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arteintransito
Potenza, luogo dell’innovazione
la cultura come energia primaria della città nell’età della globalizzazione
arteintransito
paesaggio urbano e arte contemporanea
Sezione Learning City
www.arteintransito.it
Potenza, luogo dell’innovazione
La cultura come energia primaria della città nell’età della globalizzazione Workshop rivolto a giovani laureati e studenti di architettura e ingegneria finalizzato alla riqualificazione dell’area ex Cip Zoo di Potenza a cura di Franco Purini Università degli Studi “La Sapienza” Roma Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l’Ingegneria Responsabili Amministrativi Dipartimento Presidenza della Giunta di Basilicata Ufficio Programmazione e Controllo di Gestione Francesco Pesce (Dirigente) Enzo Paolo Petruzzi Progetto promosso da Regione Basilicata Ufficio Programmazione e controllo di gestione PaBAAC Ministero per i Beni e le Attività Culturali Ideato e curato da Giuseppe Biscaglia e Francesco Scaringi Basilicata 1799 Tutors Workshop Loredana Landro, Fabio Satriano Pubblicazione a cura di Giuseppe Biscaglia, Francesco Scaringi, Loredana Landro Organizzazione Noeltan Film Progetto Grafico Maria Teresa Quinto Fotografie Salvatore Laurenzana Stampa Centro Grafico s.r.l. Prima Edizione Luglio 2010 Tutti i diritti di riproduzione, anche parziale del testo e delle immagini, sono riservati Ringraziamenti Comune di Potenza Unità di Direzione “Ambiente - Parchi - Energia” Unità di Direzione “Mobilità” Ecosfera Ordine degli Architetti della Provincia di Potenza Ordine degli Ingegneri della Provincia di Potenza
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30 Riflessi sul Basento
KATIA BASILIO
34 Basilikarte. La città delle arti BERNARDO BRUNO
38 La fabbrica dell’errore creativo
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La creatività come strumento di sviluppo VITO DE FILIPPO
Giovani e creatività FRANCESCO PESCE
Learning city
Giuseppe biscaglia, francesco scaringi
12 Introduzione
Franco Purini
22 Aforismi naturali
Franco Purini
26 Architetti in transito
LOREDANA LANDRO
MARCO BRUNO
42 Oasi della conoscenza
IVANA CATENACCI e giuseppe delfino
46 Bas_Expo
PATRIZIA COSTANZO
48 Percorsi
SILVIA IAZZETTI
80 Considerazioni conclusive
FRANCO PURINI
82 Progettazione urbana e bellezza
della città
PAOLO COLAROSSI
96 Gli edifici, la città e l’energia
LIVIO DE SANTOLI
106 Le metamorfosi delle città in Europa BENEDETTO GRAVAGNUOLO
114 Etica dell’architettura.
52 La città inferiore. Hub culturale
56 InFiera
120 Luogo. Immaginario. Architettura
60 La porta del sapere
134 Passaggi sulla città
ALFREDO NARDIELLO
MARIELLA PARZIALE
GIUSEPPE PULIZZI
64 Confini culturali
GIACOMO SANTORO
68 La città sapiente
DOMENICA SANTORO
72 L’officina del sapere
GIORGIO STEFANELLI
76 La città narrante
ROBERTO TOTA
Professione architetto MARGHERITA PETRANZAN
JORGE CRUZ PINTO
FRANCESCO SCARINGI
156 Su un tratto di parete, lei:
un’acquaforte del Piranesi. Piccolo omaggio al “Piranesi” di Franco Purini
giuseppe biscaglia
La creatività come strumento di sviluppo
La cultura, l’arte, la creatività sono sempre più elementi che determinano gli equilibri economici nella moderna civiltà della comunicazione soprattutto in un momento in cui grandi incertezze agitano la società ed il sistema della finanza internazionale. La globalizzazione, infatti, ha messo in competizione non solo i produttori di merci ma anche le aree geografiche che sono il retroterra di qualsiasi tipo di produzione; accade così che i territori hanno sempre più necessità di ricercare e strutturare una propria identità competitiva che sia immediatamente percepibile in un confronto su scala nazionale o internazionale. Dunque, quando si parla di cultura oggi non si parla più di un modo più o meno sofisticato di coltivare interessi astratti o individuali; né si pensa solo alla tutela di un patrimonio che fino a pochi anni fa sembrava essere considerato una trincea da difendere, piuttosto che una risorsa da mettere a valore. Quando si parla di cultura e di creatività, come dimostrano molti studi economici recenti, ci si riferisce oggi ad un settore importante e sempre più decisivo per l’economia. La Regione Basilicata ha evidenziato queste nuove opportunità nei suoi documenti di programmazione redatti per il periodo 2007-2013, a partire dal Documento Strategico Regionale fino ad arrivare al Documento Unitario di Programmazione. In questi programmi sono tracciate le azioni che si stanno realizzando nell’ambito del “Patto con i giovani” attraverso una serie di progetti coordinati quali ArtePollino, Visioni Urbane ed Arte in Transito. Completa questo quadro la recente istituzione della Film Commission Regionale e l’attivazione di ulteriori iniziative sulla conservazione del patrimonio cinematografico presente in regione. In sostanza si ritiene che, per rinnovare e non disperdere l’identità culturale della regione, debba essere possibile soprattutto per i giovani coltivare ed affermare i propri talenti e la propria capacità innovativa rimanendo, o meglio ancora ritornando, qui in Basili-
cata poiché, nel mondo contemporaneo, grazie alle tecnologie telematiche e multimediali ogni luogo può diventare centrale, vicino, vissuto. In questa prospettiva si inquadrano anche le iniziative realizzate con Qualità Italia a Rionero in Vulture ed a Matera che sono rivolte al settore dell’architettura con le quali si intende promuovere, grazie alla proficua collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e con le amministrazioni comunali, sia il merito di progettazioni di qualità elevata, sia il metodo della selezione trasparente e basata sul concorso di progettazione, sia la particolare attenzione rivolta alle giovani generazioni di progettisti. Per sostenere in modo sistemico questo settore creativo assai importante, la Regione ha poi varato, nel febbraio 2010, la legge n. 23 che si occupa specificamente della promozione della cultura architettonica e del paesaggio attraverso iniziative culturali ed azioni di sensibilizzazione volte a promuovere la qualità del progetto di architettura. Del resto ed a valore dell’esperienza istituzionale che abbiamo compiuto, la partita tra paesaggio ed architettura non è soltanto una questione di futuro e di buon senso, ma anche di pensiero. E basterebbe l’invito interrogante che Derrida lancia ad apertura della nuova modernità: “Quoi maintenant de l’architecture?” per giungere al cuore di una risposta che testimonia un esempio di buon governo.
VITO DE FILIPPO
Presidente della Regione Basilicata
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Giovani e creatività
La Regione Basilicata ha promosso il progetto strategico “Il patto con i giovani” che nel corso del 2008 e del 2009 ha attivato, tra le sue molteplici azioni, tre progetti specificamente finalizzati alla valorizzazione della creatività per le giovani generazioni: Arte in Transito che si è sviluppato in ambito urbano, ArtePollino - un altro sud che si è articolato in un’area interna montuosa promovendone lo sviluppo attraverso l’arte contemporanea e Visioni Urbane che sta costituendo una rete territoriale regionale di centri per la creatività. Per attuare questi progetti innovativi la struttura regionale ha dovuto confrontarsi con una sfida impegnativa poiché la natura degli interventi, che hanno coinvolto alcune delle più importanti personalità che operano nel settore culturale ed artistico a livello internazionale, ha reso indispensabile un’attenzione costante alla qualità delle realizzazioni. Per questo è stato necessario l’intervento diretto della Regione nei tre progetti attraverso una forte azione di coordinamento svolta sia dall’Ufficio Programmazione e Controllo di Gestione, sia da Nucleo Regionale di Verifica e Valutazione degli Investimenti della Regione Basilicata. Solo con un’attenzione costante rivolta alla rapida esecuzione di centinaia di atti amministrativi è stato infatti possibile implementare le varie fasi del progetto, rispettando le tempistiche previste e riuscendo contemporaneamente ad attivare una innovativa cooperazione interistituzionale sia a livello nazionale con i Ministeri, sia a livello territoriale con gli enti locali che hanno contribuito ad elevare il livello qualitativo delle realizzazioni implementate dai tre progetti. In questo scenario Arte in Transito è una iniziativa regionale finanziata con i fondi FAS nell’ambito di un Accordo di Programma Quadro (APQ) sottoscritto dalla Regione e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con i fondi della Delibera CIPE 03/2006. Queste risorse hanno permesso di sviluppare una serie di interventi coordinati sul tessuto urbano del capoluogo regionale con attività rivolte all’approfondimento
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delle tematiche dell’arte contemporanea, dell’interpretazione innovativa della realtà urbana e delle emergenze architettoniche della principale città della Basilicata, dei suoi ambiti potenzialmente più interessanti, delle sue risorse umane e professionali più promettenti anche in una prospettiva di sviluppo turistico. La definizione del progetto è stata affidata nell’aprile 2008 dalla Regione all’Associazione Basilicata 1799, che ha provveduto a sviluppare tutti i complessi ambiti dell’iniziativa, ad individuare gli artisti coinvolti, a contattare e a coinvolgere le numerose associazioni che hanno collaborato al progetto in un’ottica di partecipazione e di condivisione tra le istituzioni e le realtà associative che operano nel capoluogo regionale. Nel corso del 2009 si sono progressivamente attuate le numerose iniziative del progetto tra le quali quella descritta in questa pubblicazione e rivolta allo studio della possibile trasformazione ed al riuso di un’area periferica. Dal punto di vista dell’amministrazione l’idea è stata quella di rendere possibile la realizzazione di un esempio metodologico per definire un possibile approccio innovativo alle complesse problematiche urbane tipiche della realtà del capoluogo lucano. In tale prospettiva di ideazione e di studio, essendo svincolati dalle emergenze e dalle contingenze, l’amministrazione regionale ha scelto di considerare come prioritari anzitutto la qualità dell’intervento, il coinvolgimento di quanti operano professionalmente nel territorio e le sue possibili ricadute. Questo approccio ha consentito di tracciare nuove direttici ed immaginare nuovi strumenti per la valorizzazione delle potenzialità inespresse esistenti nel tessuto urbano del capoluogo regionale, agendo in una prospettiva culturale per superare problematiche e contraddizioni spesso ancora stridenti. FRANCESCO PESCE
Responsabile Amministrativo del progetto Arte in Transito
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Giuseppe Biscaglia e FRANCESCO SCARINGI
Learning city
Il progetto “Arte in transito. Paesaggio Urbano e Arte contemporanea” ha coinvolto - da maggio a dicembre 2009 - la città di Potenza in un’esperienza innovativa che ha tenuto insieme arte contemporanea, città e architettura, non separando il momento della riflessione teorica da quello più strettamente legato all’agire pratico. Si è voluto - e qui sta la novità - entrare nel vivo dei problemi che segnano profondamente la città contemporanea, facendo di Potenza un luogo di sperimentazione di nuovi linguaggi, pratiche e pensieri, valorizzando le sue problematicità, le sue contraddizioni, ma anche le sue intrinseche potenzialità. Una sezione del progetto dal titolo “Learning city” ha voluto affrontare in modo diretto le complesse questioni che attraversano la città contemporanea all’interno dei nuovi processi di globalizzazione. Con questo workshop, diretto da Franco Purini, a cui hanno partecipato alcuni grandi architetti contemporanei, si è voluto dare la possibilità a giovani professionisti della nostra Regione di esperire contenuti, concetti, tematiche, metodi, modi di rappresentazione e di progettazione fortemente innovativi. Qual è il rapporto che si stabilisce tra il locale e il globale? Com’è possibile mettere in relazione realtà urbane medio-piccole con dimensioni più ampie senza tralasciare le questioni riguardanti la qualità della vita e dell’ambiente? In che modo è possibile ridefinire il ruolo di una città come Potenza, non solo da un punto di vista urbanistico, ma anche in una prospettiva di competizione tra territori su scale diverse: regionali, nazionali e transnazionali? Com’è possibile darne un’immagine unitaria? Quali le strategie per poterla governare secondo obiettivi condivisi? come fare perché le relazioni che si sviluppano al proprio interno siano elementi di riconoscimento e d’identificazione, nonostante la frantumazione d’interessi in competizione tra loro, le crisi economiche, le incertezze della globalizzazione, i problemi energetici e ambientali?
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Tanti gli interrogativi, forse troppi, per una piccola città come Potenza - interrogativi non semplici a cui si è tentato di dare una risposta, se pur parziale, contribuendo a far crescere il bagaglio di competenze di giovani professionisti (architetti e ingegneri), che vedono non solo le loro professioni, ma anche gli statuti epistemologici dei loro saperi, perdere d’identità, sottoposti a tante forze centrifughe che ne ampliano a dismisura gli orizzonti d’intervento. Ci è sembrato, dunque, necessario cercare d’iniziare a modificare gli atteggiamenti e i modi di concepire gli interventi su una città, prospettando l’idea di una “città che apprende”. Learning city è la sezione del progetto di “Arte in Transito” nella quale si è svolto il workshop diretto da Franco Purini. Con questo titolo (nel linguaggio di Norman Longworth, “città che imparano”) si sottolinea come la conoscenza sta diventando la base strategica delle città, ciò che fa la differenza tra le diverse città al di là di fattori meramente materiali o dimensionali. E tale conoscenza è sia globale che locale: “La prima è astratta e decontestualizzata, la seconda, invece, è concreta e contestuale, legata cioè allo specifico milieu locale che la produce”. Le città devono perciò diventare consapevoli e “riflessive”, proprio come se fossero dotate di una struttura cognitiva: una specie di cervello sociale. II futuro tanto delle città globali quanto delle città locali è oggi problematico, non essendo più legato alla dipendenza dal proprio sentiero storico: ogni città deve trovare la propria strada nella nuova fase competitiva che si è aperta con la globalizzazione dell’economia e dei mercati e tra i fattori che stanno a fondamento della ricerca di nuove basi di conoscenza, ci sono necessariamente processi di apprendimento collettivo e istituzionalizzato. Gli aspetti di una “città che apprende” (learning city) possono essere diversi tra loro. “C’è chi si sofferma sui temi delle infrastrutture fisiche e tecnologiche, chi sull’occupazione, chi sulla gestione organiz-
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zativa e sulla formazione per l’industria e sul capitale umano, chi sui processi di e-learning...”. In realtà, “la learning city non corrisponde a nessuna di queste configurazioni, ma è una ricca miscela di tutte quante, integrate per liberare quella salutare combinazione di creatività e immaginazione di cui hanno bisogno tutti gli ambienti per progredire verso un futuro prospero e stabile. Lavorando insieme, esse producono un mutamento del paradigma evolutivo nei paesi, nelle città, nelle regioni e nelle comunità”. La nostra proposta ha inteso valorizzare quei saperi già presenti nella città, proponendo modalità costanti e forme innovative di arricchimento e riqualificazione. Una “città che apprende” è una città che sa accogliere dentro di sé le trasformazioni e sa proiettarsi consapevolmente verso un futuro liberamente scelto. Il workshop ha avuto come titolo “Potenza, luogo dell’innovazione. La cultura come energia primaria della città nell’età della globalizzazione”. Si è chiesto ai giovani partecipanti di mettersi alla prova; di tentare di progettare il futuro; di misurarsi con la riqualificazione di una zona della città di Potenza - la vecchia area industriale dismessa dell’ex Cip-zoo - per pensarla e rappresentarla come città dei saperi e della cultura, secondo i parametri della sostenibilità. Una zona che si rivela strategica per lo sviluppo futuro della città di Potenza. Da questo punto di vista, il workshop è stato culturalmente ricco ed interessante. E le idee progettuali, che vengono qui pubblicate, ne sono una testimonianza. Intorno a queste idee vogliamo aprire una discussione di ampio respiro tra i differenti attori istituzionali ed i diversi soggetti culturali, economici, sociali che permeano il tessuto di questa nostra città. Ringraziamo ancora una volta il Prof. Franco Purini per la sua generosità pedagogica e professionale, gli allievi e tutti i protagonisti del workshop per la loro disponibilità e attenzione ai nostri obiettivi. La città - per noi - è un bene collettivo. Ma non solo. Da sempre, attraverso le nostre iniziative, vogliamo rappresentarla a noi stessi, e presentarla agli altri, come un punto di riferimento di esperienze di carattere culturale originali e attraenti. Speriamo di esserci riusciti. Ci accontentiamo almeno di essere stati compresi.
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Potenza, luogo dell’innovazione11
FRANCO PURINI
Introduzione
Il Workshop ha avuto come obbiettivo una esplorazione ampia e motivata delle possibilità di dar vita a Potenza, nell’area della ex Cip-Zoo, della “Città dei Saperi e della Cultura”. Questa nuova struttura, destinata alla ricerca in più settori - dalla geografia alla storia e da questa all’agricoltura, dalle tradizioni popolari alle espressioni culturali istituzionali, dalla lingua all’arte, alle attività formative, espositive, congressuali e allo spettacolo - dovrebbe servire a sintetizzare e a potenziare i valori fondativi della cultura lucana, al fine non solo di rileggerli e di ampliarli alla luce delle condizioni della contemporaneità, ma soprattutto di “metterli in rete” a livello dei circuiti globali. La realizzazione della “Città dei Saperi e della Cultura” segnerebbe inoltre l’inizio del recupero paesistico e urbano del tratto della Valle del Basento che interessa direttamente Potenza, un segmento del fiume che trova nel Ponte Musmeci il suo momento oggi più deciso e suggestivo, emblema di una città che sa suggerire e produrre innovazione. Con la presenza della “Città dei Saperi e della Cultura”, la “forma urbis” di Potenza si ridefinirebbe come una realtà complessa ma di nuovo riconoscibile e operante. Anche a causa della sua scala rilevante, costruire questa grande struttura rappresenterebbe l’inversione di un processo insediativo che ha visto Potenza crescere quasi esclusivamente a nord del Basento, preludendo così a un “ribaltamento” della città oltre il fiume. Il modello proposto non prevede soltanto il ridisegno dell’area industriale che si distende lungo il fiume, ma include anche il sistema lineare di Gallitello, da completare attraverso operazioni di densificazione edilizia e di specializzazione morfologica. Quanto detto consente di pensare a un logo semplice e di lettura istantanea capace di rappresentare, con l’efficacia di uno slogano visivo, il futuro di Potenza. Tale logo vedrebbe la città configurarsi come uno schema a “l” che la circonderebbe su due lati, mettendo in evidenza il centro storico.
