Marika Cassimatis
Ghiaccio bollente
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Il romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.
Prologo Sotto la tettoia di canne, la luce taglia come una lama i miei pensieri. I piedi affondano nella sabbia, i granelli mi scorrono tra le dita, è sabbia secca e bianca. C’è anche il mare, laggiù, l’onda si frange con un ritmo regolare che mi culla in questo spazio senza tempo, dove passato e presente si confondono. “Buongiorno mondo, questo bicchiere è per te” , mi fermo con il braccio alzato, la mano
impugna la
Margarita ghiacciata come una spada, in controluce il vetro scompone lo spettro luminoso.
Bevo avidamente
ma la sete non si placa, ho la gola smerigliata da sottili schegge di vetro.
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Guardo in controluce il bicchiere umido, il freddo del ghiaccio e il fuoco dell’alcool, un contrasto che mi rappresenta. Muovo i piedi avanti e indietro, sotto e sopra la sabbia e rido, a labbra socchiuse, come una pazza demente. Alle mie spalle il cameriere si schiarisce la voce. Gli porgo il bicchiere vuoto e ne ordino un’altro. Voglio bere fino a perdere i sensi e sciogliermi in quest’aria ruvida. Chiudo gli occhi. Ascolto il rumore del mare e sento una voce che chiama il mio nome, Sara, Sara. C’è Bartolomeo in cima allo sperone di roccia, mi saluta muovendo le braccia prima di tuffarsi. Ha nove anni, le mutande di cotone strette con un elastico sui fianchi magri. Un ricordo lontano, una vita precedente. Riapro gli occhi e scivolo con lo sguardo sul dorso delle mano che ho appoggiata in grembo, la pelle è rugosa, macchiata. Ci passo sopra l’altra mano, come a ricomporne la decadenza. Bartolomeo è morto e anche io sono morta.
E poi
risorta.
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Ma i conti non si sono azzerati. La discromia della pelle mi ricorda una storia incisa a fuoco sulla carne, una grafia segreta che solo io so leggere. Fermo il flusso dei pensieri e cerco il tremore nella mia anima, uno spasmo di dolore. La perdita non mi scalfisce, sono fredda come il ghiaccio. Diceva così, Bartolomeo. Una risata convulsa mi soffoca, ridere mi riesce bene, le iene ridono con una smorfia istintiva, che non proviene dal cuore. Le iene non hanno un cuore. Il cameriere mi porge il bicchiere umido, pieno fino all’orlo di alcool aromatico. Gli strizzo l’occhio e lui scivola via silenzioso, come un ombra. Gli altri clienti del villaggio sono nelle loro camere, a smaltire le bevute della notte e ad aspettare che il sole scenda di qualche grado sull’orizzonte. Non mi piace il chiacchiericcio volgare di quella gente, l’odore di lozione abbronzante, la loro oscena nudità. Hanno le facce stirate dal chirurgo plastico, le labbra turgide e inespressive come quelle dei pesci sul banco del mercato.
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Uomini e donne che giocano
ad una pantomima
tragicomica contro il tempo. Io il tempo me lo voglio sentire addosso, come una cappa di acciaio, la giusta pena per i miei peccati. Quando il popolo di plastica sciama verso il bar e la spiaggia, io me ne vado. Torno in camera, oppure mi faccio accompagnare in macchina lungo la costa. L’autista mi conosce e sa che cosa voglio, bei panorami, tranquillità e silenzio. Lui guida e io osservo il mondo dal finestrino, mi scorrono davanti le immagini vecchie e nuove. Talvolta si confondono e si sovrappongono le une alle altre. Mi sembra di riconoscere uno scorcio, un vicolo polveroso, un vecchio ambulante che trascina un carretto cigolante. Il rumore stridente, ecco, quello lo riconosco, l’ho già sentito. Il mio bicchiere è nuovamente vuoto, sento i passi felpati dietro le spalle, il cameriere ritira il bicchiere e ordino un’altra Margarita. La brezza si è rinforzata, un alito caldo fa ondeggiare i drappi di stoffa appesi alle colonnine scolpite nel legno che sorreggono la tettoia di canne. L’alcool e il caldo mi rendono leggera, i drappi bianchi sono le mie ali di
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farfalla, io sono una farfalla che si libera verso il cielo per essere folgorata dalla luce. Una risata amara prorompe dalle mie labbra secche. Alla spicciolata arrivano gli uomini e le donne di plastica. Mi alzo barcollando, gli occhiali da sole cadono a terra e mi chino a raccoglierli nella sabbia. Sono abbagliata dalla luce, li cerco al tatto. Una mano mi afferra il braccio, l’odore dell’olio solare è insopportabile, mi ritraggo con uno strappo. Vorrei correre ma le gambe sono pesanti. Affretto il passo incerto, la sabbia arroventata dal sole si infila nei sandali, cerco di guardare davanti e seguire una linea retta. Un breve tratto di spiaggia mi separa dai bungalow e impiego qualche minuto più del dovuto per attraversarlo. Quando raggiungo la stanza, il letto mi accoglie come un bozzolo fresco. Mi sveglio ed è già buio, il sole cala rapido all’orizzonte. Accendo il PC, aspetto una risposta che non è ancora arrivata. Non ho fretta. Oltre le spesse tende di cotone, filtra la luce dei lampioni del vialetto pedonale. C’è un via vai di gente, fuori dalla
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mia finestra. Sento lo scalpiccio, le sagome in controluce si muovono come in un teatrino delle ombre. La gente esce allo scoperto, quando tramonta il sole. Sul monitor compare la pagina della posta, il mio nick è Ghiaccio Bollente, la password GB184 dove il numero corrisponde ai giorni che ho trascorso in questo limbo arroventato dal sole. Lo devo aggiornare, oggi sono 185, cambio le impostazioni. Nessun messaggio nella casella. Nessuna nuova. Spengo il collegamento. Ho voglia di uscire, percorrere la litoranea fino al bar appartato, sulla scogliera. Ho bisogno di bere una Margarita guardando il mare. Chiamo l’autista alla reception, mi aspetta all’ingresso. Mi siedo davanti alla toilette, guardo lo specchio e osservo le rughe sottili attorno agli occhi, le pieghe che rendono grave il mio sorriso. Apro il barattolo della crema idratante e intingo le dita, poi la spalmo sul viso con gesti teatrali, come Cecilia, la ragazza terribile del romanzo di Francoise Segan. Massaggio la pelle con movimenti circolari. stato tratto dal libro,
Nell’ultima scena del film che è Cecilia – Jean Seberg piange e
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sussurra :”… so here I am, surrounded by my wall of memory, I try to stop remembering but I can't”1. Vorrei essere capace di piangere per l’uomo che ho amato e che adesso non c’è più. Lo specchio mi restituisce un’immagine inespressiva, atona, i miei occhi sono asciutti. Le iene ridono con una smorfia istintiva. Le iene non hanno un cuore. Percorro il vialetto pedonale fino alla reception. L’autista si chiama Tomiko, è giovane, i suoi muscoli si indovinano sotto la leggera camicia di lino. Guida la macchina come se fosse un trattore, sfibrando le marce. Qualche volta abbiamo fatto l’amore. Senza parlare, una transazione d’affari. Non so nulla di lui, ha una moglie, una famiglia? Sono mesi che mi porta avanti e indietro per le strade disastrate dell’isola, ha imparato a prevenire i miei desideri, le mie richieste. Che sono prevedibili, monotone, ripetitive. Cosa potrei fare in quest’isola sperduta in mezzo all’oceano, dove “…
1 sono circondata dal muro dei miei ricordi, voglio smettere di rievocarli ma non ci riesco”. 8
ogni cosa è funzionale al turista, il villaggio, i ristoranti, le spiagge? Percorsi obbligati che creano l’illusione della libertà. Anche Tomiko è uno straniero, chissà da dove viene e se questo è il suo vero nome. Assieme alla
divisa,
sapientemente tagliata sul suo fisico atletico, gli hanno assegnato un nome. Perché è esotico, armonizza con le palme e si può abbreviare in Tom, un nome passe par tout, ci sono tanti Tom intercambiabili, in quest’isola. Non mi pongo domande frivole, è finito il tempo in cui il genere umano mi incuriosiva. Ero giovano e alcune vite sono trascorse. Non mi importa chi sia realmente Tomiko, se prova dolore, la nostalgia, il rimpianto. Salgo sull’auto e nella notte tropicale siamo io e lui, avvolti da una penombra amica, che smussa ogni asperità. Guida lentamente, percorre la litoranea a bassa velocità. Troppo bassa. Attira la mia attenzione, lo guardo nello specchietto retrovisore ma i suoi occhi scuri sfuggono. La strada davanti a noi è illuminata dalle luci gialle dei fari che ondeggiano sull’asfalto corroso dalle mareggiate.
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Non dà gas a casaccio, come un bambino che gioca a fare il pilota. Come ha sempre fatto. Mi sporgo verso il sedile anteriore. C’è qualche cosa di insolito, lo percepisco ma non so definirlo.
E’
una
sensazione. Siamo arrivati sul promontorio, il bar è ancora vuoto, è presto per il popolo notturno. Mi siedo al tavolino sulla terrazza che ha il pavimento di vetro trasparente. Sotto ai miei piedi il mare è nero come il petrolio, i lampioni appesi al parapetto lanciano strie luminescenti che si sciolgono nell’oscurità. E’ una notte senza luna. Nel cielo milioni di stelle si proiettano nello spazio infinito. Tomiko mi aspetta fuori, in macchina. Il cameriere mi conosce, sta già preparando una Margarita ghiacciata. Quando posa il bicchiere umido sul basso tavolino di bambù, un brivido mi percorre la pelle. Lo afferro e poso le labbra riarse sul bordo cosparso di cristalli di sale. Il liquido fresco mi riempie la bocca. Ho un tarlo che mi rode, non riesco a rilassarmi. A metà bicchiere mi alzo e vado in bagno. Il finestrino guarda sul parcheggio. Salgo in piedi sulla tazza del wc e mi sporgo fuori. Lo vedo, in piedi vicino all’auto, fuma una sigaretta. 10
Non l’ho mai visto fumare, neppure dopo aver fatto l’amore. Mi passa per la testa un’idea assurda. Non è il solito Tomiko. E’ un altro Tomiko, giovane e bello anche lui, ma non è lo stesso. La corporatura è identica. Sfioro con la mano la pistola che porto sotto la camicia. Impugno il calcio, l’indice sul grilletto. Sollevo un lembo ed estraggo l’arma. Sento che è più leggera del solito. Libero il cane e guardo nel tamburo. E’ scarica. Le pallottole sono sparite. Guardo ancora fuori. Tomiko è immobile, appoggiato con la schiena alla macchina, nel buio si distingue la brace rossa della sigaretta. Scendo dal water, poso la pistola sul lavandino. Poi apro la cassetta dello sciacquone, infilo la mano sul lato esterno, a ridosso della parete. Trovo l’involucro che ho nascosto qualche mese fa, quando ho immaginato la scena che sto vivendo ora. Senza troppa convinzione, ho organizzato un piano di fuga per combattere la noia. Stacco dalla ceramica il nastro adesivo e prendo in mano un pacchetto avvolto nella plastica. La straccio con gesti 11
rapidi e prendo la pistola. Identica a quella che ho posato sul lavandino, ma carica. Controllo il tamburo, ci sono. Cinque pallottole. Più altre cinque fissate con il nastro adesivo all’impugnatura. Carico la pistola posata sul lavandino e la infilo nuovamente nella fascia, sotto la camicia. Lego la seconda pistola al polpaccio, con le cinghie di plastica della fondina. I larghi pantaloni di garza nascondono il rigonfiamento. Esco dal bagno e torno a sedermi. La terrazza è vuota, il mare risplende del riflesso opaco dei lampioni, la luna è ancora una promessa. Finisco il mio bicchiere. Ho bisogno di un’altra Margarita. Poi lo vedo, mi fa un cenno con la mano e si avvicina al tavolo. Rispondo al saluto. Io, Bartolomeo e Domenico. Un trio legato da un patto di sangue. Il nostro e quello di altra gente. Sulle mie mani non ne è rimasta traccia, di tutto quel sangue. Ci sono solo cheratosi e rughe dell’età. Bartolomeo è morto. Siamo rimasti in due, io e Domenico.
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PARTE PRIMA “ Come l’araba fenice, risorgi più bella dalle tue ceneri” disse Domenico, sedendosi di fronte a Sara. “ Mi aspettavo un ben trovata, come te la passi, roba del genere” rispose morbida lei. Sollevò il bicchiere e fece cenno al cameriere portarne un’altro. La notte sarebbe stata lunga. “Ghiaccio Bollente” disse Domenico guardandola con gli occhi di un innamorato impaziente, poi aggiunse“ era inevitabile che io arrivassi” , piegando il sorriso in un ghigno cattivo. “Ti stavo aspettando” rispose Sara e un brivido le accarezzò la pelle. Il cameriere posò la Margarita sul tavolo e attese l’ordinazione di Domenico. “Una anche per me, come ai vecchi tempi”, disse prendendo un sigaro dalla tasca interna della giacca. Si guardò intorno, come un turista qualsiasi. I pantaloni di lino gli davano un’aria da vecchio dandy, sciupato dagli eccessi della vita. I capelli sale e pepe, pettinati
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all’indietro, mettevano in risalto gli occhi taglienti e lo sguardo penetrante. Si accese il sigaro e aspirò lentamente, gustando l’aroma del tabacco stagionato. “Non avevi bisogno di tutto quel denaro” disse infine. “ Non è un fatto personale. Non me ne frega niente dei soldi. Il nostro sodalizio aveva il sigillo del sangue e tu lo hai spezzato.” Domenico scoppiò in una risata. Posò il sigaro, con la mano sinistra sollevò il bicchiere e bevve qualche sorso. “Bartolomeo doveva morire, non c’era più con la testa. Troppo pericoloso lasciarlo in circolazione.” Sara lo trafisse con lo sguardo: “Hai fatto male i tuoi calcoli. Hai schiacciato un moscerino e scatenato una belva”. “Una belva? Tu? Ti sottovaluti, sei un demonio anche se non so da quale mondo provieni.” Domenico bevve un lungo sorso dal suo bicchiere. “Vengo da quello che è stato il nostro mondo” rispose Sara, imperturbabile. Domenico allungò le gambe sotto il tavolo e aggiunse: ”Paradiso infernale o inferno paradisiaco?”
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“Il nuovo Tomiko l’hai scovato tu?” chiese invece lei. Poi si sfiorò con la mano i corti capelli grigi : “Mi hai colto in contropiede”. Domenico tirò alcune boccata dal sigaro e nell’aria si diffuse l’odore di cannella, del cuoio bagnato. Trattenne il sigaro in mezzo ai denti e appoggiò i gomiti sul tavolo, i palmi aperti, protesi in avanti. La sua mano destra era priva dell’anulare, troncato alla radice. La carne era accartocciata attorno all’osso, scura e oscena. “Cosa ti è successo?” chiese Sara allungando la mano a sfiorare la piaga. Domenico si tolse
il sigaro dalla bocca, lo sguardo
stanco: “E’ stato un fatto molto personale, come vedi. Ho perso il dito che aveva indossato il tuo anello. Ho sposato la donna sbagliata e ho pagato pegno”. Sara non riuscì a trattenere una risata tra le labbra pallide. “E poi sono io quella che fa teatro” biascicò afferrando la mano martoriata. Il suo corpo era scosso da un fremito. Domenico lasciò che Sara ispezionasse il suo moncone, che ne saggiasse l’asperità. Il cameriere, dietro al bancone, guardava la coppia e pensava a due amanti che si erano ritrovati. 16
Per mesi la donna si era seduta allo stesso tavolo e aveva ordinato una Margarita dietro l’altra. Da sola. In attesa del suo uomo. Il cameriere sorrideva, gli piacevano le storie d’amore. “Parlami di lui, di Davide.” “E’nostro figlio. Puoi ancora chiamarlo figlio. Sta da qualche parte, al sicuro, e crede che io sia morta”. “Non ha preso la tua intelligenza. E neppure la mia. Si è bevuto la messa in scena di quel poliziotto.” “ Spero sinceramente che se la cavi, ovunque si trovi”. “Encomiabile spirito materno” disse Domenico ed accennò ad un sorriso. Sara alzò il bicchiere e brindò: “L’amore si manifesta in molti modi.” “Non nel
tuo caso. Chiamerei la tua,
piuttosto,
indifferenza.” “Sono una donna che riceve e non sa dare. Non ho mai finto di essere quella che non sono. Bartolomeo, mi conosceva bene.“ I due rimasero a fissarsi da dietro i bicchieri.
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Poi Domenico posò il suo sul tavolo e si alzò. “Andiamo” disse. Fece scivolare
sul piano di marmo
i soldi delle
consumazioni e poi, con un gesto di rabbioso, infilò la mano destra nella tasca del pantalone. Trattene il sigaro con le dita della mano sinistra e si avviò verso l’uscita. Sara lo seguì. Dopo pochi passi Domenico si voltò verso la donna. “Lascia perdere la pistola, è scarica” e fece un breve cenno con la mano verso il fianco di lei. Sara si toccò la fascia sotto la camicia e non disse nulla. Il cameriere li vide uscire e percepì l’ostilità che emanavano i loro corpi. Mentre ritirava i bicchieri dal tavolino sulla terrazza, l’uomo aggiustava la storia romantica che aveva immaginato. Lei era bella, nonostante i capelli grigi e il disincanto degli occhi. Forse erano stati amanti, in un tempo passato. Ma del loro amore era rimasto solo l’involucro, secco e vuoto. Domenico e Sara raggiunsero lo spiazzo del parcheggio, il nuovo Tomiko era seduto al posto di guida.
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Lui aprì la porta posteriore e le fecce segno di entrare. Poi la richiuse. Sara abbassò il finestrino “Ci salutiamo qui?” “Andate avanti, io vi raggiungo” disse Domenico e batté un colpo con la
mano sulla carrozzeria dell’auto.
Tomiko accese il motore,
inserì la prima e uscì
lentamente sulla strada. Prese la direzione della laguna. Sara si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. I lacci che assicuravano la pistola al polpaccio le avevano rallentato la circolazione, con un gesto meccanico si massaggiò le cosce. Poi la mano scivolò sotto la camicia e provò ad impugnare l’arma. Riaprì gli occhi, l’auto scivolava lenta sul nastro d’asfalto, fendendo la notte con la luce gialla dei fari. Tutt’intorno era buio. Sara ricordava quel paesaggio, lo aveva perlustrato molte volte. Un tratto di costa disabitato, senza alberghi e ristoranti. Le rocce bianche erano coperte da una bassa vegetazione, piante coriacee, coperte di polvere. La strada finiva contro uno sperone di roccia che tagliava trasversalmente l’isola. Le dune di sabbia corallina racchiudevano una laguna dove i turisti venivano a fare
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fotografie subacquee. Anche Sara si era immersa e aveva esplorato i fondali. L’auto si fermò. Tomiko spense il motore e la notte avvolse l’abitacolo. Rimasero in silenzio, Sara udiva il respiro dell’uomo. Allora estrasse la pistola e la puntò alla nuca dell’autista. Il colpo risuonò nella notte, il proiettile fuoriuscì dalla tempia di Tomiko e si perse fuori dal finestrino. Sara scavalcò il sedile anteriore, aprì la porta dal lato del guidatore e spinse fuori il corpo. Poi la chiuse, inserì il blocca porte e alzò i finestrini. Si appoggiò con la schiena al sedile e fece un profondo respiro. Tutt’intorno c’erano il buio e il silenzio. Girò la chiave che era rimasta inserita nel cruscotto e mise in moto. Senza accendere i fari, fece inversione e ripercorse a ritroso la litoranea. Non c’erano altre vie di fuga, la strada terminava nella laguna. Doveva tornare verso l’abitato. Conosceva quella strada e si orientava anche senza luce,
aiutata dai
pilastrini
catarifrangenti posti lungo la carreggiata. Non si vedevano fari di automobili giungere in senso contrario. Improvvisamente le luci illuminarono lo specchietto retrovisore. L’auto era dietro a lei. 20
Sara premette sull’acceleratore. Era quasi arrivata al bar del
promontorio quando la pesante Land Rover
la
affiancò e cercò di buttarla fuori strada. La sua utilitaria non era in grado di contrastare il pesante automezzo. I pensieri girarono vorticosi nella testa della donna. Frenò improvvisamente e fece una veloce inversione. Si lanciò a folle corsa verso la laguna,
l’acceleratore
premuto al massimo. Il Suv era più impacciato, perse qualche secondo per seguirne la manovra. Sara aspettò che fosse nuovamente in carreggiata e quando si trovò a pochi centimetri dal suo parafango, fece nuovamente inversione. Il Suv sbandò e uscì dalla careggiata. Sara accelerò nuovamente, superò il ristorante sul promontorio e i fari del Suv le spararono addosso la luce degli abbaglianti. Aveva ancora del margine, premette sull’acceleratore e imboccò un viottolo sterrato. Se lo ricordava, quel sentiero. Conduceva ad una fattoria dove si coltivavano le palme da cocco. La strada terminava
davanti alla costruzione di mattoni. Sara
fermò la macchina e si gettò fuori dall’abitacolo. Prese a correre nella notte buia e si infilò nella piantagione. Non perse tempo a guardarsi alle spalle. Avanti, avanti. In fondo c’è il molo dei pescatori. Me lo ricordo. 21
Le energie le venivano meno, le mancava il fiato. Avanti, avanti, fino al molo. Si trovò ai margini della piantagione e continuò la sua corsa, costeggiando la riva, verso ponente. La roccia corallina era tagliente, il cuoio leggero delle sue scarpe si stava sbriciolando. Corse ancora, stringendo i denti, fino a che non raggiunse il molo. Saltò dentro ad un piccolo gozzo di legno e tolse gli ormeggi. Con i remi si allontanò dalla riva, seguendo la costa. Quando superò un primo sperone di roccia, si fermò. Ritirò i remi dentro la barca e si tenne aggrappata
alle rocce, le orecchie tese nel
silenzio. Il cuore le batteva nel petto come un tamburo, la sua gola era arsa per la corsa e per l’alcool che aveva bevuto. Aveva una sete tremenda. Non si udivano rumori, il mare era liscio e untuoso come il petrolio. Non c’era un alito di vento. Poi in lontananza sentì lo scoppiettio di un motore, si avvicinava lemtamente. Sara trattenne il fiato, non aveva possibilità di fuga. La parete di roccia era liscia, senza appigli. Dopo pochi minuti un faro la colpì in viso, c’era un uomo sulla prua del motoscafo. La donna lasciò la presa
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sulla roccia e si accasciò sul fondo dell’imbarcazione. Lo scafo leggero ondeggiò, poi tornò la calma. “Signora Kramar, signora Kramar.” L’uomo chiamava il suo nome. Non era Domenico. Sara si sollevò sulle braccia e si fece schermo con la mano. “Chi è?” gridò “Sono Kazumi, l’istruttore di diving. Signora Kramar, ha preso la barca di mio padre.” Sara si mise a sedere, le mani tra i capelli. Tremava. “Kazumi. Lanciami una corda e trainami fino al molo dell’albergo, non deve essere lontano.” “Riporto la barca a mio padre. Gli serve per pescare” “Te la restituisco, la barca, ma quando saremo arrivati al villaggio. Non chiedere altro, ti darò una buona mancia”. L’uomo rimase qualche istante immobile, la torcia puntata contro Sara. Poi prese una corda e glie la lanciò. Sara l’afferrò e l’assicurò con una gassa all’anello di metallo fissato alla prora. Il motoscafo prese il largo, trascinandosi dietro il piccolo guscio di legno. La costa meridionale dell’isola era
disabitata, in
lontananza si intravedevano, solitarie, le luci dell’albergo.
