e interessante, grazie a un abito mentale più variegato, e a una umanità complessa costantemente tormentata dai fallimentari tentativi di adeguarsi ai cambiamenti del suo ambiente. Oltre ai due true detectives, purtroppo, c’è il vuoto: i personaggi secondari restano abbozzati sullo sfondo (Meggie), trascurati (le figlie di Marty) o stereotipati all’eccesso (l’assassino). True Detective ha il merito di aver confermato gli schieramenti e le dinamiche di ricezione, apprendimento ed elaborazione di parte della nuova para-critica internettiana: da un lato i convinti capolavoristi che, perorati dall’imponente apparato citazionistico della serie e dallo splendore visivo delle immagini, la paragonano a Twin Peaks e Breaking Bad; all’opposto i rigidi detrattori che con tono sardonico la liquidano come un prodotto mediocre e sopravvalutato, costruito a tavolino per permettere allo spettatore medio (abituato ai procedurali classici) di compiacersi durante la visione.
True Detective è ineffabile. Vuole essere un racconto introspettivo di formazione che gioca con la commistione di generi (horror, noir, weird tale, procedurale), ma rischia di sembrare tutto e niente. In quanto serie antologica, rassomiglia più a un sofisticato lungometraggio di otto ore, tecnicamente impeccabile, che a un prodotto seriale classico. Non c’è il guizzo tanto atteso in coda, ma la
messa in scena di uno scontro riparatore e non risolutivo che comporta una catarsi martiriologica e una nuova consapevolezza (o normalizzazione) spirituale. Lotman diceva che, nella realtà, il problema puramente letterario del finale ha un suo analogo soltanto nel problema della morte. True Detective è stata rinnovata per una seconda stagione. Non ci sarà Matthew McConaughey. Al suo posto, pare, Brad Pitt.
oreneram
53
FrammentI LETTERE E MESSAGGI A BRANDELLI Per pubblicare i vostri “frammenti” scrivete a aldateodorani@gmail.com
marenero
Donne che scrivono romanzi erotici o pornografici ce ne sono a dozzine.Alcune sono anche molto brave e i loro racconti eccitanti. La prima parte delle età di Lulù ad esempio era notevole (...) Leggo tanto, tantissimo. Sul mio comodino ho sempre sette otto libri. Per spiegarmi un po’ meglio, adoro Ellroy su tutto (la sua Dalia Nera è un pugno nello stomaco) e Mc Bain, Montalban (grande il suo Pepe Carvalho) l’intramontabile Chandler. (...) per oggi ho scritto anche troppo. Chiudo qui con la promessa che mi farò vivo di nuovo (FDC)
Torno a interrompere queste giornate sonnacchiose e latenti, in cui il mio corpo combatte contro mulini a vento di grandezze ciclopiche (...) sta sostenendo le crisi tipiche di chi comincia a capire. (...) Questa notte ho sognato che litigavo con tutto il mondo. Ogni mente in contatto con me diventava mia nemica. (V)
A tutti gli effetti il trapano ad alta velocità e la “chainsaw” (la famigerata sega a nastro stile “non aprite quella porta” sono tra gli strumenti di tortura terminale dei cartelli della droga sudamericani. Allegria. Il che ci porta all’horror cine. Non mancherò di vedere il film quando arriverà a Milano. (...) Se non erro, Stivaletti è un mago degli effetti speciali che ha lavorato molto con Dario Argento (S.A)
Pochi giorni fa, per curiosità, mi sono affacciata allla presentazione di XXX, il nuovo “trasgressivo” romanzo della XXX. Mah, c’è da dire che ero un po’ troppo prevenuta verso di lei, ma vederla recitare la parte della vamp tormentata è stata una conferma ai miei sospetti ... è davvero troppo artificiosa per i miei gusti ma molti suoi fan erano lì adoranti... (M.S.)
54
Marenero - Rivista gratuita online di nuove narrazioni - macabro, estremo, neo-noir, insolito, lugubre, inquietante, atroce, diretta da Sabrina Deligia. Per proporre racconti da pubblicare inviate una breve sinossi (massimo 1800 caratteri) a marenero@mareeonline.com (in oggetto: sinossi racconto marenero) Progetto grafico e impaginazione: Elena Bortolini Direttore: Sabrina Deligia Elaborazione e scelta materiali: Alda Teodorani Autori Sabrina Deligia http://www.mareeonline.com Ivo Scanner ivoscanner@iol.it Sara Carucci http://www.efpfanfic.net/ Marco Listrieri twitter.com/marcolistrieri Antonio Tentori http://www.antoniotentori.it Carlo Barlesi cabal71@gmail.com Alda Teodorani http://www.aldateodorani.it Pierluca D'Antuono http://verderivista.blogspot.it