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FRANCO PURINI
Aforismi naturali
Il rapporto tra la natura e l’architettura è per molti versi indeterminato e ambivalente. è indeterminato perchè non appare sufficientemente chiaro il meccanismo della mimesi, un processo di prelievo selettivo di parti e di configurazioni per mezzo del quale è possibile trasferire la dimensione morfologica propria di elementi vegetali, di organismi animali e di strutture minerali nell’architettura. è ambivalente perchè questa imitazione sembrerebbe alludere a una affinità amichevole tra il mondo naturale e quello della costruzione architettonica, mentre quest’ultima deve in realtà la sua origine alla necessità di proteggere l’essere umano dalla stessa natura, che è vasta, infida e labirintica, accidentata e indecifrabile. Anche la natura è infatti ambivalente. Come ricordano pressochè tutti i trattatisti essa costituisce un pericolo per l’essere umano nel momento stesso in cui gli offre i mezzi con i quali dotarsi di un riparo solido e sicuro. Da Vitruvio a Lucrezio, da Dante a Leopardi, da Poe a Lovecraft, ma anche da Michelangelo a Friedrich, la natura presenta il suo volto minaccioso, esibisce la sua essenza imprevedibile e indomabile. Davanti a questa negatività esiste un versante positivo. A volte la natura rivela potenzialità favorevoli mettendo a disposizione risorse, proponendo in vari modi più forme di bellezza implicita, suggerendo modalità di pensiero che possono favorire la nascita di una nuova realtà. Un albero può servire per costruire una capanna ma può anche attirare il fulmine che ucciderà chi ha trovato rifugio sotto i suoi rami. In natura, tanto per fare un esempio, non esistono luoghi, tanto meno i luoghi ameni così cari agli antichi. Essi esistono solo grazie all’ordine che l’essere umano introduce nel mondo, un ordine che possiede una logica che ha qualcosa di autonomo, una logica che trova le sue leggi in statuti conoscitivi e operativi sostanzialmente irriducibili a quelli naturali. Detto in altre parole non sembra essere tanto significativa la mimesi in sé quanto il fatto che essa produce sempre uno scarto, una differenza, un incremento rispetto a ciò che si è imitato. Il problema consiste dunque
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nello stabilire in che modo dare vita a questo plusvalore differenziale, un’alterità che è fatta di sintesi, di astrazione e di una necessità che non coincide con quella dei processi evolutivi riscontrabili nella natura. Un’alterità che sembra escludere quell’alleanza tra la natura e l’architettura nella quale crede fermamente Paolo Portoghesi. Al di là dell’analogia tra i due ambiti della natura e dell’architettura, una analogia che può essere anche notevole - si pensi alla forza di gravità come modello e insieme come strumento di una composizione architettonica ideale - ciò che conta sembra essere la distanza che si interpone tra il naturale e l’artificiale. Una distanza che per chi scrive deve essere sempre più ampia. L’opposizione che si crea tra queste due polarità è in sostanza l’energia di cui si nutre l’architettura. Nel suo realizzarsi il proprio progetto di esistenza quest’ultima utilizza la natura come misura delle estraneità che la identifica in negativo rispetto al mondo naturale. “Il mondo dell’uomo - ha scritto il grande teologo tedesco-italiano Romano Guardini innalza i fenomeni naturali e i loro rapporti introducendoli in un’altra sfera, quella del pensato, del voluto, dello stabilito, del costruito, che in un modo o nell’altro sono sempre lontani della natura: la sfera delle realtà culturali. In questo mondo della cultura vive l’uomo”. L’attuale stato delle opinioni riguardanti la situazione del pianeta, uno stato di salute che sarebbe secondo la maggior parte degli studiosi tanto grave da rischiare l’irreversibilità, è forse uno degli effetti principali della crisi profonda dell’idea di umanesimo. In effetti ritenere che l’essere umano sia riuscito a stravolgere la vita di Gaia, come James Lovelock chiama la Terra, al punto da comprometterla in modo quasi definitivo implica senza dubbio una sopravvalutazione delle possibilità che gli abitanti del pianeta hanno di incidere su di esso. Per contro è parallelamente sottostimata la capacità di invertire questa tendenza distruttiva. Ciò comporta
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l’emergere di punti di vista ispirati a un pessimismo cosmico che rappresenta il controvalore dell’entusiasmo con il quale molti celebrano gli scenari globali. Al contempo l’essere umano viene progressivamente allontanato dal centro di ciò che una volta si definiva il creato. Esso è spinto progressivamente alla periferia del sistema naturale, riconoscendosi come un animale il quale, essendo alla pari con altri animali, non può vantare diritti particolari, spazi speciali e comportamenti privi di necessari condizionamenti. Tuttavia questo stesso collocarsi lontano dal centro è frutto di una sorta di hybris basata sempre sulla possibilità dell’essere umano di potersi collocare autonomamente nella scala dei valori relativi al suo essere nel mondo. La globalizzazione è la metafora più convincente e per certi aspetti più drammatica di come l’essere umano si sopravvaluti. Il fatto che le dinamiche economiche, gli scambi commerciali e il flusso delle informazioni interessino tutto il pianeta finisce con il ridurre il mondo a una semplice rete una griglia atopica e generica che rende il mondo omogeneo e ripetitivo. Questa riduzione obbliga chi agisce a ricostituire ogni volta l’unicità fisica e tematica del mondo stesso, ricondotto sempre alla sua condizione di prodotto dell’essere umano, di risultato, citando Hanna Harent, del suo incessante labor. Nel corso di millenni l’umanità ha cercato con ogni mezzo di distaccarsi dalla natura prima nominandola, poi istituendola come l’altro da sé per eccellenza, come guardando il mondo dall’esterno. Oggi si cerca di fare rientrare l’umanità nel proprio rango di entità che è prima di tutto biologica e successivamente pensante. Sono sempre più diffusi gli inviti a fare un passo indietro, a decrescere, a rinunciare pasolinianamente allo sviluppo a favore di un progetto fatto di semplicità e di frugalità. Inviti che si possano senz’altro accettare ma solo se non configurano un nuovo pauperismo globale, se non presuppongono un sensibile arretramento della vita sociale, che al contrario deve offrire possibilità sempre maggiori a se stessa nel suo insieme e agli individui che ne fanno parte. Questa volontà di guardare indietro, che si fa sempre più pressante, rischia di mettere in ombra quello che è il carattere fondante della società umana, vale a dire la consapevolezza di avere un progetto di esistenza che in qualche modo la trascende. Per chi scrive la questione della sostenibilità andrebbe inquadrata all’interno delle sintetiche riflessioni proposte nelle righe precedenti. Sarebbe infatti riduttivo considerare tale questione solo nei termini di una emergenza da risolvere in prima istanza sul piano tecnico. Essa va proiettata infatti su un orizzonte culturale che
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assuma come proprio campo di applicazione l’intera dimensione dell’abitare come sistema unitario, interconnesso nelle sue parti, dipendenti a loro volta l’una dall’altra. In questo senso la sostenibilità non è altro che la prima condizione perchè l’umanesimo ritrovi il suo equilibrio e la sua necessità. Dire architettura sostenibile è come dire architettura architettura. Questo nominare ridondante esprime un disagio concettuale, prima ancora che un’esigenza concreta. Se questo è vero, è anche vero che il problema è allora quello di restituire alla nozione di architettura il suo intero contenuto, il suo essere contemporaneamente uno strumento e il fine al quale lo strumento stesso tende. Ripensare l’architettura all’interno di un’idea decentrata dell’umanesimo appare la premessa per un pensiero della sostenibilità che coincida in tutto con la possibilità che ad essa sia data una risposta veramente operante. L’umanesimo si presenta oggi diviso tra vittoria e sconfitta, tra trionfo e fallimento, tra crescita e declino, tra la memoria e l’oblio, tra la durata e l’istantaneità.. Divisioni di cui le megalopoli mondiali sono l’emblema più forte e convincente. Localizzare la sostenibilità, intesa come ridefinizione di un tumultuoso delle megalopoli, specchi perfetti della molteplicità e del caos, appare come l’unica strategia in grado di aprire prospettive teoriche e pratiche originali e risolutive. Prospettive che è possibile immaginare solo perchè l’essere umano è sorretto da una capacità creativa, risorsa la quale, essendo un emanazione della propria spiritualità, si pone anche essa oltre la natura.
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LOREDANA LANDRO
Architetti in transito
La breve durata permette di esercitare e stimolare, senza influenze esterne se non quelle scambiate reciprocamente, la forza creativa che genera la composizione, l’atto stesso di generare il progetto come la conoscenza prima della percezione come nei quadri di Morandi. Il workshop ha rappresentato un’occasione per studiare il territorio dal suo interno: un gruppo di giovani professionisti, architetti e ingegneri lucani, hanno affrontato una riflessione sulle potenzialità di riutilizzo di una zona di Potenza dismessa da anni. Attraverso un’analisi di gruppo, dal confronto di varie ipotesi e dopo la messa a punto di proposte funzionali e tipologiche individuali si è arrivati al progetto architettonico autonomo. Il problema principale che è emerso dai primi dibattiti in aula è l’emergenza di un polo culturale territoriale, completamente assente nella città di Potenza ad eccezione dell’auditorium progettato dall’architetto Giovanni Rebecchini, che come edificio isolato non è in grado di attuare un’influenza a scala regionale o interregionale. La possibilità di investire su un’area relativamente estesa, situata in corrispondenza del principale accesso alla città e lungo l’asse autostradale, rappresenta un’occasione quasi unica per rilanciare Potenza in una sfera extra-territoriale, da cui ormai non si può prescindere. Non a caso, sono state formulate numerose ipotesi, anche dalle autorità locali nel corso degli anni sull’utilizzo dell’ex-suinicola, tra cui uno spazio dedicato alla didattica e alla ricerca. Il suo reale utilizzo è risultato fin’ora problematico non solo per questioni amministrative, date le difficoltà di accordo tra la gestione e la proprietà che risultano differenti, ma soprattutto per motivi economici a causa
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della necessaria bonifica per la presenza di amianto negli edifici esistenti e non ancora demoliti. L‘eccezionalità dell’area è dovuta anche alla presenza fondamentale nelle immediate vicinanze del ponte progettato da Sergio Musmeci che rappresenta l’opera di architettura contemporanea più importante all’interno della città stessa. Il tema del passaggio, dell’attraversamento di un flusso continuo e, contemporaneamente, la soluzione di un problema statico e morfologico sono contenuti già nel progetto del ponte e rappresentano essi stessi il manifesto programmatico dello sviluppo futuro dell’area. Oltre a rappresentare una vera e propria porta di accesso alla città, le forme curve della soluzione tecnologica realizzano perfettamente la sintesi tra natura e paesaggio, i due aspetti così forti e allo stesso tempo antagonisti in molti episodi, all’interno della stessa città di Potenza. Non a caso, molti spunti sono stati assimilati in alcuni dei progetti proposti nel workshop da questo “oggetto architettonico- scultoreo”, come ad esempio la geometrizzazione delle curve del paesaggio e contrapposta all’orizzontalità del luogo, che rappresenta un’eccezione rispetto ai forti dislivelli su cui si sviluppa il nucleo urbano. L’importanza dell’esperienza del workshop risiede a vari livelli, sia nella produzione di riflessioni fondamentali preliminari per un successivo reale sviluppo di una città, sia nella sua stessa rapidità di progressione, dall’enunciazione del tema allo sviluppo del progetto, rappresentato da un impianto programmatico come aggiornamento ed esercizio delle capacità creative dei singoli professionisti: dalla riflessione, all’idea, al progetto, nel tempo di sviluppare la composizione.
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Potenza, luogo dell’innovazione
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KATIA BASILIO
Riflessi sul Basento
L’area di intervento, oggi esempio di degrado e abbandono, ha bisogno di un deciso intervento di riqualificazione e può diventare il punto di congiunzione tra il territorio e l’area urbana. La sua posizione strategica come una naturale porta di ingresso alla città attorno alla quale far gravitare servizi, punti di accoglienza e informazione, spazi per la cultura e l’arte. La proposta progettuale prova a realizzare strutture leggere, in legno, acciaio e vetro, dalle forme armoniche che incontrano e si fondono con l’ambiente, in sintonia e in continiutà con le curve del Musmeci e con il corso del fiume Basento.
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BERNARDO BRUNO
Basilikarte. La città delle arti
Il progetto Basilikarte è la naturale evoluzione della precedente proposta progettuale scaturita dal workshop Abitare la Luce condotta dagli architetti Purini e Petranzan nella quale già prevedevo la realizzazione di un museo delle arti contemporanee, un auditorium, delle residenze ed un centro commerciale nell’area del Gallitello. Attorno l’idea di creare un centro culturale d’eccellenza fondato sui criteri di eco sostenibilità ambientale si è pensato ad un parco che è il cuore pulsante della “città delle arti, attraversato da ideali percorsi concettuali ove abiteranno tutte le espressioni delle arti comprese quelle sperimentali. Il museo delle arti contemporanee organicamente strutturato per aree tematiche raccoglierà le opere di varie generazioni di artisti di Basilicata meritevoli di essere valorizzati oltre che di artisti nazionali ed internazionali che saranno invitati a risiedere e produrre nella “città delle arti”. Un ulteriore struttura sarà sede di attività di ricerca avanzata di livello universitario e di un accademia di belle arti. Alla base di questa struttura si prevede la creazione di un ampio auditorium.
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MARCO BRUNO
La fabbrica dell’errore creativo
La Basilicata è una regione vulnerabile e impotente, il cui sviluppo è aggravato dalla forte emorragia di cervelli. Tutto ciò la rende una regione che c’è, ma non si vede. Puntare sulle sue potenzialità è tra gli obiettivi del progetto. Fra questi sono stati privilegiati l’enogastronomia, il teatro, l’arte contemporanea, la letteratura e la filosofia. La finalità è la definizione di un comune canone, intendendo quest’ultimo come espressione variabile di un archetipo. Gli edifici che compongono il progetto sono: una scuola di alta formazione enogastronomica con prodotti esclusivamente lucani, un teatro sperimentale, un museo d’arte contemporanea e due torri, una dedicata alla filosofia ed una alla letteratura con un riferimento preciso alla torre biblioteca descritta ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco. La parola errore, nel titolo dato al progetto, è intesa seguendo la descrizione data dal prof. Franco Purini nel libro “Comporre l’architettura”: trasgressione involontaria della norma che apre inattesi spazi del significato.
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IVANA CATENACCI e giuseppe delfino
Oasi della conoscenza
L’idea cardine del progetto in esame è stata quella di riqualificare l’area in questione e collegarla con i punti principali della città, attraverso la stazione ferroviaria di Potenza Inferiore da cui parte l’ultimo tratto meccanizzato delle scale mobili. L’ingresso principale all’Oasi è stato pensato in prossimità dell’uscita autostradale della Basentana; un secondo ingresso è stato concepito nella parte terminale del lotto. L’ubicazione degli edifici è stata pensata a sud per sfruttare l’energia solare attraverso l’utilizzo di pannelli solari, facciate ventilate, muri di trombe, sistemi fotovoltaici. Nella parte sud del lotto sono concentrati i blocchi volumetrici destinati a ludoteca, servizi sportivi, accessori e servizi di informazione per gli utenti, area culturale con biblioteca, sala lettura, mediateca, un centro direzionale con uffici amministrativi. L’area edificata prosegue con il centro di alta formazione per corsi universitari e parauniversitari, sale dedicate all’arte e alla cultura, un edificio polivalente con centro congressi e residenze ad uso foresteria
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PATRIZIA COSTANZO
Bas_Expo
L’area oggetto di studio, che ricade nella zona ASI di Potenza, assume per la sua estensione e per il suo posizionamento, una valenza strategica. Si localizza infatti nei pressi dell’accesso principale alla città ed inoltre insiste su un’area che malgrado la presenza di insediamenti artigianali, conserva ancora una grande valenza paesaggistica amplificata dalla presenza del parco fluviale. L’aspirazione è quella di creare un polo di servizi dedicato alle esposizioni, nelle diverse declinazioni, ma anche alle attività ricreative. Un polo per eventi e mercatale pensato come “luogo di scambio, ma anche di incontro e socialità”. Il progetto si articola attraverso la creazione di due grossi padiglioni espositivi, uno pensato su un unico livello l’altro su due. La presenza inoltre di grandi spazi aperti consente di estendere lo spazio espositivo, ma nello stesso tempo di utilizzarlo per organizzare eventi di diversa natura. Inoltre non si è potuto, nell’individuazione delle linee generatrici del progetto, non tener conto della presenza del ponte Musmeci.
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SILVIA IAZZETTI
Percorsi
L’area industriale, oggetto dell’intervento di riqualificazione, sorge ai margini del primo Centro Direzionale, in un punto strategico privilegiato dagli intensi flussi pendolari che gravitano quotidianamente nel capoluogo, sia attraverso il raccordo autostradale Sicignano-Potenza, che attraverso la stazione ferroviaria di Potenza Inferiore. Queste le considerazioni guida dell’intervento: un asse di connessione con la stazione che, rimarcando l’orientamento del Ponte Musmeci, mette in relazione l’area ex Cip-Zoo col fiume, con via della Fisica, via della Chimica, viale del Basento per giungere infine su viale Guglielmo Marconi. L’idea è quella di realizzare un centro di relazioni, un punto di incontro che sia aperto verso la città, luogo di eventi ma anche di cultura. Una sequenza di spazi diversi, spazi aperti, luoghi d’acqua, poi luoghi di architettura, frammentazione di volumi e di ambiti funzionali. Un’architettura monolitica massiva unitaria spaccata in corrispondenza dell’asse trasversale di attraversamento carrabile che cattura lo sguardo del passante e lo invoglia ad entrare. Una maglia di percorsi che diventano lame e tagliano il volume creando due profonde gole, interamente vetrate che svelano la grande dinamicità interna contrapponendola con l’esterno molto costruito e silenzioso.
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ALFREDO NARDIELLO
La città inferiore. Hub culturale
Il progetto di riqualificazione è collocato nell’area dove sono concentrati tutti gli accessi alla città. Si propone uno snodo su scala urbana e regionale, che caratterizzi con forza i percorsi umani che la interesseranno. Potenza è una città che non ha subito interventi consistenti su scala urbana dopo il medioevo. Lo sviluppo moderno inizia nel dopoguerra, mancano luoghi e spazi atti ad ospitare eventi che connotano la società contemporanea. Più che una sequenza di entità costruite, una scansione di spazi connotati da differenti funzioni e circondati da elementi architettonici.
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MARIELLA PARZIALE
InFiera
Le esposizioni sono state da sempre vetrine del progresso tecnico e culturale. Il tema di riconversione proposto si incentra sulla realizzazione di uno spazio per fiere e manifestazioni collettive. L’arte e la tecnologia vengono messe in mostra in spazi dedicati all’innovazione ed alla cultura. I principi ispiratori sono quelli della flessibilità degli spazi (moduli variamente assemblabili) e dell’attribuzione di una doppia valenza al nascente spazio urbano: una a scala urbana per offrire a Potenza un luogo di incontro e di localizzazione di nuove funzioni cittadine (piazza, parco, area per mercato cittadino e spettacoli itineranti, luogo per il tempo libero) ed una a scala regionale ed extra-regionale. Il tema architettonico e spaziale ricostruisce un’idea di piazza con gli edifici che ne costituiscono le quinte e contrappone allo schema geometrico e rettilineo della pianta le forme organiche e sinuose dell’alzato. Direttrici e visuali prospettiche sono costruite per mettere in relazione l’intervento con il Ponte Musmeci, il fiume ed il nascente parco e la città, fondale panoramico del teatro all’aperto.