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La luna era alta sull’orizzonte e i riflessi argentati si allungavano sul mare. Sara si voltò a scrutare alle sue spalle,
in cerca di un inseguitore. Ma sotto la volta
tempestata di stelle, le due
imbarcazioni navigavano
solitarie, il borbottio del motore rompeva il silenzio in microscopici frammenti e faceva da sottofondo ad un’idea che stava prendendo corpo nella mente della donna. Un pensiero fugace lambì i meandri del cervello della donna. Il suo braccio era proteso verso l’acqua e la mano immersa nel liquido scuro, tiepido. Avrebbe potuto scivolare nell’acqua con tutto il corpo e perdersi nella profondità dell’abisso, arrendersi. Il mare avrebbe cancellato ogni cosa, del presente, della vita. Ma Sara
era troppo stanca o troppo ubriaca, afferrò
invece con forza il legno delle traversine, fino a farsi dolere le dita. L’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento. Ho ucciso ancora. La ruota non ha completato il suo giro. Quando raggiunsero il pontile dell’albergo, la donna si aiutò con il remo per affiancarsi al molo e scese a terra. Non aveva denaro, si sfilò il bracciale d’oro che aveva al polso e lo porse all’istruttore. Kazumi accennò un gesto di rifiuto, lei allora lo lanciò sul fondo della barca. 24
“E’ per tuo padre,” disse e poi si allontanò a passo veloce. Sulla spiaggia si stava svolgendo una festa, c’era la musica e il popolo di plastica ballava e si divertiva. Sara si infilò tra la folla, raggiunse il buffet e si versò alcuni bicchieri di acqua, la sete le stava facendo perdere il senno. Si calmò e bevve ancora. Non c’era traccia di Domenico. Si guardò i vestiti, i pantaloni erano sporchi di fango e grasso, c’era una macchia scura, lungo la coscia, forse il sangue di Tomiko. Domenico è arrivato e mi sta osservando, da qualche parte, nel buio. Con lo sguardo cercò di individuare l’uomo tra i clienti dell’albergo e incrociò i soliti visi inespressivi, persi in un’allegria alcolica. Tornò a guardare i suoi pantaloni e toccò la macchia scura sulla coscia, ancora umida. Le sue dita si macchiarono di un colore brunastro. Aveva bisogno di cambiarsi. Si allontanò dalla festa e si avvicinò al suo bungalow. Le tende delle finestre erano tirate, la luce spenta. Ma non poteva rischiare. Proseguì lungo il vialetto che portava alle altre unità abitative,
scivolò sul retro di alcune costruzioni
a 25
schiera. C’erano dei vestiti da donna, stesi ad asciugare. Prese una maglietta e un paio di pantaloni di tela e si cambiò. Poi sedette a terra, a ridosso della siepe di bosso, cercando di riflettere. I suoi sandali erano rotti, se li tolse e li infilò nel cestino dei rifiuti. Il piede sinistro le doleva, si guardò la pianta, segnata da tagli obliqui. Dove posso nascondermi? In lontananza sentiva i rumori della festa sulla spiaggia. Se Domenico avesse voluto prendermi, l’avrebbe già fatto. Quando ero sul molo. Invece sta aspettando la mia prossima mossa. Devo fare la mossa giusta. Sara aveva nuovamente la gola arsa. Decise di tornare sulla spiaggia e avvolse in un fagotto i vestiti macchiati di sangue. La gente ballava a piedi scalzi, sulla pedana. Lei si infilò tra i ballerini e prese un paio di scarpe abbandonate sulla sabbia. Le indossò e una fitta dolorosa le attraversò la gamba. Il piede sinistro pulsava rabbioso. Si tolse nuovamente le scarpe troppo strette e le gettò via. Zoppicando si avvicinò
al buffet, bevve ancora e
mangiò delle polpette speziate.
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Quindi si diresse al capanno sulla spiaggia, dove, al calare del sole, gli inservienti ritiravano le attrezzature. La porta era aperta e si infilò dietro una pila di cuscini. Ne prese uno e si coricò a terra, esausta. In lontananza giungevano le note della musica, un ritmo sincopato. La stoffa del cuscino era impregnata dall’odore dell’olio solare. Ebbe un brivido di disgusto e si raggomitolò in modo da occupare uno spazio minimo. Ho ucciso un uomo. Sono io che faccio schifo, non quella gente là fuori. Nel dormiveglia pensò alla mano di Domenico. Immaginò il tormento che gli avevano inflitto per causa sua. Anche senza un dito si sopravvive. Scivolò in un sonno privo di sogni. Si risvegliò quando le prime luci dell’alba filtrarono tra le canne del capanno. Rimase ad ascoltare i rumori, raggomitolata tra i cuscini sporchi. Sentiva la debole risacca del mare, in lontananza, regolare come il suo battito cardiaco. Si alzò e aprì lentamente la porta. La spiaggia era deserta, in mare i cormorani volavano a pelo dell’acqua, prendevano lo slancio per tuffarsi
gli uccelli
nel mare colore 27
petrolio.
Sulla sabbia c’erano
le tracce della festa,
bicchieri e piatti abbandonati in attesa che i ragazzi delle pulizie ricomponessero la devastazione. La sabbia sarebbe tornata pulita e liscia, intatta al passaggio del cliente più mattiniero. Sara sentì il bisogno di bere una Margarita. Strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani. Uscì sulla spiaggia e si diresse verso il molo, il suo passo era incerto, la ferita al piede la faceva zoppicare. C’era un uomo accovacciato sul tavolato di legno, intento a riparare le reti. Era Tomiko, il suo Tomiko. Quando la vide, il giovane si alzò in piedi e le venne incontro. “Madame, come mai a quest’ora?” era a torso nudo, i pantaloni arrotolati sulle caviglie. Aveva poco più di vent’anni e la visione del giovane colpì Sara con una pugnalata nel petto. Il falso Tomiko, quello che
aveva ucciso la notte
precedente, aveva avuto la stessa arrogante bellezza. E lei l’aveva falciata, senza esitazione. “Hai una barca?” gli chiese, quando riuscì a riprendere il controllo di sé stessa. 28
“Questa è una barca che posso usare” disse Tomiko indicando un vecchio gozzo a motore “Di notte vado a pesca” . “Ho bisogno di andare al porto, via mare. Adesso.” “La benzina è sufficiente”. “Vai nel mio bungalow, c’è il pc sul tavolo e una borsa di cuoio dentro l’armadio. Prendili, se non li trovi subito, non perdere tempo a cercare , vieni via.” Sara salì sulla barca e sedette ad aspettare. Si guardò la pianta del piede. Aveva dei tagli profondi, cercò di ripulire le ferite con le mani ma la sabbia si era infilata in profondità. Dopo alcuni tentativi rinunciò perché i tagli avevano preso a sanguinare. Allora immerse i piedi nell’acqua e rimase a guardare il volo dei cormorani. Quando si tuffavano, sollevavano uno spruzzo d’acqua e il mare si chiudeva sopra di loro come un sarcofago. Tornava a riaprirsi quando, con un battito d’ali, gli uccelli riemergevano vigorosi. C’era un banco di pesci che nuotava in quel tratto di mare, gli uccelli sembravano impazziti e lanciavano grida rauche. Sara si sentiva a disagio, l’umidità della notte le aveva lasciato sulla pelle una patina salmastra, i piedi le facevano male. 29
Mi sta aspettando, da qualche parte. Stiamo giocando al gatto e al topo. Io sono il topo. Ho sete, maledizione. Prese da terra alcuni sassi e li legò nel fagotto dei vestiti sporchi. Tomiko tornò con la borsa. Sara l’aprì, dentro c’erano il portatile, i documenti, della biancheria. Domenico, perché me li hai lasciati? Aprì il desktop del pc e lo avviò. L’isola era selvaggia e sperduta,
ma
era
ottimamente
servita
da
un
collegamento wifi. Si collegò alla rete e cercò gli orari dei traghetti per Tokyo. Il primo partiva a mezzogiorno. Cercò ancora nella sua posta elettronica ma il messaggio che aspettava non era arrivato. Scrisse un indirizzo e inviò una mail, poi modificò la sua password e spense il collegamento. “Andiamo, getta le tue reti come fai abitualmente, io mi metto sul fondo ” disse a Tomiko. Il ragazzo accese il motore e lo scafo si avviò lentamente, segnando l’acqua con una leggera increspatura che subito si disperdeva. Tomiko buttò a mare la rete e la sistemò per il traino. Quindi si sedette a fianco del motore e prese a seguire il profilo della costa. Sara lasciò scivolare 30
in acqua il fagotto con i vestiti, che si inabissò nelle acque scure. Come ho potuto sbagliarmi, ieri sera? Come ho fatto a non riconoscerlo? Sara avrebbe voluto chiedere qualche cosa al ragazzo, ma si trattenne. A che cosa sarebbe servito sapere se aveva un fratello, un cugino, un amico che gli somigliava? La donna si sistemò sul fondo della barca e si lasciò cullare dal rollio, con lo sguardo scrutava il cielo sopra di lei,
opaco, imperscrutabile come la sua anima, che
rifletteva il senso di vuoto che le apparteneva. I suoi occhi si persero in quella profondità fino a che il sole non si alzò sull’orizzonte. Aveva trascorso gli ultimi mesi nel lusso e nell’ozio. Avanti e indietro tra la spiaggia, il bungalow e i bar disseminati sull’isola. Le era bastato sollevare un dito per essere esaudita in ogni desiderio. Adesso invece moriva di sete, incastrata sul fondo di un’imbarcazione che puzzava di pesce, le assi ruvide le segnavano la pelle della schiena. Forse non lo avrebbe visto sorgere, il sole del mattino.
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Poteva solo ridere, perché non era capace di piangere. Rise sommessamente e il suo corpo fu scosso da sussulti nervosi. Posso mettere fine a tutto questo, sono stanca. Mi addormento in questo guscio di legno ed è la fine. Forse il mio Tomiko non aspetta altro per buttarmi in acqua, con un peso legato al collo. Spero che Domenico gli abbia dato abbastanza denaro. Spero che si siano incontrati, nel bungalow. Sara chiuse gli occhi e si lasciò cullare dallo sciabordio dell’acqua. Vedeva se stessa in un tempo passato, sul fondo di una barca simile a quella nella quale giaceva ora. Abbracciata a Domenico, il capo reclinato sul suo petto. Trascorse più di un’ora e giunsero a ridosso del molo principale. Tomiko aveva afferrato la gomena che gli avevano lanciato da terra e la tirava per accostarsi al pontile. Sara si alzò in piedi, le ossa indolenzite, il sole riempiva lo spazio con la sua luce bianca. La donna si riparò gli occhi, abbagliati, con la mano. Poi raccolse la borsa e scese a terra. “Ti spedirò dei soldi” disse al ragazzo. Avrebbe voluto stringerlo a sé, come una madre che chiede perdono di
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una colpa inconfessabile. Ma la distanza che la separava da quel gesto era incolmabile. Tomiko fece un cenno con il capo e lei strinse le labbra per soffocare la lacerazione che le torturava il petto. Poi si voltò e si avviò verso il centro abitato. Era scalza, zoppicava, i pantaloni le scendevano, informi, sui fianchi. Ma nessuno sembrava badare a lei. Non aveva l’aria della turista danarosa, che
avrebbe attirato i
bambini della zona, in cerca di spiccioli e di novità. Sara curvò le spalle e accentuò il suo zoppicare. C’erano i pescatori che sistemavano le reti mentre ragazzi, con i grossi cesti colmi di
i
ciambelle calde,
dimenticavano il loro commercio, distratti dai gesti dei vecchi. Anche Sara, da bambina, si sedeva sul molo a guardare i preparativi della pesca, gli uomini che legavano gli ami ai palamiti. Assieme a Bartolomeo e a Domenico, seduti a fianco a lei. La donna scacciò quell’immagine fugace. Il bar del porto di Ogasawara era ancora chiuso, le sedie erano accatastate le une sulle altre, in una composizione postmoderna. Gli spazzini chiacchieravano tra loro, in un rito che ritardava l’inizio lavoro. C’era la flemma tutta 33
isolana, nello stare appoggiati alle scope di saggina, i piedi tra i rifiuti del mercato del pesce. A fumare sigari sottili e aromatici, che lasciavano salire densi riccioli di fumo. Sara scivolò a fianco a loro come un fantasma e raggiunse gli edifici della capitaneria, blocchi di cemento grigio che facevano a pugni con il paesaggio circostante, fatto di case basse e intonacate a calce color ocra. Li superò e si infilò in un vicolo che portava al centro del villaggio. Aveva previsto anche questo passaggio, quando nei lunghi mesi precedenti aveva combattuto la noia organizzando un piano di fuga. Ora si trovava a percorrere
quei
passi
che
aveva
studiato
senza
convinzione e si sentiva disorientata. Come se la realtà si fosse deformata in un dejà vu scarno di dettagli e di emozioni. Bussò ad un portone. “Benvenuta”
una donna l’apostrofò indolente.
Era
giovane e già sfibrata dalle maternità, due bambine le stavano aggrappate alle gambe,
in braccio reggeva il
neonato. “Ho bisogno della camera”
disse Sara infilandosi in
cucina. Nella stanza c’era una grande confusione, due 34
brandine erano accostate alla parete, cariche di vestiti e panni da stirare. A terra, sotto alla tavola di legno consunto, c’erano sacchi di iuta rigonfi. Uno di questi era rovesciato e il suo contenuto di patate rovinato a terra. I fornelli della cucina a gas erano ricoperti di sporcizia, l’aria era impregnata dall’odore di fritture ripetute giorno dopo giorno. La donna
posò il bambino in una cesta accanto ai
fornelli e prese una chiave dalla rastrelliera appesa alla parete. Sara
aveva affittato una stanza e pagava alla donna
quanto le serviva per mandare avanti la famiglia. Il padre dei suoi figli era imbarcato sul traghetto, tornava a casa raramente e lasciava pochi soldi a lei e ai bambini. Aveva un’amante al porto di Tokyo, così le aveva detto Yukiko. Questo era il suo nome. Sara prese la chiave, salì una stretta rampa di scale e aprì la porta di legno dipinto di fresco. Yukiko l’aveva verniciata di giallo per paura che la miseria della sua abitazione facesse scappare la benefattrice. Una nota luminosa in quella casa dove la tristezza aveva una consistenza gommosa.
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Sara richiuse la porta alle sue spalle e si trovò nella penombra di una stanza pulita e ordinata. Aprì l’armadio e trovò le cose che aveva lasciato, un cambio di vestiti, l’asciugamano, prodotti di toilette. Iniziò a spogliarsi. Tolse la tshirt, i pantaloni, la fascia con la pistola. Poi si sedette sul bordo del letto e sciolse le cinghie della fondina legata al polpaccio. I lacci le avevano lacerato la pelle. Si guardò la pianta del piede, piagata dai tagli. Cercò nel cassetto dell’armadio la scatola
del
pronto soccorso. Iniziò a medicare le ferite. Il marito di Yukiko lavora sul traghetto. Devo mettermi in contatto con lui e trovare il modo di nascondermi, a bordo. Prese l’asciugamano, lo avvolse attorno al corpo e andò in bagno. Si infilò sotto la doccia e lasciò che l’acqua tiepida purificasse il suo corpo. Il piede le faceva male ma non voleva sottrarsi al benessere dell’acqua scosciante, le gocce d’acqua le rigavano il viso, quasi fossero lacrime. Sara invece sorrise, perchè i suoi occhi non sapevano piangere. Uscì dalla doccia e, avvolta nell’asciugamano e tornò in camera.
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Sulle scale c’erano Yukiko e i suoi figli che la guardavano, intimiditi. Gli occhi scuri e profondi, attenti a non lasciarsi sfuggire i dettagli. Sara era alta, slanciata, bella. Nessuna donna, sull’isola, aveva quell’aspetto dopo aver superato i cinquanta anni. Non lo aveva neppure alla soglia dei
quaranta. La
vecchiaia dei poveri è brutta, i denti si guastano, il corpo si rilassa, i capelli diventano radi e secchi. Lei li fissò con i suoi occhi grigi e i bambini, impietriti, aspettarono che sputasse lingue di fuoco. Sara fece cenno alla donna di seguirla in camera. Sul letto c’erano posate le pistole, Yukiko si ritrasse, un lampo di paura negli occhi, ma Sara le fece un gesto risoluto con la mano. “Mi imbarco sul traghetto. Hai modo di contattare tuo marito? “ “ Quando attraccano posso cercare di salire. Lui non scende, torna a Tokyo, da quell’altra”. “ Non posso comperare un biglietto, devo nascondermi”. “ Ti faccio salire sul camion di mio fratello, Tageshi. Porta un carico di noci di cocco. Vado a cercarlo, abita nella casa accanto” Yukiko sorrise, era contenta di aver
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trovato una soluzione che sembrava soddisfare la sua benefattrice. Sara rimase sola nella stanza. Guardò l’orologio, erano le nove. Il traghetto sarebbe partito alle 12. Mancavano tre ore. Vuole i soldi. E li può avere solo se rimango viva. Mi può torturare, strappare le dita ad una ad una. Ma non basterebbe. La chiave di accesso è formata da due blocchi di codici complementari, io ne ho uno solo. Ci vuole anche l’altro pezzo. E lui lo sa, altrimenti non mi avrebbe lasciata andare. Yukiko bussò alla porta. “C’è la polizia in giro. Hanno ucciso un uomo, sulla strada della laguna, ieri sera”, parlò tenendo gli occhi bassi, imbarazzata. Poi aggiunse: “Tageshi va a prendere il carico, ritorna alle 11 e viene
a caricare una cassa. Ti nascondi là dentro.
Quando arrivate a Tokyo, il camion proseguirà verso la zona industriale, fino alla fabbrica di copra.” Sara la guardò in silenzio, valutando la sua proposta. Poi sorrise e con voce roca disse:“ Ho bisogno di bere, della tequila, del rhum.” Si stava rilassando, i problemi più urgenti sembravano risolti. Si appoggiò alla parete della camera, gli occhi chiusi. 38
Yukiko intuì la sua stanchezza, “Ti porto da bere e da mangiare” le disse mentre il suo sguardo scivolava ancora sulle pistole, posate sul letto. Sara aveva acceso il computer per cercare di collegarsi a Internet. Non c’erano segnali di reti disponibili,
quella
zona della città non era servita. Richiuse il PC e lo mise nella borsa. Yukiko tornò dopo pochi minuti, reggendo una bottiglia di rhum e delle banane. Sara sedette sul letto e sbucciò una frutto. Poi aprì la bottiglia e bevve lunghe sorsate. Yukiko rimase sulla soglia, in silenzio. Non le sarebbe più capitato un incontro come quello e aveva bisogno dei soldi che Sara le passava ogni mese. “Poi ritorni?” chiese infine. Sara non rispose, continuava a bere dalla bottiglia. Dalle fessure delle persiane entrava un alito caldo, denso. Sara si alzò e si avvicinò alla finestra. Il vicolo era percorso da una folla animata, i facchini si facevano largo con grida aggressive, trascinando carretti carichi di merci. Cercò Domenico, ma non riconobbe nessuno.
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Quando si voltò, Yukiko era uscita. Allora prese in mano la pistola con la quale aveva sparato a Tomiko. Aprì il caricatore, restavano quattro pallottole. Inserì un nuovo colpo e poi richiuse il tamburo. Mi sta aspettando, da qualche parte. All’imbarco del traghetto. Non c’è altra via di fuga. Non posso prendere l’aereo. Sara rimase in piedi, a spiare la strada da dietro alle persiane, la mano sulla fondina, la testa vuota. Nella calda penombra il tempo scivolava lentamente, gocce calde di sudore
scorrevano nell’incavo del seno e venivano
assorbite dal cotone della tshirt. “Ti stanno cercando. La polizia fa vedere in giro la tua fotografia. Per l’omicidio della laguna,” disse Yukiko entrando trafelata. Sara non badò alle parole della donna, stava ricordando un’estate lontana. Nelle sue orecchie risuonava il frinire ossessivo delle cicale, le narici permeate dall’odore nauseante della carne di capra in decomposizione. Cercò allora il gusto del sale sulla pelle, lasciato dal sudore che evapora. Si avvicinò la mano alla bocca e ne leccò il dorso. Alla ricerca di un sapore perduto. “Vieni, mio fratello ti aspetta” le disse ancora Yukiko, alzando il tono della voce. 40
Sara chiuse il tappo della bottiglia di rhum e la infilò nella borsa, con il pc e le banane. Le due donne uscirono dalla stanza, si sentivano le grida dei bambini che giocavano, giù nel cortile. Yukiko diede alla donna un telo di cotone e lei se lo avvolse al capo e poi attorno alle spalle. Uscirono nel vicolo. La luce era abbagliante, Sara ebbe un capogiro. Le gambe le cedettero e si appoggiò alla grata di una finestra. Rimase qualche istante sospesa, il respiro corto, i battiti del cuore accelerati. Yukiko le fece un cenno sbrigativo con la mano e Sara si fece forza. Seguì la giovane donna dietro ad un basso portone di legno. Un uomo le stava aspettando, i capelli legati con un nodo sulla nuca. Chiuse dietro a loro il portone e fece segno a Sara di seguirlo. La donna non si voltò a salutare Yukiko, sentì lo sguardo di lei perforarle la schiena, incandescente come un chiodo arroventato. Non mi dimenticherò di te ma non sono fatta per gli abbracci. I due uscirono in un cortile sul retro della casa, c’era un camion ad attenderli. Sulla fiancata era appoggiata una scala. Sara salì in cima e vide, sommersa dalle noci di cocco, una cassa costruita con assi di legno inchiodate tra loro. Si infilò nella cassa e l’uomo posò il coperchio sopra 41
di lei. Poi sentì il rumore delle noci di cocco che rotolavano,
l’uomo
stava ricoprendo la cassa con il
carico. Sara si sedette a terra dove era stata stesa una coperta polverosa. C’erano delle bottiglie di acqua infilate in un sacchetto di plastica. Infilò le dita tra un’asse e l’altra, c’era spazio a sufficienza perché passasse l’aria. Trascorsero pochi minuti e il camion si mise in moto. Sara non riusciva a vedere la strada, il carico del camion le impedivano ogni contatto visivo. Ma sentiva i rumori del traffico, le grida della gente. Il camion percorse poche centinaia di metri e si fermò sotto il sole, in attesa dell’imbarco. Faceva caldo, il sole era allo zenit e Sara sudava, dentro alla cassa di legno. Si tastò il polso, era debole, la pressione era bassa, si sentiva mancare. Provò a concentrare i pensieri in altre direzioni. Misurò con il palmo lo spazio che aveva a disposizione, un metro e mezzo per un metro e mezzo, provò ad alzarsi in piedi ma la cassa era un cubo perfetto,
doveva piegare la
schiena e tenere la testa in una posizione scomoda. Allora si mise in ginocchio e posò la fronte a terra, davanti a se, 42
sulla coperta. Rilassò le spalle e il collo, poi ci fu uno scossone e si rimise seduta a terra. Aveva i vestiti bagnati di sudore. L’autista aveva riacceso il motore, le grida della gente si erano fatte più intense. Il camion entrò nel boccaporto e parcheggiò nella stiva. La temperatura dentro la cassa iniziò a scendere e Sara si rilassò. Sentì
l’autista che scendeva dal mezzo e chiudeva la
portiera. Attorno c’erano altri camion che completavano la manovra, il gas degli scappamenti si mischiava all’odore del pesce andato a male. Sara aprì la borsa e stappò la bottiglia di rhum che le aveva dato Yukiko, aveva bisogno di bere. Trangugiò alcuni sorsi e il liquido le scese in gola, denso come uno sciroppo. Si sentì subito meglio, l’alcool scioglieva la tensione accumulata. Buttò giù ancora qualche sorso e poi tappò la bottiglia. C’era buio nella cassa ma ogni tanto penetrava dall’alto una sottile luminosità. Scompariva dopo pochi minuti per poi riapparire. Sara pensò che fosse
una torcia,
qualcuno che ispezionava la stiva, i carichi. La luce attraversò il buio della cassa ancora alcune volte e poi si spense. 43
I motori del traghetto si accesero, l’ancora venne sollevata rumorosamente e la nave salpò verso il mare aperto. Trascorse del tempo, Sara non sapeva quantificare quanto, non riusciva a leggere il suo orologio e non voleva accendere gli strumenti elettronici, il cellulare o il Pc, per timore di essere intercettata. Contava i secondi, poi sommava e otteneva i minuti. Ma perdeva il conto, si confondeva. Distendeva, ad una ad una, le dita delle mani e i suoi movimenti erano difficoltosi, lenti. Lasciò perdere. Prese allora a muoversi nello spazio angusto che aveva a disposizione, sentiva il bisogno di distendere le gambe. Prese una delle bottiglie d’acqua dal sacchetto di plastica, l’aprì e ne bevve circa la metà. Con le mani iniziò a seguire il contorno della cassa, le assi erano tagliate grossolanamente e una scheggia si infilò nella carne del pollice. Cercò di toglierla, ma più si sforzava, più la scheggia penetrava in profondità. Impiegò qualche minuto e poi, aiutandosi con i denti, riuscì ad estratte la scheggia. Restò qualche tempo a succhiarsi il pollice, il sapore del sangue le restituiva il senso del reale. Poi si rilassò e chiuse gli occhi.
