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Fotografie di Marco Zanella

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Parma 1984

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Inventario Varoli è una mostra e al tempo stesso un deposito temporaneo. Parte da una necessità inderogabile, quella di spostare e collocare altrove le raccolte custodite nella casa-studio di Luigi Varoli, e permettere così l’avvio di un cantiere che amplierà questa sede del museo connettendolo all’edificio a fianco acquistato qualche anno fa dall’amministrazione comunale.

Inventario Varoli è una mostra che si distribuisce su di una lunga fila di tavoli allestita al piano terra di Palazzo Sforza, e un deposito che non si limita alla sua condizione sonnambula di attesa e sospensione, ma che rilancia questa sua condizione precaria assumendo una forma precisa, anche se effimera, visibile e pubblica, che è disegno e mappa, Idea del mondo.

Un ri-allestimento che produce movimenti immaginativi. Un gioco anche.

Inventario Varoli è un archivio consultabile che porta nuovi sguardi e altri punti di vista sulle collezioni, innescando relazioni inattese e congiunzioni tra gli oggetti, e anche tra gli oggetti e lo spazio che li accoglie, modificando infine la loro stessa fruizione da parte dei visitatori che si troveranno di fronte a qualcosa in più e di diverso rispetto alla semplice somma di pezzi sparsi e dettagli e frammenti.

Un arcipelago in cui muoversi, una costellazione di memorie che diventa labirinto di storie e possibilità combinatorie.

Inventario Varoli è un racconto, qualcosa che sta a metà tra una quadreria (pur essendo in larga misura composto da piccole sculture), per la possibilità di abbracciare in un unico colpo d’occhio l’insieme e il fitto di foresta di cose e presenze, e la possibilità di un rapporto più intimo e ravvicinato con le cose stesse, siano queste maschere in cartapesta, teste in terracotta, gessi, disegni, ceramiche, libri, strumenti musicali e fotografie (oltre trecento i pezzi che lo compongono, in attesa del loro ricollocamento definitivo nella casa dell’artista cotignolese del primo novecento).

Le cose disposte e in ordine, ad allinearsi ed espandersi lungo una fila di piani verniciati di bianco, come in un lungo tavolo anatomico o microteatro di oggetti, soffitta o banco di mercato delle pulci, esotico e misterioso tesoro bambinesco, catalogo di un mondo in cui reperti preziosi, piccole sculture felici e chincaglierie convivono. Chiamandosi.

Un’esposizione che permette un avvicinarsi curioso, una palestra per gli occhi, e lo sguardo come ragnatela che cuce e tesse fili tra le cose e gli oggetti, congiungendoli. Anche un posto bello e avventuroso per disegnare: lo abbiamo visto con i bambini prima di tutto, grazie a una serie di visite guidate disegnate alla mostra fatte tra maggio e giugno appena riaperto al pubblico il museo con questo nuovo allestimento.

Dagli sguardi e dai movimenti dei bambini sarebbe poi nato altro. Spesso succede così. Evviva.

Inventario Varoli è stato, ed è infine, uno dei nostri primi movimenti dopo la chiusura forzata imposta dalla pandemia, la nostra risposta e reazione alla crisi con cui fare i conti, e un’idea di museo che decide di ripartire ancora una volta dalle sue collezioni e raccolte, ripensandole e ripensandosi, anche attraverso il

fantasticare e l’immaginazione. Inventare ancora.

E, al centro, il suo essere inquieto e incerto, mobile sempre. Che l’identità va ripensata e la parola maneggiata con cura e attenzione sempre, non è una cosa acquisita una volta per tutte. Una coltivazione necessaria.