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GIUSEPPE PULIZZI
La porta del sapere
L’idea del progetto è quella del foro urbano, inteso come un ampio spazio pubblico all’aperto intorno al quale si organizzano gli edifici specialistici. Lo spazio centrale, in parte a verde e in parte pavimentato, assolve sia alla funzione di piazza per le manifestazioni all’aperto sia alla funzione di parco pubblico attrezzato; adiacente alla piazza pavimentata viene proposto un teatro all’aperto per le manifestazioni pubbliche. Negli edifici specialistici che delimitano lo spazio centrale vengono svolte attività prevalentemente culturali, ma anche economiche e di servizio per la città; il progetto propone, infatti, la realizzazione di un auditorium, di un’area congressuale, di una scuola enogastronomica specializzata, di un museo d’arte contemporanea, di laboratori di arte e di botanica, di alloggi per gli studenti della scuola, di un mercato coperto e di uffici per attività di vario tipo.
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Il perimetro è delimitato dagli edifici disposti a costituire un recinto chiuso; in tal senso l’area del mercato coperto costituisce l’elemento filtrante e permeabile tra l’area d’intervento e la città, rappresentata nel suo margine da Via della Fisica. La vicinanza dell’area di progetto al raccordo autostradale e alla ferrovia fa sì che essa si configuri naturalmente come una porta urbana, modernamente intesa, in grado di accogliere i flussi di traffico extraurbani e, riorganizzandoli, condurli alla conoscenza della città. Pertanto il progetto prevede l’adeguamento della rampa d’ingresso alla città del raccordo autostradale e la riconfigurazione dell’area adiacente, attualmente occupata da un campo sportivo, in un terminal in cui confluisca il traffico veicolare extraurbano e da cui, tramite l’ausilio di mezzi pubblici, si acceda alla città. Infatti, la riorganizzazione del traffico e la creazione di nuovi percorsi pedonali sono necessari al fine di decongestionare il sistema viario urbano, riducendo il traffico e migliorando il funzionamento dell’intero sistema viario, oggi giunto quasi al collasso.
Lo spazio è strutturato da due assi principali, che riprendono parallelamente la direzione del Basento e quella del ponte Musmeci, e da due assi secondari, che configurano i percorsi pedonali all’interno dell’area. Uno di questi percorsi pedonali, tramite un attraversamento sopraelevato della strada, mette in relazione l’area prima con il fiume Basento, poi con la stazione ferroviaria e, quindi, tramite le scale mobili, con il centro città, sottolineando il rapporto verticale che vi è tra l’area di progetto e il centro urbano. All’intersezione degli assi è presente una torre vetrata per uffici, una sorta di cerniera progettuale, che instaura un dialogo in verticale con il ponte Musmeci. Il verde esistente, sviluppatosi spontaneamente durante i molti anni di abbandono del sito, viene recuperato, per quanto possibile, ed incrementato sui margini dell’area di progetto attraverso nuove piantumazioni. All’ interno dell’area il verde è presente sotto forma di piazza semipermeabile. Il percorso d’acqua, artificiale, all’interno della piazza, sottolinea il rapporto di complementarità che si instaura naturalmente tra l’area d’intervento e il fiume Basento.
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GIACOMO SANTORO
Confini culturali
Le ragioni del nome nascondono il progetto; un’area al limite della città, confine con il nodo stradale della Basentana, asse di confine tra le aree culturali lucane. Una terra che sin dalla preistoria è stata frontiera, per questo luogo di commistione e di osmosi di culture diverse. Ciò che immagino è un contenitore di confini, che è contenitore di Arte, di creatività: luogo di transito e di permanenza temporanea. Un contenitore flessibile ed aperto verso Potenza, città il cui profilo indistinto diviene metafora di un futuro in cui i palazzi sembrano crescere come erba indistinta nel terreno del passato. La costruzione fronteggia la città e si contrappone. Un luogo che nasconde dentro di se i segni della Regione nei secoli, in cui la forma porta ai Lucani, alla Grecia, a Federico II.
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DOMENICA SANTORO
La città sapiente
Il progetto si interroga sulla relazione fra la città densa e l’area lungo fiume posta ai suoi margini. Un possibile dialogo fra le due parti, oltre la barriera naturale posta dal Basento, è l’ipotesi di una ricucitura che ponga i due tracciati in una dialettica finora intentata. Questa valenza strategica può essere intessuta con un’ operazione infrastrutturale che completi e valorizzi gli interventi su ferro e su strada. Rendere competitiva l’area favorendo i processi interculturali, interattivi e di coesione sociali è il fine del progetto le cui funzioni, museo d’arte contemporanea, piazza, cavea all’aperto, centro congressi, fungono da catalizzatori a queste circostanze. La sostenibilità è esaltata attraverso interventi sia tecnologici come la produzione di energia sfruttando il moto del fiume, sia artistici come l’interazione fra il parco fluviale ed il museo d’arte contemporanea, sia paesaggistici con una progettazione del verde. La correttezza costruttiva e funzionale, paradigma della sostenibilità, è il manifesto rivolto alla città affinché si appropri di un modus operandi congruo ai tempi.
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GIORGIO STEFANELLI
L’officina del sapere
L’idea nasce dalla volontà di creare un luogo per la produzione del Sapere, a partire da un’ex area industriale: dove ieri si producevano merci domani si produrrà cultura. Il progetto si compone di una grande piazza: il “Foro della Cultura”, luogo dell’incontro e del confronto, attorno alla quale si affacciano tre architetture diverse tra loro e destinate per forma e funzioni ad ospitare l’auditorium, laboratori, scuole di alta specializzazione,residenze temporanee con servizi Museo di Arte Contemporanea. Questi “contenitori - officine” si presentano come piastre eco sostenibili orizzontali, in contrapposizione alla verticalità del costruito della città di Potenza. Il MAC (Museo di Arte Contemporanea) è l’unico elemento che si fa notare, per forma e dimensioni, nella semplicità del contesto industriale, come un grosso magnete attorno a cui gravitano le attività socio-culturali. Il “Totem del Sapere” è l’elemento snello che si innalza verso il cielo come un faro sempre acceso che, da lontano, e in particolare percorrendo la SS 407 Basentana, indica il luogo dove arrivare per forgiare il pensiero.
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Roberto Tota
La città narrante
La città contemporanea si misura attraverso narrazioni diacroniche che permettono di riscoprire la sua identità permutandola nel tempo. Con la rappresentazione attuata del tessuto edilizio denso contestualizzato allo spazio contemporaneo si sperimentano le contrazioni e le dilatazioni della città. Muovendosi alla ricerca di un ideale estetico in equilibrio fra passato, presente e futuro, il progetto cerca un confronto fra la dimensione dell’edificio e la dimensione della città. L’ iterazione fra gradazioni federiciane ed un assetto più diffuso e disgiunto dalla monumentalità è il risultato sviluppato dall’elaborazione progettuale. L’utilizzo di una morfologia degradante verso il fiume diviene il cardine formale del progetto, chiuso verso la Basentana, e relazionato con una modalità più rada e fluida verso gli elementi naturali. Le funzioni sono compartimentate fra i vari episodi che compongono il progetto: nella torre vi è il centro culturale; nel tessuto denso sono presenti spazi per l’artigianato, museali, la biblioteca e le residenze; nel tessuto più frammentato laboratori d’arte e un centro congressi.
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FRANCO PURINI
Considerazioni conclusive
Sebbene si sia svolto in soli dieci giorni, che hanno visto anche l’intervento di cinque importanti figure del mondo architettonico italiano e internazionale, il lavoro svolto ha permesso di individuare alcune ipotesi insediative e architettoniche che l’amministrazione potrebbe utilizzare per comprendere in modo esauriente e circostanziato le risorse offerte dal tema e dall’area. Dopo una prima fase, nel corso della quale sono state individuate alcune modalità di intervento, i partecipanti al workshop hanno elaborato autonomamente tredici proposte. Questi progetti, per necessità rimasti allo stato di schema preliminare, seppure opportunamente argomentati, hanno consentito di individuare una sorta di “mappa delle possibilità”, una mappa completa, nella sua varietà, delle soluzioni più concrete e attendibili. Ciascuno schema è stato verificato sia sul piano formale sia su quello morfologico, con una particolare attenzione alla tematica, oggi centrale, della sostenibilità. Nel loro insieme i tredici progetti si presentano come un patrimonio di idee che il workshop mette a disposizione della cittadinanza perché risulti più chiaro e preciso l’ambito problematico descritto dalla “Città dei Saperi e della Cultura”. Al contempo queste proposte dimostrano efficacemente quali risorse questa nuova struttura sarà in grado di offrire al territorio e alla città. Nonostante la loro diversità, a volte notevole, è possibile constatare all’interno dei tredici progetti la ricorrenza di alcune soluzioni che presentano aspetti confrontabili sia sul piano tipologico sia su quello morfologico. Tra queste soluzioni si riconoscono il modello insediativo e architettonico “a padiglioni”, unificati da elementi di connessione come assi e piazze, contrappuntati da manufatti speciali; il modello “a grandi edifici”, che vede i volumi concentrarsi in masse architettoniche consistenti, spesso contrapposte; il modello “ad agorà”, che raccoglie attorno a un vasto ambiente una serie di edifici; il modello “paesistico”, risolto in un lavoro plastico sul suolo che acquisisce un contenuto strettamente
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scultoreo; il modello “analogico”, che trasferisce la struttura del tessuto storico nel nuovo intervento. C’è da chiarire che non esiste in realtà un limite netto tra i vari modelli, che in più casi si ibridano con altre soluzioni, dando luogo a significative contaminazioni. Tutti i modelli sono caratterizzati dalla volontà di rafforzare la centralità dello “spazio pubblico” come ambito in grado di esprimere i più autentici valori identitari della comunità. Si è detto nella nota iniziale che le tredici proposte si configurano nel loro insieme come una esauriente istruttoria sulle possibilità di trasformazione dell’area ex Cip-Zoo. In effetti, non appare difficile dedurre da esse una serie di paradigmi concettuali operativi da mettere alla base di future operazioni di recupero di una parte dell’organismo urbano la quale, per la sua posizione e per le sue condizioni strutturali, assume un’importanza strategica per il futuro di Potenza e del suo territorio.
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PAOLO COLAROSSI
Progettazione urbana e bellezza nella città
Qualità urbana è qualità dell’abitare: “è un dato distintivo dell’uomo moderno di avere per lungo tempo esaltato la condizione di nomade; voleva essere «libero» e conquistare il mondo. Oggi invece si comincia a comprendere che la vera libertà presuppone l’appartenenza, e che «abitare» significa appartenere ad un luogo concreto” (Christian Norberg-Shulz)
Abitare: verbo dal significato e senso profondo, di natura esistenziale. L’azione dell’abitare contiene un mondo complesso di relazioni tra i singoli e il mondo fisico, e tra le comunità e i territori della loro vita. Relazioni che determinano il sentimento di essere abitanti di un luogo, del riconoscimento di quel luogo come ambito del proprio abitare, di appartenere a quel luogo. Compito di fondo dell’urbanistica è stabilire le condizioni di base per un buon abitare. Compito difficile: ma possiamo individuare quelle condizioni sulle quali è possibile operare con i concetti, i metodi e gli strumenti della disciplina urbanistica. Possono essere quattro le esigenze da soddisfare per un buon abitare: accoglienza (facilità, sicurezza e gradevolezza dei contatti con le qualità, gli oggetti e i materiali degli spazi del mondo fisico); urbanità (poter godere di adeguati livelli di attrezzature e servizi); socialità (possibilità di incontro e scambio, di partecipazione); estetica (avere disponibile la bellezza dello spazio urbano). Il grado di soddisfazione di queste quattro esigenze determina il grado di qualità urbana di una parte di città. Qualità urbana nelle declinazioni di qualità ambientale, qualità socio-economica, qualità estetico-funzionale
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Le condizioni dell’abitare nelle città contemporanee, quelle parti di città costruite negli ultimi cinquanta anni, sono in genere assai lontane da quelle della soddisfazione delle esigenze per un buon abitare. Cosa fare per migliorare le condizioni dell’abitare nella città esistente ma anche per ottenere le condizioni per un buon abitare nelle parti urbane di nuova edificazione, che continuano ad aggiungersi alle preesistenti con, salvo qualche rara eccezione, le stesse “qualità”? Ecco un possibile percorso: ritrovare, recuperare, rigenerare, rinnovare i concetti, i metodi e le tecniche di una pratica disciplinare poco seguita in Italia: la progettazione urbana, in quanto pratica specifica e direi esclusiva per trattare le questioni relative al soddisfacimento delle esigenze per un buon abitare. La progettazione urbana non è una procedura o uno strumento (non va confusa con il progetto urbano); è prima di tutto un sapere progettuale necessario per costituire alcune delle condizioni di base per un buon abitare
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I concetti e gli strumenti della progettazione urbana sono necessari per rimediare alle condizioni nella città esistente ed evitare nel futuro: - Ambiti urbani di dimensioni estese, anzi smisurate, non misurabili con uno sguardo, non abbracciabili con una immagine mentale e per tutto questo forme urbane che risultano incomprensibili. - Ambiti continui, o parti, o frammenti urbani formati da edifici isolati gli uni dagli altri, senza significativi rapporti con gli intorni, oggetti edilizi protagonisti volumetrici galleggianti a caso, di diverse dimensioni e forme, grandi complessi edilizi infitti nel terreno come asteroidi piombati dagli spazi siderali recidendo i minuti e preziosi segni della natura e della storia del luogo e sconvolgendo il contesto esistente. Il tutto di qualità architettoniche assai carenti. - Spazi non edificati dilatati, di incerti margini e di incerta forma. Spazi pubblici ridotti alle strade e ai parcheggi. Traffico e sosta delle auto ovunque. Qualche pausa di verde pubblico che quasi sempre vuol dire alberi e posti di sedute sparsi, disseminati, estranei e improbabili disegni di sentieri pedonali o piste ciclabili affioranti in prati non curati. - Nel complesso paesaggi (urbani e territoriali) triturati, frammentati, brandelli di urbano e relitti di campagna intervallati, paesaggi banali, sciatti, disordinati, brutti. Alcune specificità disciplinari della progettazione urbana riguardano: la scala (la piccola dimensione e la grande dimensione); i principi di estetica urbana (vale a dire quali criteri per il progetto); gli strumenti per il controllo della qualità estetica degli interventi. La progettazione urbana opera nella piccola dimensione se ci si riferisce alla scala (che è grande come scala, ma che copre limitate estensioni di superficie), ma opera con materiali urbani che possono appartenere sia alla piccola dimensione locale sia alla grande dimensione se ci si riferisce al livello gerarchico. è proprio della progettazione urbana il saper comporre i livelli locali con quelli urbani. Sono propri di una urbanistica che possiamo definire urbanistica nella piccola dimensione i concetti, i metodi e le tecniche per costruire le condizioni per soddisfare le quattro esigenze prima citate, e in particolare l’esigenza estetica, e cioè di bellezza nella città.
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Una delle componenti della progettazione urbana riguarda l’estetica urbana. L’estetica urbana è una disciplina, e come tale può essere rigorosamente strutturata. Infatti la percezione della bellezza urbana non è solo soggettiva, ma è anche definibile sulla base di criteri fondati su radici antropologiche e sul senso comune, e come tale può essere condivisa e condivisibile. La scala (la piccola dimensione) che permette di operare sulla bellezza è quella del quartiere, o del gruppo di quartieri: dove il gruppo di quartieri può essere definito come una piccola città nella città. Una delle caratteristiche della bellezza nella città è che può essere anche una bellezza “leggera”: gradevole, piacevole, derivare da un sentimento del “sentirsi bene” in un luogo, anche in relazione alla soddisfazione delle altre esigenze: accoglienza, socialità, urbanità. Il materiale principale con il quale operare per la bellezza urbana è lo spazio pubblico (o meglio: sistemi strutturanti di spazi pubblici di interesse primario). La costruzione della bellezza dello spazio pubblico precede quella dei singoli edifici e ne è in parte indipendente. Alcuni criteri per la qualità estetica1 nella città (per la qualità estetica dei sistemi di spazi pubblici) sono: - Impianto urbano a tessuto, compatto o sgranato. L’impianto è l’assetto fisico risultante dalla combinazione di cinque componenti: il sistema degli spazi pubblici, l’isolato, il lotto, l’edificio (tipo e posizione nel lotto), il sito (inteso come supporto fisico dell’impianto) - Sistema strutturante, nell’impianto, di spazi pubblici e attrezzature (la struttura urbana). La struttura urbana di una parte di città è data dal sistema dei luoghi e delle attrezzature di primaria importanza. La struttura urbana richiede riconoscibilità e dunque unitarietà. - Spazi pubblici, componenti la struttura, conformati in modo chiaro ed evidente e delimitati da margini fisici leggibili. La conformazione spaziale determina la riconoscibilità e la identità di uno spazio. - Variazione dei tipi di spazi componenti della struttura. In una struttura urbana si richiede la diversificazione per forme e ruoli degli spazi pubblici e delle attrezzature componenti, pur nella unitarietà del sistema.