Si ridestò
improvvisamente. 44
Attorno al camion c’era del movimento. I marinai mettevano dei cunei sotto alle ruote degli automezzi, dalle frasi spezzate che riusciva ad udire, capì che il mare si sarebbe ingrossato. Gli uomini parlavano in inglese. Poi se ne andarono. Il tempo trascorso nella cassa dilatava la sua dimensione. Sara perse ogni orientamento e scivolò lentamente nel dormiveglia. Fu destata dai colpi che venivano inferti alla fiancata dei camion. Come se qualcuno volesse saggiarne la consistenza, colpi regolari, ripetuti. Poi anche quel rumore finì. Sara aprì la bottiglia e bevve qualche sorso di rhum. L’alcool le riscaldò lo stomaco. Chiuse la bottiglia e cambiò posizione, si mise sulle ginocchia, cercando di rilassare le spalle e la schiena, la fronte poggiata a terra. Le venne in mente di quando era in India, sulla spiaggia di Goa, assieme a Bartolomeo e a Toru. Facevano meditazione all’ombra delle palme. E c’era Mahatma, il gatto di Toru. Un gatto nero, che la innervosiva. Restava immobile sulla sabbia, sdraiato come una sfinge, la testa sollevata e gli occhi che le scavavano dentro l’anima.
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Nella cassa provò a concentrarsi, a ricordare gli insegnamenti di Toru per
liberare la mente e farla
diventare un foglio bianco. Più si concentrava, più si affastellavano immagini dai colori vividi, violenti. Si ritrovò in mezzo al fuoco del capanno, dove bruciava il cadavere mutilato di Ajrin, appeso ad una trave del soffitto come un sacco vuoto. Sara si scosse, cercò di alzarsi e sbatté la testa contro il coperchio della cassa. Fu presa
da una sensazione
claustrofobica, come se fosse sepolta viva in una bara. Si tastò il polso, i suoi battiti erano accelerati. Iniziò a respirare forzatamente, inspirando ed espirando via tutta l’aria dai polmoni per regolarizzare le pulsazioni. Si sedette nuovamente a terra, a gambe tese. Doveva calmarsi. Il viaggio sarebbe durato più di venti ore, doveva trovare il modo per superare indenne quel tempo, nello spazio angusto sentiva che si stavano materializzando i suoi fantasmi. L’oscurità esercitava una leggera pressione sulla sua pelle e sentì il bisogno di massaggiarsi le braccia, le gambe. Bevve ancora qualche sorso di rhum. Si sentì meglio, i muscoli si rilassarono. Sfiorò con la mano la pianta del 46
piede, i cerotti aderivano alla ferita, se premeva una fitta le restituiva il senso del reale. Una polvere sottile cadeva dalle noci si cocco e filtrava attraverso le assi. Se la sentiva addosso, tra i capelli, sulle labbra. Teneva gli occhi chiusi anche se il buio era totale. Quando se ne rese conto, li aprì. Poi li richiuse nuovamente. E fu come premere un interruttore. Le immagini che andavano componendosi si fondevano in un caleidoscopio per distinguersi nuovamente in una nuova sequenza, carte di un mazzo da gioco lanciate in aria da un prestigiatore. Sara si ritrovò nella casa in cui era nata e cresciuta. Un’infilata di stanze comunicanti le une con le altre, senza corridoio. Le finestre con le tapparelle chiuse, per non fare entrare il caldo dell’estate. L’odore della lavanda tra le lenzuola ruvide. Si ritrovava al contempo attrice e spettatrice della scena, si vedeva bambina, con i pantaloncini di cotone a fiori. Se li sentiva addosso, quei pantaloncini, l’orlo le premeva sulle cosce nude. Vide gli oggetti della cucina, gli otri di terracotta che contenevano il vino e l’olio, le padelle di rame appese alle 47
pareti, i cardi fioriti dentro ad un bicchiere, gli smalti dei piatti posati sulla tavola. Istintivamente si tastò il ginocchio sinistro con un gesto meccanico, un tempo abituale. C’era una cicatrice rilevata, la roccia carsica le aveva tagliato la pelle come una lama d’acciaio. Durante le scorribande fatte da bambina, tra le montagne. Una ferita che le aveva marchiato la pelle e l’anima. Nei caldi pomeriggi d’estate, il silenzio della casa della sua infanzia era rotto dal frinire ossessivo delle cicale. Sua madre la costringeva a coricarsi tra le ruvide lenzuola di lino, nella penombra della camera. E lei scappava dalla finestra, un salto e atterrava nel cortile e poi via di corsa, nella campagna, con i ragazzi. Erano cresciuti insieme, lei, Domenico e Bartolomeo. Salivano su per la collina, fino allo stazzo dello zio Tonio ed entravano in silenzio nella casa di pietra. Trovavano l’uomo seduto in poltrona, il cappello di paglia sulla faccia, che dormiva. C’erano le sigarette abbandonate sulla tavola,
un pacchetto mezzo vuoto di Nazionali
senza filtro e loro ne prendevano una a testa. Lo zio le lasciava apposta, per loro, era un gioco.
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E poi via di corsa, nei campi. Fumavano al riparo dal sole, sotto i carrubi. C’era un capanno per le capre, dietro la casa. La porta di legno era serrata con la catena. Un pomeriggio l’avevano trovata socchiusa ed erano entrati. Si erano buttati tra i mucchi di paglia, eccitati per la novità. Fuori il caldo era tremendo, la pelle bruciava e le gocce di sudore evaporavano prima di rotolare sulla pelle. Restava una striscia secca, di sale. Sara adorava quel sapore salmastro e rugginoso, si leccava la pelle come i gatti. I ragazzi avevano acceso le sigarette, passandosi l’accendino
di mano in mano. Poi avevano udito un
rumore, sotto ai piedi. “Che è ?” aveva urlato Domenico, alzandosi di scatto. Lo scalpiccio di un animale. Un mugolio sommesso, dei colpi tirati contro la roccia. - Dov’è finita sta’ bestia?- gridava mentre con i piedi spostava la paglia dal pavimento. C’era una botola, sotto la paglia. E sotto la botola la cisterna. Domenico aveva sollevato il tavolato e un raggio di luce aveva illuminato la bocca della cisterna. I ragazzi si erano sporti nel buco e avevano visto la testa di un uomo. I 49
riccioli grigi si allargavano come i tentacoli della medusa, fluttuavano nella penombra al tremito che scuoteva tutto il corpo. L’uomo non riusciva a girare la testa e a guardare i ragazzi, era legato con la catena corta, imbavagliato. Gemeva, un verso rauco, soffocato. Allora Sara aveva urlato, eccitata “..l’uomo cane!” e Domenico si era messo a latrare, il viso contratto in una smorfia. Davanti all’uomo cane, Domenico si era fatto lupo. Poi era arrivato lo zio, il frustino in mano. Li aveva colpiti in silenzio, guardandoli attraverso la fessura delle palpebre mentre gli passavano davanti per uscire dal capanno. Un mozzicone di sigaretta era caduto sulla paglia e aveva attizzato alcuni fili di paglia. Lo zio Tonio li aveva calpestati e aveva sibilato -Via, via, u fissa parra- e i ragazzi erano corsi
giù per la scarpata, a rotta di collo.
Sara era caduta, rovinando sulle rocce taglienti. Si era ferita al ginocchio, sanguinava. Dentro alla cassa, Sara si toccò la cicatrice sul ginocchio e fece scorrere le mani giù, fino ai polpacci. Sentiva bruciare là dove il frustino aveva colpito le sue gambe secche di bambina. 50
Se il catenaccio del capanno fosse rimasto chiuso, la nostra vita avrebbe preso una piega diversa. Forse. Avrebbero dovuto dimenticarlo, l’uomo cane. E invece erano tornati. Nella cassa, Sara avvicinò il collo della bottiglia di rhum alle labbra, bevve un lungo sorso e i ricordi fluirono nitidi. “Dobbiamo sceglie un capo” aveva detto Domenico, “Tutte le bande hanno un capo”. “Lo vuoi fare tu? “ gli aveva chiesto Bartolomeo. “ Il capo è il più forte, ha coraggio. Facciamo a chi ha più coraggio.” “Che gara facciamo?” chiese Sara eccitata. “ Andiamo a rubare in casa di Tonio. Ha un sacco di soldi.” “Che ne sai, tu?” “ Dicono che lui tiene la cassa.” “Ho un’idea migliore” disse Domenico, un mezzo ghigno sulle labbra,
come se avesse in serbo un colpo da
maestro. Aveva tirato fuori dalla tasca il coltellino e stava concentrandosi nell’intaglio del legno. “ Ci caliamo nella cisterna ” disse infine, senza sollevare lo sguardo. 51
“Ma sei pazzo? Tonio ci toglie la pelle a frustate, se ci becca di nuovo nello stazzo” Bartolomeo non amava gli eccessi, il rischio. Anche da ragazzino, voleva una vita tranquilla. “ Li ho sentiti, a loro non serve più. Quell’uomo è come un pollo, prima o poi gli tirano il collo”. Domenico aveva iniziato a lavorare il ramo di nocciolo, per farne un bastone. Era bravo con il coltellino. Sara stava accucciata a terra, seduta sui talloni. Cercava di pulirsi le unghie dei piedi dalla terra rossa, con un rametto. Si divertiva quando i ragazzi si stuzzicavano a vicenda. Sapeva che lo facevano per lei. “Io non ci vado, là sotto” disse Bartolomeo, tirando un calcio ad un sasso che schizzò
contro il tronco del
carrubo. Le cicale si misero a frinire con maggiore intensità. “Scendiamo nella cisterna.
Chi resiste di più, vince”
Domenico era arrivato a scorticare il ramo di nocciolo per metà della sua altezza. Aveva iniziato a levigare la superficie del legno, per sagomarne l’impugnatura. Bartolomeo allora aveva raccolto un sasso e lo aveva scagliato con violenza contro il tronco dell’albero. Nella campagna brulla e desolata il rumore era risuonato come 52
il tocco di una campana. Questa volta le cicale si erano alzate in volo . “Non c’hai i coglioni? Sai che novità” disse Domenico guardandolo in segno di sfida. Bartolomeo gli si era buttato contro e i due si erano avvinghiati l’uno contro l’altro, rotolandosi nella polvere. Sara nel frattempo si era alzata e aveva preso a salire il sentiero. “Dove stai andando?” le aveva gridato Domenico. La bambina era già fuori dalla loro vista. I due si erano fermati, la polvere rossa li ricopriva come un velo. Erano rimasti qualche istante a terra, poi si erano alzati e le erano corsi dietro. “Fermati, non abbiamo tirato a sorte” le aveva gridato Domenico . Ma Sara era già sparita dentro il capanno. Faceva fresco al riparo delle spesse pareti di pietra. Sara aveva sollevato il tavolato e scoperto la cisterna. Era profonda circa quattro metri, il diametro dell’apertura non più di uno. C’erano dei pioli di ferro cementati nella parete e lei aveva iniziato a scendere. Stringeva tra le mani il ferro arrugginito, i suoi piedi cercavano l’appoggio del piolo successivo. Scendendo si rendeva conto che lo 53
spazio interno si faceva
più ampio, il perimetro si
allargava. I suoi occhi non erano ancora abituati al buio e non riusciva a distinguere l’uomo incatenato, in fondo. Erano passati due mesi da quando si erano nascosti a fumare, avevano scoperto la cisterna e lo zio li aveva frustati.
Non c’era stato bisogno di altre parole, i
bambini avevano girato al largo dalla proprietà dello zio. Ma il loro sguardo era stato catalizzato dal ricovero per le pecore, nascosto tra le rocce . Avevano visto l’uomo cane e nel buio della notte un demone, con i capelli che fluttuavano nell’aria come i tentacoli della medusa, andava a tormentare i loro sonni. L’uomo cane era nei loro pensieri, un tarlo che lavorava nel legno tenero dell’innocenza e si scavava gallerie sempre più ampie. Sara sentì arrivare i compagni. “Vieni fuori, così non vale” aveva gridato Bartolomeo, inginocchiato davanti alla bocca della cisterna. Ma Sara scendeva lentamente, le orecchie tese ai rumori che si aspettava di sentire. Qualche settimana prima l’uomo aveva scalciato come un disperato contro la roccia. Posava con cautela i sandali sui pioli di ferro ma non udiva alcun rumore, non un respiro. 54
Domenico prese a scendere velocemente. Le fu vicino in un attimo, la scavalcò e proseguì atterrando sul fondo della cisterna a piè pari. “Non si vede niente”, la voce della bambina rimbalzava sulle pareti lisce e asciutte. “Non c’è più?” chiese ancora, ferma a metà del percorso. “E’ qui. Morto” e si udirono i colpi secchi delle scarpe di Domenico contro un corpo molle. Bartolomeo era rimasto in cima. “Tornate su, che ci danno la colpa a noi.” “Pisciasotto, stai zitto” gli aveva gridato Domenico. Sara iniziava a distinguere delle forme, nella penombra. Lo spazio
si allargava,
l’uomo
era rannicchiato in un
angolo, la catena al collo tesa a sorreggere il corpo. C’erano dei contenitori, dei secchi posati a terra. Uno dei secchi era legato ad una corda, agganciata al pavimento del capanno. Sara inspirò l’aria greve, sentiva odore di animale, di escrementi,
ma
non
quello
di
un
cadavere
in
decomposizione. Si ricordava l’esalazione nauseante della pecora morta nella gravina, precipitata dal dirupo. Quando si era avvicinata, il tanfo le aveva serrato lo stomaco. 55
“Non puzza?” chiese a Domenico. “Non puzza”, gli rispose lui. E poi aggiunse : “Il capo sono io. Sono arrivato per primo”. Sara scese gli ultimi gradini e si ritrovò sul fondo della cisterna. Fece qualche passo verso l’uomo cane. Si inchinò e gli sfiorò i capelli. Erano lungi, sporchi e arruffati. Tese le orecchie per ascoltarne il respiro. “E’ morto?” chiese ancora. “Toccalo, non morde più”. Sara allungò la mano e sfiorò la spalla del cadavere. Sotto la camicia sottile, la carne dell’uomo era rigida, dura. “L’hai ucciso tu?” chiese ancora a Domenico. “Come l’hai capito?” “ Se fosse stato vivo non ti sarebbe venuta in mente questa idea, della gara. E poi non puzza. E’ morto da poco.” “E’ per questo che ti sei precipitata? Brava!” “Come lo hai ucciso?” “ Gli ho sparato.” “Dov’è la pistola?” Domenico prese la mano di lei e le fece toccare il ferro. “Eccola, è mia”. 56
“Dove l’hai presa?” chiese Sara. “ Tonio, me l’ha data. Quando compio quattordici anni mi compera il motorino”. “Manca ancora un anno”. “Un anno passa presto. Ti sposo e scappiamo via.” Domenico le si era avvicinato e l’aveva tirata su per un braccio. Poi l’aveva stretta forte a sé e l’aveva baciata sulla bocca. La bambina aveva stretto le labbra e aveva cercato di divincolarsi, ma Domenico l’aveva stretta. “Tu sei la mia donna. La donna del capo”. Sara allora aveva aperto le labbra e assaggiato il sapore di Domenico. In cima alla cisterna, Bartolomeo li osservava, nella penombra. Quando li vide abbracciati prese un sasso e lo scagliò con forza verso di loro. La pietra era rimbalzata sul corpo inerte dell’uomo cane. Sara si puntellò con le mani al fondo della cassa. La nave aveva preso a rollare, il mare era agitato. Udì nuovamente dei colpi contro la fiancata del camion e le voci dei marinai che assicuravano i carichi ai fermi. Le noci di cocco
presero
a
muoversi,
l’una
contro
l’altra.
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Risuonavano rintocchi sordi, come di campane tra le montagne. La polvere sottile prese a scendere attraverso le fessure. Sara sentì un fruscio, vicino alla sua testa, al di là della cassa. Come un debole raspare contro il legno delle assi. Si concentrò sul rumore, avvicinando l’orecchio. Ogni tanto si interrompeva, per poi riprendere. Sembrava venire da un punto preciso ma poi riprendeva leggermente spostato. Trascorsero i minuti e il rumore aveva fatto un percorso di circa venti centimetri. E’ un animale, una lucertola rimasta intrappolata, un topo. Il fruscio continuò il suo lento incedere, prese a salire verso l’alto, superò il limite della cassa e si disperse. Sara si addormentò. Si risvegliò quando sentì chiamare il suo nome: “Sara, Sara”. Rimase immobile, le orecchie tese, gli occhi spalancati nel buio. “Sara, Sara”. E’ una voce reale o è la mia immaginazione? Nella cassa buia i confini tra il sogno e la realtà si erano fatti labili. La sua testa era confusa. Mise l’orecchio a contatto con le assi. Non sapeva dire da dove provenisse il richiamo.
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Da tutti i luoghi e da nessuno. Forse era dentro alla sua testa. Non era la voce di Domenico. Era quella di Bartolomeo. Bartolomeo adulto, uomo. Bartolomeo sulle rive bagnate dall’oceano, seduto a fianco a lei. Immagini vivide tonarono ad occupare la sua mente e la cassa si impregnò di odori. Di spezie, di fiori recisi e marcescenti sotto il sole, offerti ad un dio di pietra. Erano partiti senza dire niente a nessuno. La moto di Domenico era servita per pagare il biglietto. Via da quella terra desolata, dalla famiglia, da Tonio, da tutti i cadaveri che, dopo il primo, erano stai gettati nella cisterna. A vent’anni il mondo sembrava fatto di possibilità e loro erano giovani e pieni di speranze. Via, lontano, verso terre bagnate
da un oceano
sconfinato. Erano approdati a Goa, dove Domenico faceva i massaggi ai turisti, sulla spiaggia. Gli piaceva conoscere la gente, parlare e ascoltare i sogni degli altri. Poi arrotondava vendendo l’hashish.
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Sara e Bartolomeo lo seguivano, era il capo. “Che cos’è questa smania che ti rode?” gli aveva chiesto Sara, sdraiata sulla sabbia bianca. “Voglio andarmene. Ma non posso lasciarti” aveva risposto Bartolomeo, gli occhi liquidi e disperati. Lei si era messa a ridere e gli aveva tirato una manciata di sabbia. “Non ho bisogno di te. Vattene quando vuoi” gli aveva gridato. Si era alzata e aveva iniziato a correre verso il mare e si era tuffata. Era rimasta sott’acqua fino a farsi scoppiare i polmoni ed era riemersa con uno slancio, le mani tese verso il cielo, urlando come una guerriera vittoriosa. Bartolomeo era rimasto a guardarla, il sorriso amaro sulle labbra. Poi era arrivata Ajrin e Bartolomeo era cambiato. “Che ti ha fatto, quella donna?” Sara era gelosa, dei capelli selvatici di Ajrin, ramati, animati di vita propria. E della sua pelle chiara, quasi trasparente, la pelle di una larva pensava accarezzandole malevola le gambe solcate da vene sottili e bluastre.
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E del suo essere generosa. Faceva l’infermiera ed aiutava i malati terminali. Usava l’hashish per sedare le loro sofferenze. Era un angelo e Sara, al suo cospetto, un demone. “Mi sto innamorando. Finalmente ti liberi di me”. Bartolomeo le raccontava dei suoi turbamenti. Delle sue indecisioni. Di una brace
che covava lenta, sotto le
ceneri, che prendeva vigore, giorno dopo giorno. Sara leggeva il cambiamento dell’uomo in dettagli apparentemente
insignificanti.
Quel
lento
distacco
definito da un battito di ciglia, una attenzione distratta, una parola persa nel vento. Sara aveva paura. Anche se il suo uomo era Domenico, non sapeva rinunciare a Bartolomeo. La gelosia le aveva solleticato la pelle, e poi, lentamente, era penetrata attraverso i pori e le aveva avvelenato il corpo. Li amo
entrambi ripeteva come un mantra quando
Bartolomeo e Ajrin si allontanavano, mano nella mano. E le sue viscere si contraevano in uno spasmo che la lasciava senza fiato. Lo sto perdendo. 61
C’era anche Toru, uno yogi giapponese che viveva in un bungalow vicino al loro, sulla spiaggia di Goa. Aveva il viso affilato come quello di una capra, la barba ispida sul mento. Insieme trascorrevano ore in silenzio, sotto il fresco delle palme. Quando Toru si alzava, il suo gatto Mahatma lo seguiva a qualche passo di distanza. Tra di loro usavano una lingua trascendente. “Perché lo hai fatto?” Nel buio della cassa, Sara percepì la massa pelosa del gatto. Vide i suoi occhi ardenti come braci, la sua testa sfiorava enorme,
la sua coda
il coperchio della cassa,
ritorta sembrava
una scotta
consunta. “Vattene via, stupido gatto” aveva urlato Sara, “di che ti immischi ?”. Il gatto si era proteso in avanti e le era salito sulle gambe. Sara non riusciva più a muoverle, schiacciate sotto il suo peso. La donna teneva gli occhi aperti davanti a sé e incrociava quelli del gatto che brillavano nel buio, lucenti come pietre di ossidiana. “L’hai uccisa tu, quella ragazza”, il gatto aveva una voce sprezzante. Il muso a sfiorare il viso di lei, respiro contro respiro. 62
“Ho le mie colpe. Ma l’incendio non l’ho appiccato io”. “Hai fatto di peggio” le ringhiò contro il gatto. “Quella santarellina. Se la faceva anche con Domenico. La portava con sé, durante le spedizioni nella foresta. Quando andavano a prendere le partite di droga.” “ E’ come se l’avessi acceso tu, quel fuoco” ribatté ostinato il gatto. Aveva posato le zampe sulle spalle di Sara facendola scivolare a terra. La sovrastava con tutto il suo peso e con la bocca spalancata aspirava tutta l’aria che era disponibile nella cassa. Sara si sentì mancare. Vide se stessa entrare nel bungalow, sulla spiaggia. Quella notte in cui la luna splendeva nel cielo come un disco di latte. Opalescente. Ammaliante. Non era riuscita a prendere sonno, si era rigirata nel letto vuoto, senza quiete. Poi si era alzata ed era andata a sedersi fuori
della camera di Bartolomeo. Seduta sui
talloni, la testa tra le mani. Aveva sentito Bartolomeo e Ayrin che facevano l’amore, chiusi nella loro stanza. Domenico dormiva nella veranda, disteso nell’amaca.
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Sopra di lei c’era il cannicciato dove nascondevano la droga. Aveva guardato in alto e poi era salita sopra al tavolo, aveva spostato le canne e aveva preso i due involucri avvolti nella plastica. In silenzio era uscita e si era diretta alla spiaggia. Ad aspettarla c’era Mahatma che le si infilava tra le gambe, facendo le fusa. Di solito il gatto, quando la vedeva, tirava su il pelo e iniziava a soffiare. Il potere di quella luna magnetica. Le sue mani stringevano i due pacchi. Aveva immerso i piedi nell’acqua e si era seduta sulle assi sconnesse del pontile. Aveva stracciato la plastica del primo involucro e spezzato in piccoli pezzi la mattonella gommosa. Aveva gettato i frammenti in mare, come se fosse la pastura per la battuta di pesca. Poi era stata la volta del secondo pacco. Alla fine era rimasta a guardare il riflesso argenteo della luna, fino a quando il disco algido non era scomparso all’orizzonte.