Ma questo progetto non si limita poi solo a questo allestimento, perché Inventario Varoli rilancia diventando una mostra doppia e un ciclo di brevi residenze d’artista (anche se questa definizione non è propriamente corretta), acquistando un sottotitolo Della copia e dell’ombra che è già dichiarazione d’intenti: la prima, fatta come detto sopra, con le opere conservate a Casa Varoli e riallestite temporaneamente al piano terra di Palazzo Sforza in forma di deposito consultabile; la seconda, sempre a Palazzo Sforza, in divenire e crescita, partita con il suo primo movimento a luglio, e che ha continuato a cambiare forma e andamento accogliendo innesti e copie contemporanee fino alla fine di ottobre del 2020.

Si tratta di disegni e dipinti prodotti sul luogo, anche dal vero, in una o due giornate di lavoro in cui il museo ha ospitato ciclicamente piccoli gruppi di artisti, trasformandosi in una specie di studio collettivo e spazio d’incontro, di scambio e dialogo.

Un dialogo tra le persone, e tra le persone e le collezioni presenti, le cose e i luoghi. E il museo, ancora, come luogo di produzione, ricerca e studio, che si rinnova e ripensa accogliendo altri punti di vista e modi di vedere, da fuori, su se stesso e ciò che conserva.

Durante questi mesi, il museo ha organizzato una serie di cinque incontri e appuntamenti in cui ha ospitato piccoli gruppi di artisti che si sono ritrovati a lavorare e confrontarsi disegnando o dipingendo pezzi sparsi, frammenti, particolari e dettagli tratti da questo archivio, una foresta di oggetti e piccole sculture appartenuti al maestro cotignolese.

All’artista il compito di inoltrarsi, orientarsi e fare luce nella stratificazione di presenze, fantasmi e memorie, attraverso un’esplorazione che si affida alla pratica, artigianale e imperfetta, del disegno e della pittura. Una restituzione che passa perciò anche dall’errore.

Ciò che è stato prodotto in queste giornate di lavoro è andato a formare una mostra in divenire che rappresenta una sorta di doppio o eco di quanto esposto al piano terra. Un allestimento aperto che procede e si sviluppa con un andamento simile a una crescita vegetale, in cui convergono tutti gli autori che nei mesi si sono misurati con questo secondo sguardo. Un mostra che si è precisata nel tempo e nello spazio, acquisendo e accumulando opere e giorni, aggiustandosi, trovando incastri, procedendo con un andamento abbastanza casuale che si è chiuso a novembre con il raggiungimento della sua forma quasi definitiva. O ultima.

Una mostra che innesca quindi un cortocircuito labirintico con l’inventario da cui trae spunto, specchiandolo e riflettendolo attraverso l’atto della copia. E la concretezza degli oggetti e sculture che si rovescia nell’astrazione e bidimensionalità della pittura e disegno.

A seguito dell’ennesima chiusura dei musei imposta dal Dpcm del 3 novembre 2020, i nuovi episodi del progetto che erano stati previsti per lo stesso mese non si sono potuti realizzare così come erano stati pensati; stessa cosa per l’inaugurazione della mostra fissata a dicembre che si è deciso di far slittare in avanti, a data da destinarsi.

Ma Inventario Varoli. Della copia e dell’ombra non si è fermato, e ha cambiato forma, riadattandosi e reagendo ancora una volta con un altro movimento: a questo proposito i fotografi Michele Buda e Daniele Casadio hanno mappato, nel mese di novembre, la mostra, gli allestimenti e gli oggetti che la compongono, e il museo ha messo online sul suo sito questo archivio e campagna fotografica.

E, se il museo non ha potuto aprire le sue porte e stanze, e trasformarsi fisicamente in una piazza e luogo di scambio, confronto e produzione, lo ha fatto comunque invitando altri artisti a lavorare sulle sue suggestioni, storie e immagini, ma a distanza, a partire da questo materiale fotografico, entrando nelle case e negli studi, continuando a riannodare fili tra le persone, non rinunciando al suo ruolo di confine e soglia, spazio di studio, stimolo, incontro e dialogo. Tentativo di orientamento. Sempre.

Ha avviato così un secondo movimento, inverso, che gli ha permesso, grazie anche a questa campagna fotografica realizzata appositamente, di entrare, in questi suoi nuovi episodi, negli studi degli artisti e di continuare ad alimentare un dialogo e riflessione, pur se a distanza e in forme inevitabilmente differenti.