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- Articolazioni interne nei singoli spazi componenti della struttura. Individuazione e formalizzazione all’interno dei singoli spazi delle diversità fisiche e d’uso. - Forma della struttura e variazioni e articolazioni condizionate dalle correlazioni con il contesto (natura, storia, città esistente, abitanti). Unitarietà, diversificazione, articolazione della struttura e delle singole componenti dovrebbero nascere dai suggerimenti forniti dal contesto. - Narrazione progettuale significativa e che compone i precedenti criteri. Un progetto è una narrazione: che propone in modo leggibile agli abitanti sequenze di spazi, temi e significati. Strumenti della progettazione urbana per il controllo della qualità estetica per l’urbanistica nella piccola dimensione sono: schemi scenariali di assetto (o scenari progettuali, o visioni di sfondo); scenari esplorativi; linee guida; norme e regolamenti per l’assetto morfologico; coordinamento dell’attuazione del progetto. Questi strumenti non sono alternativi, ma possono essere tutti utilizzati nel corso di un processo di progettazione. Per tutti si richiede un adeguato e adatto processo di progettazione partecipata. Gli scenari progettuali, o schemi scenariali di assetto sono schemi rappresentativi dell’assetto possibile futuro (nei tempi medio-lunghi) del sistema strutturante degli spazi pubblici e delle attrezzature e servizi pubblici o di uso pubblico di un quartiere esistente o di un gruppo di quartieri esistenti (piccola città nella città): sono anche definibili come piani di quartiere. I Piani di quartiere possono essere utilizzati come riferimento di sfondo per la programmazione e progettazione di interventi per il miglioramento della qualità ambientale, funzionale, estetica o sociale del quartiere o del gruppo di quartieri (o anche del territorio di un Municipio: attraverso un coordinamento e montaggio dei diversi piani di quartiere). Possono essere espressi sotto forma di disegni schematici, di linee guida (vedi appresso) scritte ed eventualmente accompagnate da disegni esplicativi, di relazione. Gli scenari esplorativi sono sondaggi di progettazione urbana per esplorare le potenzialità di trasformazione di parti di città esistente o di aree per nuova edificazione e testare preventivamente i livelli di qualità urbana possibili Sono utilizzabili per verificare destinazioni d’uso e quantità edificabili nei piani,
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prima della loro formalizzazione sotto forma di norme, o verificare effetti di possibili varianti, o per costruire linee guida per gli interventi. Sono da redigere sotto forma prevalentemente di disegni (planimetrie, profili, rappresentazioni tridimensionali), e di relazione. Le linee guida sono da intendere come indirizzi e condizionamenti per progetti urbanistici, sia ai fini del miglioramento delle qualità urbane del quartiere o del gruppo di quartieri esistenti interessati sia per la redazione di progetti per nuove parti di città o per parti da trasformare. Le linee guida dovrebbero essere redatte (da un Comune o da un Municipio) come atto iniziale di ogni progettazione urbana, dai Progetti Urbani, ai PrInt, fino al progetto di singoli spazi pubblici La loro forma: prevalentemente un testo scritto, accompagnato da schemi grafici e disegni esplicativi o esemplificativi Per Norme e regolamenti per l’assetto morfologico, si intendono quelle parti di Norme tecniche e Regolamenti riguardanti aspetti relativi alle qualità urbane, con particolare riferimento alle qualità ambientale ed estetica. Utilizzazione: all’interno di NTA e Regolamenti Edilizi e Urbanistici; per loro natura hanno valore normativo e occorre costruirle con opportuno equilibrio tra aspetti da normare come norme-quadro generali e aspetti da normare nel dettaglio specifico della specifica situazione o luogo Sono sotto forma di articolati,eventualmente accompagnati da schemi grafici o disegni normativi. Il coordinamento dell’attuazione del progetto urbanistico è da intendere come un “ufficio” (persona o gruppo) incaricato di accompagnare l’attuazione di un progetto urbanistico nel corso del tempo interpretando norme, scenari, linee guida, definendo eventuali varianti e i necessari completamenti e dettagliamenti di norme e regolamenti generali Il Coordinamento dell’attuazione è un indispensabile controllo nel corso del tempo del mantenimento dei livelli di qualità urbana previsti nel progetto. La forma è quello di un ufficio o struttura dedicata, o gruppo di lavoro, o professionista singolo, responsabile nei confronti del Comune; gli stessi soggetti sono quelli cui andrebbe affidata la redazione degli scenari, delle linee guida, delle norme e dei regolamenti.
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Sono, quelli citati, tutti strumenti indispensabili e utili per governare le varie fasi e diversi livelli di un processo di progettazione urbana. Progettazione urbana che, per sua natura, non produce progetti completi e finiti, ma procede nel tempo per successive definizioni e approssimazioni. Iniziando comunque dalla definizione di alcuni aspetti (conformazione fisica di insieme e ventaglio di possibili funzioni) di un sistema prioritario di spazi pubblici (struttura urbana) di un quartiere o gruppo di quartieri. Aspetti quali le forme planimetriche complessive del sistema e dei singoli spazi componenti, i tipi dei margini degli spazi, altezze degli stessi margini. E lasciando aperte ancora scelte quali localizzazioni di funzioni, definizione di caratteristiche di ornamento urbano, articolazioni interne degli spazi di piazze, viali e giardini, e naturalmente le soluzioni architettonici degli edifici. Ecco allora la necessità/opportunità di strumenti che di volta in volta, possano fornire linee di indirizzo progettuale o vere e proprie norme cogenti a seconda delle situazioni. Si tratta dunque di strumenti che introducono la dimensione della processualità temporale nella formazione del progetto, e che richiedono un adeguato equilibrio tra rigidità normativa e flessibilità degli indirizzi e tra indispensabile unitarietà nella attuazione del progetto e necessarie precisazioni e variazioni nel corso della stessa attuazione. Vale a dire che, tenendo conto dei tempi di trasformazione della città, spesso di decenni, occorre mantenere nel corso del tempo adeguati livelli di qualità urbana, e in particolare della qualità estetica, degli esiti degli interventi, con una continua e sapiente applicazione del sapere progettuale della progettazione urbana.
1 Sui criteri per la qualità estetica qui citati vedi: Colarossi, Paolo: “Elementi di estetica urbana”, in : Colarossi, Paolo; Latini, Antonio Pietro: “La progettazione urbana. Vol II: Metodi e materiali”, Edizioni de Il Sole 24 Ore, Milano 2008, pagg. 71-430.
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Planimetria del progetto per Battery ParK (NY), 1980
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Schema della struttura percettiva per Peterborough (disegno di Gordon Cullen, 1964-71)
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Mission Bay (San Francisco): veduta prospettica del quartiere (1970-1990)
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Ragusa: planimetria di parte della cittĂ
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Riviera Beach (Florida, 1991): assonometria del progetto
PEEP di Roccafiorita: schema del progetto (1985)
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Siedlungen Britz (Berlino): planimetria del quartiere (1925-31)
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Livio de Santoli
Gli edifici, la città e l’energia
Introduzione Sono almeno tre gli elementi che pretendono di essere osservati con attenzione, fuori da ogni forma di contrasto di opinioni, se non altro perchè risultano oggi segni evidenti di una sconfitta dell’uomo moderno: la crisi economica, la crisi energetica, i cambiamenti climatici. I tre elementi sono ovviamente tra loro correlati anche perchè dipendono in modo più o meno diretto dal consumo di energia del pianeta. Il Dipartimento dell’energia DOE americano e l’Agenzia internazionale dell’energia prevedono che l’impiego di energia, tenendo anche in conto i miglioramenti in termini di efficienza, cresceranno del 50-60% nel periodo 2006-2030, così che il petrolio, fondamento della seconda rivoluzione industriale, continuerà a garantire almeno il 30% dell’energia anche nel XXI secolo. La causa principale dei consumi energetici è rappresentata dagli edifici. Gli edifici sono concentrati maggiormente nelle città. Nel 2030 il 60% della popolazione sarà concentrata nelle città e queste saranno responsabili del 70% dei consumi energetici. Occorre pertanto ripensare il contesto urbano in termini di pianificazione energetica. Le città hanno tassi di nuove costruzioni non rilevanti in relazione agli interventi sul patrimonio edilizio (in Italia per esempio non si supera il 3%), e quindi risulta importante studiare l’orientamento della evoluzione in una prospettiva di graduale sostituzione delle modalità di soddisfacimento dei fabbisogni di energia. Si tratta di orientare le scelte per modifiche graduali, ma sistematiche, che il contesto urbano naturalmente richiede. L’ambito di interesse si trasferisce quindi verso la cultura della gestione e della manutenzione, quella scienza che finalizza le attività umane a un impiego economico ed efficiente delle risorse, nella progettazione e nella gestione dei sistemi costruiti
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e nella conservazione dei sistemi naturali. Le attività di manutenzione non pretendono di trasformare il mondo (Perotti, 1970), ma sono inevitabili per lo sfruttamento economico di qualsiasi bene o servizio, incluso l’edificio. Data quindi l’importanza di questi due aspetti, l’energia e la gestione, essi devono essere affrontati adeguatamente in una facoltà di architettura che voglia formare figure professionali consapevoli e coraggiose. L’architetto dovrà essere in grado di coniugare innovazione tecnologica e qualità architettonica, sulla base della rinnovata attenzione ai problemi di natura gestionale fondati su un obiettivo comune (quello della questione ambientale) e poggiati su basi scientifiche certe con riferimento a parametri oggettivi, fisici, legati all’energia, allo spazio, ai materiali. L’architetto che intende riscoprire degli elementi specifici in riferimento a quelli di altri contesti, quelli della innovazione e della tecnica (Purini, 2003). Proprio dalle città dovrà partire la rivoluzione del sistema energetico. Dalla risposta che le città vorranno dare all’adattamento al cambiamento climatico dipenderà la penetrazione più o meno efficace di un nuovo modello di generazione e distribuzione dell’energia. Il nuovo modello modificherà la struttura esistente e probabilmente permetterà il recupero di un rapporto uomo-natura in profonda crisi. L’uomo infatti ora si interroga sul senso che ha voluto assegnare al suo ambientalismo, sospeso tra un’idea della natura che non esiste e l’impegno di dover salvare il pianeta già compromesso. A differenza del modello attualmente esistente di generazione, distribuzione e uso dell’energia (un modello nato quasi un secolo fa), quello della generazione distribuita (uno dei pilastri della terza rivoluzione industriale di Rifkin) prevede dei nodi collegati in rete che non solo consumano energia, ma anche la producono.
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Si dimostra, sotto alcune condizioni, il vantaggio tecnologico del sistema a rete in termini di efficienza energetica, di sicurezza e di risparmio, ma altrettanto importante è valutare il vantaggio che si otterrebbe sul piano etico. L’individuo sarebbe costretto ad abbandonare quella logica consumistica che, come dice Baumann, lo ha isolato e, recuperando questa parte pragmaticamente attiva, parteciperebbe alla condivisione di una azione positiva. Gli esempi del nuovo modello cominciano ad essere presenti sul territorio. Tra i primi, il progetto delle isole energetiche della città universitaria della Sapienza Università di Roma. L’occasione per una seria discussione sull’argomento è importante anche per l’eccezionale lancio delle iniziative sui cambiamenti climatici rivolte ai vari aspetti della sostenibilità degli edifici e delle città. La generazione distribuita dell’energia Il quadro normativo attuale sia in sede comunitaria che nazionale potrebbe accelerare ulteriormente la diffusione di piccoli impianti di cogenerazione e di microcogenerazione in una logica che contrapporrebbe la generazione centralizzata dell’energia a quella, viceversa, diffusa sul territorio. Si rende, pertanto necessario avviare un’analisi finalizzata a valutare dal punto di vista energetico, economico ed ambientale i modelli di sviluppo energetico su scala urbana. In questo contesto si stanno diffondendo, infatti, tre diversi e concorrenti modelli energetici che mirano a rendere disponibili alle utenze energia elettrica, termica ed eventualmente frigorifera. In particolare, si riconoscono: 1 un modello basato su una produzione di energia elettrica, energia termica ed eventualmente frigorifera di tipo centralizzato tramite centrali di cogenerazione/trigenerazione (di taglia medio/grande) e con reti di teleriscaldamento/teleraffrescamento per la distribuzione alle utenze dei fluidi termici. 2 un modello basato sulla generazione distribuita di energia elettrica, termica ed eventualmente frigorifera localizzata in corrispondenza dei siti di consumo attraverso la diffusione di piccoli impianti di cogenerazione/trigenerazione. 3 un modello misto con una produzione centralizzata di energia elettrica attraverso centrali elettriche di grossa taglia (per lo più cicli combinati) ed una produzione distribuita di energia termica e frigorifera tramite l’utilizzo di impianti
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a pompa di calore elettrica o a gas naturale; sottovariante potrebbe essere quella di utilizzare pompe di calore laddove ci sia richiesta di energia termica e di energia frigorifera e caldaie a condensazione, qualora ci sia richiesta di sola energia termica. L’efficienza energetica dei processi di trasformazione dell’energia nel settore civile riguarda quindi anche la tecnologia della cosiddetta generazione distribuita dell’energia, spesso indicata con nomi diversi quali Smart Grids, Power Parks, distretti energetici, isole energetiche. Sono modi diversi di identificare più o meno la stessa modalità tecnologica relativa a quei sistemi che permettono di produrre energia nelle immediate vicinanze dei luoghi d’utenza, in grado di consentire la produzione combinata di energia elettrica e di calore e che puntano ad un impatto minimo sull’ambiente in termini di emissioni e rumore. Sono sistemi sempre caratterizzati dall’utilizzo di fonti rinnovabili (fotovoltaico, solare termico, eolico e mini-idroelettrico). Si parlerà allora di: - Generazione distribuita (GD): l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (AEEG) intende l’insieme degli impianti di potenza inferiore a 10 MVA; - piccola generazione, che viene definita come il sottoinsieme degli impianti di potenza fino a 1 MW (microgenerazione invece per impianti di potenza inferiore a 50 kW); - distretto energetico, che è il paradigma adottato da tutti i Paesi, se pur con terminologie diverse ed originali (Power Parks, SmartGrids) per identificare un modello di sistema energetico sostenibile; esso viene considerato uno strumento strategico per imporre un’accelerazione nella diffusione delle fonti rinnovabili e delle tecnologie per la GD. Il distretto energetico rappresenta un’area connessa alla rete globale caratterizzata da una autonomia energetica, grazie alla produzione di energia secondo le modalità della generazione distribuita e al sistema di gestione informatico, che garantisce l’interazione tra sorgente ed utenza. L’energia elettrica e/o termica destinata a soddisfare la richiesta dei PPs è prodotta mediante sistemi di generazione che utilizzano anche fonti rinnovabili (solare, eolico, biomasse, geotermico). Diversificando le tecnologie a seconda della fonte, le tipologie impiegate sono cogeneratori, microturbine, motori stirling, fuel cells, sistemi di accumulo. Il distretto energetico è costituito da edifici dotati di sistemi intelligenti che con-
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sentono di gestire le richieste energetiche in situazioni particolari (emergenze, picchi, black out) ottimizzandone il consumo. Il modello della generazione distribuita dell’energia si basa sull’integrazione di quattro settori tecnologici: macchine per la generazione distribuita, eco-buildings, fonti rinnovabili e informatizzazione. I fattori a sostegno della GD sono di diverso tipo: - tecnologico (aumento dell’efficienza) - ambientale (riduzione dell’impatto) - economico (costo dell’energia) Tuttavia, a causa della complessa gestione dei sistemi e delle richieste energetiche, questa modalità di produrre e distribuire energia è attualmente prevalentemente indirizzata ad aree non residenziali (scuole, ospedali, centri commerciali). In Italia ci sono più di 2.600 centrali di piccole dimensioni con una potenza installata totale di oltre 4.000 MW e una produzione annua di entità non trascurabile, pari al 4,3% dell’intera produzione lorda nazionale di energia elettrica. E’ quanto emerge dal Terzo Rapporto sull’evoluzione della generazione distribuita, realizzato dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, attraverso il monitoraggio degli impianti di generazione distribuita e di piccola generazione. Contestualmente alla pubblicazione del Rapporto, l’Autorità ha anche pubblicato il “Testo unico della produzione” che raccoglie le principali disposizioni in materia di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e da cogenerazione ad alto rendimento. Il Rapporto approfondisce diverse tematiche: la diffusione crescente della generazione distribuita; l’evoluzione del quadro regolatorio teso a facilitare anche la stessa generazione distribuita; l’esame di modelli energetici per il soddisfacimento dei fabbisogni termici; l’analisi dell’impatto della generazione distribuita sulle reti di distribuzione dell’energia elettrica. Una diffusa penetrazione della GD consente una serie di vantaggi che possono essere cosi riassunti: - riduzione dei costi energetici sia dell’utente individuale che dell’economia nazionale e internazionale. Alcuni studi hanno stimato che negli USA l’economia potrebbe registrare un risparmio del 20% dei costi elettrici con un raddoppio della quota di mercato della GD nel 2010; - riduzione delle emissioni inquinanti (CO2, CO, NOx, SOx e particolato) sia rispetto alla generazione separata di energia elettrica/termica, sia rispetto ai combustibili convenzionali grazie all’impiego esteso del gas naturale. Entro il 2010 si stima una
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riduzione delle emissioni globali di CO2, equivalenti ad un quarto del valore fissato per ottemperare alle richieste di Kyoto; - affidabilità, in termini di flessibilità e robustezza della rete; - integrazione delle fonti rinnovabili; - tariffe innovative nel mercato libero dell’energia; - sfruttamento delle risorse primarie di tipo rinnovabile (il 72% della produzione per GD sfrutta tale risorsa); - soddisfacimento della richiesta elettrica in prossimità del sito di produzione (produzione pari al 28 % del totale prodotto per GD); - risparmio energetico, in particolare, la microcogenerazione consentirebbe di ridurre i carichi elettrici e le perdite di trasmissione sulla rete. La penetrazione della GD comporta però anche una serie di problemi nella gestione della rete di distribuzione e nell’interazione con il sistema elettrico. Le reti di distribuzione esistenti non sono state progettate per gestire le risorse energetiche distribuite e i flussi di potenza bidirezionali. I criteri e le regole di esercizio (taratura e coordinamento delle protezioni, regolazione della tensione, ecc.) delle reti di distribuzione devono essere rivisti ed eventualmente modificati. La diffusione della GD non solo nelle reti di MT ma anche in quelle di BT, trasformerà parte della rete di distribuzione, da struttura passiva a struttura attiva. Sarà necessario, quindi, sviluppare tecnologie innovative per passare alle reti elettriche digitali caratterizzate da nuovi dispositivi (d’interconnessione, di comunicazione e logiche di controllo), nuovi sistemi software (protocolli plug-and-play dedicati, modelli revisionali, tecnologie di controllo) e nuovi sistemi di gestione (bidirezionale in real-time d’informazione e di potenza). L’esempio di generazione distribuita dell’energia all’Università di Roma La Sapienza Tra gli esempi più significativi di gestione territoriale dell’energia, si cita qui quello realizzato nella Città Universitaria della Sapienza. Il programma energetico messo a punto dalla Sapienza per il periodo 2005-2010 prevede una serie di interventi mirati all’uso razionale dell’energia e al risparmio energetico. L’idea progettuale più significativa si riferisce all’applicazione dei concetti della generazione distribuita dell’energia. È parte fondamentale del programma quella di proporre modelli territoriali di integrazione tra produzione e
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consumo energetico che si sostengano dal punto di vista tecnologico ed economico, valorizzando il ruolo dei cosiddetti “distretti territoriali”. L’obiettivo della Sapienza è quello di assumere un ruolo di eccellenza nei network di ricerca, anche internazionale, sia in termini di tecnologia che di nuovi strumenti per l’orientamento della trasformazione dell’energia. Il programma è articolato in una serie di azioni coordinate, finalizzate a sviluppare alcune piattaforme tecnologiche: - i distretti energetici ad alto grado di integrazione tra generazione distribuita dell’energia, fonti rinnovabili ed utenze - l’Information and Comunication Technology (ICT) applicata alla gestione dei distretti energetici, al fine di ottimizzare scambi energetici nelle diverse forme (termica, elettrica, frigorifera). I campi di applicazione inseriti in questo quadro generale sono, sia gli edifici esistenti (in particolare la Città Universitaria) che necessitano di retrofitting in merito all’obsolescenza degli impianti, che le nuove realizzazioni inserite nel piano edilizio della Sapienza. Infatti, sia la nuova configurazione in isole energetiche della Città Universitaria che i progetti degli interventi presenti nel piano edilizio della Sapienza hanno risentito dell’impronta data dall’Energy Manager sul tema della generazione dell’energia e del risparmio energetico (cfr. fig.12.7). Dall’analisi delle diverse definizioni di GD in ambito internazionale, nonché dall’analisi del quadro normativo nazionale e delle caratterizzazioni della generazione distribuita, è possibile dedurre che essa consiste nel sistema di produzione dell’energia elettrica composto da unità di produzione di taglia medio-piccola (da qualche decina/centinaio di kW a qualche MW), connesse, di norma, ai sistemi di distribuzione dell’energia elettrica (coincide con 2003/54/CE) in quanto installate al fine di: - alimentare carichi elettrici per lo più in prossimità del sito di produzione dell’energia elettrica (è noto che la maggioranza delle unità di consumo risultano connesse alle reti di distribuzione dell’energia elettrica) molto frequentemente in assetto cogenerativo per lo sfruttamento di calore utile; - sfruttare fonti energetiche primarie (in genere di tipo rinnovabile) diffuse sul territorio e non altrimenti sfruttabili mediante i tradizionali sistemi di produzione di grande taglia. La realizzazione è avvenuta in step successivi ed ha utilizzato una rete di teleriscaldamento ad acqua surriscaldata presente (ed opportunamente riqualificata) con 24 sottocentrali (potenza di scambio termico 1,6 MWt) per la parte termica ed il sistema esistente di 22 cabine di trasformazione MT/BT (13 MWe).