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Sara aprì gli occhi nell’oscurità della cassa e si ritrovò sola, in un bagno di sudore. Il gatto era scomparso. Le onde si erano rinforzate e il rollio della nave faceva muovere le noci l’una contro l’altra, più rapidamente di prima. Producevano un suono vuoto,
bocce di ferro
lasciate rotolare sulla pista di sabbia. I motori della nave avevano accelerato la potenza, il pianale del camion fremeva. Sara afferrò una bottiglia di acqua e bevve avidamente. “Stupido gatto”, disse infine a mezza voce, tirandosi a sedere, appoggiando la schiena contro le assi di legno. Quante ore sono strascorse? Non ce la faccio più. Aprì la borsa e prese il cellulare. Al diavolo,disse tra sé e premette il tasto dell’accensione. Un lampo luminoso rischiarò l’interno della cassa. Il display segnava le 23.42. Spense il cellulare. Erano passate poco meno di dieci ore. Ne mancavano ancora 14. Iniziò a muoversi all’interno della cassa, si mise nuovamente in ginocchio, allungò il collo e le braccia. Poi l’oscillazione della nave la sbilanciò e scivolò urtando contro le assi di legno. Si raggomitolò in posizione fetale.
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Chiuse gli occhi e si ritrovò a camminare con Bartolomeo, mano nella mano, nella parte vecchia della città di Goa. Percorrevano un
vicolo tortuoso che si infilava tra le
case. Sembrava improvvisamente troncarsi davanti ad un muro di pietre intonacate, invece si apriva un varco e lo stretto passaggio girava attorno ad una piccola nicchia votiva, annerita dal fumo delle offerte. Avevano raggiunto il molo e
si erano seduti
sulle
gradinate di pietra. I palmi l’uno contro l’altro, le dita avvinghiate, il cuore di Sara batteva forte. Dei ragazzini si erano avvicinati, sporchi e scarmigliati, gli occhi voraci e febbricitanti. Volevano qualche spicciolo, un regalo. C’era una bambina che sembrava dipinta con i caldi colori della sabbia. I capelli, la sua pelle, il vestito, un cromatismo uniforme. Aveva posato nelle mani di Sara una ghirlanda di fiori, quelle che si usavano per le offerte al fiume. I fiori arancioni erano avvizziti, li aveva tenuti in mano a lungo. Sara non aveva denaro, si era sciolta la sciarpa azzurra che aveva legato alla vita e l’aveva stretta attorno alla testa della bambina, come un turbante. Lei aveva riso ed era
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scappata via, seguita dal gruppo di bambini urlanti. Sara aveva seguito la stoffa azzurra disperdersi tra la folla. Allora aveva desiderato un figlio da Bartolomeo. Dentro la cassa, Sara si sfregò le mani le une contro le altre, per scrollare via la polvere impastata al sudore. Poi prese la bottiglia di rhum e la vuotò fino all’ultima goccia. Quando posò la bottiglia, il gatto era tornato. Un po’ più piccolo rispetto a prima, riusciva ad allungarsi tra una parete e l’altra della cassa. Sembrava non badare a Sara, che si era rannicchiata in un angolo, nel tentativo di sfuggirgli. Improvvisamente il gatto aveva allungato una zampa e le si era strofinato addosso, caricandola con tutto il suo peso. A Sara mancò nuovamente l’aria. “Il fuoco, te lo sei dimenticato?” disse il gatto, soffiando forte. Quella mattina, sulla spiaggia di Goa, Domenico, pazzo di rabbia, aveva preso a calci la parete del bungalow. Gli tremavano le mani, i suoi occhi cercavano disperatamente un appiglio di salvezza.
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“Hanno rubato la roba, cazzo!” aveva urlato in faccia a Sara, quando se l’era ritrovata davanti. “Sopra il canicciato non c’è più niente. Vuoto. Come facevano a sapere dove cercare, così, a colpo sicuro?”. “Non ci voleva una spia internazionale” aveva risposto lei. “Non ce li ho più i soldi per pagarli. E’ gente che non aspetta. Quelli ci ammazzano senza pensarci due volte.” Bartolomeo aveva balbettato qualche frase sconnessa, avevano bevuto, la sera, e fatto l’amore con Airjn. Non aveva sentito rumori. Domenico gli si era scagliato contro e i due erano rotolati sulla sabbia. Si erano pestati di santa ragione, alla fine Bartolomeo aveva afferrato un bastone e lo aveva rotto sulla testa di Domenico. Gli animi improvvisamente si erano quietati. “Andiamo a parlare, trattiamo. Troviamo una soluzione” aveva detto Sara, risoluta. Poi le immagini nella cassa si fecero confuse. Cosa è successo? E’ stata la stessa notte o e accaduto dopo? Non riesco a ricordare. “Il fuoco, Sara. Non tergiversare. Arriva al punto” il gatto premeva con tutto il suo peso sul petto di lei. 68
Le immagini dell’incendio. Cercava di scacciarle ma erano state evocate ed erano emerse, vivide. Il bungalow che bruciava, il fumo acre che folgorava i polmoni. Lei che trascinava fuori Bartolomeo, svenuto, massacrato dalle botte, fino sulla spiaggia e poi tornava dentro. Aveva visto Ajrin, appesa ad una trave, il corpo mutilato, avvolto nelle fiamme. Era scappata via di corsa, prima che il soffitto crollasse. Nell’ospedale Vasco de Gama, Bartolomeo era rimasto sospeso tra la vita e la morte. Poi si era svegliato e aveva ripetuto ossessivo la sua storia:“Un uomo su di me, mi ha immobilizzato legandomi le mani dietro alla schiena con del filo di ferro. Ha stretto così forte che mi ha spezzato le ossa. Poi mi ha colpito con un oggetto di ferro, un tubo , alle reni, in testa. Sono svenuto. Quando mi sono ripreso il fumo invadeva la stanza. Non riuscivo a muovermi, avevo le ossa delle gambe spezzate. Mi sono guardato intorno e ho visto un sacco legato alle travi del soffitto. Non era un sacco, era un corpo , Ayrin. 69
…il braccio, il braccio destro era tagliato, sotto il gomito, spezzato come una canna di bambù.. “. Il gatto si faceva via via più pesante e le premeva il petto, la trachea. Sara si sentiva perduta. “Quel fuoco lo hai acceso tu. L’hai denunciata agli spacciatori per non perdere Bartolomeo” aveva ringhiato il gatto. Erano venuti degli uomini, a cercare Domenico e la partita di hashish. E Sara aveva accusato Ajrin. L’avevano torturata a morte per questo, volevano estorcerle una confessione e recuperare la droga. Il grosso gatto le soffiò ancora contro e poi, così come era arrivato, si dissolse nel buio della cassa. Sara era stremata, il respiro teso a catturare rarefatte particelle di ossigeno. Il battito cardiaco era accelerato, sudava, non riusciva stare ferma. Si girava e rigirava in quello spazio angusto. Poi un liquido caldo le bagnò le cosce, le gambe, i pantaloni. Stava urinando, senza controllo. Allora sprofondò uno stato di incoscienza. Sara si destò ai colpi secchi che venivano inferti alla fiancata del camion.
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Rimase immobile, confusa. C’erano delle voci, concitate, provenivano da un punto molto vicino alla sua testa. “E dentro ad uno dei camion. Non c’è dubbio”, diceva una voce maschile. La voce di Domenico. “Ce ne sono dieci. Non possiamo controllarli uno a uno,” rispose un secondo uomo. “E invece lo facciamo. Dobbiamo tirarla fuori prima dello sbarco.” “Potrebbe essere in una delle automobili.” “Controlliamo anche quelle, ma sarebbe stato rischioso, per lei”. “Come fai a sapere che è qui? Potrebbe essere rimasta sull’isola.” “ Ha acceso il cellulare e ho ricevuto il segnale. Non più distante di un chilometro dal mio ricevitore. E’ sulla nave ma non tra i passeggeri. L’avrei già individuata. E’ qua dentro”. “Quelli della sicurezza non ci lasceranno fare. E’ già tanto che siamo entrati.” “I soldi comprano tutto e tutti.” “Non sarà così semplice. Questa gente ha il suo orgoglio”. 71
“Tutti hanno un prezzo. Anche tu ed io.” Attorno al camion ci fu del movimento. Un uomo saltò su, atterrando in cima alle noci di cocco. La polvere sfarinò dentro la cassa. “Qui non c’è nessuno. E’ pieno di noci di cocco.” “Controlla bene”. “Ti dico che qui non c’è niente.” L’uomo saltò giù dal camion e risalì su uno a fianco. Poi ci fu un rumore di passi, risuonò una sirena di allarme. “Fermatevi. Che sta succedendo?” la voce aveva un forte accento giapponese. “Tranquilli. Tutto a posto” rispose Domenico. “Scendi dal camion. Vado a chiamare gli autisti.” “Stai calmo. Ci accordiamo, Antony, vieni giù” gridò Domenico. “Abbiamo bisogno di dare una controllata ai carichi. Veloce e discreta. Chiudi gli occhi e non te ne accorgi nemmeno.
In
compenso
ti
compri
una
nuova
automobile.” “Ma
chi
sei?”
la
voce
dell’uomo
strideva
di
rabbia.“Appena scendiamo chiamo la polizia. Venite con me.” 72
“Tranquillo. Che hai capito? Adesso andiamo via” la voce di Domenico era secca. “Forza, fuori dalla stiva. Non ci provare un’altra volta, che ti faccio passare un guaio” l’uomo giapponese ringhiava come un mastino. Ci furono ancora dei rumori soffocati, poi il boccaporto venne chiuso.
Sara era rimasta immobile, sul fondo della cassa. La polvere delle noci di cocco aveva saturato l’aria. Iniziò a sputare grumi di saliva impastati di polvere. Provò a tirarsi su, sedendosi con la schiena contro le assi e afferrata una bottiglia d’acqua, bevve lunghi sorsi. Aveva la gola riarsa e l’acqua non placava la sua sete. Non devo pensare all’India. Altrimenti quel gatto mi uccide. Avrebbe voluto che Domenico e gli altri uomini fossero ancora vicino al suo camion, a discutere, per restare ancorata al presente e non precipitare nel vortice dei ricordi. Invece se ne erano andati e nella cassa risuonavano la vibrazione monotona del pianale e lo sferragliamento dei motori che si fondevano in una nenia ipnotica, Sara si
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sentiva trascinare verso l’inferno dal quale cercava di sfuggire. Si concentrò sull’immagine di Davide, suo figlio. Cercò di materializzarne il profilo, il colore degli occhi. Il sorriso. E si ritrovò davanti uno sguardo carico di odio e di rancore. Gli occhi grigi, taglienti, la osservavano come in trance. La sua testa, enorme, galleggiava dentro la cassa come un pallone gonfiato di elio, premendo contro il coperchio. E si gonfiava sempre più, fino a premerle il corpo, schiacciandolo contro le assi ruvide. Per proteggersi Sara portò le mani al viso e nuove immagini affollarono la sua mente. Si ritrovò al tavolino del bar che suo figlio gestiva al binario numero quattro della stazione. Il giorno in cui Bartolomeo era stato travolto dal treno. Sara aveva sentito la notizia alla radio e si era precipitata alla stazione. Quando era arrivata, gli ausiliari della Croce Verde stavano ricomponendo il corpo sulla barella. Il telo nero lasciava intravvedere le gambe sporche di sangue. Sul marciapiede, a ridosso della panchina di
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cemento, c’erano la sua giacca, i pantaloni, il berretto. Il macchinista raccontava agli uomini della polizia :“ ..me lo sono visto davanti, all’improvviso, il binario prima di entrare in galleria curva leggermente, non potevo vederlo se non qualche istante prima dell’impatto, ho frenato ma era troppo tardi. Un uomo
nudo
che
camminava
incontro al treno, voleva uccidersi…”. Il macchinista si reggeva il volto con le mani e piangeva. La polizia aveva isolato la zona con del nastro giallo per tenere lontani i curiosi. C’era anche Davide, in mezzo alla folla, oltre il nastro di sicurezza. La camicia bianca con le maniche tirate su, fino al gomito, il ragazzo spiccava tra la folla imbacuccata in sciarpe e cappotti. Sara aveva osservato suo figlio, non vista. Si era nascosta dietro ad un pilastro di cemento, lo stesso dietro al quale nel corso degli ultimi anni aveva spiato Bartolomeo che viveva accampato sotto le pensiline dei binari, vestito di stracci. Pervaso da un’idea mistica che aveva annullato ogni altra aspirazione, voleva seguire la giusta via, come un bodhisatva urbano. Sara aveva provato a trascinarlo via, inutilmente. Allora si era accontentata di osservarlo, da dietro la colonna di cemento, in silenzio. 75
Adesso era morto, smembrato come un agnello sacrificale. Sara aveva osservato il volto di suo figlio Davide, in mezzo alla folla. Il viso era contratto in una smorfia, lo sguardo si spostava frenetico dalle macchie di sangue che imbrattavano i binari, alla barella coperta dalla tela cerata, ai poliziotti che gridavano istruzioni da una pensilina all’altra. Poi lo aveva visto arretrare di qualche passo e rientrare nel locale. Lo aveva raggiunto, aveva spinto la porta a vetri e aveva trovato Davide seduto sullo sgabello del bancone, che le dava le spalle. Si era avvicinata e aveva allungato una mano per accarezzargli i ricci scuri. Lui era trasalito. “E’ morto un uomo, si è buttato sotto al treno” le aveva detto con voce rotta. “Sono accorsa appena ho saputo, alla radio”. Davide l’aveva guardata interrogativo:“Lo conoscevi?” Lei aveva mosso le labbra come se cercasse di riordinare le parole nella mente ma non era riuscita a trovare l’avvio giusto. Lui allora si era alzato ed era andato dietro al bancone per servire alcuni clienti. Aveva messo in pressione la 76
macchina
degli espressi con i
gesti meccanici che
ripeteva infinite volte durante la giornata. Sara capiva che aveva bisogno di fare qualche cosa con le mani, per non farsi travolgere dalle immagini di morte che si erano scolpite nella sua mente. La donna era rimasta
immobile, in piedi. Poi aveva
detto :“Ti devo parlare”. Davide
con un cenno le aveva indicato un
tavolino:“Anche io. Ieri ho trascorso la notte più lunga della mia vita”. Sara si era seduta al tavolino vicino alla vetrata. Aveva sfilato le maniche del cappotto e lo aveva lasciato cadere sulla spalliera della sedia. Sul binario la folla di curiosi formava una barriera compatta e copriva la scena dell’incidente. “Che cosa ti è successo?” chiese Sara quando Davide la raggiunse. “L’uomo che mi hai presentato ieri, quel sudamericano, Eduardo. Siamo usciti da casa tua e ha voluto portarmi in un posto. Siamo andati nel centro storico, in una casa di Sottoripa, abitata da magrebini.
Indovina chi c’era, tra
loro?”.
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Il ragazzo articolava le parole come se fossero sfoglie di cristallo, fragili, aveva paura di comporle in una formula esplosiva. Sara era
distratta dalla folla che vedeva
accalcarsi sotto la pensilina e non rispose. “Bartolomeo” disse infine il ragazzo. “L’uomo che oggi è finito sotto al treno. Hai capito?” Lei non gli prestava attenzione, attratta dalla scena dell’incidente. Erano arrivati altri uomini della Croce . Davide scosse la testa e proseguì il racconto. “I due hanno iniziato a discutere ed Eduardo è esploso in una violenza bestiale. Si è accanito su Bartolomeo, lo ha picchiato selvaggiamente.
Lo ha preso a calci, gli ha
spento la sigaretta sulla mano. Io ero paralizzato, c’erano altri due che spalleggiavano Eduardo, non sono riuscito a fare niente per proteggerlo. Mi sono comportato come un vero idiota. E oggi Bartolomeo è morto. Qui, davanti al mio bar. C’è un nesso, una spiegazione? ” Sara guardava suo figlio ma davanti agli occhi vedeva il corpo dilaniato di Bartolomeo. Non riusciva a seguire il racconto, la sua testa era altrove. Davide allora la prese per le braccia e le diede uno scossone. 78
“Si può sapere che ti succede? Chi è Eduardo ?” Sara si riprese. Guardò suo figlio e si senti stanca, vuotata di ogni energia. Iniziò a raccontare una storia che si era tenuta dentro per anni:“ Ho provato tante volte a parlarti di noi, ma non sembrava mai il momento giusto. Le circostanze ti aiuteranno a capire. Forse. Tuo padre si era infilato in un giro di strozzini, oltre vent’anni fa, gente che conosceva da quando era ragazzo. All’inizio piccoli prestiti. Poi la situazione è precipitata e aveva ipotecato tutto. Quando è diventato chiaro che non sarebbe mai riuscito a pagare, gli hanno fatto una proposta.” Sara parlava lentamente. Le parole le si affollavano in bocca e da qui fluivano seguendo il ritmo del suo respiro, atone. “ Doveva sparire. Loro avrebbero sistemato le cose e lui ha accettato”. Sara aveva posato le mani sul tavolino, i palmi rivolti verso il basso. Con le dita aveva afferrato i bordi, come se come se avesse paura di venire travolta da un’onda di marea e volesse aggrapparsi ad una zattera per mettersi in salvo. 79
“Che stai dicendo? Chi sono loro?
E cosa c’entra
Bartolomeo?” chiese Davide con voce strozzata. Ma lei riprese il filo del suo discorso. “Hanno simulato un incidente, sull’autostrada Salerno Reggio Calabria. La sua macchina ha sbandato ed è volata giù dal cavalcavia. Il corpo ritrovato non era il suo ma è stato riconosciuto e la faccenda si è chiusa. Non è stato difficile. L’accordo era che, con una nuova identità, avrebbe lavorato per l’organizzazione. Non aveva scelta. L’assicurazione sulla vita che aveva stipulato ha pagato il debito. Io mi sono tenuta la casa e la sua pensione. C’è stata soddisfazione per tutti.” “Mi stai dicendo che mio padre non è morto?” le chiese Davide, sconvolto. Lei aveva sostenuto il suo sguardo, le mani saldamente aggrappate al tavolino. “Quando ha iniziato a strangolarsi con i debiti, la nostra vita è diventata un inferno. Hanno dato fuoco alla macchina, telefonavano a tutte le ore e mi minacciavano. Domenico era cambiato. All’inizio era annichilito dalla paura, poi si è calmato diventando duro, cattivo. Te lo ricordi, credo. Gli hanno proposto di passare dall’altra parte e lui ha accettato.” 80
Sara aveva allungato la mano e afferrato quella di Davide, stringendola con forza. “Quell’uomo è mio padre? Eduardo è Domenico? Non ti credo, sei pazza”, il ragazzo si era divincolato dalla stretta di sua madre. “Erano cugini, noi siamo cresciuti insieme…Bartolomeo, Domenico ed io. Bartolomeo ha il tuo stesso cognome, Polimeni… aveva.” “Che storia mi stai raccontando? Sapevi che Domenico non era morto? Lo hai sempre saputo”. Nella testa di Davide le idee avevano iniziato a comporsi con un nuovo ordine. Sara aveva appoggiato la schiena alla spalliera della sedia, esausta, lo sguardo puntato oltre la vetrata, verso il binario dove era avvenuto l’incidente. “E’ tornato a Genova, qualche volta. E’ lui che ha pagato la licenza di questo bar. Ora vive in Paraguay, ha cambiato nome, si chiama Eduardo Mendoza. E’ l’uomo che hai conosciuto ieri”. Davide faceva fatica ad inserire la realtà del presente nei suoi pensieri. “Eduardo è Domenico, assurdo. Una bestia.” Il ragazzo si era preso la testa fra le mani, tremava come una foglia. 81
Poi nella mente formulò una domanda netta, strava prendendo coscienza di quanto accaduto. “Conoscevi Bartolomeo e non me ne hai mai parlato? Lo sai che viveva qui, sui binari?”. “E’ una storia complicata, ho provato a farlo venire via ma non ha voluto. Gli passavamo dei soldi. Tuo padre ha usato Bartolomeo per i suoi traffici. A chi sarebbe venuto in mente di controllare
un barbone mezzo matto? Riceveva delle
missive e poi le portava alle persone giuste ”
Sara
scrutava ancora il binario, oltre la vetrata. “ A te? Sei tu la persona giusta?” chiese Davide mentre un ghigno gli deformava i tratti del volto. “Ieri Bartolomeo mi ha detto che voleva andarsene e seguire i suoi sogni. Voleva andare a sud, a scaldarsi le ossa, povero vecchio. Gli ho dato da mangiare, un piatto caldo, come sempre. Ora è tutto finito”, gli occhi del ragazzo si riempirono di lacrime. La morte è una porta, il passaggio obbligato, dopo si aprono infinite possibilità. Ecco che il sole tramonta, ritornate ciascuno a casa vostra fra non molto morirò in solitudine 82
perché io diventi il Buddha perfetto. Sara era rimasta rigidamente seduta, le spalle appoggiate allo schienale, avrebbe voluto allungare
la mano per
consolare suo figlio ma un imperativo interiore glie lo impediva. E’ giovane e supererà tutto questo. Non posso aiutarlo. Il suo pensiero era per Bartolomeo, vedeva il sangue che aveva imbrattato le traversine dei binari e la massicciata di cemento. La sua carne straziata, sotto il telo di plastica. “Siamo cresciuti insieme, Domenico, Bartolomeo ed io. Poi è successo che lui si è perso. Ma non si è suicidato. E’ assurda la storia del treno, lui che decide di farla finita. Non è così che funzionava la sua testa. Pensava a sé stesso come ad un piccolo bodhisatva, alla ricerca dell’illuminazione. Il suicidio avrebbe significato la sconfitta e avrebbe reso inutile la sua vita”. “Il macchinista lo ha visto andare incontro al treno. Era solo. Pensi che sia stato Eduardo, Domenico,….è stato lui? ” chiese Davide asciugandosi gli occhi, alla ricerca di una spiegazione razionale. I due rimasero qualche minuto in silenzio mentre sul primo binario la folla di curiosi iniziava a disperdersi. Ora
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Sara riusciva a scorgere i
poliziotti che eseguivano i
rilievi. La voce di Davide si era fatta dura. “Che sei venuta a fare? Quell’uomo che ho conosciuto ieri, Eduardo o Domenico, forse avrà il mio stesso sangue ma non è mio padre. E’ andato via venti anni fa e non si è più fatto vivo. Un delinquente che ricompare improvvisamente, esce da un buco nero, mi prende sottobraccio e mi fa assistere ad una scena
assurda, lui che massacra a calci
Bartolomeo. Perche? Bartolomeo è rimasto davanti al mio bar, giorno dopo giorno, per dieci anni. Avrebbe potuto essere il padre che non ho avuto. Ha scelto questo binario, questa stazione, mi è rimasto vicino, a modo suo. E con il tuo maledetto silenzio
mi hai impedito di
andargli incontro. Che cosa ti è passato per la testa….non ti sei mai chiesta perché ha voluto vivere in questo modo? Tu nei quartieri alti e lui gettato a terra, come uno straccio.”