Questa quindi è la storia di un secondo sguardo, non solo sul patrimonio del museo, ma anche sul nostro rapporto con le immagini e lo schermo e, ancora, con un tentativo di traduzione e restituzione che passa dall’errore, o dal tradimento talvolta, e dall’innescare cortocircuiti e pratiche che ancora, per fortuna e inevitabilmente, accadono nella fisicità e materia.

Alla campagna fotografica e mappatura di Daniele Casadio e Michele Buda si è affiancato poi il lavoro di un altro fotografo, Marco Zanella, presente in quei giorni a Cotignola per un progetto di residenza d’artista già avviato precedentemente.

La maschera e il volto sono i due mondi, estremi e vicini, che entrano qui in cortocircuito: Marco Zanella affianca e sovrappone, fino a confonderli e stratificarli, volti di cotignolesi d’oggi a teste scolpite o modellate da Luigi Varoli in legno, pietra, ceramica e cartapesta, e conservate al museo. Intorno a questo incontro si è ramificata quindi una parte del progetto del fotografo, qualcosa che ha a che fare con l’esplorare l’identità di un luogo, per quanto incerta, e pericolosa anche, possa risultare questa parola. Una mappa scritta sulle facce delle persone.

E dalle grandi teste in cartapesta che raffigurano perdigiorno e personaggi noti a tutto il paese, passando per i volti del museo in legno e ceramica, fino ai ritratti di cotignolesi d’oggi, realizzati nel corso degli ultimi due anni durante la sua residenza, il fotografo appartenente al collettivo Cesura, ha cercato e fatto affiorare risonanze, storie, mancanze e fantasmi di un paese. Luoghi, persone e cose. Animali e paesaggi. Una specie di selvatichezza resistente.

Uno sguardo e indagine sul presente che finisce inevitabilmente per occuparsi di memoria, rilanciandola, e prendendosene cura, ancora. Portandola nel futuro.

E una documentazione visiva e antropologica che diventa perciò, non solo testimonianza di nuovi punti di vista e modi di vedere, ma vera e propria trasformazione possibile, bellezza riscoperta e ferita aperta.

Finestre del tempo e dello spazio. Materia ancora.

Anche il corpo di opere prodotte a distanza nei due turni che si sono svolti tra dicembre 2020 e gennaio 2021 e che hanno coinvolto venticinque artisti (a cui si è aggiunta un’ultima chiamata fatta ad altri due autori in aprile), sarà visibile in una mostra che accoglie queste nuove produzioni, espandendosi in un secondo spazio, quello dell’ex Ospedale civile Testi, affiancandosi e aggiungendosi ai dipinti e disegni realizzati sul posto da ventinove artisti e già presenti a Palazzo Sforza, oltre all’inventario e archivio da cui tutto questo trae origine e spunto.

Indicativamente verso metà del mese di maggio, è prevista l’apertura e l’inaugurazione di questa mostra, nella sua forma definitiva e ultima che conta al traguardo cinquantanove autori.

Grande è la voglia di mostrare infine e chiudere questo lavoro, un progetto che ci ha accompagnato durante questo anno difficilissimo; ci sarebbe al tempo stesso anche piaciuto andare avanti: inevitabilmente molti artisti, a cui avevamo pensato e che avremmo voluto invitare, sono rimasti fuori, ma se Inventario Varoli è in qualche modo una spora di Selvatico, qualcosa d’altro e di nuovo succederà. Ancora.

Massimiliano Fabbri

Non so se il disegno sia pratica che permette di sfuggire al presente, o se al contrario lo dilati fino a immergerci totalmente in esso, facendoci insieme concentrati e spersi, fuori e dentro noi; di certo lo supera, lo fa esploso e modifica percezioni e andamenti, così come fa con noi stessi e le cose.