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È stata realizzata una prima isola energetica (isola 8: microturbina da 100 kWe, nella sede di Farmacologia, in assetto trigenerativo con macchina ad assorbimento alimentata direttamente dai prodotti della sua combustione) mediante un finanziamento del MATT e una collaborazione congiunta con l’Università di Tongji (Shangai, Cina). È previsto il completamento, nell’isola 7, della parte impiantistica in “solar cooling” sempre utilizzando microturbine e assorbitori (quest’ultima isola è in fase di progettazione all’interno del sistema della Sapienza Joint Lab, finanziato interamente dalla Regione Lazio). È in funzione anche l’isola energetica 6 (fotovoltaico da 50 kWp integrato nella struttura edilizia del Palazzo delle segreterie). L’esperienza maturata attraverso il supporto della Direzione Generale per la Ricerca Ambientale e lo Sviluppo del Ministero dell’Ambiente, permette di affrontare altre tematiche di grande rilevanza anche su scala urbana. Infatti, l’idea progettuale è di realizzare e monitorare la struttura di una rete distribuita di generazione dell’energia (GD), inizialmente basata su queste prime tre isole, in un sistema tale da costituire una prima maglia connessa energeticamente. Parallelamente, è presente un’intensa attività di ricerca nel settore della ICT, coinvolgendo più segnatamente alcuni dipartimenti della Sapienza e alcune imprese del settore della distribuzione dell’energia elettrica (ACEA, ELSAG). Le analogie tra reti distribuite di energia e reti di telecomunicazioni peer to peer suggeriscono di ereditare i protocolli già studiati nel settore delle ICT e progettarli in modo da supplire alle nuove problematiche della GD, quali disponibilità, bassi tempi di risposta domanda/offerta, gestione delle anomalie (blackout, sovratensioni, ecc.). Il prodotto atteso è un package impiantistico di gestione, personalizzabile dall’utilizzatore in quanto flessibile e modulare, in grado di controllare ed ottimizzare la produzione, la distribuzione, l’impiego di energia all’interno della rete costituita facendo ricorso alle tecnologie del settore delle telecomunicazioni. Completeranno le realizzazioni (previste per la fine del 2010): - una sistema di cogenerazione con motore a combustione interna, alimentato ad olio vegetale, della potenza di 2 Mwe per le isole 1, 2, 3. Tale installazione è prevista nel primo anno di attività (2009-10) del contratto di gestione e manutenzione con un finanziamento tramite terzi affidato alla società ESCo che ha vinto una gara impostata secondo le regole dell’ Energy Performance Contract (vedi capitolo 8). In tali isole è prevista anche la realizzazione di circa 200 kW di fotovoltaico con una gara pubblica inserita nel programma conto energia;
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- una sperimentazione con celle a combustibile (10 kW) alimentata ad idrogeno prodotto localmente con fotovoltaico nell’isola 4; - un motore a combustione interna alimentato a idrogeno (10 kW); anche questa realizzazione è prevista nel primo anno di attività (2009-10) del contratto di gestione e manutenzione con un finanziamento tramite terzi affidato alla società ESCo che ha visto una gara impostata secondo le regole dell’Energy Performance Contract; - un sistema di cogenerazione con motore a combustione interna, alimentato a gas metano, della potenza di 1 Mwe per l’isole 9. Tale installazione è prevista nel primo anno di attività (2009-10) del contratto di gestione e manutenzione con un finanziamento tramite terzi affidato alla società ESCo che ha visto una gara impostata secondo le regole dell’Energy Performance Contract.
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Benedetto Gravagnuolo
Le metamorfosi delle città in Europa
Forse non è inutile volgere lo sguardo critico verso le innovazioni in fieri nello scenario internazionale prima di addentrarsi nello specifico delle questioni progettuali da affrontare nel caso studio di Potenza. Va da sé che sarebbe a dir poco ingenuo (per non dire fuorviante) tentare di “importare” in un contesto locale modelli risolutivi stranieri, modelli che hanno genesi e motivazioni di volta in volta legati alle “differenze” intrinseche a quei dati luoghi urbani. Tuttavia, soggiacenti sotto la pluralità delle forme, si annidano i principì concettuali che possono essere stanati come radici per nuove linfe ideative. Tant’è che all’alba del XXI secolo le grandi città d’Europa hanno attuato variegati programmi di modificazione delle strutture urbane per rispondere alle attese della contemporaneità. Ma, aldilà delle diverse soluzioni adottate, resta in comune un interrogativo teorico di fondo. La domanda - per molti versi decisiva - verte non sul “se”, bensì sul “come” realizzare il processo di modernizzazione senza deformare l’identità culturale ereditata dalla storia. Va preso atto che nell’attuale era della globalizzazione la crescita urbana rappresenti un inarrestabile fenomeno a scala planetaria, che ha raggiunto livelli esponenziali nelle megalopoli asiatiche e americane negli anni a cavallo tra XX e XXI secolo (Burdett, 2006). Lo comprova peraltro il trend statistico già evidenziato da Crispin Tickell nella prefazione al saggio di Richard Rogers, Cities for a small platet (London 1988; Roma 2000). Nel 1950 solo il 29% della popolazione mondiale risiedeva nelle grandi città; ma nel 2005 tale aliquota è salita al 50%; e nel giro dei prossimi vent’anni potrebbe superare la soglia del 75%. Di fronte a tale fenomenologia, non resta che prepararsi a garantire il “diritto alla città” con una pianificazione lungimirante, vale a dire a rispondere con adeguate tecniche alla crescente domanda di coloro che aspirano a vivere nelle aree urbanizzate. Se ciò è vero, resta altresì innegabile che le città europee hanno radici storiche profonde al punto tale da non poter consentire che siano recise da una modernizza-
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zione incontrollata, affidata alla mera dinamica finanziaria del ciclo edilizio. Civitas e civilitas hanno un etimo comune. La civiltà dell’abitare si è manifestata al suo più alto livello proprio nella città, definita non a torto da Claude Levi-Strauss “la cosa umana per eccellenza”. Nella forma urbis delle città storiche si è sedimentata non solo una struttura fisica dello spazio sociale costruito, ma anche una costellazione immateriale di valori culturali e di simboli collettivi che orienta la civile convivenza. Pertanto, nella prefigurazione del futuro sarebbe insensato sottovalutare la valenza simbolica racchiusa nella “seduzione del luogo” (Rykwert, New York 2000; Torino 2005). Dalla memoria del passato può essere distillata se non altro l’aspirazione alla qualità diffusa, vale a dire la capacità di edificare con equilibrio le parti urbane. Pur senza pervenire ad un assoluto isomorfismo egalitario, nelle città europee si è teso finora ad evitare l’esasperazione dei conflitti sociali mostrata dall’eclatante contrasto tra le favelas dei diseredati ed i grattacieli delle classi agiate. Ciò nonostante, l’orizzonte problematico dischiuso dalle sfide del nuovo tempo rivela molte incognite. Certo, “…la forme d’une ville - aveva già notato Baudelaire change plus vite que le coeur d’un mortel”. Ma la velocità e l’imprevedibilità delle metamorfosi metropolitane hanno raggiunto nell’attuale scenario vertici tali da imporre una radicale revisione della maniera stessa di concepire la pianificazione urbana e territoriale. Basti pensare alle questioni scaturite dall’incessante flusso dell’immigrazione proveniente da paesi extra-europei, che solleva inediti interrogativi sull’opportunità di integrare nella conformazione stessa delle città il caleidoscopico paesaggio multiculturale delle diversità etniche. Senza contare la rapidità evolutiva delle tecnologie produttive, dei sistemi cognitivi, dei mezzi di comunicazione e delle dinamiche comportamentali nel lavoro, nel tempo libero, nella sfera privata e nello spazio collettivo. Il definitivo trapasso dalla prima civiltà industriale, fondata sulle macchine, al nuovo modo di produrre ricchezza è paradigmaticamen-
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te segnato dalla dissoluzione della catena di montaggio dell’età tayloristica nella “modernità liquida” della fabbrica invisibile, leggera e fluttuante in un mondo “… privo di recinti, barriere, confini e posti di frontiera”. (Bauman, Cambridge 2000; Roma 2002, p. XXII). Ne è derivata anche la crisi delle certezze metodologiche del tradizionale piano regolatore generale, fondate sui rigidi assiomi dell’urbanistica funzionalistica otto-novecentesca. In estrema sintesi, le nuove e più accreditate teorie sulla gestione dello sviluppo urbano oscillano dialetticamente su tre binomi concettuali. - piano-progetto. Incalzata dalla velocità dell’innovazione in atto in ogni campo dello scibile, è mutata recentemente anche la maniera di concepire la relazione tra la pianificazione dello sviluppo urbanistico e la costruzione delle nuove architetture. Alla convenzionale metodologia “consequenziale” - fondata sul principio di sancire prima il disegno coerente ed onnicomprensivo del piano urbanistico generale e, solo dopo, procedere alla definizione dei progetti attuativi - è subentrata una più dialettica visione “contestuale”. La teoria canonica del processo decisionale articolato in due tempi implica ineluttabilmente il carattere astratto ed atemporale del piano generale, che resta sospeso nella virtuale enunciazione dei puri intenti, in quanto privo di definite risorse finanziarie e di cronoprogrammi esecutivi. Sta diffondendosi invece sempre più in Europa l’esigenza di prefigurare simultaneamente la strategia urbanistica e la visione tridimensionale delle opere da realizzare. La “contestualità” tra piano e progetto offre peraltro il vantaggio di poter valutare l’attendibilità di un disegno urbanistico dal grado di comprovata “fattibilità” delle previsioni, da attuare in base a risorse preventivate in tempi di breve o di media durata. È l’imprevedibilità del futuro in una civiltà in sempre più rapida metamorfosi che induce a preferire la concretezza delle “buone pratiche” all’intangibilità delle “buone intenzioni” proiettate in prospettive a lungo termine . Il che non deve tuttavia indurre all’equivoco di ritenere irrilevante o superflua la definizione di una condivisa strategia urbanistica d’insieme, relegando lo sviluppo allo spontaneismo della diretta costruzione di isolate architetture. Al contrario, il metodo della progettazione urbana - proteso verso la tridimensionalità delle visions - introduce un livello di controllo della crescita e della modificazione della città ancor più rigorosamente definito rispetto alla bidimensionalità dei retini colorati appiccicati sulle planimetrie per fissare gli indici quantitativi della urbanistica tradizionale. Va da sé che il nuovo corso dell’urban design abbia alle spalle un lungo ed articola-
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to processo di gestazione. Non sono le lancette dell’orologio a segnare il trapasso alle innovazioni teoriche che affiorano sul confine di un secolo. Tant’è che la genesi di tale nuova maniera di pensare la pianificazione affonda le sue rizomatiche radici negli ultimi due decenni del XX secolo. I semi concettuali vanno rintracciati in saggi di orientamento ‘diverso’ - ma convergenti nella critica contro l’anacronistica rigidità della logica funzionalistica ereditata dalla Carta d’Atene - disseminati da autori quali Oriol Bohigas, Rem Koolhaas, Richard Rogers, Joseph Paul Kleiheus, Léon e Rob Krier, Bernardo Secchi, Vittorio Gregotti, Joseph Rykwert, Jean-Louis Cohen e Marc Augè, per citarne solo alcuni propugnatori di idee “nuove” emergenti quali punte di iceberg dalla profonda e diffusa revisione teoretica. François Ascher ha provato a ricondurre all’agile sintesi di un decalogo Les nouveau principes de l’urbanisme (Paris 2001, trad. it. Napoli 2005). Il postulato basilare muove dalla constatazione della “complessità” della pianificazione nell’età contemporanea, irriducibile alla schematica razionalità tardo-positivistica della “paleo-urbanistica”. Le molte incognite di un processo decisionale ed attuativo che coinvolge una pluralità di soggetti e di interessi conflittuali suggeriscono di interpretare il campo dell’urbanistica alle luce delle nuove acquisizioni epistemologiche sulla “teoria dei giochi”, sul “calcolo delle probabilità”, insomma sulle più aggiornate analisi cognitive sulle “fenomenologie del caos”. A corollario di tale tesi si impone il superamento della concezione dirigistica del piano urbanistico, aprioristicamente definito in ogni sua parte, a vantaggio di una più duttile strategia gestionale dello sviluppo guidata dalla sapiente “regia” della governance. “La governance urbana - chiarisce Ascher - implica l’arricchimento della democrazia rappresentativa attraverso nuove procedure deliberative e consultive… In altri termini è una prospettiva molto ambiziosa, che necessita di più saperi, più esperienze e più democrazia” (trad.it. p. 96). Tra gli obiettivi del new deal si staglia al di sopra di tutti l’idea di ridurre la quantità della crescita a vantaggio della qualità, coniugando più strettamente la pianificazione urbanistica con l’eccellenza delle nuove architetture. In tale ottica le opere pubbliche - affidate tramite concorsi ad autori di alta caratura - rappresentano i progetti-pilota che fungono da volano per attrarre investimenti privati finalizzati alla riqualificazione di più vaste aree. Valga ad esempio la “mossa del cavallo” giocata sulla scacchiera urbana di Bilbao sul finire del secolo scorso con la costruzione in un’area industriale dismessa del Guggenheim Museum, progettato dall’architetto americano Frank Gehry. Senza dubbio il costo dell’opera è stato abnorme, ma si è trattato di un investimento lungimirante ed a suo modo avveduto, ampiamen-
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te ripagato dalle benefiche ricadute sull’economia e sull’immagine non solo della città, ma dell’intera regione basca. Non foss’altro che per lo straordinario successo di pubblico e di critica, il Museo di Bilbao è ormai divenuto un paradigma internazionalmente emulato per catalizzare con l’eccezionalità dell’architettura d’autore lo sviluppo urbano all’insegna della new economy; - globale-locale. Per quanto possa apparire paradossale, è stato proprio il trionfo della globalizzazione ad esaltare (per antitesi) il valore delle tradizioni locali . Quanto più diventa fluida la circolazione delle merci, in un mondo dove stanno cadendo una dopo l’altra tutte le frontiere, tanto più aumenta il rischio dell’omologazione. Fermo restando il sacro principio dell’universalità delle cose e delle idee, è tuttavia comprensibile la resistenza delle comunità locali tesa a difendere l’identità delle molte ed affascinati diversità culturali contro il livellante conformismo del pensiero unico che gli interessi mercantili mirerebbero ad imporre. Non resta, dunque, che declinare la dialettica tra globale e locale anche nello specifico campo dell’architettura e della città. Tale dialettica trova d’altronde in Europa un fertile terreno, non solo per il radicamento di variegate culture regionali millenarie, ma anche per l’approfondito confronto teorico sulla dicotomia tra civiltà e civilizzazione che ha raggiunto vette insuperabili nel dibattito tedesco del XX secolo. Resta tutt’altro che scontata la compatibilità tra la modernizzazione ed il rispetto dei valori culturali collettivi nei quali una civiltà si identifica. Per la sua intrinseca logica, il processo di modernizzazione fa leva sulla forza dirompente di una razionalità astratta, indifferente alla storia e alla natura dei luoghi. Ne deriva un inesorabile divario tra ragione e memoria , tra innovazione tecnologica e conservazione dei simboli identitari di una comunità locale. Come un essere umano non può sopravvivere senza memoria, così una civiltà senza coscienza storica sarebbe condannata al disorientamento culturale. Non a caso nel clima intellettuale europeo l’attenzione critica è stata incentrata sul valore inestimabile dei luoghi, delle città e dei paesaggi ereditati dal passato. Non solo gli architetti, ma anche i filosofi, i sociologi, i poeti, gli economisti e gli uomini di cultura in senso lato hanno posto l’accento sull’opportunità di tutelare i caratteri distintivi delle morfologie urbane. La città è l’immenso archivio in cui sono sedimentati non solo i tipi, le forme e le tecniche del costruire, ma anche i miti, i simboli e i sogni dell’immaginario collettivo. Nella scena urbana il passato si mostra in presenza, nella tangibile evidenza dei monumenti sopravvissuti alle distruzioni dell’uomo
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ed alle calamità del tempo. Il dovere etico di trasmettere questo prezioso retaggio storico alle future generazioni ha spinto la parte più raziocinante della cultura architettonica non tanto ad opporsi all’evoluzione tecnologica in nome di un idilliaco ritorno alla civiltà pre-moderna, quanto piuttosto a guidare le trasformazioni urbane, sottomettendo le energie tecniche e finanziarie della modernizzazione ad un progetto di armonia. Va da sé che non esistono - non possono esistere - regole aprioristicamente valide per orientare le scelte della progettazione urbana superando tale ineludibile – ma per molti versi affascinante - dialettica tra innovazione e memoria. Solo la cultura può dare - di volta in volta - risposte ideative al dilemma, introducendo un nuovo testo nel contesto trovato, in assonanza o in deliberata dissonanza con il palinsesto preesistente. Non può insomma essere eletto a dogma l’ambientamento delle nuove costruzioni nel contesto preesistente. L’architettura contemporanea adotta tecniche e linguaggi inediti che non possono essere mimetizzati con forme pseudo-storicistiche. Sarebbe per altri versi ridicolo, prima ancora che impraticabile, innalzare anacronistiche dogane contro gli architetti “stranieri”. Non è di certo il certificato di nascita a garantire il rispetto della civiltà europea del costruire. Anche se – per contro - non basta sventolare il nome di un architetto di fama internazionale per tacitare la valutazione critica nel merito dell’adeguatezza di un dato progetto in relazione al luogo. La crisi di rigetto che nell’opinione pubblica provoca il trapianto di bizzarre costruzioni, deliberatamente aliene ai tessuti storici, risulta - in alcuni casi - motivata da ragioni così valide da essere condivise anche da parte di coloro che non sono pregiudizialmente ostili all’innovazione; - espansione-densificazione. Dopo gli sprechi ambientali del recente passato, si è imposta all’attenzione della critica più avvertita la necessità di porre un freno alle espansioni edilizie immotivate per incentivare all’inverso programmi di recupero e di valorizzazione dei tessuti urbani preesistenti. E ciò non foss’altro perché il territorio è una risorsa pregiata, in quanto finita e non riproducibile. A maggior ragione in Europa, dove ormai le aree verdi superstiti sono rare, l’edificato è divenuto dovunque patrimonio di notevole valore potenziale. Non a caso, dunque, la maggior parte degli interventi contemporanei sulle città europee rientrano nella sfera della “modificazione”, per dirla con Vittorio Gregotti. Si tratta quasi sempre di “costruire nel costruito”, sia pure oscillando tra i poli estremi del recupero storicistico o della radicale ristrutturazione, del restauro urbano o