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Davide era fuori di sé mentre pronunciava quelle parole. I suoi occhi erano asciutti e riflettevano la luce delle lampade al neon. “Avrebbe potuto essere un amico. E invece sono rimasto solo. Tu e Domenico siete due disgraziati.” Davide sudava freddo. “Quante bugie in tutti questi anni. Tuo padre è morto, mi hai detto. E poi la sceneggiata del funerale,
una
recitazione magistrale. La vedova inconsolabile, la madre perfetta. Ti sei sostituita a Dio e hai deciso della mia vita e di quella di Bartolomeo”. Davide aveva esaurito le sue energie, la voce si era fatto debole, i suoi lineamenti erano tesi, piccole vene bluastre pulsavano alle sue tempie. “Se non avessi preso l’iniziativa di dargli da mangiare gli avanzi del bar, non sarei mai entrato in contatto con lui. Vorrei seguirlo sul binario e farla finita, non sopporto questo dolore” aveva mormorato. Sara aveva lo sguardo perso. “Non ho potuto fare nulla .. ho provato .. ma non ascoltava. Aveva deciso di vivere come un bodhisatva”,
la voce Sara era monotona,
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recitava la sua giaculatoria e con lo sguardo scrutava ancora il binario, oltre la vetrata. “Vattene, non voglio più saperne di te. Di Domenico o Eduardo come si fa chiamare. Vi siete accoppiati bene. Uno peggio dell’altro.” Davide aveva stretto i pugni, con rabbia. Aveva guardato sua madre e aveva visto, dentro ai suoi occhi grigi, distratti,
una luce opaca, sinistra. Non c’era pietà o
compassione. Riflettevano il vuoto. “Non ti voglio più vedere” le aveva detto con rabbia. Si era alzato ed era tornato dietro al bancone del bar. Le parole di Davide erano state affilate come spade ma non avevano straziato il cuore di Sara. La donna non riusciva a staccare gli occhi dal binario, dove c’era ancora qualche curioso che si fermava a ridosso dalla striscia di plastica gialla che delimitava il luogo dell’incidente. Non riusciva a credere che fosse tutto finito, che Bartolomeo fosse morto. Era rimasta seduta qualche minuto al tavolino del bar e poi si era alzata. Era uscita dal locale senza voltarsi e aveva ripercorso i passi che la separavano dalle traversine sporche di sangue. 86
I barellieri avevano portato via il corpo ma erano ancora evidenti delle tracce grumose attaccate alla massicciata di cemento. Sara aveva individuato un uomo che sembrava dirigere le operazioni di polizia. Si era avvicinata e aveva chiesto dove avessero portato il cadavere. “ Lo conosceva?”
l’uomo aveva aggrottato le
sopracciglia. “Lo conoscevo e forse sono l’unica persona rimasta della sua famiglia” aveva detto Sara. Il poliziotto si era fatto attento e l’aveva presa per il gomito. “Eravamo cugini acquisiti. Mi prendevo cura di lui”, aveva aggiunto la donna. “Sono il commissario Cabona” si era presentato
il
poliziotto. Dentro la cassa, Sara spalancò gli occhi. La faccia di suo figlio, grottesca, che aveva riempito la cassa come un pallone gonfiato di elio, era scomparsa, assorbita dal buio profondo. Ma non era rimasta sola. Sara percepiva una presenza. Qualche cosa aveva sfiorato la sua mano.
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Chiuse e aprì gli occhi alcune volte, come per fendere il buio che la circondava. Poi percepì un riflesso che proveniva dall’altro lato della cassa. Due pupille la stavano fissando, uno sguardo famigliare, ne avvertiva la potenza, il calore. “Bartolomeo, sei tu?” chiese in un sussurro. Il buio aveva la consistenza di una massa solida, che riempiva gli spazi della cassa come una gelatina. Sara provò a inspirare profondamente e i suoi polmoni si saturarono. Iniziò a tossire in modo convulso, le mancò l’aria. Poi una mano le accarezzò la nuca e un alito fresco le sfiorò il volto. A quel contatto venne pervasa da una dolce mollezza e si rannicchiò in posizione fetale. Sara appoggiò la testa sulle ginocchia di Bartolomeo e lasciò che le sue dita sottili le massaggiassero il cranio. Nuove immagini presero ad affollare la sua mente. Sara vide se stessa distesa nella sua casa borghese, sulle alture di Genova.
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Le lancette dell’orologio segnavano le dodici, aveva la testa pesante, la bocca impastata per i postumi della bevuta del giorno prima. Era tornata dalla stazione, quel maledetto giorno in cui Bartolomeo era morto sotto alle rotaie del treno. Aveva stappato una bottiglia di rhum. L’aveva vuotata a lunghi sorsi ed era sprofondata in un’incoscienza alcolica. La luce del sole inondava la stanza e lei, coricata sul divano, guardava le particelle di polvere in sospensione nell’aria, come una bambina incantata dalla promessa di una bella giornata. Intravvedeva il cielo fuori dalla finestra, luminoso e privo di nuvole. Si era alzata, aveva raccolto da terra la bottiglia vuota e l’aveva infilata sotto il lavello della cucina, poi aveva bevuto alcuni bicchieri d’acqua. Era andata in bagno e si era spogliata dei vestiti. Aveva aperto il rubinetto della doccia e aveva lasciato che il getto caldo purificasse il suo corpo. crine
Con il guanto di
aveva strofinato la pelle fino a farla bruciare,
avrebbe voluto togliersela, quella pelle, mutare come un serpente e indossare una corazza nuova. Poi aveva asciugato i capelli grigi che le scendevano alle spalle, li aveva pettinati
e sistemati in un morbido 89
chignon. Aveva tracciato la riga sugli occhi con il kajal e ridisegnato il contorno della bocca con una matita dal colore
rosa antico, il colore naturale di quando era
ragazza. Si era guardata
nello specchio, il suo corpo era
invecchiato ma la linea era rimasta quella di un tempo, piccole pieghe disegnavano dei chiaroscuri sull’addome, sulla parte inferiore delle braccia, sul collo.
Un fitto
reticolo di segni vergati su una pergamena. Il tempo di una vita era passato e lei non se ne era quasi accorta. Lo specchio la confondeva, sentiva di essere la stessa donna che camminava sui gatt, a Varanasi, a fianco a Bartolomeo. Che teneva in grembo la ghirlanda di fiori arancioni che le aveva donato la bambina dalla pelle del colore della sabbia. Che pensava
di poter fermare il
tempo, dilatare ogni attimo di felicità e renderlo eterno. Tutto scorre, come l’acqua del fiume. Si era passata le mani sul viso, aprendo e chiudendo gli occhi più volte. Sono trascorsi quarant’anni, adesso Bartolomeo è morto e il cerchio si sta chiudendo.
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Era tornata in camera e si era vestita, aveva infilato una camicia bianca, un morbido maglione di cachemire, pantaloni di gabardine pesanti e gli stivaletti imbottiti. Aveva indossato il cappotto e si era avvolta, attorno al collo, la pashmina. Era uscita di casa chiudendo il portone a doppia mandata. Non aveva preso l’ascensore e aveva sceso lentamente le scale, facendo scorrere il palmo sul corrimano di legno, per lasciare un’ultima impronta di sé tra quelle mura. Arrivata in strada, aveva fermato un taxi e si era fatta portare a Caricamento. Era l’ora di pranzo e non c’era molto traffico. Aveva attraversato la piazza e si era diretta verso San Lorenzo. Aveva risalito l’ampio stradone lastricato e poi si era infilata nel vicolo a destra. I negozi erano chiusi ma bar e taverne erano affollati, le porte che si aprivano e chiudevano lasciavano trapelare il vociare concitato. Lei era passata oltre e si era fermata davanti al portone di legno di vico Gibello. Aveva bussato decisa, dopo qualche minuto la porta si era aperta.
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Hassam indossava la djellaba, la tunica tradizionale. Si era alzato da tavola per venire ad aprire, la sua bocca era piena e masticava. Sara lo aveva seguito nel cortile che odorava di terra e di rifiuti in decomposizione. Ogni volta che entrava in quella casa
aveva la sensazione di oltrepassare la soglia tra
l’occidente e l’oriente. Odori, sapori, rumori. Erano entrati nella grande cucina. La tavola era apparecchiata, c’era tutta la famiglia, i due figli di Hassam con la testa rasata e lo sguardo sfuggente. Le figlie con i capelli avvolti nei foulard colorati. La moglie Zamila, affaticata dai chili di troppo, serviva a tavola. Il vecchio patriarca era a capotavola, la testa canuta e lo sguardo assente per la cataratta che lo affliggeva agli occhi. Vicino al vecchio c’era un uomo che Sara non conosceva, vestito di nero, la fronte alta e spaziosa. Parlavano tutti rumorosamente, attingendo ad un grande piatto di portata posto al centro della tavola. Stufato di agnello e cuscus. La moglie reggeva tra le mani una grande ciotola che conteneva del brodo fumante.
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“Siediti e mangia” le aveva detto Hassam, indicando la sedia libera di fronte alla sua. Ma Sara non aveva fame. In bocca aveva il sapore amaro del fiele. “Sono venuta per Eduardo, per Domenico, devo parlargli al più presto.” “Non c’è. È partito ieri mattina. Chiamalo
ad
Assuncion”. Sara si era seduta e Zamila le aveva versato del cibo nel piatto. L’odore penetrante del cumino e dell’aglio le aveva aggredito le narici ed era sceso in gola. A fatica aveva frenato un conato di vomito e la sua fronte si era imperlata di sudore. Aveva guardato Hassam negli occhi: “ Raccontami quello che è successo a Bartolomeo”. Hassam si era massaggiato i peli ispidi della barba e l’aveva affrontata a viso aperto. “Non era più gestibile, ne combinava una dietro all’altra. Voleva andarsene via, tornare a Rossano. Era ormai fuori da ogni controllo. Lo abbiamo convinto a varcare la porta del paradiso. Era carico di anfetamine, lo abbiamo aiutato a togliersi i vestiti e poi ha fatto tutto da solo. E’ sceso sul binario, si 93
è messo a fare i suoi riti magici, ha sentito arrivare il treno e gli è andato incontro. Ha smesso di soffrire”. L’uomo parlava e continuava a riempirsi la bocca di agnello stufato mentre gli altri commensali continuavano con le loro chiacchiere. Un tremito leggero aveva percorso il corpo di Sara. Era rimasta qualche istante immobile, poi aveva afferrato la borsa e l’aveva aperta. Aveva rovistato dentro, poi aveva riportato la mano sul tavolo, impugnando
una Beretta calibro 38. Piccola,
maneggevole, l’impugnatura di radica fatta apposta per la sua mano. Un lampo aveva attraversato lo sguardo di Hassam che aveva spalancato la bocca. Il cuscus gli era scivolato sul petto, macchiando la tunica. Sara
aveva alzato l’arma e aveva fatto fuoco. Aveva
colpito Hassam in mezzo agli occhi, il proiettile aveva disegnato un foro dai bordi definiti prima di esplodere mandando in mille pezzi la calotta cranica dell’uomo. Il corpo era stato spinto all’indietro ed era caduto con uno schianto sul pavimento.
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I commensali si erano irrigiditi, come nel fermo immagine di una pellicola cinematografica. Poi i due figli di Hassam si erano alzati precipitandosi sulla donna. Lei aveva esploso in sequenza altri due colpi. I due giovani si erano accasciati sul tavolo, rovesciando piatti e bicchieri. Sara aveva posato l’arma sul tavolo e appoggiato la testa a fianco. Il suo respiro era debole, sentiva le urla delle donne come se fossero lontane, in un’altra stanza o in un altro mondo. Si erano alzate rovesciando le sedie, i piatti frantumati a terra. Il sangue degli uomini si era mischiato al sugo dello stufato. Il vecchio, all’altro capo del tavolo, era rimasto impassibile mentre l’uomo vestito di nero si era riparato sotto la tavola. Sara improvvisamente si era scossa, si era ricordata del vecchio e aveva sollevato di scatto la testa e il busto. La mano aveva stretto il calcio della pistola e aveva sparato ancora. Il primo colpo lo aveva colpito alla spalla, il secondo aveva centrato il petto dell’uomo. I proiettili erano terminati.
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Il rumore attorno a Sara si era fatto assordante, le urla, le grida. Poi dalla strada si erano levate le sirene della polizia, passi concitati avevano attraversato il cortile. Sara aveva nuovamente appoggiato la testa sulla tavola, incurante del liquido scuro che colava dalla tovaglia e le sporcava il cappotto color cammello. Aveva sentito una mano sollevarle la testa e aveva incrociato lo sguardo di un giovane poliziotto che le sfilava l’arma dalla mano. Si era alzata e lo aveva seguito docilmente. Nella cassa Sara si sentiva bene, per la prima volta dopo molte ore. In pace con sé stessa. I ricordi scorrevano lievi nella sua mente, rivedeva le immagini di quella carneficina da
prospettive nuove, viveva in prima
persona i ricordi ed al contempo ne era spettatrice. Sono stata l’angelo sterminatore con la spada sguainata, nessuna voce fuori campo ad ordinarmi “Fermati! Ritira la mano”. Il sacrificio si era compiuto.
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Sara posò la testa sulle cosce magre di Bartolomeo, che le reggeva la nuca e le massaggiava i capelli. Il cerchio si era chiuso, Bartolomeo era tornato a lei. “Che intendi fare, quando la nave arriverà in porto?” chiese Bartolomeo con la voce acuta di quando era bambino. “Hai sofferto molto, quando c’è stato l’impatto?” Sara aveva davanti agli occhi l’immagine del sangue sui binari. “Ho sentito il calore della luce. Non avevo capito che era il treno ma ormai non ha più importanza. Dimentica. Il passato è finito, andato. Anche io sono finito, il mio corpo è polvere. Conta il presente, questo spazio ristretto, dentro la cassa. Il presente è questo. Quando il camion sbarcherà, tu che farai? Ti trascinerai in mezzo al fango, tirandoti dietro le
pistole? Vuoi
uccidere altra gente?” Sara sorrise,
la tonalità argentina della voce di
Bartolomeo le aveva acceso
sensazioni che credeva
sopite. Si ricordò di una cosa sulla spiaggia dalla sabbia arroventata dal sole. E poi il mare e la schiuma delle onde, spruzzi di acqua fresca e salata, le risate di bambini.
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“Concentra la tua attenzione sul fine. Usa la testa e non farti guidare dalle passioni. Uccidere Domenico risolverà i tuoi problemi? E’ questo l’obiettivo che hai stabilito?” la voce di Bartolomeo si era fatta grave. Sara prese la mano dell’uomo, era magra, la sua pelle rugosa. Non era la mano di un bambino ma di un uomo che aveva raggiunto la saggezza. “Il mio obiettivo è salvare la vita a Davide. E’ mio figlio. Fino a che ho in mano le chiavi del gioco, si dimenticano di lui. La corsa del gatto contro il topo non ha altro scopo. Sono stanca e vorrei porre fine a tutto questo. Sono un’alcolista all’ultimo stadio, le mie mani tremano, sono in piena crisi di astinenza. Sarebbe facile puntare la pistola contro me stessa e fare fuoco. Ma non posso ancora farlo, devo risolvere la faccenda con Domenico. Alla fine riprenderanno i soldi e si metteranno il cuore in pace. A Tokyo c’è Toru che mi aspetta.” Sara percepì un senso di vuoto, di mancanza. Bartolomeo era vicino a lei ma era anche distante. Reggeva la sua mano,
leggera come una piuma, fragile come un’ostia.
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Con
un
movimento
del
polso
avrebbe
potuto
disintegrarla. “C'è un momento per l'inizio e un momento per la fine. Hai ucciso un ragazzo innocente. Anche se sapevi che Domenico ti avrebbe torturata a morte per estorcerti i codici dei conti bancari, non dovevi fargli saltare il cervello. Metti fine a questo bagno di
sangue e liberati delle
pistole. Se le tieni addosso, prima o poi le userai ancora e la catena di morte continuerà. Sarai sempre più schiava delle pressioni esterne e non riuscirai a guardarti dentro. A capire che cosa è giusto fare. E’ semplice scrivere la parola fine. Senza rabbia e risentimento, apri il tuo cuore alla compassione”. Sara iniziò a ridere. La risata proruppe dalla sua bocca con un tintinnio di cristalli e il suo corpo vibrò come una corda di chitarra pizzicata da dita esperte. “Ridi, Sara, il riso è una benedizione. Ti apre la mente e il cuore”. La donna si tirò sulle braccia e si girò, sedendosi di fronte a Bartolomeo. Lui era un’ombra scura in uno sfondo di pece, Sara cercava quel bagliore intravisto poco prima, la
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scintilla nera del suo sguardo ma non riusciva a penetrare le tenebre. L’uomo le prese le mani e iniziò a massaggiarle, lentamente. Sara continuava a ridere, gli afflati si susseguivano come onde durante la mareggiata, una dietro l’altra e si rincorrevano sovrapponendosi. Le assi di legno della cassa vibravano e amplificavano il suono. Alcune parole le uscivano di bocca, come sassi lanciati sulla battigia da marosi impetuosi, “..io non ce l’ho, il cuore” e poi le convulsioni prendevano nuovamente il sopravvento. Bartolomeo le serrava le mani, Sara sentì la sua forza e pensò a quelle mani evanescenti, incorporee che avrebbero potuto smuovere le montagne. “Il riso è un’arma molto potente, un filtro magico. Ho visto l’amore che tracimava dal tuo corpo. E ho bevuto alla tua fonte. Ma hai avuto paura, hai soffocato l’amore come se fosse un fuoco devastante. Credi che il senso di colpa che ti tormenta si scioglierà spargendo altro sangue? E’ tutto sbagliato. Non lo fare per me, non ha senso vendicare la mia morte. E’ nella natura delle cose nascere
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e morire. Non è un bene, non è un male. E’ la nostra condizione. Io non ti chiedo vendetta. Ti chiedo amore.” Bartolomeo la tratteneva per i polsi. L’impeto della risata di Sara andava scemando, il ritmo si era fatto soffice, il suo corpo aveva smesso di tremare. Aveva esaurito le energie e si era protesa in avanti e aveva cinto con le braccia il corpo dell’uomo. La sua testa aveva trovato spazio nell’incavo della sua spalla e si era abbandonata, l’ultima risata si era dissolta in un respiro. Lui prese ad accarezzarle i capelli intrisi di sudore e polvere, poi le massaggiò spalle, la schiena, e seguì con la mano il disegno del suo corpo, fino alla vita. Sfiorò la fascia che cingeva la pistola, slacciò il nodo che la assicurava e la posò sul fondo della cassa. Quindi le scoprì la gamba fino al polpaccio e sciolse il laccio della fondina della pistola. Con la mano saggiò le assi di legno della cassa. Trovò un punto dove lo spazio tra le due assi era abbastanza ampio, prese la prima pistola e la fece scivolare fuori dalla cassa. Poi prese la seconda e fece sparire anche quella.
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Sara percepiva i movimenti dell’uomo e si sentiva leggera, quasi trasparente. Dalle sue labbra usciva un
respiro
lento, calmo, profondo. Ho ritrovato Bartolomeo. Lui è tornato a me. Il sonno la colse senza preavviso e davanti ai suoi occhi fluirono immagine lontane.
Sara si ritrovò nell’ufficio della Questura,
seduta di
fronte al commissario Cabona. Alla sua destra c’era l’aiutante Desalvo, alle sue spalle un
poliziotto
piantonava la porta. Era arrivata in manette al commissariato, subito dopo gli omicidi nei vicoli della città vecchia, ma adesso i suoi polsi erano liberi. Il registratore
sulla scrivania era acceso, pronto per
l’interrogatorio. Aveva incontrato per la prima volta il commissario il giorno della morte di Bartolomeo, sui binari della stazione. Lei aveva prestato la sua deposizione e l’uomo l’aveva accompagnata all’obitorio, per il riconoscimento. Dietro alla sua scrivania, Cabona la stava osservando con attenzione. Non si era rasato e l’ombra grigia sulle guance
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accentuava la sua espressione stanca e sofferente. Sara percepiva l’inquietudine dell’uomo, non riusciva
a
metterla a fuoco come avrebbe voluto. Con lo sguardo aveva scorso i suoi capelli, poi si era soffermato sulle mani che Sara teneva composte, in grembo. L’uomo aveva stretto le spesse palpebre per mettere a fuoco i dettagli. Sara aveva seguito il suo sguardo fermarsi sul disegno del serpente che aveva tatuato attorno al polso, poi era sceso sul cappotto colore cammello dal taglio sartoriale, il lato sinistro macchiato di marrone scuro. Come se si fosse rovesciata addosso la tazza del caffè, ma era il sangue rappreso dei Mansur. Cabona aveva distolto lo sguardo dalla sua figura e aveva preso a sfogliare un fascicolo posato sulla scrivania. Sulle labbra di Sara si era disegnato un sorriso ambiguo. Sono
una donna borghese, istruita, economicamente solida, non
riesci a spiegarti il mio ingresso in quella casa, nel cuore dei carruggi, nella casbah genovese. Ho ammazzato quattro uomini. Quattro algerini. Quattro galoppini del clan dei calabresi. Tutti pesci piccoli, insignificanti nella gerarchia del malaffare genovese. Ti stai chiedendo che tipo di animale sono?
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Il commissario Cabona non riusciva a trovare una logica nella successione degli eventi. Nello scantinato del palazzo dove era avvenuta la strage, avevano trovato le carcasse di agnelli che erano stati abbattuti da poche ore. La casa di Hassam nascondeva, oltre a tutto il resto, anche una macelleria clandestina per immigrati. L’imam presenziava tutti i giorni e certificava la corretta procedura per la macellazione, secondo le regole halal delle legge islamica. Il commissario aveva sparse sul tavolo, davanti a sé, le tessere di un mosaico e Sara era venuta per ricomporre il disegno. Si era accesa una sigaretta e aveva aspirato profonde boccate. “Mi racconti i fatti” l’aveva incalzata l’uomo premendo il tasto sul registratore. Lei aveva staccato la sigaretta dalla bocca. “ Ho ucciso quattro persone. I maschi della famiglia Mansur.” “Perchè?” aveva chiesto lui, meccanicamente. “Avevamo dei conti in sospeso. Ho bisogno che
mi
garantisca che certi argomenti della nostra conversazione
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non verranno divulgati. E voglio restare sola con lei. Non posso parlare altrimenti.” Sara si era appoggiata allo schienale della sedia, in attesa. “Il mio aiutante, Desalvo, deve rimanere. Non uscirà una parola di troppo da questo ufficio. Soprattutto con i giornalisti, ma dobbiamo registrare tutto.” Poi rivolto al tenente che piantonava la porta: “Rimanga fuori, la richiamo io”. Nella stanza erano rimasti in tre. Sara aveva mantenuto un composto silenzio. “Allora?” l’aveva incalzata il commissario. “Lei non mi ha garantito nulla. Voglio collaborare alle mie condizioni. Devo pensare a mio figlio. Spenga il registratore. Più tardi le fornirò una versione depurata dai fatti che non voglio che vengano resi noti. Allora lei potrà registrare.” Il commissario e Desalvo si erano scambiati un cenno d’intesa, Cabona aveva spento il registratore. “Spegnete anche i cellulari. Se registrate senza il mio consenso, smentirò ogni parola”. I due uomini avevano posato i cellulari
spenti sulla
scrivania.
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Sara aveva atteso qualche minuto e aveva iniziato a parlare. “Il suicidio del vecchio barbone alla stazione. Bartolomeo Polimeni. E’ stato Hassam Mansur a spogliarlo e a metterlo sui binari, in attesa del treno. Assieme ai suoi figli. Quei bastardi sono rimasti a guardare, era imbottito di anfetamine, lo verificherete con l’autopsia.“ Cabona
l’aveva
guardata
frastornato,
i
risultati
dell’autopsia non erano ancora arrivati. “Non capisco il suo coinvolgimento e quello di Davide”. “Ero in stretti rapporti con il vecchio, ci siamo conosciuti da giovani, veniamo entrambi da Rossano, in Calabria. Un paese che non conoscerebbe nessuno se non fosse per il codice bizantino. Bartolomeo era primo cugino di mio marito, Domenico Polimeni.” “Lei è vedova?” aveva chiesto Cabona sfogliando le carte che aveva sulla scrivania. “Mio marito è morto in un incidente, vent’anni fa. Abbiamo sempre provveduto noi
a Bartolomeo
e
quando mio marito è mancato, ci ho pensato io.“ “Cosa mi dice del matrimonio con Adriana Paternò?”
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“E’ stato messo in mezzo. Lei e Bartolomeo avevano avuto una breve storia. Dopo qualche mese la donna era venuta a cercarlo, dicendo che il figlio di pochi mesi che aveva in braccio era il suo. Il figlio in realtà non era suo” . Cabona era concentrato: “Ci deve essere un collegamento tra l’omicidio all’edicola che gestiva Bartolomeo e
il
suicidio alla stazione. Circolava della droga, dieci anni fa. Stavamo indagando, prima della sparatoria. Due tossicodipendenti volevano l’incasso della giornata e Bartolomeo Polimeni aveva cercato di difendersi. Uno di loro aveva sparato e il figlio era morto. Quello che Polimeni credeva essere suo figlio. Apparentemente tutto chiaro, anche in quell’occasione. Ma poi abbiamo scoperto che il giovane ucciso non era suo figlio. Le analisi del DNA lo hanno chiarito. Abbiamo parlato con la moglie e lei ha ammesso di averlo avuto da Calogero Gambino, il
boss calabrese che negli anni
Ottanta gestiva un giro di droga e prostituzione, qui a Genova. L’uomo era in prigione e ancora oggi è rinchiuso, sta scontando l’ergastolo. Ha continuato a mantenere i collegamenti con la famiglia e gli affari.