Così, mentre disegniamo, siamo pienamente dentro a un flusso, immersi, trasportati da un fiume che avanza e s’ingrossa, e siamo però anche fuori, padroni e liberi di tornare indietro e fermarci, di abbandonare senza ragioni apparenti, e costruire e smontare e rifare e tagliare e distruggere, e incendiare ancora una volta e volare via dal mondo; ogni nuova linea, segno e contorno diventano un ulteriore tentativo di orientamento che ci dice, non solo cosa abbiamo visto, immaginato o ripescato dalla memoria, ma anche chi e cosa siamo diventati.

E questa condizione di ascolto e vulnerabilità, che richiede l’atto del disegnare, l’essere guardati anche, che implica spesso un giudizio spietato, comporta una messa in discussione e una verifica costante volte alla ricerca di un complicato equilibrio tra queste due tensioni e spinte, tra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro. Il disegno quindi non è solo una rivelazione ma anche un compromesso. Felice. Una crescita vegetale, in parte sommersa sotterrata stratificata. Ramificazioni.

E se il tempo e la sfida al suo superamento rappresentano forse il problema, sempre quello, ovvero provare sentimenti più che concetti che, detto in altri termini, potrebbe essere la ricerca di questa imprendibile somiglianza che significa infine mediazione tra noi e il mondo, tra una solitudine e questione privata e ciò che ci assedia e stringe, ecco ancora il disegno a contrastare perdite e sparizioni. Ad aprire. E trasgredire la regola. Disegno magico. Rispondente ai bisogni.

Un disegno che stana, scava e buca, che ricuce frammenti, mancanze e pezzi sparsi cercando di tenerli insieme come archeologo, perché ha a che fare, sempre, con la memoria, quasi come se di questa fosse una sua sede corporea o cristallizzazione. Connette e mette in relazione, intreccia e ingaggia un dialogo, danza o battaglia, tra ciò che sta fuori e ciò che è interno, tra sguardo e memoria, entrambi modi e mondi sconosciuti affioranti. E forse proprio per questo il disegno esiste e resiste da sempre, strumento, non so dire se linguaggio: primitivo, carsico, vitale, antico e potente, arma di comprensione e lotta. Nutrimento. Fiamma. Fuoco e carbone.

Con il disegno ci si difende, con il disegno ci si libera ed emancipa. Si diventa migliori. Si torna a vedere ancora. Ci si riscatta infine.

Il disegno dice chi siamo, come lui ci fa nudi, animali, racconta come e cosa vediamo e come ci muoviamo, e cadiamo; i nostri amori, le nostre reazioni e paure, i sogni, come proviamo a comprenderla questa complessità e come, questa pratica quotidiana, ci cambi anche e trasformi ogni volta; insidiandoci, mettendoci in pericolo e allo scoperto. E salvandoci. Aprendo sentieri nella foresta. Portandoci in profondità rimanendo sulla superficie. Corpo scheletro fantasma. Vuoto.

Disegno che mangia e morde, avanza e torna indietro senza sosta, connette e sposta, aggiusta e mette ordine, congiunge e collega, trattiene e inventa. Impara facendo accadere. Un lavoro costante su e intorno alla memoria il suo, anche quando parte

da immagini già esistenti o presenze più o meno ingombranti; prende queste schegge che sono ferita aperta e le cura e custodisce portandole nel futuro, in un luogo che ancora non conosciamo, su e dentro al foglio, membrana sensibile che trattiene, schermo che raccoglie il residuo di questa visione, nido, ragnatela che imprigiona; processo di scoperta ed esplorazione. Una geografia.

E in questa trasmissione imperfetta e spezzata, a tratti interrotta, dentro a questa sua dimensione estremamente artigianale e basica, scende a patti con l’errore e, intorno a questa precarietà e fallibilità, costruisce, si precisa, succede e si rafforza; prende forma. Coraggioso sempre.