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della rigenerazione qualitativa. Le stesse periferie urbane - che potremmo in linea di massima definire “non-luoghi” nell’accezione indicata da Marc Augé - rivelano una straordinaria (benché virtuale) potenzialità di riqualificazione laddove vengano sottoposte a programmi strategici tesi a ridisegnarne le fisionomie per conferirle il ruolo di “nuove “centralità” nello scenario metropolitano. L’urban design finalizzato alla modificazione qualitativa rappresenta attualmente uno dei più validi strumenti operativi per la valorizzazione del paesaggio europeo, sia esso naturale che antropizzato. Non deve peraltro sorprendere che la virata teoretica verso il ritorno all’idea della “città compatta”, assunta quale paradigma preferenziale per il prossimo futuro, provenga dalle punte critiche dell’urban planning anglosassone. Certo, Londra è stata storicamente la culla del movimento antiurbano delle Garden Cities of Tororrow , presagite da Ebenezer Howard nel 1902 e a loro modo attuate da Patrick Abercombie nel 1946, con il paradigmtatico piano delle 13 “New Towns” dislocate in un raggio di circa cinquanta chilometri dal capoluogo. Tuttavia, è proprio là dove tale dottrina è stata verificata, prima ed a più alto livello, che si sono rivelate, anche e con maggiore evidenza, le criticità implicite nel teorema. A determinare il feedback è stata innanzitutto la delusione che i nuovi insediamenti suburbani tranne rare eccezioni - hanno rivelato sul banco di prova della concreta realizzazione rispetto alla fantasticata palingenesi ascritta alle “città giardino”. Ma ancor più decisiva in tale inversione di tendenza è stata la doppia considerazione sull’eccessivo consumo di suolo agricolo indotto dall’espansione urbana orizzontale a bassa densità e, dall’altro lato, la spinta derivante dalla larga domanda sociale di voler risiedere nel cuore stesso della metropoli, dove più pulsante è la vita associativa e, di conseguenza, più ampio il ventaglio delle possibilità di lavoro, di svago e di successo. A caldeggiare questa svolta teorica di portata storica è stato, più di ogni altro, Richard Rogers nel suo pionieristico (e già citato) saggio dato alle stampe a Londra nel 1997 e tradotto in italiano con il titolo Città per un piccolo pianeta. Senza perifrasi in questo testo è stato prefigurato un processo di “densificazione” della metropoli londinese, riqualificando le aree degradate e recuperando i siti industriali dismessi. In tale tracciato prospettico, il potenziamento delle infrastrutture rappresenta un passaggio obbligato per invertire la convenzionale tendenza al “decentramento”. Senza indulgere nelle elucubrazioni apologetiche della cosiddetta “urbanizzazione
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diffusa” - che mirano a ribaltare in positivo il giudizio sul caos delle amorfe conurbazioni contemporanee, indicandolo come un fenomeno di affascinante labirinto reticolare post-urbano nell’era telematica - la meta finale verso cui tende questa nuova rotta del pensiero urbanistico sta nel conferire una nitida, efficiente e solida “struttura” alle vaste aree metropolitane. Se è vero che il mutamento in fieri a Londra rappresenti un esempio inequivocabile in tal senso, resta altresì innegabile che il ritorno alla densificazione “strutturata” sia una tendenza riscontrabile anche in altre grandi città all’avanguardia nelle innovazioni. L’Europa ha raggiunto un’unità monetaria, ma non ancora un’autentica coesione politica. Allo stato attuale è solo una confederazione dal perimetro incerto e dai confini interni alquanto mobili, per l’inarrestabile fermento delle rivendicazioni di stati nazionali. L’autentico collante di quest’arcipelago di etnie e di linguaggi eterogenei resta l’aspirazione a costruire sulle macerie dei conflitti storici un continente mentale nuovo, unito dalla cultura o, per meglio dire, dal dialogo tra le culture. Ciò nonostante, vista dall’alto - a volo di aereo - l’Europa mostra la sua incipiente fisionomia continentale innanzitutto nei grandi assi infrastrutturali di collegamento viario e ferroviario tra le aree metropolitane egemoni quali Londra, Parigi, Berlino, Madrid, eccetera. Non meno significativo è il ruolo che in tale geografia giocano le città-porto bagnate dalle acque del Baltico, dell’Atlantico e del Mediterraneo. Senza dimenticare la rilevanza della Mitteleuropa che confina ad oriente con l’immenso continente asiatico. Non è pertanto irrilevante analizzare le metamorfosi in atto nelle città europee, nel quadro della stretta interrelazione tra la fattibilità della pianificazione strategica e la qualità delle nuove architetture, anche ai fini di una corretta impostazione metodologica del vostro progetto per Potenza.
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MARGHERITA PETRANZAN
Etica dell’architettura. Professione architetto
“Il dovere: quando si ama ciò che si comanda a noi stessi”
(Johann Wolfgang Goethe)
Sono consapevole che in un universo ormai totalmente estetico o estetizzato, l’opera di architettura come quella d’arte è tale solo se riconosciuta dai media, solo se fastosa e brillante, comoda ed eccentrica, ma soprattutto solo se di successo. Si cerca comunque, di fronte a questa situazione, di accettare criticamente il nuovo orizzonte, senza però criticarne l’accettazione, proprio per ripristinare, attraverso il rigore, la qualità. Che il tempo che viviamo sia una realtà, che esso esista al di là del fatto che lo accettiamo o lo rifiutiamo, che sia semplicemente un dato di fatto, lo si può dare ormai per scontato. Quello che invece per me non è scontato, ma è decisivo, è il modo in cui si fa valere questo essere nel tempo a livello di necessità, individuando il problema del valore come unico problema fondante. Quel che conta, cioè, è resistere alle mode, alle decostruzioni gratuite, alle infinite ed inutili messe in scena di continui reality show dell’architettura e dell’arte, così lontani dalla ricerca di qualità e durata per i loro prodotti e così lontani anche dalle sperimentazioni di nuove avanguardie. Questa è una resistenza che mi permette di riflettere su due condizioni fondamentali dell’architettura: la prima è di essere sostanzialmente riconosciuta come pensiero, progettato e costruito- e come tale uno dei principali artefici della realtà- anche se si serve di tecnica e arte come insostituibili mezzi di espressione per strutturare i suoi spazi; la seconda è di porsi e proporsi come evento, sempre e comunque rigorosamente scientifico però, anche se non tutto ciò che è costruito è architettura. L’evento architettura diviene salvifico quando è consapevole che apre molteplici orizzonti di senso che trascendono il fatto compositivo o tecnologico - costitu-
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tivo della struttura disciplinare - per approdare nella complessità della ricerca e dell’interrogazione continue; condizione questa che appartiene sostanzialmente al pensiero. È una produzione che non ha nulla a che vedere con i visionari sogni delle troppe ‘architetture di carta’ della contemporaneità, ma contiene un’importante tensione verso il futuro, non nei termini di immaginifica previsione, ma di concreta predizione, proprio perché organizza una continua ricerca all’interno della dimensione del presente. È il presente la cosa più importante per questo tipo di architettura, che, consapevole di essere profondamente radicata nel suo tempo, propone, sul piano della sperimentazione scientifica, concreti percorsi che assemblano materiali lucidamente elaborati per essere trasformati in città costruita. In architettura, forse, questo nostro tempo sarà memorabile per le straordinarie enfatizzazioni, da parte dell’immaginario collettivo, di paure individuali e di insicurezze legate paradossalmente agli albori della civiltà; è come se ogni individuo si sentisse legittimato a doversi garantire il proprio spazio di vita a dispetto della collettività in cui è inserito, o peggio, contro di essa. La mancanza di cura che adesso noi tutti, se presi singolarmente, abbiamo nei confronti degli spazi chiusi o aperti a destinazione pubblica, aumenta sicuramente il degrado, non solo della forma della città costruita, ma anche e soprattutto di ogni possibile forma di civile convivenza. Sarà questo un presente memorabile allora per il tragico inabissarsi di qualsiasi forma di solidarietà che, solo se fine a se stessa, senza chiedere nulla in cambio, permette la costruzione di qualsiasi tipo di relazione. La difficoltà mostruosa, quindi, per noi che viviamo adesso, sta nel progettare la ricostruzione della città, proprio a partire da queste corpose assenze: dell’altro, innanzitutto, con il quale o contro il quale confrontarsi; ma anche, ribadisco, del limite al ‘sé’ e ai suoi bisogni. Sarà memorabile questo presente per avere prodotto la città senza forma, la città
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degradata, dove ogni luogo ha lo stesso valore, dove non ci sono riferimenti, dove l’omogeneità sconcerta, crea disagio, annichilisce, perché non stimola né fantasia né, tantomeno, pensiero. Se la città è rappresentazione del politico, è anche il luogo dove si è costruito il politico, perché normalmente la città è il luogo mentale dove il politico prende forma con tutte le sue gerarchie; l’idea del politico nasce da sempre a ridosso della città ed è consustanziale ad essa, ed essenzialmente per questa ragione le forme che assume la città, adesso, sono le forme con cui il politico si organizza in senso strutturale. Posso dire che in questo senso il presente è progetto; ma progetto di che cosa se non di una decisione? La sfida con le cose da ‘regolare’, da sistemare, non si gioca forse soprattutto da parte di un qualsivoglia progetto politico - attraverso la decisione? Questo diventa allora progetto di un sapere ‘gettato’ sulla soglia della decisione, di un sapere che si radica su questa soglia, che ogni volta però viene ridisegnata, anche per ridare un ruolo autentico ad una vecchia gestione autoreferenziale - definita ‘democratica’-delle nostre città e della vita che in esse si svolge. Credo che la decisione più cruciale nel fare architettura, oggi, consista nella ricerca di un metodo che riorganizzi il linguaggio della specificità costitutiva di questa disciplina, disperso irrimediabilmente in una diaspora di proliferazioni ‘metaforiche’, sostitutive di un significato agonizzante. Agonia del senso di un linguaggio disciplinare che deve essere completamente rifondato, pena la riduzione dell’architettura a mera tecnica costruttiva- che prende di volta in volta le forme imposte da ottuse e riduttive normative pianificatorie- o, peggio ancora, si presta a idolatriche messe in mostra di immagini analogiche. Tale agonia si tocca con mano nelle concrete realizzazioni di strutture abitative e di servizio delle città attuali, Il metodo può sicuramente indicare una strada, che si affianca alla ‘mancanza di strada’ che abbiamo davanti. Ma il soggetto, consapevole della crisi cui è sottoposto, percorre necessariamente sia la strada che la mancanza di strada; Ciò significa che il mondo apparentemente reale e quello realmente apparente investono e coinvolgono contemporaneamente ogni progetto di rifondazione; ovvero le infinite aperture alle infinite soluzioni dell’universo del possibile, che caratterizza quest’epoca, ci rendono uomini stolti e ciechi, incapaci e spaventati di fronte a qualsivoglia sbarramento o chiusura o problema; quindi tutto ciò che avanza è lecito, purché non comporti fatica o disagio.
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Ogni interruzione di strada presenta, parallelamente, qualche comoda scorciatoia che riesce ad allontanare il rischio, appunto, di decidere, di fronte alla mancanza, una qualsivoglia rinascita. Questo comporta, nel progetto, poco approfondimento, assenza di qualità; in ogni disciplina, sia scientifica che artistica, si assiste alla messa in scena di ridondanti creatività che sfarfallano incontrollate da un lato, e dall’altro, simultaneamente, si riescono a legittimare incredibili banalizzazioni sul piano dei risultati, che sviliscono gli statuti delle pratiche disciplinari denotando assenza di qualità e di preparazione, sostituite da ignoranza arrogante. L’etica applicata all’architettura, più che all’arte in generale, è un concetto ‘abusato’, di cui architetti professionisti, studiosi di questa disciplina, storici e critici si sono occupati a dismisura, a causa delle frequenti ‘derive’ comportamentali sul fronte degli obiettivi che gli operatori del settore si danno. Il processo, complesso, che porta alla ‘cosa’ costruita, si avvale della presenza e della collaborazione, nelle varie e diverse fasi del lavoro, di più persone, investite di ruoli diversi legati a funzioni da ricoprire e lavori da espletare. A partire dalla committenza - in questo delicato intreccio di rapporti che concorrono a formare gli anelli di una catena che non può essere interrotta - se qualcuno si pone in modo unicamente funzionale al soddisfacimento di ‘personalistici’ appetiti - che vedono alternarsi il desiderio di notorietà a quello di accumulare ricchezza- il risultato, il processo, e, di conseguenza il prodotto costruito, naufragano miseramente. Dagli esiti si tocca con mano il naufragio: esiti che con sempre maggiore frequenza balzano all’attenzione anche dei più sprovveduti, a partire dagli abusi, dall’indifferenza delle pubbliche amministrazioni nei confronti di operazioni lesive sia dei diritti della collettività, sia dell’equilibrio territoriale ed urbano, per arrivare all’impreparazione ‘colpevole’ di tanti professionisti molto spesso disponibili a fornire un prodotto che oltre a non avere i requisiti ‘minimi’ di qualità e tanto meno di abitabilità, contribuisce a degradare in modo definitivo l’ambiente umano e sociale definito ‘città’. Tutto ciò è pesantemente legato alla sempre maggiore indifferenza, da parte dei vari operatori, nessuno escluso, nei confronti di quello che ho cercato di definire comportamento etico, che, per essere autenticamente tale, non può che porsi come ‘necessità’ di una continua e scrupolosa osservanza di regole che vanno a normare la vita di qualsiasi consesso umano, unita ad un’ altrettanto importante necessità di garantire ‘responsabilmente’ il risultato del proprio lavoro attraverso una ‘rigorosa’e mai appagata preparazione. Come l’estetica, anche l’etica indica l’idealità come compito, e presuppone che
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l’uomo sia in possesso delle condizioni per raggiungerla, dice Kierkegaard ,ma, come l’estetica, anche l’etica è incapace di innalzare la realtà all’idealità. Se l’estetica è ciò per cui l’uomo è spontaneamente quello che è, mentre l’etica è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa, sembrerebbe essere l’etica risultato di volontà e principio di ragione, mentre l’estetica di istinto e spontaneità, in evidente e totale antagonismo. Tuttavia il concetto di bellezza si trasmette solo all’interno di un orizzonte dove sia possibile innanzitutto che l’esperienza del bello avvenga, e che, successivamente, essa si trasformi in vero e in bene, cioè in pensiero e azione responsabili per abitare il mondo e la sua consuetudine. Questa è l’unica certezza che ci permette di interrogarci sui rapporti tra responsabilità (individuale e collettiva) e necessità (destino), tra libertà e giustizia, e di dubitare sui loro esiti. Tutto ciò che appartiene al fare sta appunto dentro quell’orizzonte di senso che giustifica, in origine, ogni gesto possibile, poiché “ l’aver senso del mondo sta semplicemente nella nostra decisione di trovare senso in ciò che non ha senso, con la sola forza del nostro decidere così, del nostro volere così, e l’unica speranza che rimane è di trovare nell’inconsistente il consistente, nel frammento l’intero, nel nulla il tutto”. Per parlare però del problema etico senza rischiare di cadere in equivoci, è necessario chiarire che non riguarda né mondi superiori, né una metafisica, nemmeno un tesoro di esperienze spirituali o abissi di trascendenza, ma “la vita ben conosciuta dell’uomo nella natura e nella cultura”, vita che deve essere vissuta di minuto in minuto da ognuno di noi in modo responsabile e nel rispetto condiviso degli obiettivi necessari a tutelare il vivere civile. Credo perciò che ogni ‘fare’ rientri nei limiti imposti dalla sua peculiare consistenza: di linguaggio, di forma, di contenuti, e che ogni individuo sia immerso in un gioco (linguistico) fatto di pratiche e di consuetudini, che vengono messe in dubbio solo quando falliscono, momento in cui subentra la crisi. ‘Pensare al fare’ allora significa collocarsi all’interno della complessa dimensione interpretativa del reale, ‘separando’ e ‘distinguendo’continuamente, dentro un percorso che ‘tende’ alla ricerca della verità, che è ‘volontà’ di conoscenza, la sola che permette di entrare in una dimensione che possa ‘rivelare’ orizzonti di libertà, ottenuta attraverso la conquista della creativa ‘costruzione’ quotidiana del vivere. Esiste comunque, all’interno dell’agire umano, una straordinaria continuità tra di-
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mensione estetica e dimensione etica, di cui, paradossalmente, l’uomo non è quasi mai consapevole, avendo, di necessità, bisogno di perseguire la felicità come fine ultimo, pur rimanendo costantemente ingabbiato nella coscienza‘tragica’ di non poterla mai raggiungere. Tale continuità è compresa già, tutta, nella ‘parola’. La parola crea, rivela, redime; la parola ‘costruisce’ in tutti i sensi: dal linguaggio simbolico al linguaggio poetico, a quello dei segni che divengono forme e alla loro interpretazione. Compito etico è allora quello che porta a battersi per la libertà di pensiero e di ‘parola’, in qualunque luogo ci si trovi a vivere e a qualunque ‘fede’ si appartenga, privilegiando partecipazione e solidarietà nei confronti di chi ‘soffre’ pene fisiche o ingiustizie sociali e dei meno abbienti; questo induce, di conseguenza, a collaborare con le strutture istituzionali preposte per rendere determinante il contributo che, come individuo pensante ed agente all’interno di una collettività, ognuno di noi è tenuto a dare, anche fornendo al meglio un servizio legato alla propria specifica professionalità. Solo a partire dalla parola che ‘comunica’ con l’’altro’, dunque, si può pensare ad una qualche idealità da raggiungere all’interno di una realtà da ‘perfezionare’. Realtà che è contenuta nella ‘città dell’uomo’ che va ‘abitata’ con tutte le sue contraddizioni, e con il suo anelare alla bellezza spesso svuotata di ogni eticità, perché trasformata in estetismo, che è solo immagine ed ‘apparenza’ del bello: è’ la bellezza ‘sradicata’, senza ‘casa’,che non conosce ciò che è differente essendo unicamente identica a sé stessa. Il bisogno di bellezza, che conduce alla ricerca ‘estetica’, da cui non possiamo prescindere, essendo consustanziale alla nostra stessa possibilità di vita, va coniugato con il suo‘concreto’ orizzonte di riconoscibilità, che è il territorio che mostra l’altro come presenza indispensabile per il compimento e la definizione della singola identità individuale, che, solo così, per mezzo di un continuo, mai appagato, tentativo di comunicazione, di rispetto e di amore, può anelare ad un comportamento etico. “La vera bellezza è rara, come è raro tra gli uomini l’uomo capace di compiere uno sforzo su se stesso, di scegliere cioè un certo se stesso e di imporselo” (P. Valéry, Eupalinos o l’Architetto)