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L’edicola di Polimeni era la copertura. Gli avevano fatto sposare la vedova bianca. I due tossici avevano inscenato una rapina, volevano uccidere il ragazzo, altrimenti avrebbero sparato subito a Bartolomeo. Invece hanno aspettato che il ragazzo uscisse allo scoperto. E’ stato un regolamento di conti per il controllo della piazza, hanno ucciso il figlio del boss. Ma con le indagini siamo arrivati ad un punto morto. Polimeni non ha mai collaborato. L’avevo conosciuto, quando gestiva l’edicola, un padre di famiglia. Abitavo nel quartiere, andavo a comperare il giornale da lui
tutte le mattine. Bartolomeo parlava
sempre di Fabrizio, quello che aveva fatto o detto. Quanto era bravo con il pallone, i libri che leggeva. Credo che dopo l’omicidio abbia perso la testa non solo per la morte del ragazzo ma anche per aver scoperto l’imbroglio.” Sara aveva socchiuso gli occhi e rivolta al commissario aveva detto: “Ottime deduzioni, diciamo che la ricostruzione che ha fatto si avvicina molto alla verità.”
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Poi aveva preso un’altra sigaretta dal pacchetto posato sulla scrivania e Desalvo le aveva porto l’accendino. Sara aveva aspirato una lunga boccata di fumo. “Bartolomeo aveva bisogno di credere in qualche cosa, di aggrapparsi ad una speranza. E Fabrizio, il bambino, era stato una benedizione. Gli anni che hanno vissuto insieme sono stati i più felici della sua vita. Tutto il resto gli era indifferente. Anche i traffici che gli giravano intorno, non se ne curava. Forse neppure se ne accorgeva.” “Di che traffici stiamo parlando?” le chiese Cabona. “La ditta MeditCo
di Catanzaro l’ho aperta io e
l’amministratore era Bartolomeo Polimeni”. “Che ditta è?” “Import - export. Carne ovina surgelata, proveniente dal Paraguay. Ha consociate in Francia e in Algeria. E’ una copertura per il traffico di cocaina. La droga viaggia nella pancia delle pecore surgelate.” Cabona e Desalvo si erano drizzati sulle sedie, tesi come cani da caccia che annusano gli escrementi freschi della preda.
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“E dall’altra parte chi c’è? Chi spedisce gli agnelli imbottiti?” chiese Cabona. “L’azienda
El Cordero,
il proprietario è Eduardo
Mendoza. E’ lui il capo. ” rispose Sara a denti stretti. I due uomini mantenevano la posizione da punta, le orecchie dritte, pendevano dalle labbra di Sara. “Ricostruiamo dall’inizio. Oggi lei si è svegliata e ha deciso di ripulirsi la coscienza e vendicare Bartolomeo Polimeni, il barbone, mi corregga se sbaglio”, il commissario si stava concentrando. La sua testa elaborava i dati, le caselline
si riempivano, stava attivando delle
connessioni logiche. “Si. L’ho conosciuto in un altro contesto, è stato un uomo importante della mia vita. Volevo togliere Bartolomeo dalla strada e riportarlo a Rossano. Ma non mi è stato possibile. Il clan lo voleva qui perché faceva da tramite. Riceveva messaggi ad ogni spedizione. Dal Paraguay gli venivano spediti dei telegrammi ad una casella postale. I messaggi erano apparentemente banali ma tutti in codice. Segnalavano le spedizioni, i quantitativi e porti di arrivo, i numeri dei conti bancari sui quali avvenivano le transazioni. 110
Lui prendeva i telegrammi e li portava da Hassam. A chi sarebbe venuto in mente di controllarlo? E’ stata un’idea geniale. Non lo hanno lasciato andare via. ” “E suo figlio, che ruolo gioca in tutto questo?” “Mio figlio non sa nulla. Di me, di Bartolomeo, della MeditCo. Pensa che in questi anni abbia mandato avanti la famiglia con le lezioni di italiano per stranieri. E’ totalmente estraneo ai miei affari. E voglio che resti tale.” Sara aveva fatto una pausa, aveva aperto la borsa e aveva preso una chiavetta USB. “ Su questa chiave ci sono tutti i riscontri contabili degli affari intercorsi tra la MeditCo e la El Cordero. Dal 1990 ad oggi”. La sigaretta di Sara si era consumata e la cenere le era caduta sul cappotto. Aveva schiacciato il mozzicone nel posacenere e si era scrollata la cenere da dosso. “Davide non conosceva Bartolomeo, conosceva il barbone. Un uomo che da anni stava seduto davanti al suo bar. Come un angelo protettore. Bartolomeo aveva una seconda vita, come le ho detto. Aveva una stanza dai Mansur,
ci andava per lavarsi,
riposarsi, fare il suo lavoro.” “Lei testimonierà contro il clan?” chiese il commissario. 111
“Sono qui per questo. Ho vuotato la cassaforte di famiglia, 300 milioni di dollari. Non posso tornare indietro. Vorrei che facesse una dichiarazione alla stampa indicandomi come colpevole degli omicidi. La responsabilità di quanto è successo deve ricadere sulle mie spalle. Dovrete indicare con precisione il mio ruolo all’interno dell’organizzazione e i dettagli delle esecuzioni di oggi. Questo catalizzerà l’attenzione di tutti, dei buoni e dei cattivi. Voglio che Davide ne resti fuori. A qualunque costo. Penso che sia l’unico modo. Vi racconterò ciò che so, ricostruirò per voi la trama in Italia, Paraguay e Algeria. Riempite i giornali con il mio nome. Poi avrete anche i 300 milioni di dollari.” Il commissario si era volto verso Desalvo. “Chiama il giudice Valverde. Digli di venire al più presto, dobbiamo predisporre un programma di protezione per i testimoni. Sollecitalo nel modo che sai.” Desalvò si era precipitato fuori dall’ufficio. Sara e Vincenzo Cabona erano rimasti soli. “Dove sono questi soldi?” chiese il commissario. “Al sicuro. In una banca giapponese. Ho degli amici”. 112
Cabona non aveva nascosto la soddisfazione per tutto quel ben di Dio che
gli veniva offerto sul piatto
d’argento. Vent’anni di malaffare che si irradiava dai carruggi e allacciava connessioni internazionali. E la cassaforte del clan. “Che rapporti aveva con i Mansur?” “Gestivano i movimenti con l’Algeria. Controllati dai Gambino. Adriana Paternò, la donna che aveva sposato Bartolomeo Polimeni è la referente del boss sulla piazza genovese. Tenete il boss chiuso in gabbia ma ha continuato a gestire i suoi affari come prima. E’ stata sua l’idea di usare Bartolomeo come copertura. Sia quando gestiva l’edicola assieme alla moglie, sia per i contatti successivi. Voi poliziotti andate a cercare soluzioni difficili, complicate. Invece è tutto così semplice. Agnelli alla coca che girano indisturbati per tutto il Mediterraneo.” “Come fanno a superare i controlli? I cani fiutano anche alle basse temperature”. “ Sulla busta paga della famiglia c’è mezza Calabria. Faccia una passeggiata sulle montagne della Sila e capirà tante cose. Solo sassi e cicale. E stazzi per le pecore. Se 113
non ci fosse del lavoro extra la Calabria sarebbe un deserto”. “Ho tanti amici calabresi, si spezzano la schiena ma non si piegano alla malavita. E restano in Calabria perché amano la loro terra.” “Forse allora i deviati li ho conosciuti tutti io. E’ possibile anche questo. Faccio parte del clan” rispose Sara, aspirando lentamente il fumo della sigaretta. Avevano fatto una pausa, lei aveva chiesto un’aranciata e un toast. Mentre aspettavano le consumazioni dal bar, Sara aveva chiuso gli occhi. Poi avevano bussato
alla porta e una ragazzina era
entrata con il vassoio in mano. Aveva posato il bicchiere con l’aranciata e il piattino con il toast sulla scrivania. Cabona le aveva dato una mancia e l’aveva congedata. Sarà si era ricomposta e aveva portato il bicchiere alle labbra. Aveva bevuto e si era schiarita la voce. “Mi è venuta in mente una vecchia storia. Risale al 1964. Lo sa che oggi la Sila è diventata un parco Nazionale? C’era stato un sequestro quell’anno, un industriale siciliano. Si chiamava Calogero Panico, aveva delle fornaci, nella zona di Reggio Calabria.
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Un sequestro anomalo, nessuna richiesta di riscatto. La famiglia Gambino lo aveva preso per esercitare pressioni sulla cosca di Platì. Prima dell’accordo stretto tra siciliani e calabresi, per la non ingerenza nei rispettivi territori. Fu sequestrato e tenuto prigioniero in uno stazzo sulla montagna, vicino a Rossano. E’ rimasto diversi mesi in fondo ad una cisterna, sepolto vivo. E’ morto là dentro. Noi bambini lo chiamavamo l’uomo cane.” “Voi bambini?” aveva chiesto il commissario. “ Bartolomeo, Domenico e io. Avevo dieci anni. Credo che l’uomo si trovi ancora là sotto. Le sue ossa, almeno. Nello stazzo di Antonio Polimeni, lo zio Tonio. Poi nella cisterna
c’è finita altra gente. Vada a fare una
perlustrazione, troverà del materiale interessante”. Cabona aveva fatto una veloce ricerca al terminale utilizzando il Pc che stava sulla scrivania e aveva trovato un riferimento. Sollevando gli occhi dallo schermo, aveva fatto un profondo sospiro e mormorato: “ Sara, sei come il vaso di Pandora”. PARTE SECONDA
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Sara si era svegliata di soprassalto, c’erano voci concitate attorno al camion. Avevano aperto i boccaporti e molte persone stavano occupando la stiva di carico. Venivano assestati dei colpi violenti ai blocchi che fermavano le ruote degli automezzi. Sara si era alzata a sedere, agitando le braccia davanti a sé in cerca di Bartolomeo ma polvere. Aveva sfiorato
aveva raccolto soltanto
le bottiglie d’acqua, la sua gola
era secca, ne aveva aperta una e l’aveva vuotata. I motori stavano rallentando, la nave entrava in porto. Il vociare della gente aumentava,
gli autisti prendevano
posto sui loro mezzi. Sara cercò la sua borsa, l’aprì e prese una delle banane che le aveva dato Yukiko. La sbucciò e iniziò a mangiarla a piccoli morsi. Aveva la gola serrata, impastata di polvere. La banana rimaneva ferma nella trachea. Sara si sforzò di deglutire, poi bevve alcuni sorsi d’acqua. Devo recuperare le forze, tra poco uscirò da questa gabbia. Impiegò un tempo lunghissimo a finire la banana. Poi si rilassò, cercando di reprimere la nausea che la soffocava. Si tastò la vita e poi fece scorrere le mani lungo le gambe.
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La fascia con la pistola e la fondina legata al polpaccio non c’erano più. Provò a cercare, saggiando il fondo della cassa attorno a lei, ma non le trovò. Infilò le mani tra le assi, le noci di cocco le impedivano di raggiungere il pianale del camion. Tornò a sedere a terra. La polvere si era impastata agli umori del suo corpo e si ritrova coperta da una patina grassa. C’era ancora una bottiglia di acqua, l’aprì e si sciacquò il viso, le mani. Poi bevve ancora e sbucciò una seconda banana. Sentì il fragore dell’ancora lanciata sul fondale e i motori decelerarono. La gente faceva pressione attorno al camion, sentiva le mani che cercavano di sfilare qualche noce di cocco. Poi i motori si spensero e venne aperto il portellone. I
passeggeri sciamarono sulla banchina, gli autisti
avviarono i motori. Il camion sul quale era caricata la cassa iniziò a muoversi, sobbalzando scese sulla banchina e la luce filtrò all’interno della cassa. Sara immaginò che fosse pomeriggio inoltrato, la temperatura non era molto elevata.
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Il camion si incolonnò dietro una fila di automobili, avanzava lentamente, fermandosi a intervalli regolari dopo aver percorso pochi metri. Poi imboccò una strada a traffico scorrevole e accelerò l’andatura. Si trovavano nell’area urbana che univa la zona portuale alla città.
Le brusche frenate e gli arresti che si
susseguivano erano dovuti ai semafori che regolavano il traffico, i claxon suonavano in continuazione, era l’ora di punta, in corrispondenza della chiusura degli uffici. Nella penombra della cassa Sara aprì la sua borsa ed estrasse il PC. Lo accese, sperava di riuscire a captare una linea wifi. Si trovava in
Giappone,
il paese più
tecnologico del mondo e il camion stava proseguendo a bassa velocità, non superava i quaranta chilometri orari. Quando si fermarono per l’ennesima volta, tra i claxon che suonavano all’impazzata, arrivò il segnale. Sara aprì la sua casella di posta elettronica e trovò la risposta di Toru. Digitò rapida sulla tastiera: SONO TOWN,
A
TOKYO, TRA
VIENIMI A PRENDERE AL
QUALCHE
ORA.
SOTTO
PALETTE
LA
RUOTA
PANORAMICA.
Poi premette l’invio e
fece in tempo a ricevere la
conferma di ricezione. Il camion si mise in moto ed il 118
segnale si interruppe. Lesse l’ora, erano le sei di pomeriggio. Viaggiarono ancora per circa un’ora e poi il camion si fermò. L’autista scese dalla cabina e Sara udì il rumore di un cancello che si apriva. Ci fu un breve scambio di battute con un altro uomo, poi Tageshi risalì su mezzo, percorse poche decine di metri e parcheggiò. Si trovavano in un luogo chiuso,
i rumori della strada
erano attutiti. Sara rimase immobile, udì il suono metallico di una scala che veniva agganciata alla fiancata del camion. Il fratello di Yukiko salì in cima e iniziò a spostare le noci di cocco da sopra la cassa. Quindi sollevò il coperchio e Sara si coprì gli occhi con le mani, una lampada al neon era piazzata esattamente sopra la sua testa. “Esci” le disse l’uomo, tendendole una mano per aiutarla a scavalcare il parapetto. Sara si alzò in piedi e una sensazione di benessere si diffuse in tutto il suo corpo. Si sgranchì le gambe e respirò a pieni polmoni l’aria priva dal pulviscolo appiccicoso. Si guardò intorno, si trovavano dentro ad un capannone di lamiera ondulata. Raccolse da terra la sua 119
borsa e si accucciò ancora una volta sul fondo della cassa. Cercava le pistole. Provò nuovamente a infilare la mano tra le assi della cassa e le sue dita sfiorarono un lembo di stoffa. Allora cercò di allungare il braccio, afferrò con le punte dei polpastrelli la fascia e lentamente la tirò dentro la cassa. La pistola c’era ancora. Si annodò la fascia sotto alla camicia e si rialzò in piedi. L’uomo la stava osservando, dall’alto della scala. Sara gli tese la mano e lo raggiunse. Le sue gambe tremavano, era rimasta piegata su sé stessa per più di venti ore, i muscoli indolenziti avevano bisogno di tempo per riacquistare la loro elasticità. Scese lentamente i pioli di acciaio,
quando toccò terra le sue ginocchia si
piegarono ed ebbe bisogno di aggrapparsi alla fiancata del veicolo per non scivolare a terra. L’uomo la squadrò dalla testa ai piedi. Poi, senza dire una parola, la guidò tra gli altri camion parcheggiati. Sul lato sinistro c’era una pompa d’acqua. “Ti puoi lavare” le disse. Sara si spogliò della fascia e si sfilò la camicia e le scarpe. Rimase in reggiseno e pantaloni. Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua sul suo corpo. Un getto potente, la 120
pompa serviva per lavare gli automezzi. Sotto lo scroscio d’acqua fredda il suo corpo fu scosso da brividi. Poi iniziò a recuperare il vigore perduto. L’acqua lavava via la sporcizia della cassa e lo stress accumulato, si fregò i capelli, le braccia, il seno, le pieghe dei pantaloni. Poi chiuse il rubinetto e rimase gocciolante sul pavimento di cemento, ai suoi piedi si formava un vortice d’acqua che prendeva la direzione del tombino. L’uomo le porse un asciugamano. “Siamo lontani dal centro commerciale Palette Town?” gli chiese la donna. “Si trova dall’altro lato del golfo.” “Devo raggiungerlo. Ti pagherò anche questo disturbo.” “Ho la moto parcheggiata fuori, impiegheremo più di un’ora.” “Andiamo” disse Sara e si infilò una camicia pulita che aveva preso dalla borsa. Si assicurò alla vita la fascia con la pistola, incurante dello sguardo dell’uomo. “Fossi in te non andrei al Palette Town. Sui giornali e alla televisione hanno mostrato la tua fotografia. Sei ricercata per l’omicidio del ragazzo sull’isola.” “ Devo trovarmi al Palette entro breve tempo. Nessuno baderà a me.” 121
“ Sei uguale alla fotografia che hanno diffuso.” L’uomo andò a rovistare dentro la cabina del suo camion, quindi tornò con un berretto da baseball. Sara se lo calcò sulla testa e chiese:“Come si chiamava il ragazzo che è morto?” “Shoko Yukitake, ricercato dalla polizia, un uomo della Yakuza.” “E perché stanno tutti dietro a me?” “Hanno detto che sei stata l’ultima a vederlo.
Ci sono
dei testimoni. Sei una donna che non passa inosservata”. Il suo cellulare prese a squillare,
l’uomo parlò in
giapponese. Quando terminò la conversazione, disse: “C’è una Land Rover parcheggiata vicino all’angolo. Si è fermata poco dopo il nostro arrivo e non si è ancora mossa. Mi ha chiamato il guardiano.” Domenico. E’ riuscito ad individuarmi fino al deposito, c’e una cimice sul computer o sul cellulare. Il cellulare non l’ho acceso, ho usato il computer. Tirò fuori dalla borsa il PC e lo accese. Lo lasciò posato sul muretto. “Prendi la tua moto. C’è un’altra uscita?” “Sul retro, porta in mezzo ai campi” 122
“Io passerò di là. Aspettami a un chilometro di distanza, uscendo dal cancello. Che direzione prendi per andare al Palette Town?” “Svolto a destra” rispose lui. “A destra allora, fermati a un chilometro di distanza. Io ti raggiungo passando per i campi”. Si mise davanti al computer e resettò la memoria del disco fisso. Quindi lo lasciò acceso, prese il cellulare, estrasse la SIM e lo posò sulla tastiera del PC. “Quando torni, li puoi prendere ” disse rivolta all’uomo. Raccolse la borsa ed uscì dalla porta secondaria. Era calato il sole e l’aria era tiepida, i vestiti bagnati che indossava si sarebbero presto asciugati. Mise la borsa a tracolla e iniziò a seguire il perimetro dell’edificio, sul lato destro. Vide il cancello, si fermò e aspettò che Tageshi uscisse con la moto. L’uomo si fermò a scambiare qualche parola con il custode e poi si allontanò dando gas al motore. La Land Rover scura, posteggiata sul lato opposto della strada, non si mosse. Si trovavano in un’arteria secondaria nella periferia urbana, non c’era molto traffico. La notte era illuminata da fiochi lampioni che si allineavano lungo la strada. Sara non distingueva altri 123
edifici, tutto intorno si estendevano i campi coltivati a granoturco, nell’aria c’era l’odore acre dei concimi chimici. Si infilò dentro al campo, i fusti delle pannocchie erano alti e la nascondevano alla vista dalla strada. Incedeva lentamente, le stoppie secche scricchiolavano sotto la suola delle sue scarpe. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri, sentì il bisogno di accucciarsi a terra, aveva le gambe indolenzite, provate dalla posizione nella quale erano state costrette per lunghe ore, nella cassa. Si sedette a terra e appoggiò la fronte sulle ginocchia. “Bartolomeo, ci sei?” chiese sottovoce. Attese una risposta che non arrivò ma sentì il tocco leggero di una mano che le sfiorava i capelli. Sorrise. Ho ripreso la pistola per usarla contro di me. Nel caso le cose non andassero per il verso giusto. Non la punterò contro altri esseri umani. Hai la mia parola. L’aria era impregnata dei vapori dei diserbanti, le bruciavano gli occhi e la gola. Si rialzò a fatica e proseguì seguendo in parallelo la strada che si trovava a qualche metro di distanza da lei.
Ogni tanto un’automobile
sfrecciava veloce, i fari illuminavano il campo coltivato 124
per poi dileguarsi. Calcolò di avere percorso circa un chilometro e decise di avvicinarsi alla strada. Avanzò spostando i fusti del mais e affacciandosi ogni tanto sulla striscia di asfalto, alla ricerca della motocicletta. Quando la vide, si accucciò nuovamente a terra. Tageshi si era fermato sul ciglio e fumava una sigaretta. Il silenzio della notte era interrotto dallo squittio dei topi dentro al fossato ai margini del campo, dove scorreva un rigagnolo d’acqua. Sara si rialzò e lo raggiunse. L’uomo la vide e spense la sigaretta, le allungò un casco e una camicia scura, di tela spessa. Sara li indossò e salì sulla moto. Percorsero alcune strade secondarie e poi raggiunsero la superstrada. Sara aveva paura della velocità, della vulnerabilità della motocicletta in mezzo al traffico delle automobili. Abbracciò con forza
la vita di Tageshi, cercando di
aderire al suo corpo massiccio. La motocicletta sfrecciava veloce, superando le auto e i camion incolonnati. Sara avrebbe voluto guardarsi intorno,
per cercare di
identificare la Land Rover di Domenico. Ma era paralizzata dalla tensione, la testa rigidamente appoggiata
125
alla schiena di Tageshi, le braccia avvinghiate al suo corpo. Non poteva che aspettare l’arrivo a destinazione. Individuò il Palette Town da diversi chilometri di distanza grazie alla
ruota panoramica che svettava luminosa
nell’oscurità della notte. Era un centro commerciale pieno di negozi e di attrazioni, in perfetto stile yankee. L’avevano costruito nelle vicinanze di una base militare americana e nel tempo libero i soldati si ritrovavano in un ambiente famigliare, a mangiare hamburger e a leccare lo zucchero filato. Tageshi parcheggiò davanti all’ingresso principale. Sara scese dalla motocicletta, si tolse il casco e si sfilò la camicia. “Tienila, ti maschera la figura” le disse l’uomo. Sara rifletté un attimo e poi riallacciò i bottoni. Si calò in testa il berretto da baseball. “Mi ricorderò di te e Yukiko, grazie per quello che avete fatto”. Sara aspettò che l’uomo si allontanasse, quindi entrò nel centro commerciale. Superò i chioschi che vendevano hotdogs, i negozi di souvenir e si trovò ai piedi della ruota panoramica.
126
Si guardò intorno ma Toru non c’era, si sedette alla panchina sotto ad un grande cartellone pubblicitario, in attesa. Di fronte a lei c’era un bar con i tavolini all’aperto. Erano tutti occupati, gli avventori bevevano e mangiavano degli stuzzichini. Provò ad indovinare il contenuto dei loro bicchieri e un brivido le percorse la schiena. Avrebbe dato qualunque cosa per un bicchiere di Margarita ghiacciata. Il suo desiderio si fece spasmodico quando riconobbe il cocktail sul tavolino di una giovane coppia. La donna sorseggiava il contenuto del bicchiere, con la lingua lambiva il bordo incrostato di sale. Sara sentì dei crampi alla bocca dello stomaco, le gambe le tremavano. Si guardò intorno alla ricerca di Toru ma non c’era traccia dell’uomo. Allora si alzò. Entrò nel locale e si sedette al bancone. Era un bancone di mogano, liscio e lucente. Ci passò la mano sopra, lo accarezzò come se avesse ritrovato un vecchio amico. Ordinò una Margarita
e quando ebbe tra le mani il
bicchiere umido, lo vuotò d’un fiato. Un fuoco dolce le scese in gola e calmò lo spasmo del suo desiderio. 127
Ghiaccio bollente.