Pensiero stupendo, sua traduzione, trasformazione e tradimento minerale. Impronta e traccia, fossile di visione; quello che resta impigliato sulla carta, spazio circoscritto infinito, è la storia di una migrazione; un viaggio che ci permette di ripercorrere a ritroso i passaggi e le piste, gli scarti e le accelerazioni, i ripensamenti e i dubbi, le ostinazioni, gli incagli, le intuizioni e le invenzioni di chi l’ha compiuto, il tragitto che collega l’occhio e la mano. E in questa specie di incertezza emotiva e nervosa, aperta e mobile, in questa capacità e attitudine al farsi attraversare, accoglierci dentro e lasciarci immaginare, risiede la sua invincibilità e durata; il disegno come confine che permette l’incontro. Una soglia. Principio. Margine tremante e sensibile. Sismografo e sciame.

Il disegno non mente, forse per via del suo bagaglio così povero, banale e leggero, accessibile e alla portata di tutti. Qui possibili rivoluzioni ancora.

Assomiglia alla forma del pensiero, ricalca i suoi flussi, sistemi e labirinti, le sue lacune, ombre e ristagni, i suoi avvitamenti e gli scarti improvvisi; gli ammassi di materia e i buchi, i punti luminosi e le scintille chimiche che accendono bagliori nella notte, i vuoti, le risonanze e le derive; astrazione che diventa concreta. Il primo gesto e segno nello spazio. Il disegno che si avventura. Il disegno come desiderio.

Un respiro. Fragilità indistruttibile la sua; un piacere e una libertà. A lui ci si affida nei momenti di crisi o bonaccia, o ci sorprende, sovrappensiero, più intelligente e sensibile di noi, esercizio a cui torniamo sempre per capire dove e chi siamo. E com’è là fuori.

Sospensione del pensiero nel disegno, questo accade, e affidarsi finalmente, ancora, ai sensi. Ricevere. Questo l’errore, questo il tentativo meraviglioso; qui il luogo dove ancora c’è vita.

Questo testo esisteva già da un po’. L’ho scritto per il catalogo che accompagna la mostra “141 Un secolo di disegno in Italia” a cura di Maura Pozzati e Claudio Musso che, dopo vari rinvii, apre le sue porte a Bologna proprio nei giorni in cui stiamo lavorando e chiudendo questo libro.

E anche se non nasce per “Inventario Varoli. Della copia e dell’ombra”, un progetto che a Cotignola ci ha accompagnato e orientato nel corso di questo ultimo ultimo anno, credo che anche qui trovi un suo senso pieno e un incastro felice considerato che il disegno è stato uno dei linguaggi, probabilmente lo strumento principe e imprescindibile, vero e proprio atlante infinito, a cui si sono affidati molti degli artisti che si sono confrontati, in questi mesi, con l’archivio e la collezione di oggetti appartenuti all’artista Luigi Varoli, indipendentemente dal fatto che questo sia avvenuto sul luogo, dentro al museo, o a distanza.

Ancora una volta il disegno a delineare la mappa e le possibilità di movimento, i modi di vedere e le idee del mondo, a favorire un incontro, scambio e dialogo mai superficiali. Disegno che sembra dare forma al pensiero, tentativo di comprensione e ascolto, arma che permette l’avventurarsi e lo spingersi oltre, l’esplorazione e la concentrazione. Uno sporgersi fuori e dentro al tempo stesso, fino al ritrovamento. Spostare il confine un po’ più in là. L’allontanarsi e il ritorno a casa. Abitare i margini.

E se lo stesso Inventario Varoli è fatto di pezzi sparsi e frammenti distanti che sembrano infine trovare una loro collocazione che li congiunge, collega e tiene insieme, disegnando una forma ramificata apparentemente casuale, e al tempo stesso quasi inevitabile e vincente, così anche questo scritto condivide molti degli umori e delle temperature di questo progetto, che mette in cortocircuito una parte del patrimonio del museo, quella più intima forse, e l’ombra di un artista, con altri sguardi e copie contemporanee. Affinità ancora. E risonanze.

Massimiliano Fabbri

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