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Jorge Cruz Pinto
Luogo. Immaginario. Architettura
La progettazione architettonica e urbanistica è il risultato di diverse forze presenti: interne, provenienti dall’ immaginazione; ed esterne, provenienti dal programma, dall’interpretazione del luogo e dei vari fattori ed intenzioni che cercheremo di illustrare con ideogrammi di cervelli e con alcuni dei nostri progetti ed opere. La progettazione è un atto dinamico, onnipresente e sincronico, perchè comporta il passato attraverso la memoria, il presente nel quale si definisce e il futuro nel quale si proietta, nel senso visionario del termine, che illustriamo con l’analogia dell’ arciere e l’atto di progettare, nel senso visionario di lanciare dell’immagini anticipando l’avvenire. Molte delle immagini di supporto alla progettazione architettonica esistono in forma latente, nell’ immaginazione produttiva, anteriore alla formulazione di qualsiasi proposta. Immagini archetipi, forme simboliche, memorie storiche e percettive, opere di riferimento culturale, tipologie, concetti, analogie metaforiche, metonimie e schemi appartenenti all’universo culturale colettivo e personale che abitano la nostra immaginazione produttiva, che illustriamo con dei ideogrammi del cervello. In questo contesto, la pittura e le arti plastiche che abbiamo denominato «paraarchitetture»1, ovvero, lo spazio vuoto quasi abitabile, costituiscono delle forme di ricerca analoga e parallela che convergono verso la progettazione architettonica. Il disegno come strumento (rappresentazione) e come forma (design), e ugualmente molte delle questioni plastiche, sono comuni alla pittura e all’architettura, tra cui: lo spazio, la luce e l’ombra, la geometria (che definisce la delineazione, i limiti delle forme, i ritmi, la scala e la proporzione), il colore, la tessitura ... Molti degli nostri atteggiamenti plastici, originari dalle concezioni plastiche surreali, espressioniste, concettuali influiscono inconsciamente o consciamente l’architettura e viceversa. Tuttavia, nonostante le «contaminazioni figurative»2 e le
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dimensioni spaziali, l’architettura è diversa dalla pittura per motivi di: dimensione dello spazio, funzionale, materiale e tecnica. Molte delle forme di influenza plastica che, dopo Deleuze3, noi chiamiamo «le forme di espressione simbolica» risultano dal desiderio formale, indipendentemente dal materiale in cui si costruiscono e dalla tecnica utilizzata, sono diverse da quelle che noi chiamiamo «le forme dal contenuto tecnico» che sono direttamente collegate al materiale e agli adeguamenti tecnici costruttivi sottoposti alla gravità e alle forze tettoniche. Tra le forme di espressione si fa riferimento alle opzioni plastiche, come per esempio: la facciata caratterizzata da linee spezzate del Padiglione di Cuba; la forma uterina del salone rosso del Centro Culturale di Vila Alva; la metafora delle corna e della luna nel tetto appeso sulla spirale e sul circolo dell’arena; la metafora della barca nella Scuola di Ílhavo; le metafore della scatola in spazi sacri; e le analogie di scale musicali per gli edifici scolastici. Dalle forme tettoniche, facciamo riferimento alla struttura di tiranti delle coperture dei padiglioni sportivi di Ílhavo e di Cuba e le ricorrenti volte in mattoni in varie opere. Il programma funzionale è il pretesto che comporta la prima ragione per l’architettura. Questo non vuol dire esattamente che la «forma segue la funzione», ma si vede nell suo utilizzo uno o diversi adattamenti. Più sono le funzioni che le forme possono ospitare - programmatiche, strutturali, bio-climatiche, economiche, estetiche ... – più, secondo noi, cresce il valore intrinseco dell’architettura. La forma è metafunzionale, dunque deve sintetizzare, rispondere contemporaneamente a più destinazioni e andare oltre. Ad esempio, quando nel progetto del padiglione sportivo di Cuba abbiamo utilizzato un doppio portico perimetrale al campo, questo tipo di scelta dispone di una duplice utilità: la funzione tettonica di trazione della struttura leggera di copertura, di ingresso dell’ illuminazione indiretta e ventilazione incrociata, in aggiunta alla
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possibilità diell’utilizzo superiore di sosta e di percorso circolare intorno ai campi da gioco; e allo stesso tempo, grazie alla presenza di una finestra orizzontale, con oltre 100 metri di lunghezza, all’altezza degli occhi, che illumina il corridoio ed inquadra la pianura della campagna circostante, creando in questo modo una suggestiva relazione tra interno ed esterno, funzione e luogo. Il Luogo è il supporto fisico al quale si adattano queste forme, in risposta alle necessità locali sotto una comprensione del territorio, della morfologia del terreno, dell’orientamento, del clima, delle risorse economiche e materiali disponibili e della cultura. Il luogo è la matrice che origina il diagramma delle forze di conformazione dell’architettura. Le forze vettoriali si manifestano con l’orientamento solare, con la topografia, con gli effetti di presenza di pre-esistenze, oltre alla geometria e la gestalt... che determinano i campi e gli schemi configuratori in cui si inseriscono le forme urbane e architettoniche. La forma dell’anfiteatro greco che si adatta alla pendenza e all’orientamento è il paradigma del rapporto tra il luogo naturale e il programma funzionale (visibilità, acustica ed ergonomia) attraverso la forma. Nonostante ciò, l’anfiteatro è anche il simbolo di un patto tra uomini e dei, il circolo incompleto (analogo alla moneta o medaglia che si taglia per fare un patto) il doppio teatro in cui la metà costruita e la metà assente rappresentano il testimone di questa unità simbólica (sym-bállein)4. Nelle proposte urbanistiche ed architettoniche per il Comune di Vidigueira, ogni progetto corrisponde ad un’interpretazione del luogo dove si inserisce, conferendo dei discorsi di continuità e di apertura nel tracciato urbano. Molte delle tipologie e delle espressioni architettoniche costituiscono interpretazioni contemporanee delle invarianti dell’ architettura e della proto urbanistica locale5. Lo spazio triangolare per la nuova Piazza, inserita all’interno di un quartiere aperto, interpreta le tipologie proto urbane locali degli spazi pubblici vuoti dei terreiros, rossios (sorta di campi e slarghi), adattati alla topografia con degli edifici pubblici, negozi e abitazioni. La progettazione dell’edificio-acquedotto per la nuova Biblioteca del comune situata in una fattoria nella periferia del paese, serve da scenario ad una nuova piazza urbana. Dall’ abbondanza d’acqua nei pozzi e nelle vasche d’irrigazione degli aranceti, è nata l’idea di progettare l’acquedotto intorno ad un cortile d’acqua con intenzioni bioclimatiche: l’acqua irriga le terrazze-giardini che nascondono tutto l’edificio con vegetazione e allo stesso tempo migliora l’inerzia termica dell’edificio; dalle pareti appese della galleria intorno al cortile scorre una cortina d’acqua che assicura un raffrescamento naturale durante l’estate. Il ciclo dell’acqua è realizzato
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a partire dall’uso dei pozzi esistenti. La presenza e il rumore dell’acqua si associa all’ombra delle gallerie e alla sensazione di fresco rafforzata dai muri ventilati. Il comfort, parola spesso trascurata nel vocabolario architettonico, acquista un senso físico alleato alle sensazioni e a un senso estetico. Le questioni bioclimatiche, il riciclaggio dei materiali, dell’acqua e risparmio di energia sono oggi alcune delle nostre principali preoccupazioni nella progettazione che cercano di armonizzare il comfort, la sostenibilità e l’estetica. I giardini terrazzati e fiori rampicanti permettono in tal modo che l’intero edificio ‘sparisca’ nella vegetazione che lo coprirà. Di fronte all’accumulazione consumistica e all’agorofobia della società di oggi, l’«Elogio del Vuoto»6, è un’alternativa e uno dei principali argomenti della progettazione architettonica e del progetto urbano per gli spazi pubblici che consentono di far fronte a questa tendenza agorofobica di tutto compilare e costruire. Il vuoto torna ad assumere il senso dell’abitare lo spazio architettonico e pubblico urbano. A livello della progettazione, è importante svuotare le immagini cliché delle riviste imposte dal star system, e rispondere in modo essenziale, secondo le questioni particolari che ogni programma, che ogni luogo e che le opzioni dei materiali e delle tecniche apportano. In termini di intervento, si tratta di valutare la natura di fronte all’artificio, di ripristinare il rapporto tra figura-fondo che si sta perdendo per l’invasione totale del territorio attraverso la suburbanità prodotta dalla città continua e la distruzione del paesaggio. L’architettura cerca il vuoto metafunzionale: il doppio spazio triangolare dell’ edificio della banca; le tipologie di cortile delle diverse scuole: EB23 di Ílhavo, Scuola di Lagos, Scuola di Vidigueira, le case cortile (Monte Tismão) e nello spazio-luce degli edifici sacri delle chiese e cappelle (di Marmelar, Albergaria e Vila de Frades). Anche l’elogio del vuoto è il principio responsabile per la progettazione delle piazze urbane a Vidigueira: compresa la sistemazione della Piazza Vasco da Gama, dove le operazioni di sottrazione e demolizione danno origine al grande vuoto urbano fiancheggiato da aranceti e segnato dal disegno di pavimentazione in “Mar Português” (sanpietrini) e di un lungo specchio d’acqua che riflette e coordina gli assi di due edifici storici, sul quale galleggia una grande sfera in marmo raffigurante il globo terrestre e il viaggio alla scoperta del cammino marittimo in India. Il vuoto è anche il modo di espogliazione formale, in cui l’economia di mezzi e risorse materiali è associata alla intenzionalità estetica. Il vuoto, ugualmente associato alla modellazione luce/ombra è uno dei principi estetico-simbolici di drammaticità degli spazi che includono l’architettura profana
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e sacra. I diversi meccanismi di entrata della luce: zenitale, parietale, frontale, indiretta filtrata ... svolgono contemporaneamente diverse funzioni pragmatiche, fini estetici e simbolici. Nella sua condizione di forma simbolica, la luce enigmatica nasconde la sua origine nel zimborio circolare che produce una sensazione di sospensione della volta, nella Chiesa di Albergaria, evocando una manifestazione epifanica. La gelosia di cemento, nel portico d’ingresso dell’edificio del Centro Cultural di Vila Alva, o la griglia in legno nell’edificio dei Servizi Tecnici Municipali, o gli elementi in ceramica per l’edilizia sociale, ripropongono ancora nell’attualità, la tradizione del Mediterraneo del fresco e dell’ombra, filtrando l’aria e la luce. Il tema delle gelosie adottate dalla architettura coloniale portoghese in Brasile influenzerebbe intenzionalmente l’adattamento tropicale dell’architettura moderna di Lucio Costa, Niemeyer, Lélé... con l’applicazione del Cobogó di cemento e il ritorno culturale sull’architettura portoghese in Portogallo e nelle colonie tropicali degli anni 50 e 60 sotto l’influenza dell’architettura brasiliana. Il tema delle murature ventilate riappare sulla nostra ricerca, «Petrus - La Pietra Residuale», dalla creazione di moduli in pietra laminare pieno/vuoto, sotto la base concettuale degli esagrammi dell’I Ching, per la costruzione di pareti ventilate e pareti vegetale. Soltanto il 5% al 15% della pietra estratta da cave è utilizzata per scopi ornamentali nella costruzione e la rimanente è brescicata o abbandonata nel paesaggio intorno alle cave. L’uso della pietra residuale per la costruzione di moduli laminari e per l’applicazione di muri portanti è costituito il punto di partenza di alcuni progetti più recenti. Il ritorno alla pietra strutturale approffitando di grande masse ciclopiche, - in un ritorno alle categorie tettoniche e stereotomiche di Gottfried Semper7 - è stata realizzata nel progetto della Cantina Cooperativa di Vidigueira. La scatola esterna dell’edificio è caratterizzata dalla espressione grottesca delle stereotomie salienti di grandi pietre residue; mentre all’interno del cortile -progettato da un pozzo esistente – in esso vi domina la trasparenza dei pannelli in vetro di grandi dimensioni e delle gelosie di pietra laminare sotto una concezione economica di approffitamento del residuale e di concezione bioclimatica di sviluppo sostenibile. Progettare per i centri storici è una sfida che mette in confronto l’antico e il moderno. Il progetto di concorso per il campus della Bezalel Academy of Arts and Design verso il centro storico di Gerusalemme, si basava sulla presenza del vuoto urbano tra la cattedrale ortodossa, il paesaggio e la proposta di due edifici cubici
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in gelosie di pietra che galleggiano sulla piazza belvedere presentandosi davanti ai cortili di concezionebioclimatica. Lo Spazio, la luce e l’acqua sono gli elementi fondamentali della trasfigurazione nella SPA della conversione del Palazzo della Torre di Belém a Lisbona (XVI-XVIII secolo) in Hotel de Charme. La luce zenitale effonde dal rudere romano scoperto e si riflette nelle sale successive di acqua a diverse scale, cercando di creare un’atmosfera abbagliante come nella tradizione mediterranea dei bagni romani e arabi. Lo «Spazio-Limite»8 che disegnamo nell’atto della concezione di ciascun progetto, con tutti i livelli apparenti, emergenti e latenti è lo spazio che costruiamo e che ci conforma l’ambiente, lo sguardo e la vita, così l’architettura e il progetto urbano non possono essere dissociati dai cinque principi che contribuiscono al nostro concetto di Progetto Integrato: la poetica, l’estetica, la tecnica, la critica e l’etica.
Cfr. Jorge Cruz Pinto, «A Caixa, metáfora e arquitectura», Ed. ACD+FAUTL, Lisboa, 2007, Cap.V. Cfr. Simón Marchán Fiz, «Contaminaciones Figurativas», Alianza Forma, Madrid, 1986. 3 Gilles Deleuze e Felix Guattari, «Mil Mesetas, Capitalismo y Esquizofrenia», Valencia: Pre-Textos, 1997, pp. 47-69. 4 Cfr. Eugenio Trías, «La Edad del Espiritu,Ediciones», Destino, Barcelona, 1994, L.1. 5 Cfr. Jorge Cruz Pinto, «Arquitectura da Planície, Cinco situações de Montes no Alentejo», Ed. ACD+FAUTL, Lisboa, 2007. 6 Jorge Cruz Pinto, «Elogio del Vuoto», edizione in corso. 7 Cfr. Gottfried Semper, «The four elements of architecture and other writings, prospectus style in the technical and Tectonic arts or practical Aestetics, Style: Prolegomenon», New York: Cambridge University Press, 1989, pp.174-214. 7 Cfr. Jorge Cruz Pinto, «O Espaço-Limite, produção e recepção em arquitectura», Ed. ACD+FAUTL, Lisboa, 2007. 1
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La progettazione
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Icosaedro pieno-vuoto m 4.00 x 1.50 pittura dell’autore
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Categorie dello Spazio Limite 2006 m 1.20 x 1.20 pittura dell’autore
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La Camera vuoto polittico 2001 cm 162 x 100 pittura dell’autore
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Padiglione Sportivo, Cuba
Centro Culturale, Vila Alva
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Centro Culturale, Vila Alva
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Praรงa de Touros e Museo Etnografico, Cuba
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Scuola, Vidigueira
Biblioteca Municipale, Vidigueira
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FRANCESCO SCARINGI
Passaggi sulla città
Ho voluto raccogliere in modo più o meno sistematico ed ordinato il materiale da me utilizzato durante il workshop e i vari incontri: lo sguardo sulla città contemporanea rivolto da alcuni scrittori, pensatori ed architetti, le cui riflessioni sono state importanti nella ideazione del progetto Arte in Transito. Paesaggio Urbano e Arte Contemporanea, che ha trovato nel workshop con Franco Purini un momento molto importante della sua realizzazione. Il percorso è ancora aperto e altro ancora bisognerebbe prendere in considerazione per una efficace ed originale sintesi. Comunque, l’ordine dato porta ad una conclusione pur se provvisoria.
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La città moderna. Atmosfere Nel ritornare nella capitale di Kakania, Ulrich, il protagonista de “L’Uomo Senza Qualità” di Robert Musil, dice: “Siamo noi, invece, in balia delle cose... ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, come se le quattro pareti (della casa) stessero ferme, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi a loro come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sappiamo verso quale meta. E per di più si vorrebbe possibilmente far parte delle forze che menano il treno del tempo”.1
La stessa città in cui si muove, con ironia, Ulrich, Vienna, appare costituita da
“irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose ed eventi, e frammezzo punti di silenzio abissali, da rotaie e terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi, e nell’insieme somiglierà ad una vescica ribollente posta in un recipiente di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche”2.
Lo scenario esterno nel quale ci si muove muta impercettibilmente i confini. Per molti, d’improvviso, il paesaggio intorno assume un’aria sospetta, intimorisce nonostante la calma apparente. A costoro il mondo sembra ingrigire e scomparire allo sguardo non riuscendo più a scorgere le differenze: le forme, i suoni, le voci e gesti sembrano perdere i contorni, il profilo, il limite: ci si sente spaesati. L’esistere si avvolge di “tonalità affettive” che man mano vengono definite noia, paura, angoscia del nulla.