Ne ordinò un secondo e riuscì a
centellinarlo mentre sbirciava la ruota panoramica oltre il patio con i tavolini, in cerca di Toru. Poi ne ordinò un terzo. Alzò il bicchiere e guardò il liquido traslucido in controluce, appoggiò il vetro freddo sulla fronte e la frescura le schiarì la mente. Si fece forza e posò il bicchiere intatto sul bancone. “Quanto pago?” chiese al barman. L’uomo le presentò uno scontrino e Sara gli porse la carta di credito, quindi si alzò e uscì dal locale. Sentiva un peso all’altezza dello stomaco, una morsa che premeva fino a toglierle il fiato. Doveva violentarsi per non tornare sui suoi passi e vuotare il bicchiere che aveva lasciato sul bancone. Ma non si voltò, le sue scarpe di gomma cigolarono sul selciato di pietra e tornò a sedersi sulla panchina. La sua fronte era imperlata di sudore, il respiro era affannato. Si guardò nervosamente intorno e lo vide. Vestito di bianco, i pantaloni sgualciti di lino e una tshirt. Toru non era cambiato. I
capelli erano ingrigiti ma
l’andatura era retta, aveva la barba sottile sul mento, 128
come quella di una capra. Lo stesso uomo con il quale meditava sotto le palme, a Goa, con il gatto Mahatma tra le gambe. Trent’anni prima. Sara si alzò e gli andò incontro. Rimasero qualche istante a guardarsi, uno di fronte all’altra prima di abbracciarsi. Quando si sciolsero, l’uomo la cinse per le spalle e la guidò verso l’uscita, sul lato opposto rispetto a quello da dove era entrata. Sullo spiazzo di cemento c’era un ampio parcheggio. Si diressero verso una Chevrolet Cruze nera. Toru aprì la porta posteriore e le fece cenno di entrare. Quindi chiuse la richiuse e si sistemò al posto di guida. Accese il motore e si immise nel traffico della superstrada. Sara sentì scemare la tensione, per la prima volta dopo tanti giorni c’era qualcuno che si occupava di lei. Non si voltò a guardarsi alle spalle per cercare Domenico al suo inseguimento. Appoggiò la fronte al finestrino, davanti a lei scorsero immagini filtrate dai vetri fumé. L’automobile scivolava veloce sulla striscia d’asfalto nella notte priva di luna. Alla sua sinistra Sara indovinava il mare seguendo la linea della costa alta e rocciosa. C’erano dei capannoni di 129
lamiera metallica lungo il bordo della strada, illuminati da algidi lampioni al neon. Come fari posti su uno scoglio in mezzo al mare, spot di luce che rendevano
la notte
ancora più cupa. Poi Toru cambiò direzione, deviando verso l’interno. Attraversarono la periferia industriale di Tokyo, si rincorrevano
le sagome delle fabbriche, i depositi di
container, le gru metalliche protese come artigli di creature mostruose. Quando abbandonarono l’area urbana, la strada tagliò la campagna in mezzo alle risaie. I campi allagati venivano illuminati per brevi istanti dai fari delle automobili. “Dove stiamo andando?” chiese a Toru e la sua voce risuonò nell’abitacolo dell’auto come il gorgoglio dell’acqua nello scarico del lavandino. “Andiamo a Sendai. Alla casa di meditazione” rispose l’uomo. “Possiamo operare dalla filiale della Nippon Bank?” “ Ho fissato l’incontro per Martedì. Rilassati, ci vogliono ancora cinque ore di macchina.” Dovevano attraversare l’isola di Honshu, risalire per 400 km prima di raggiungere Sendai.
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Sara si rannicchiò sul sedile e scrutò la notte attraverso il finestrino. Il suo corpo cercava istintivamente di chiudersi a bozzolo, aveva piegato le gambe e appoggiato la testa alle ginocchia. Come se la cassa nella quale era stata richiusa per tante ore
fosse stata
l’utero materno e
facesse fatica a cancellarne il ricordo. Aveva nostalgia di quella cassa. Aveva bisogno di Bartolomeo. Arrivarono a Sendai nelle prime ore del mattino. Il Centro di meditazione era situato su una collina alle spalle della città, immerso in un ampio parco circondato da mura di cemento grezzo. All’interno c’erano diversi edifici, il principale aveva una pianta quadrata, con un ampio cortile interno. Distaccato dall’edificio centrale c’era la foresteria che ospitava visitatori di passaggio, sul lato orientale si trovava la sala delle adunanze e dei servizi. Toru parcheggiò l’auto nella rimessa interrata. Salirono attraverso una scala al piano superiore e si ritrovarono al centro del cortile dell’edificio principale. “E’ tutta opera tua?” chiese Sara, abbagliata dalla luce che rifletteva sulle pareti intonacate a calce viva.
131
“Siamo trentacinque e ci diamo una mano. Durante le festività superiamo le cento unità.” “Hai letto i giornali, immagino. Mi cercano per un omicidio, sull’isola” disse Sara sedendosi su una panca di legno, sotto un rigoglioso albero di albicocco. Era carico di frutti, i rami incurvati toccavano l’erba dell’aiuola. “Se vuoi parlarmene, ti ascolto. Se non vuoi farlo, è lo stesso.” Toru si sedette a fianco a lei. Distese le gambe e chiuse gli occhi. Il raggi del sole erano tiepidi, lontani dalla violenza con la quale sferzavano l’isola di Ogasawara. Avevano cambiato latitudine. Sara rimase in silenzio per alcuni minuti, godendo di quegli istanti di quiete. Una gigantesca pianta di buganvillee, sul lato opposto del cortile, si arrampicava con il suo tronco spesso, ritorto, sopra il portico e raggiungeva il tetto. Una cascata di fiori violacei ricadeva verso il basso. “L’ho ucciso io, era un uomo di Domenico. Se non l’avessi fatto mi avrebbero presa. Non potevo mandare tutto all’aria”. “Non avevo dubbi. Domani chiudiamo i conti” le rispose Toru. 132
“Hai notato se qualcuno ti seguiva, lungo la strada?” “ Una Land Rover con targa americana. L’ho vista fino a poche ore prima dell’arrivo. Poi si è dileguata.” “Domenico. Era l’auto che aveva sull’isola. Ti sei fermato lungo la strada? Io mi sono addormentata”. “Ho preso un panino e un caffè in un chiosco ma ho tenuto la macchina sotto controllo.” “Non ha importanza. Domenico conosce le prossime mosse. Ci incontreremo in banca.” “Non conosce la banca.” “Non è difficile, ci seguirà quando usciremo.” “Cosa vuoi che faccia?” “Niente, lascia che ci segua.” “Quando tutto sarà finito potrai restare qui. Hai dei nuovi documenti,
una nuova identità. Nessuno verrà a
cercarti.” “Hai chiamato Cabona?” “Il tuo commissario è arrivato. Ci sarà anche lui, domani mattina”. Sara e Toru si alzarono e si incamminarono sotto il porticato dalle spesse volte di pietra che delimitava il cortile. Sara rabbrividì. Dalla sala di meditazione, sull’altro lato del parco, giungeva la salmodia dei mantra recitati dai 133
monaci. La vibrazione dei cimbali risvegliava in lei una insofferenza sopita, si portò le mani alle orecchie, per attutirne il suono. Al centro del cortile c’erano diversi albicocchi, i cui rami carichi di frutti erano cornucopie invitanti. Sara si fermò e allungò la mano. Addentò la polpa succosa e ne gustò la profumata fragranza. Toru rimase in silenzio mentre lei mangiava. “Il tuo gatto mi perseguita nei sogni, con i suoi occhi di brace” disse infine Sara, rigirando tra le mani il nocciolo del frutto. Allungò la mano e ne colse un altro. “Mahatma? Non è cattivo, è solo un moralista.” “Mi accusa della morte di Ayrin. So che ha ragione, sono stata crudele e meschina. Ho fatto del male anche a Bartolomeo”. “Il passato è finito, andato. Mahatma è la tua coscienza. Libera i pensieri e anche il gatto se ne andrà.” “ Se tornassi indietro, ripercorrerei lo stesso sentiero? Chi può dirlo. Avrei bisogno di conoscermi come sono oggi, per poter cambiare. Ma non ci viene data questa possibilità”.
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Toru le allungò una carezza e la strinse a sé, tra le sue braccia. La sua pelle odorava di canfora. Un odore antico, che le ricordava un passato lontano. “Ti accompagno nella tua stanza. I ragazzi torneranno tra poco, se hai bisogno di qualche cosa, chiamali. Ho avvisato che saresti arrivata. Non ti disturberanno. Domani vengo a prenderti alle otto.” Sara abbracciò l’amico, entrò nella piccola cella e chiuse la porta dietro a sé. La stanza intonacata di bianco era immersa nella penombra. C’era un futon arrotolato contro la parete, uno scrittoio, una poltroncina di vimini, un armadio. Dalla finestrella si intravvedeva il giardino esterno e l’alto muro di cinta. Una recinzione di cemento grigio, che strideva con le morbide curve dei bossi che delimitavano il sentiero. E’ un simbolo anche questo. Un monito a non perdersi nella bellezza, perché il mondo è fatto anche di brutture e di dolore. Aprì l’armadio e trovò l’accappatoio e il necessario per la toilette. Si liberò dei vestiti e delle scarpe, sciolse la fascia con la pistola e la ripose tra le lenzuola dell’armadio. Uscì a piedi nudi nel cortile. Era già stata in quella casa, molti anni addietro, quando era ancora una vecchia residenza di
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campagna. Toru l’aveva acquistata per costruire il nido della sua comunità. Ma era tutto cambiato. Un tempo l’acqua si raccoglieva con il secchio dal pozzo in mezzo al cortile, non c’era più traccia del vecchio pozzo. Sara si diresse alle stanze del bagno che aveva intravisto poco prima
e aprì l’acqua della doccia. Si liberò
dell’accappatoio e si infilò sotto il getto di acqua fresca, prese la saponetta che era posata sulla mensola e si insaponò il corpo, i capelli. Poi lasciò che l’acqua scorresse sul suo corpo, dimentica di sé fino a quando udì voci di ragazze provenire dal cortile. Non aveva voglia di incontrare degli estranei, chiuse il rubinetto e avvolta nell’accappatoio raggiunse la penombra della sua camera. Srotolò il futon e si mise seduta a terra. “Bartolomeo, ci sei?” chiese a voce bassa. Attese qualche minuto, nella stanza l’aria era immobile, le pareti restituivano, amplificandolo, il silenzio. Fuori dalla porta piccoli passi si affrettavano sul selciato. “Bartolomeo” chiamò con un filo di voce. Non ci fu risposta. Sara si alzò in piedi, fece scivolare a terra l’accappatoio e si infilò una maglietta di cotone che era posata sulla 136
poltroncina di vimini. Poi si diresse verso l’armadio e lo aprì. Le pesanti ante di legno sprigionavano il profumo della canfora. Respirò a pieni polmoni quell’odore antico le ricordava la casa della sua infanzia. Gli armadi della biancheria con i sacchetti odorosi, chiusi con un rametto di ginestra. L’armadio era diviso in due settori, a destra un vano a tutta altezza con un bastone orizzontale per appendere i vestiti, dall’altro quattro scaffali. Sul fondo del vano più ampio c’erano delle lenzuola. Sara si sedette sopra la stoffa di tela bianca, alzò i piedi da terra e li posò davanti a sé. Poi chiuse le ante dell’armadio e si ritrovò avvolta dall’oscurità. “Bartolomeo” chiamò ancora,
un sussurro a fior di
labbra. Chiuse gli occhi e con le mani percorse il perimetro dello spazio dentro all’armadio. Il legno era liscio, caldo. Poi aprì gli occhi e Bartolomeo era seduto di fronte a lei. Ne indovinava la fronte alta e spaziosa, il naso dritto, i capelli radi sulle tempie. Allungò la mano e lui la prese tra le sue. “Sapevo che saresti tornato” disse lei. “Non sono mai andato via” rispose lui.
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L’uomo la prese tra le braccia e lei si abbandonò contro il suo petto. Le loro labbra si sfiorarono. Toru bussò alle otto di mattina. Sara si svegliò soprassalto e
di
si ritrovò sola, rannicchiata sul fondo
dell’armadio. Aprì le ante e zoppicando raggiunse la porta. Toru la guardò sorpreso: “Non hai dormito? ” “Dammi solo qualche minuto e sono pronta” gli rispose lei. Fece scivolare le mani sulla maglietta spiegazzata, indecisa sul da farsi. Poi se la sfilò dalla testa e la fece scivolare a terra. Rimase nuda, in mezzo alla stanza. C’erano dei lividi bluastri sulle sue cosce, sulle braccia. Li sfiorò con i polpastrelli e non sentì dolore. Premette allora più forte e la sensibilità non cambiò. Prese la fascia con la pistola che aveva lasciato sulla poltroncina di vimini e la legò alla vita. Poi tornò all’armadio e prese
un cambio di
biancheria, un paio di pantaloni e una camicia di canapa grezza. Li indossò, infastidita dal contatto ruvido della stoffa. Si infilò le scarpe da ginnastica e si riassettò i capelli. Non c’erano specchi nella stanza. Sollevò la
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manica della camicia e guardò nuovamente i lividi bluastri sul suo braccio, le parvero meno marcati di prima, come se fossero sbiaditi. Prese la borsa di pelle e la indossò a tracolla. Uscì dalla camera, Toru la stava aspettando seduto sulla panchina nel cortile. La vide e le venne incontro. Fecero una veloce colazione nella sala da te vicino alla reception, pane tostato, marmellata e te verde. Sara si sentiva bene, animata da una energia nuova. Sollevò il lembo della manica e ispezionò il livido sopra al polso. Era diventato impercettibile, sembrava una delle tante macchie della pelle. Si alzarono, Toru le fece strada e raggiunsero il parcheggio sotterraneo. Salirono sulla Chevrolet. L’auto raggiunse la superficie e percorse il vialetto di ghiaia fino al cancello di ferro. C’era un uomo di guardia, Sara lo guardò e riconobbe un volto familiare, anche se non riusciva a focalizzare il tempo, il luogo, il contesto. L’uomo la salutò con un breve inchino prima di chiudere il cancello. Imboccarono la strada principale che scendeva la collina in stretti tornanti.
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“Li hai visti?” chiese Sara scrutando attraverso i vetri fumé dell’auto. “No, ma loro sanno dove siamo”. Superato l’ultimo tornante, si ritrovarono incolonnati nella superstrada a quattro corsie. Il traffico era intenso, Sara si guardava attorno,
in cerca della Land Rover.
Erano tutte auto di modello giapponese, Nissan, Toyota, non c’era traccia del fuoristrada di Domenico. L’auto procedevano a passo d’uomo, i tabelloni luminosi indicavano un incidente a qualche chilometro di distanza. “A che ora abbiamo l’appuntamento?” chiese Sara. “Ci aspetteranno. Sei la migliore cliente che abbiano mai avuto.” “Anche la più scomoda. Cabona?” “Ci sarà anche lui”. Si ritrovarono bloccati in mezzo al traffico, in coda. Non c’era altro da fare che aspettare. Sara osservava i passeggeri delle auto che li affiancavano. Immaginava fossero impiegati che andavano al lavoro, genitori che accompagnavano i figli a scuola. A fianco a lei una bambina aveva il viso incollato al finestrino, simmetrica alla sua posizione. Aveva folti capelli scuri raccolti in trecce che le ricadevano sulle spalle, le labbra 140
turgide, strette in una espressione imbronciata. La stava fissando. Sara abbozzò un sorriso ma la bambina non rispose, rimase immobile, lo sguardo fisso su di lei. Le auto iniziarono a muoversi, Toru riaccese il motore e l’auto della bambina sfilò lentamente davanti a loro. Sara si guardò intorno, non c’era traccia della Land Rover. Potrebbero aver cambiato automobile. Chiuse gli occhi e ricordò la dolcezza della notte trascorsa tra le braccia di Barolomeo, dentro all’armadio. Si leccò il dorso della mano, alla ricerca di una testimonianza sensibile e le sue papille riconobbero il sapore amaro della canfora. Riaprì gli occhi e si ritrovò a pochi metri dal profilo affilato di Domenico, seduto nel sedile posteriore di una Toyota Corolla in coda a fianco a loro, nella terza corsia. Nell’auto c’erano tre persone,
l’autista, un secondo
uomo e Domenico. Sara non aveva dubbi, il passeggero seduto a fianco del finestrino di sinistra era il suo ex marito, il padre di suo figlio, l’uomo che aveva dato ordine di uccidere Bartolomeo. “Eccoli, sono sulla Toyota blu, nella terza corsia ” disse Sara rivolgendosi a Toru. 141
Toru si voltò e scalò la marcia. “Lascerò che ci seguano. In fondo è quello che volgiamo.” “Sai cosa fare”. Superarono il luogo dell’incidente. Due articolati si erano scontrati, uno dei quali era ribaltato su un fianco, la lamiera della fiancata tagliata in due. Delle quattro corsie ne era rimasta percorribile solo una, sul posto c’erano diverse auto della polizia e un’autoambulanza. Quando uscirono dalla strettoia, avevano perso di vista la Toyota. Toru proseguì a velocità sostenuta. Imboccò l’uscita per la Aoba-Dori, la principale
arteria commerciale della
città. Al numero 125 si trovava il più alto grattacielo della città, sede della Nippon Bank. Svettava sopra gli edifici del centro come un totem tribale. L’auto si infilò in un parcheggio interrato. Sara sfiorò con la mano la pistola che aveva legato in vita. Non la userò contro altre persone. Solo contro me stessa, se sarà necessario.
142
Scesero dall’auto. Toru le fece strada fino all’ascensore e quando le porte automatiche si chiusero dietro alle loro spalle, entrambi rilasciarono un sospiro di sollievo. Toru premette il pulsante corrispondente all’ultimo piano e la cabina dell’ascensore decollò morbida verso il 50° . Gli altoparlanti diffondevano la sonata in do minore di Bach. L’ascensore si fermò e le porte si spalancarono su una grande anticamera, foderata di boiserie scura,
il
pavimento era ricoperto da una folta moquette colore amaranto. Sara percepì una sensazione claustrofobica, come se si trovasse dentro ad una cassa da morto. Toru si diresse alla porta che si trovava di fronte all’ascensore. Suonarono il campanello, venne ad aprire un funzionario dalla corporatura massiccia e dai capelli tagliati a spazzola. “Vi aspettavamo” disse con voce atona. Si trovarono in una sala di rappresentanza, il pavimento ricoperto dalla stessa moquette amaranto dell’anticamera ma l’effetto era diverso. Sulla parete opposta si apriva una grande vetrata a tutta altezza, affacciata sulla città. La luce inondava la stanza, il vetro
bombato verso l’esterno,
143
come un bovindo di swarovsky, dava la sensazione di trovarsi dentro una bolla d’aria che galleggiava sulla città. Un uomo di mezza età, dai capelli radi su un cranio dolicocefalo si alzò da una poltroncina di pelle e venne loro incontro. “Watanabe san, questo panorama vale tutto il viaggio” disse Sara quando si strinsero la mano. “Davvero impressionante. Si spazia dal mare ai monti” aggiunse Toru avvicinandosi alla vetrata. “Da sempre gli uomini hanno costruito torri per cercare di essere più vicini a Dio. Il nostro grattacielo è la versione moderna di questo concetto.” “Vi sentite vicino a Dio?” chiese Sara. “ Noi siamo divinità pagane” rispose lui ridendo. “Accomodiamoci” disse andandosi a sedere a capo del tavolo, dove si trovavano altri uomini. Il commissario Cabona, rasato di fresco e lo sguardo lucido, le fece un cenno di saluto portandosi la mano alla fronte, come d’abitudine. A fianco c’erano dei poliziotti giapponesi, Sara cercò di identificare le mostrine, senza successo. “Ci
hanno
seguito,
probabilmente
sono
entrati
nell’edificio” disse Sara, sedendosi al tavolo. 144
Cabona sollevò il bicchiere di whisky che era posato sul tavolo e accennò un sorriso. Watanabee premette un pulsante e dalla parete scesero tre monitor. Trasmettevano le immagini di telecamere a circuito interno,
si vedeva il perimetro esterno
dell’edificio, l’ingresso per il pubblico, l’ampio salone al piano terra. “Eccoli”, disse Toru indicando due uomini, uno dei quali era Domenico. Aveva il capo scoperto e guardava nella direzione delle telecamere. “Hanno rapito il presidente della nostra banca. La notizia non è stata diffusa dai media.” Disse Watanabee con voce neutra. “Quando è successo?” chiese Sara. “Ieri pomeriggio, poco dopo la chiusura degli sportelli. La stessa cosa è successa a Washington, a Parigi, a Londra, a Città del Messico.” “Che richieste hanno fatto?” “Vogliono i 300 milioni di dollari. Devono essere versati su conti del Banco de Caribe. Li rilasceranno quando verranno autorizzati gli accrediti.”
145
Sara si rivolse al commissario Cabona. Era dimagrito rispetto all’ultima volta che si erano visti, alla caserma di Bolzaneto di Genova. “ Dove si nasconde Davide?” gli chiese Sara. “Non te lo dico, per la sua sicurezza. Si trova in Europa, ha una nuova identità, un lavoro, credo sia fidanzato e sta pensando di mettere su famiglia. Non ti preoccupare.” Sara distolse lo sguardo e rimase qualche istante in silenzio. Poi disse: “Scendo al piano terra, cerco l’accordo con Domenico”. Si alzò e si diresse verso l’uscita. L’uomo dai capelli a spazzola che poco prima aveva aperto la porta si mise al suo fianco ma lei lo fermò. “Scendo da sola. Non ho bisogno di aiuto.” L’uomo si voltò verso i suoi superiori che gli fecero un segno di assenso con il capo. Sara si ritrovò nella stanza rivestita di boiserie. L’ascensore era fermo al piano, entrò nella cabina e premette il pulsante. La pistola le premeva contro lo stomaco, la sentiva definita nella sua forma. Un pezzo di ferro lungo otto centimetri, con cinque colpi in canna. La userò contro di me, recitò come un mantra.
146
Le porte si aprirono e lei si ritrovò nell’atrio principale, in mezzo ai clienti che seguivano sui monitor le quotazioni di borsa mentre aspettavano in fila agli sportelli. Fece un cenno con la mano a Domenico, seduto su una poltroncina di cuoio. Era solo. Sara si avvicinò: “Avremmo fatto prima a darci un appuntamento,
sarebbe stato più comodo” disse
sedendosi a fianco dell’uomo. “Sei tu che se scappata e hai combinato un casino. Che cosa temevi? Che ti facessi fuori prima di recuperare il denaro?” “Non mi fido di te da molto tempo, ormai” rispose Sara. Lui sorrise, gli occhi stretti in una fessura. Sotto le crude luci dei neon notò la pelle sciupata dal sole, le rughe sulla fronte, come strie disegnate a matita. Sembrava la caricatura di sé stesso, di quando era giovane. Una maschera di gomma, come quelle che si usano a carnevale. Sara ebbe la tentazione si afferrargli la pelle delle guance e tirare. Iniziò invece a sfregarsi nervosamente le mani, l’una contro l’altra. Era un uomo che aveva amato, un tempo. E che adesso odiava. Il suo aspetto decadente la disgustava. Era invecchiato nelle ultime quarantotto ore? I suoi occhi frugarono le mani dell’uomo
alla ricerca del dito 147
mutilato. Domenico lo copriva con il palmo dell’altra mano. Sara si passò la lingua sulle labbra e le sentì secche. “ Ecco le condizioni” esordì Sara.
“ Facciamo il
versamento sui conti che mi indicherai. Verseremo una prima tranche e voi liberate i sequestrati a Londra e a Parigi. Verseremo una seconda tranche e libererete quelli di Città del Messico e Washington. Quando
riceverete
l’ultima
tranche,
libererete
il
giapponese. Lo porterete qua, noi invieremo l’accredito quando lo vedremo, vivo e in carne ed ossa.” “Questi sono i codici bancari sui quali dovete fare i versamenti” disse lui a bassa voce, quasi in un bisbiglio. “Sono le 12.30. Entro un’ora avremo dato l’ordine. Alle 13.30 chiama le tue banche per avere la conferma. Poi dai ordine di liberare gli ostaggi.” “Che è venuto a fare il tuo commissario? ” “E’ lui ad avere l’altra metà della chiave. Pensavi che mi avesse lasciata libera senza pretendere delle garanzie?” “Cosa si aspetta, in cambio? ” “E’ il garante, diciamo così.”
148
“Non cercare di fregarmi, è solo questione di tempo, prima o poi riuscirò a scovare Davide.” “Dammi le coordinate dei conti.” “ Io voglio quei soldi. Angelo Gambino vuole quei soldi. Non te la caverai se cerchi di fregarci”, Domenico prese dalla tasca un foglietto ripiegato le lo porse a Sara. “Vedi di inviare tutti i 300 milioni, non sono tollerate le perdite.” “Inizia il conto alla rovescia. Quando ci chiameranno da Londra e Parigi per comunicare che gli uomini sono sani e salvi, partirà la seconda trance.” Sara prese il foglietto e lo rigirò tra le mani. “Te lo ricordi l’uomo cane?” disse infine sfidando lo sguardo dell’uomo. “Che vai cercando? E’ stato il primo uomo che ho ammazzato”, rispose Domenico stizzito.. “Non si scorda mai, come il primo bacio” disse Sara e fece il gesto di sfiorarsi l’anulare della mano destra. Domenico allora con un colpo di reni si alzò in piedi e le diede uno schiaffo con
la mano a quattro dita,
imprimendo tutta l’energia del suo peso. Sara vacillò sotto il colpo e indietreggiò di alcuni passi. Si massaggiò la 149
mascella. Le persone in attesa agli sportelli si girarono ad osservare la scena. Sara girò le spalle a Domenico e si diresse lentamente verso l’ascensore. Quando le porte automatiche
si richiusero alle sue
spalle, si passò le mani sulla guancia, la pelle scottava e la sentiva rilevata, come se fosse plastilina impastata dalle mani di un modellatore. Si asciugò le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e aprì il foglietto che le aveva dato Domenico. Lesse i 10 codici bancari che vi erano scritti. Due conti erano di banche di filiali in Paraguay, gli alti erano indirizzi delle isole Cayman. Quando raggiunse il cinquantesimo piano, la sensazione caustica alla guancia era sparita. Entrò nell’ampio salone e rimase abbagliata dalla profonda luminosità della luce che entrava attraverso la vetrata. Si avvicinò al tavolo dove avevano preso posto alcuni tecnici informatici. Watanabee era in piedi, dietro a loro. L’uomo sembrò non notare il livido sulla sua guancia, prese dalle mani di Sara il foglietto con i codici bancari e lo sottopose ai suoi uomini. Cabona era impegnato in una conversazione al cellulare, gli uomini della polizia
si trovavano davanti ad un 150
monitor che trasmettevano le immagini della telecamera interna. Nessuno badava a lei. “Il secondo uomo è sceso nel parcheggio” disse il più anziano, parlando in una ricetrasmittente. “Hanno ritrovato il corpo sgozzato del ministro degli interni del Paraguay, è arrivato un fax qualche minuto fa” disse ancora e si avvicinò a Sara. Sara lesse il trafiletto, l’uomo era stato ritrovato dentro un’auto parcheggiata davanti alla Banco del Caribe, ad Assuncion. “Un’azione
intimidatrice.
Iniziamo
con
il
primo
versamento, ” ordinò Watanabee. Nella stanza entrò un altro uomo. “Il capo della polizia di Tokyo” lo presentò Cabona. Sara gli strinse la mano e sfidò il suo sguardo. Capì di essere stata riconosciuta, le sue foto segnaletiche dominavano ancora le pagine dei giornali. “Lei è preziosa in questa operazione” disse lui, stringendole la mano. In quell’istante Sara si rese conto di godere dell’impunità per l’omicidio. Di uomini ne aveva uccisi altri, ma senza plauso ufficiale. Non sono un soldato in guerra. Quel giovane avrei potuto risparmiarlo. 151
Ritrasse sgomenta la mano. Si voltò verso l’uomo di guardia alla porta e
chiese
l’accesso ad una postazione internet. L’uomo la fece accomodare in una saletta a fianco, dove c’era una scrivania e un computer. Sara si sedette davanti al monitor, accese il PC e aprì il file del suo conto personale, presso il Monte dei Paschi di Siena. Aprì la borsa e prese il taccuino degli indirizzi. Cercò quello di Yukiko, impostò i dati e le accreditò un versamento di 20.000 euro. Quei soldi sarebbero bastati a compensare l’aiuto che le avevano dato lei e suo fratello. Si fermò un attimo a pensare al viaggio nella cassa, sotto le noci di cocco. Il viaggio che le aveva fatto ritrovare Bartolomeo. Devo ricompensarli meglio. Aggiunse
altri 20.000 euro e cliccò sul pulsante che
autorizzava la procedura. Poi si ricordò di Tomiko. Ebbe un leggero tremito alle mani mentre digitava il suo codice. A lui versò 10.000 euro.
152
Poi digitò il codice del conto che aveva presso la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia e trasferì quanto ancora restava in deposito, circa 200.000 euro. Resettò le password e chiuse la connessione. Ritornò nella grande sala. Gli
uomini seduti
davanti ai
computer
stavano
effettuando trasferimenti milionari da un capo all’altro dell’Oceano. Avevano messo in atto un piano semplice ma efficace. L’idea aveva preso forma nella cella della caserma di Bolzaneto, quando Sara era stata arrestata per l’omicidio di Hassam e dei suoi figli nella casbah del centro storico di Genova. Aveva rivelato al commissario tutti i segreti del clan mafioso, dopo averne ripulito i conti fino all’ultimo centesimo. Cabona aveva pensato di inscenare il suo suicidio in cella e Sara era sparita nell’esilio dorato dell’isola tropicale. “Li freghiamo con degli specchietti per le allodole”, le aveva detto. “Quando restituirai il capitale che hai sottratto, faremo versamenti
sulle coordinate indicate, deviati su conti
153
paralleli rispetto a quelli intestati. E’ un sistema che abbiamo usato per bloccare il riciclaggio della mafia. Creiamo dei conti virtuali e cancelliamo quelli reali. Semplice e pulito. Non necessariamente legale, ma funziona. Il sistema registra l’accredito e dà l’autorizzazione all’incasso con uno sfasamento temporale di qualche ora. Terminato il tempo il trucco viene scoperto perché il conto dal quale vogliono fare il prelievo è vuoto. Ma noi interveniamo prima, con gli arresti. Arrestiamo gli intestatari dei conti e tutti coloro che operano sugli stessi attraverso la rete Internet. Pensano che i paradisi fiscali dei Caraibi li mettano al sicuro da ogni intercettazione. Ma noi corrompiamo quanto e più di loro. Basta intendersi sulla percentuale della tangente. Viene tesa una rete invisibile. Le mafie non possono fare a meno delle banche e nelle banche si sono gli uomini. Il cappio si stringerà al loro collo. Devi sparire per qualche mese, per darci il tempo di organizzare la cosa.” Sara aveva vissuto per sei mesi nell’oasi tropicale di Ogasawara prima che Domenico la rintracciasse.
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Trascorse un’ora e
i primi trasferimenti di denaro
raggiunsero i destinatari su conti civetta. “Aspettiamo che liberino i primi
ostaggi”,
disse
Watanabee. Cabona si alzò dal tavolo e si avvicinò a Sara. “Complimenti per come ti sei comportata sull’isola. Sei stata brava” le disse sorseggiando il bicchiere di whisky. “Lo schiaffo che ti ha dato, te lo sei andato a cercare” aggiunse infine, passando un dito sulla guancia infiammata di Sara, “ ti ho seguito sullo schermo”. “Ho ucciso un uomo” disse Sara, ritraendosi infastidita dal contatto. Cabona aveva un’aurea che la respingeva. Colpa del dopobarba da poco prezzo, del suo viso sciupato, della sua onestà. L’uomo si trovava
sulla
sponda giusta, quella riva che lei non avrebbe mai potuto raggiungere. “Me ne hanno parlato. Hai dei nuovi documenti, una nuova identità. Te ne stai tranquilla in Giappone per qualche mese e poi puoi andare dove vuoi.” Sara si avvicinò alla grande vetrata. Il suo sguardo spaziava a volo di uccello sulla città, distesa come una enorme medusa spiaggiata, il corpo molle a seguire le asperità del terreno. Dalle colline, dove si trovava il 155
Centro di meditazione, fino all’oceano, immenso, a perdita d’occhio. Nella stanza entrò
una cameriera che servì caffè e
brioches. Sara avrebbe preferito un bicchierino di sakè. Il suo fisico si stava disintossicando, il suo cervello no. Si ritrovò a pensare alla Margarita ghiacciata, bevuta sulle spiagge dell’isola. Sotto il sole rovente, i piedi immersi nella sabbia bianca. Chiuse gli occhi. Ghiaccio bollente. Sentì il lieve sciabordio della risacca del mare. “Ho bisogno di bere” disse allora a voce alta. La ragazza aprì le ante di un armadio e comparve un bar perfettamente attrezzato. “Che cosa preparo ?” . “Una Margarita” rispose Sara. Mentre la cameriera armeggiava con il secchiello del ghiaccio, preso dal piccolo frigorifero incassato nel mobile, Sara volse ancora lo sguardo al traffico delle auto incolonnate sulla superstrada, viste dall’alto sembravano macchinine giocattolo. Poi sollevò lo sguardo al cielo, dove le nuvole galleggiavano, immobili. La cameriera aveva disposto sul tavolino i liquori e il secchiello con il ghiaccio. C’erano tutti gli ingredienti per preparare la Margarita. Sara le si avvicinò e con un sorriso invitò la ragazza a lasciala fare. Iniziò a preparare il 156
cocktail, mise nello shaker 50% di tequila, 25% di Triple sec, 25% di succo di lime, qualche cubetto di ghiaccio e agitò due o tre volte. Poi versò il liquido nel bicchiere e lo vuotò in un colpo. La cameriera rimase ad osservarla, impassibile. Watanabee la congedò con un gesto della mano. Sara aveva preparato una dose doppia e riempì nuovamente il bicchiere. Il calore del liquore le scese dolce in gola come il nettare di un fiore tropicale. Si avvicinò nuovamente alla vetrata. Stava
bene. Vorrei
spiccare il volo sulla città, come un gabbiano dalle ali spiegate. Posò il palmo della mano sul vetro e fece una leggera pressione, come a volerlo spostare. Bevve qualche sorso dal bicchiere e ripensò alla cassa, sotto le noci di cocco. Bartolomeo. Si guardò intorno. Non c’era un luogo dove poteva rinchiudersi, per cercarlo. Si passò il bicchiere sulla fronte, fresco e umido. Una goccia di condensa le rigò il volto, come fosse una lacrima. Si passò la mano sul viso, trattenendo un sorriso. “Hanno liberato gli ostaggi a Londra e a Parigi” disse in quel momento Watanabe.
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Tutti si accalcarono davanti al monitor, delle fotografie erano state inviate via mail. Il cranio dei due uomini era stato rasato, il loro sguardo denunciava i momenti di terrore che avevano vissuto. Sul viso di uno dei due, il più anziano, c’erano i segni di un pestaggio, l’occhio gonfio, il labbro spaccato. In quel momento arrivò anche la telefonata di conferma. “Passiamo alla seconda tranche, abbiamo a che fare con delle bestie” disse Watanabe. Sara posò il bicchiere sul tavolo e si passò la mano tra i capelli. “Vado a parlare con Domenico” disse. “Ci sono alcune cose in sospeso tra noi”. “Non fare scherzi, sta filando tutto liscio. Se sospetta il trucco, gli ostaggi sono morti” le disse Cabona, accigliato. “Gli comunico che la seconda trance è partita, stai tranquillo.” “Lasciala andare, Cabona. Qui non ci serve, per il momento” disse Watanabee, senza sollevare lo sguardo dal monitor. Sara vuotò il bicchiere e uscì dalla stanza. Attraversò l’ingresso e premette il pulsante dell’ascensore. Attese
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qualche minuto, le porte si aprirono e Sara entrò nella cabina. Le porte si richiusero alle sue spalle e la sonata in do minore di Bach si diffuse nel piccolo spazio ovattato. “Bartolomeo” chiamò a mezza voce. Chiuse gli occhi e ripeté nuovamente il suo nome. L’ascensore scendeva silenziosamente. Quando raggiunse il 35° piano ci fu la scossa. La luce e la musica si interruppero, Sara venne scaraventata a terra, la cabina dell’ascensore sobbalzò sulle guide e oscillò violentemente. Terremoto. La scossa sismica si prolungò per oltre 50 secondi. Sara, a terra, veniva sballottata contro le pareti della cabina. “Bartolomeo” gridò con tutte le sue forze. Poi la terra si fermò. La cabina dell’ascensore scese a scatti per qualche metro verso il basso. Sara era tramortita, a terra. Trascorsero alcuni minuti e ci fu una seconda scossa, intensa ma più breve della precedente. La cabina dell’ascensore scese ancora di qualche metro verso il basso. “Bartolomeo” gridò ancora e l’urlo le si strozzò in gola. Una mano afferrò la sua e Sara si sentì tirare verso l’alto.
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“Alzati” le disse Bartolomeo, “sali in piedi sul corrimano e apri la botola che c’è sul tetto”. Sara era sotto shock, non riusciva a ragionare, il corpo paralizzato dalla paura. “Sbrigati, non c’è tempo. I cavi che tengono la cabina non reggeranno ancora per molto.” La donna si alzò in piedi, aggrappandosi al braccio di lui. Con le mani cercò il corrimano lungo il perimetro della cabina, era un tubo liscio, metallico. “Come faccio a montarci sopra? E’ troppo vicino alla parete”. Sara rimaneva ferma al centro della cabina, le gambe larghe , tremanti. Improvvisamente si sentì sollevare e si ritrovò seduta a cavalcioni sulle spalle di Bartolomeo. “Monta in piedi, cerca la botola” le disse lui. Sara si tolse le scarpe da ginnastica e mise i piedi sulle spalle di Bartolomeo. Toccava agevolmente il soffitto, con le mani prese a dare dei colpi e trovò la botola, quando tolse il perno della chiusura, questa si aprì verso l’interno. Era buio, non filtrava luce dalla colonna dell’ascensore. “Esci fuori, sollevati con le braccia. Dovresti avere, sulla destra, la porta che si apre sulle scale.”
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Sara si aggrappò al bordo della botola e cercò di sollevarsi. Sentiva il suo corpo pesare come un macigno, allungò la gamba e riuscì a puntellarsi con il piede, sopra la botola. Poi venne sollevata verso l’alto,
Bartolomeo
l’aveva spinta con energia. Si ritrovò sul tetto della cabina dell’ascensore. Al buio. Provò a tastare la parete di destra, riconobbe la lamiera di acciaio delle porte che si aprivano sul piano. “Usa la pistola, fai saltare il cardine. Spara in alto, a sinistra.” Sara scivolò con la mano sulla fascia che aveva legata in vita e impugnò la pistola. Con la dita cercò il punto esatto dove si trovavano i cardini, quindi si alzò in piedi e sparò. Il colpo rimbalzò sulla lamiera e si disperse nel vuoto della colonna dell’ascensore. “Riprova” la incalzò Bartolomeo. Sara premette ancora il grilletto, due, tre colpi. Le pallottole rimbalzavano sulla lamiera e cadevano nella tromba dell’ascensore. Sotto i piedi di Sara c’era un vuoto di trenta piani, il buio le impediva di vedere il baratro che si apriva sotto la cabina. Sparò l’ultimo colpo e ci fu un rumore secco, metallico, sul lato sinistro della porta. 161
Sara rimase immobile, con la pistola scarica in mano. La impugnò ancora per qualche istante, poi la gettò nel vuoto. Non udì il rumore dell’impatto al suolo. Sentì invece il suono sinistro delle sirene. Provò ad aprire manualmente la porta. L’anta di sinistra si spostò di qualche decina di centimetri e si aprì un varco abbastanza ampio per farla passare. Sara si infilò dentro. In quello stesso istante, la terra tremò ancora. Fu una scossa sussultoria, Sara scivolò e rotolò a terra. La cabina dell’ascensore, con un rumore fragoroso, proseguì la sua discesa verso il basso, l’attrito contro le pareti
di
cemento
produsse
delle
scintille
che
rischiararono il buio per qualche secondo. Quando la scossa terminò, Sara si ritrovò a bocconi sulla moquette. Si spostò sul lato opposto
rispetto
all’ascensore e provò ad aprire una porta. La scossa sismica aveva bloccato i cardini, la porta non si apriva. Allora si spostò sull’altro lato, c’era un’uscita di sicurezza. Spinse con tutte le sue forze e la porta si spalancò sulla rampa delle scale. Nel buio prese a scendere i gradini, le gambe tremanti.
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“Non scendere, devi salire”. La voce veniva da dietro di lei. Bartolomeo l’afferrò per il braccio. “Questo grattacielo crollerà. Devo uscire” gridò Sara con voce isterica. Bartolomeo prese le mani della donna tra le sue e la paura di Sara si sciolse. “Saliamo, sotto non c’è scampo” le sussurrò Bartolomeo. Sara si lasciò guidare e presero a salire, un gradino dopo l’altro. Nel buio urtarono altre persone che scendevano, pazze di paura. Sara sentì il rumore del loro respiro affannato, l’odore fradicio del sudore, gemiti che non avevano nulla di umano. Proseguirono fino all’ultimo piano. Sara aprì la porta e si ritrovò nella tetra anticamera. La luce entrava dalla porta che si apriva sulla grande sala. La stanza era vuota. Sul tavolo c’erano le carte sparpagliate, il pesante lampadario di cristallo era crollato a terra, frantumandosi in mille pezzi sul pavimento. I soprammobili posti su mensole e scaffali erano a terra. Uno dei tre monitor era rovinato sulla scrivania, sfondandola. La grande vetrata era rimasta intatta. Sara si avvicinò, attenta a non 163
calpestare le schegge di vetro che ricoprivano il pavimento. Guardò verso la superstrada, il traffico era bloccato, vide le macerie del viadotto, crollato. La gente sciamava nelle strade, formava un serpente umano che si muoveva sinuoso tra i blocchi di cemento. C’era del fumo che proveniva dal tetto di una casa, qualche isolato più a nord. Ci fu una nuova scossa e Sara si buttò a terra, coprendosi la testa con le mani. E’ una pazzia restare quassù. Adesso crolla tutto. “Bartolomeo” gridò ma l’uomo non c’era. C’è troppa luce. Non può entrare. Tornò a guardare verso la strada. Adesso sentiva distintamente le sirene di allarme. La casa con il tetto in fiamme era crollata. Una nuvola di fumo e calcinacci si sollevava nel cielo e rimaneva ferma sulla verticale, non c’era vento per disperderla. Sara si voltò e guardò la stanza. Rovesciate a terra, sulla moquette, le bottiglie di liquori erano cadute le une sulle altre, rompendosi. Il liquido aveva inzuppato la moquette amaranto. Ne rimaneva intatta solo una.
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Si avvicinò gattonando, prese la bottiglia di tequila e la riportò vicino alla vetrata. Aprì il tappo e bevve alcuni sorsi. “E’ un suicidio restare qua dentro. Devo uscire” disse a mezza voce. Ma rimase immobile, il respiro contratto, a guadare la gente che correva nelle strade. Poi si fece forza, si alzò e si avvicinò alla scrivania. Era scalza e una scheggia di vetro le si conficcò nella pianta del piede. Si fermò ed estrasse la scheggia. La ferita sanguinava. Chiuse gli occhi e i battiti del suo cuore rallentarono la folle corsa. Sono ancora viva. Si avvicinò al
monitor che era rimasto
sul tavolo,
acceso. C’era la schermata di conferma di avvenuto invio del bonifico bancario, l’ultima tranche del secondo pagamento effettuato da Watanabee . Chissà dove sono tutti quanti. Fuori, nelle strade. Sono scappati via. Il pc era funzionante perché aveva una batteria autonoma e il collegamento wifi era attivo. Sara digitò i codici del conto sul quale restava l’ultima tranche del pagamento, 50 milioni di dollari. Aprì la finestra del suo conto presso il Monte dei Paschi di Siena e vi trasferì l’intero importo. 165
Poi reimpostò le password, GB 188,
e chiuse la
connessione. Tornò nuovamente vicino alla vetrata, attenta alle schegge di vetro e raccolse la bottiglia di tequila. Ne bevve avidamente alcuni sorsi e si sedette a terra. Se devo morire, morirò. Bartolomeo mi ha chiesto di restare. E io resto. Alzò lo sguardo all’orizzonte e vide il mare incresparsi al largo. In pochi minuti l’acqua dell’oceano acquistò consistenza, si fece scura. Un’onda gigantesca si alzò a pochi metri dalla riva. Sara la vide gonfiarsi come se un’entità invisibile stesse comprimendo l’acqua dall’oceano e la volesse concentrare in un unico punto. La cresta dell’onda di franse e una massa d’acqua scura si riversò sulla costa, travolgendo la prima schiera di case e trascinando con sé tutto ciò che trovava al suo passaggio. Cadevano i pali della luce, le imbarcazioni ancorate al porto scaraventate contro gli edifici. La massa d’acqua proseguiva la sua folle corsa, schiumando
violenta
lungo
le
arterie
stradali
e
trascinando automobili, baracche, manufatti di ogni tipo. Sommerse le macerie del viadotto della superstrada e si riversò sulla folla che aveva cercato rifugio nelle strade. Il 166
turbine di acqua raggiunse il basamento del grattacielo nel quale si trovava Sara e proseguì oltre, fino a lambire la base delle colline. Sara trattenne il respiro. Si alzò in piedi, le mani premute contro il vetro nello sforzo di individuare dentro a quella massa d’acqua degli uomini, delle donne. Carcasse di automobili, contenitori di rifiuti, sedie,
chioschi dei
dehors dei bar. Non c’erano essere umani. Non potevano esserci. Sono tutti morti. Sono tutti morti. Sara rimase irrigidita davanti alla grande vetrata, il corpo premuto contro il vetro, come imprigionata in una bolla d’aria che galleggiava sopra l’inferno. Quell’acqua torbida, rimescolata, rivendicava la forza selvaggia della natura. Un brodo che ribolliva, dentro al quale si fondevano vite umane,
oggetti. Un amalgama
componenti
sparivano,
soffocate
dove le singole da
un
collante
bituminoso. L’onda di maremoto perdeva mano a mano il suo stato di liquidità, acquistava consistenza, diventava vischiosa come lava incandescente.
Fagocitava
ogni
ostacolo che incontrava al suo passaggio fino a livellare il paesaggio, immobile acquitrino stagnante, gelatinoso.
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Sara assorbiva le immagino dentro il cervello e le immagazzinava in qualche file nascosto. Non elaborava le sensazioni, provava stupore regredendo allo stato infantile, fissava il vortice melmoso che si insinuava sotto i portici del palazzo sul lato opposto della strada. C’era un uomo, immobile come lei, affacciato alla finestra di un ufficio, qualche piano più in basso rispetto al suo. Proteso oltre il cornicione, le mani aggrappate all’infisso della finestra di metallo. Sara rimase a fissarlo fino a che lo vide scivolare all’indietro, lentamente e scomparire nel buio della stanza. Allora percepì un senso di vuoto, di mancanza ed ebbe coscienza di essere sola davanti alla vetrata di cristallo. Come una figurina di cera in una teca, destinata a ricoprirsi di polvere. Il tempo perse il suo contorno e la sua definizione. Arrivò la notte e la città devastata fu avvolta dalle tenebre. Sara sentì una leggera pressione sul collo e un alito caldo. Bartolomeo era dietro a lei e la stringeva in un abbraccio. Il viso di Sara si rilassò, la smorfia di orrore che le deformava i lineamenti si ricompose. I suoi occhi si riempirono di lacrime che scivolarono sul suo volto e bagnarono il vetro freddo. 168
”… so here I am, surrounded by my wall of memory, I try to stop remembering but I can't”.
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