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I passi citati narrano di una lenta ed inesorabile trasformazione nel paesaggio esteriore ed interiore. La città muta i suoi contorni e l’anima sente in sé una strana inquietudine. Certamente Musil avverte il crollo di un mondo (il vecchio mondo austroungarico) ma il sentimento che si impossessa del protagonista lo rende estraneo a se stesso, è preso da ciò che Freud e altri indicheranno come Unheimlichkeit (tradotto in italiano perturbante). Esso assume il significato sia di qualcosa di famigliare e nello stesso tempo non famigliare, sino ad esprimere l’estraniamento o il sentimento di angoscia che si prova di fronte a ciò che ti appare altro e nello stesso tempo esercita una sorta di attrazione. Un sentimento ambivalente che emerge di fronte a qualcosa che porta in sé una doppiezza che non può essere riportato a composizione. La città moderna sembra perdere l’idea della fortezza nella quale rinchiudersi e porre limite a ciò che è fuori di essa. Nello stesso tempo, le sue mura diventano sempre più porose e i confini indefiniti, le dimensioni incalcolabili. Diventa difficile poter riportare, pur in una logica utopica, ciò che appare come indefinibile per la sua “complessità” a qualcosa di definibile e chiaramente rappresentabile. Per alcuni la città moderna diventerà il simbolo della decadenza occidentale (Jünger), per altri (come i futuristi) il vitalismo del progresso, per altri il luogo dove sperimentare nuove dimensioni dell’esistenza, del pensiero e dell’estetica3. Ora, fuori dalla metafora letteraria e filosofica, bisogna prendere atto che la città ha subito ulteriori modificazioni e che diverse questioni rendono difficoltoso il parlare della città contemporanea (postindustriale). Le prospettive metodologiche delle varie discipline, la differenza dei punti di vista narratavi sottolineano l’impossibilità a trovare una forma rappresentativa della metropoli. I percorsi sono molteplici e vanno dagli studi dei geografi degli anni ottanta, che hanno parlato di città diffusa4 o all’attenzione a fenomeni antropologici e sociologici di perdita dell’identità dell’individuo nella metropoli, che trova negli studi di Marc Augé un punto di riferimento5. Si è aperto, da parte di sociologi architetti e urbanisti, un fronte critico sui metodi e gli strumenti del progetto modernista, cercando, in prospettive multidisciplinari, di poter ridefinire il modello di crescita della città6. Per Purini bisogna passare a forme di rimodellizzazione totale della città, facendosi carico delle profonde trasformazioni della società in termini individualistici e di scollamento di forme più classiche di comunità nella città d’eguali. Città che superando il modello “egocentrico” del grattacielo si estendono in orizzontale dise-
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gnando (secondo nuove utopie?) città sterminate in cui l’interno delle case (aperto all’esterno dalla tecnologie) sono dimensionate in modo funzionale agli individui che possono ritrovare momenti collettivi in edifici costruiti a tale proposito. Per un esame di queste trasformazioni, in primis, il nostro sguardo, dopo aver rievocato una discussione passata, ma ancora cogente, non può che rivolgersi a due pensatori di rilievo quali Simmel e Benjamin, che al sorgere del novecento hanno guardato, con originale e particolare attenzione alla nascente metropoli elaborando riflessioni, termini e categorie che ancora oggi risultano utili. La Parigi di fine 800, città del flâneur, rappresenta una costante nel racconto della città postmoderna, soprattutto attraverso la lente e il mosaico dei Passegen-Werk di Benjamin7. Simmel tra vita e intelletto Il pensiero di Simmel, articolato e complesso, rappresenta ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per molte delle tematiche da lui individuate ed analizzate nel tratteggiare il profilo della modernità e dell’uomo contemporaneo nel suo sviluppo individuale e relazionale in seno alla società.8 Per Simmel la metropoli moderna favorisce quelli che, secondo lui, sono processi d’intellettualizzazione della vita. La metropoli conduce ad una intensificazione della vita nervosa per la quantità e la molteplicità degli stimoli a cui l’individuo è sottoposto, per l’accumularsi di immagini cangianti, i bruschi contrasti sensoriali, per le discontinuità e le fratture delle situazioni di vita, per la diversità dei quartieri, la molteplicità di stili e condizioni di vita. Tale intensificazione suscita nell’individuo una sorta di difesa sviluppando maggiormente l’intelletto e restringendo lo spazio del sentimento, contrariamente a come avviene nella vita di provincia, basata sulla ripetizione di abitudini ininterrotte, immersa in un ambiente contornato da immagini ed esperienze costanti e inalterate. La vita di città espone ad eterogenee impressioni esteriore ed interiori che generano continue modificazioni individuali. Il continuo mutamento sradica l’individuo dalla sua stabilità e certezza. Egli non riesce che a stabilire legami di “circostanza”, formali in base alle cerchie sociali, lavorative o del tempo libero che si attraversano, i quali non si solidificano, poiché l’individuo è privo del riferimento alla tradizione, ad uno spazio culturale comune. La metropoli, comunque, è la sede dell’economia monetaria e la vita al suo interno
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ne manifesta il suo predominio sull’intera esistenza. Sussiste una corrispondenza tra l’economia monetaria e il carattere intellettualistico della metropoli. Nella città si realizza la più articolata divisione del lavoro. Ogni settore a sua volta incrementa vari specialismi. Le prestazioni individuali si particolarizzano per trovare fonti di guadagno non ancora esaurite. Da una parte aumentano fenomeni di standardizzazione nei valori culturali, negli stili di vita e di consumo, contemporaneamente dall’altra fenomeni di differenze, eccentricità e stravaganza, per uscire fuori dal grigiore complessivo o per essere notato all’interno contesti particolari. Il soggetto della metropoli è il Blasé, che ne assomma su di sé alcune caratteristiche fondamentali9. La stessa socializzazione nella metropoli avviene tramite rapporti formalizzati o unicamente economici (o mercificati). Il legame e il controllo sociale diminuiscono lasciando maggior spazio alla libertà dell’individuo, che trova, però, sempre di più difficoltà a perimetrare la propria identità e a tratteggiare autentici orizzonti di senso e felicità. Simmel, pur se all’inizio del novecento, riesce a cogliere alcune questioni di estrema importanze rispetto a ciò che oggi possono essere considerati fenomeni della globalizzazione. L’esistenza e gli effetti della metropoli si espandono al di là dei suoi concreti confini e oltre la sua immediatezza. Le relazioni economiche, la vita interiore della metropoli (la cultura, le mode, gli stili), l’immagine della metropoli stessa si allargano in onde concentriche e secondo una progressione accelerata, trascendendo le frontiere fisiche: territori, persone, relazioni. Benjamin e il tempo del moderno Per Benjamin bisogna scrollandosi di dosso quelle illusioni, che hanno inteso il cammino della civiltà come una marcia trionfale del progresso umano e del mondo. Bisogna “spazzolare la storia contropelo”, accostandosi al passato come possibilità profetica del futuro10. Benjamin interroga le testimonianze o i segni più eterogenei e talvolta sconcertanti per realizzare i suoi percorsi di riflessione da cui emergono punti di vista insoliti rispetto alla ufficialità del pensiero. Sotto tale profilo, il più caratteristico e suggestivo saggio di Benjamin è l’incompiuta opera su Parigi come “capitale del XIX secolo”, nella quale il pensatore ha cercato di afferrare il senso di un’intera epoca storica tramite la poesia di Baudelaire e il sovrainvestimento di costui sulla città e
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la vita della metropoli parigina, individuando le nuove forme psicologiche e antropologiche che la caratterizzano (il “flaneur”11, il “dandy”, la prostituta) e l’analisi delle nuove forme della valorizzazione e produzione delle merci, che acquistano valore simbolico. In Benjamin la ricerca sulla metropoli implica che lo sguardo deve essere seguito da un pensiero che si rispecchia nella complessa forma della città. Non è più possibile avere una visione unitaria della metropoli, che appare come un labirinto, di cui si possono avere infinite prospettive secondo i tratti che si percorrono. Essa è dispersione spaziale e temporale, che modifica profondamente anche i piani esistenziali degli individui che la transitano e la vivono12. Nei Passages13 Benjamin “assembla” citazioni su citazioni, alternate da frammenti di pensiero, perfettamente complete nella loro individualità ma assolutamente non irrelate tra loro, grazie ai sottintesi, ai richiami impliciti ed espliciti che costruiscono costellazioni di sensi e significati, in un processo di continua costruzione e decostruzione14. Scrive Benjamin a proposito dei Passages: “questo lavoro deve sviluppare al massimo l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa all’arte del montaggio”15, come se per Benjamin la rotta può essere trovata solo nella deviazione. Vi è un sottile filo che lega Benjamin a Baudelaire, il quale ne “Lo spleen de Paris” nella presentazione del testo al suo amico, cui è dedicato il libro, lo avverte di trovarsi di fronte ad una strana opera16, che per usare una terminologia attuale, si presenta come una sorta di ipertesto che narra del peregrinare di un soggetto assente e vagante. Chi legge vaga all’interno del testo, non esiste una linea narrativa precostituita. Il lettore attivamente si costruisce un percorso avventurandosi per strade non sempre dritte e sicure, senza una guida, l’artista è egli stesso incerto ed insicuro come lo è il lettore. Entrambi giocano le mille “possibilità” date dalla “confusione” delle pagine, così come chi vaga all’interno della città vive i mille percorsi che si presentano. Benjamin in “Infanzia berlinese”, nel paragrafo su Tiegarten dice come l’orientarsi all’interno della città non ha senso. La città si offre come il luogo dello spaesamento17. Il suo abitante vive l’ambiguità di esserne “proprietario” e straniero al contempo. Vive nei suoi interstizi, ove trova una certa intimità, ma può vagare in essa, avendone una percezione frantumata e sentirsi straniero, o aprirsi alle prospettive che volta per volta possono emergere dalle combinazioni prismatiche che essa offre. La moderna città è priva di coerenza stilistica, sussistono in essa edifici ed opere di
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periodi e stili diversi o opposti tra loro. La dimensione storica, nella sua diacronicità, è annullata in favore della simultaneità, e la molteplicità degli stili si presenta come unità di differenze. La metropoli è un organismo complesso e stratiforme e il suo abitante non ne è un passivo fruitore, lo sguardo attivo costruisce il paesaggio metropolitano, in un’opera incessante di sovrapposizioni individuali e collettive. Perdendosi l’idea di una estetica classica si pone, per dirla con Nietzsche, il problema del “grande stile”18. I passages e il flâneur diventano per Benjamin elementi caratterizzanti la città moderna. L’uno come luogo della vita del cittadino borghese alle prese con la nuova dimensione esistenziale che la metropoli offre, anche negli aspetti commerciali e comunicativi, l’altro, come già in Poe e in Baudelaire, è “l’intellettuale” critico della vita metropolitana (senza per questo stabilirsi fuori da essa, anzi ricercandone tutti i risvolti diurni e notturni). I passages, luoghi che nel corso del tempo sono diventati gallerie commerciali, e nel “loro arredamento l’arte entra al servizio del commerciante”19, sono quegli interstizi, nei quali il borghese parigino passeggia. Essi si manifestano come una città in miniatura, un concentrato della metropoli. Lo spazio è in funzione della commercializzazione, la comunicazione (aprendo all’epoca dei simulacri), ne conforma la struttura. In quanto luoghi di attraversamento convertono il rapporto tra interno ed esterno, intimo ed estraneo. Il borghese parigino li considera il proprio salotto all’aperto20. L’altro frequentatore dei passages è il flâneur21, il quale con la sua originale personalità non si confonde con i clienti e la merce dei magazzini. I passages non hanno una forma stabilita, essa muta in continuazione, così come muta la dimensione di vita tra il giorno e la notte ambigua e perturbante. Il flâneur trascorre il suo tempo a guardare i tipi dei passanti, per magari inseguirne uno e vagare con lui giorno e notte negli anfratti della città insidiata dai pericoli per avventure “demoniache”22. La realtà è investita da un’attività soggettiva che la reinterpreta, senza un fine stabilito, in balia di un gioco soggettivo che si lascia sedurre dal caso, come occasione possibile che vi si offre. Benjamin individua altri luoghi che caratterizzano lo spirito della città moderna: il diorama e “l’esposizione universale”23. Con essi si vive l’esperienza della deterritorializzazione, della simultaneità temporale e della contiguità spaziale. Le nuove architetture, in vetro e acciaio, che diventeranno emblema della città contemporanea, sono contenitori indifferenti per esporre merci o culture e territori altri, dando sfogo da una parte ad una esotica immaginazione, quale fuga dall’an-
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gusta vita metropolitana, dall’altra definendo una più marcata identità occidentale in contrasto a ciò che poteva apparire pericolosamente altro. Si è mostrato l’aspetto più pacifico dello spazio pubblico, vissuto, come si è visto, in una dimensione privata ed intima. Ce n’è un altro dal volto più inquietante, allorché si ha a che fare con le rivolte e le rivoluzioni. Benjamn si riferisce alla macchina urbanistica di Haussmann24 che si contrappone allo sviluppo organico della città e ha la pretesa di voler disegnare i destini dei cittadini. La risposta è l’insinuarsi da parte dei cittadini negli interstizi non presi in considerazione da parte del progetto di ridefinizione urbana. Gli spazi pubblici vengono occupati secondo criteri inversi all’urbanistica imperiale. Alle costruzioni definitorie, “stabili” e monumentali si contrappongono costruzioni effimere e temporanee, carichi di nuovi significati25. I passage perderanno il loro fascino quando perderanno la loro ambiguità, quando l’oscurità notturna sarà rischiarata dall’intensa luminosità26, l’attrazione erotica e i corpi saranno distanziati da larghi e comodi marciapiedi senza più contatto e la prostituzione, perversione dell’erotismo, sarà estirpata. L’igiene trionferà con la cultura dell’aria aperta. Rispetto ad altri pensatori, quali Adorno, con il quale condivide la critica della civiltà, espressa anche dall’arte e nelle sue forme di “mercificazioni”, Benjamin ha un atteggiamento e una visione meno aristocratico-elitaria. Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37) rivede il concetto di opera, spogliandola di residui romantici (mistici ed esoterici), intesa non più come unicità e portatrice di verità27. Le nuove forme della produzione e lo sviluppo della tecnica hanno reso possibile la riproducibilità delle opere d’arte, mettendo fine all’alone di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera, ossia all’“aura” che la circonda di sacralità. L’atteggiamento di Benjamin, nei confronti di tali trasformazioni è duplice. Da una parte avverte il trionfo “del sempre uguale”, per uomini rimasti privi di saggezza (i processi di omologazione). Dall’altro intravede le potenzialità “democratiche” di allargamento della diffusione artistica all’interno di una società di massa. Nel contempo, proprio le nuove tecniche comunicative di diffusione possono aprire spazi negativi di nuove forme di oppressione sociale e politiche con tecniche di manipolazione o di uso spregiudicato delle stesse, come per i regimi totalitari. Si annida, comunque, un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente.
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La città senza forma. Liquefazioni baumaniane C’è chi sostiene dell’enorme distanza che sussiste tra le metropoli del XIX e quelle del XX-XI secolo, caratterizzata essenzialmente dal flusso informativo e dalla circolazione delle merce. In sostanza città dell’immateriale e senza luoghi (se per luoghi s’intende una sorta di identificazione degli spazi della città), dove lo spazio, vuoto ed omogeneo, più che da architetture è segnato (e modellato in modo effimero) da allestimenti, insegne, ologrammi e frammenti di prodotti industriali. Una generale perdita d’identità che richiama a forme di anonimato ed anomia sociale28. Fenomeni che compaiono proprie in quelle metropoli d’inizio novecento dove l’architettura di vetro, finalmente progettata anche in funzione della vita notturna, poteva diventare, riprendendo la definizione di Sennet (1990), ‘oggetto integro’ ‘combinazione di visibilità e isolamento’29. Di fronte alle spinte espansionistiche e centrifughe della città, l’architettura e l’urbanistica moderna mantengono un forte atteggiamento razionale per contenere all’interno della pianificazione gli elementi caotici che tendono a scompaginare l’ordine urbano nel tentativo di mantenere una dimensione umana. Nonostante la “buona volontà” i paesaggi urbani che si creano sono costituiti da periferie e quartieri senza nomi e privi di personalità. La pianificazione urbanistica si basa, comunque, ancora sull’idea di un centro, da cui tracciare (in modo radiale) le traiettorie per assemblare nuove aree urbane. Il postmoderno30, facendosi carico dell’impossibilità, di una pianificazione costrittiva dell’espansione della città, pensa in termini di nuovi punti di aggregazione simbolica, senza entrare in competizione con i centri storici. Anzi il riferimento storico serve a richiamare forme, simboli famigliari e dunque facilmente riconoscibili per attutire lo spaesamento e creare effimere identità intorno a pseudo monumenti. L’architettura sviluppatesi nella “scuola olandese” degli anni 80-90 (caratterizzatasi come supermodernismo) rompe con questo schema di sviluppo urbano e anche con la critica ad esso31. L’espansione delle città, in relazione anche alla bomba demografica, porta a creare ipermetropoli, che fanno saltare l’idea di città - centro - periferia, che si sviluppa in modo radiale. L’area urbana tende ad avvolgere il territorio come texture, ovvero un panorama artificiale, ricoperto di trame di tessuto urbano32. Se l’aspetto essenziale del modernismo in architettura veniva rilevato nell’unità di
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funzione e forma, il post moderno rompe questa unità riportando in auge forme edonistiche e decorative che erano state escluse. “Il decostruttivismo intende proprio decostruire questo vincolo, giocando anche però sull’omofonia con il ‘costruttivismo’ che teorizzava la libertà compositiva dell’architetto (quindi anche il decostruttivismo si pone come gioco di riferimento al passato, sebbene non s’interessi al linguaggio decorativo del classicismo accademico, ma al portato tecnico delle avanguardie storiche). Il supermodernismo consiste allora in un architettura non dogmatica razionale, ma neanche irrazionale, che si rapporta alle esigenze di un mondo tecnologico, digitale, ipercaptalista, globalizzato, sovrappopolato. L’architettura olandese è quindi l’architettura della modernità liquida dipinta da Z. Bauman. Infatti un’accusa che gli è stata spesso rivolta è quella di aver voluto appianare le contraddizioni insiste in questo sistema” (R. Terrosi). La città moderna33, la metropoli del duemila - affermava qualche tempo fa Z. Bauman - è il luogo dove si sperimenta il futuro, dove si misura lo sviluppo. Luogo simbolico che inghiotte e rivomita difficoltà economiche, paure sociali, fragilità politiche, della società occidentale34. Il pensiero di Bauman analizza con estremo acume i fenomeni della società postindustriale35, senza, per questo voler tracciare un netto confine con la modernità, come se la postmodernità indicasse un oltre della modernità. “La modernità non fu forse fin dall’inizio un processo di liquefazione ?”36 Attraverso questa domanda Bauman considera la storia della modernità come un lungo processo di liquefazione continua di tutti quei corpi solidi che le società avevano precedentemente costruito37. Stiamo assistendo a grandi trasformazione che mettono in crisi il modello della prima fase della modernità che lui, sulla scorta di J. Bentham e M. Foucault, chiama panottico e le strutture ad esse associate38. Si sta materializzando la società “liquida”, aprendo una nuova fase della storia umana.39 Questa fase di liquidità attraversa aspetti importanti della nostra vita sociale come ad esempio il lavoro, la comunità, l’individuo, il rapporto tra lo spazio ed il tempo, ed infine, ma non ultimo in ordine di importanza, l’idea di libertà e quella ad essa collegata di emancipazione. Vi sono alcuni elementi che specificano in modo forte la società liquida rispetto all’epoca precedente. Viene meno il “mito” del progresso, che aveva caratterizzato la modernizzazione, prospettando uno sforzo dell’umanità diretto secondo un telos di
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perfezionamento della vita individuale e collettivo nonostante i sacrifici necessari per raggiungere lo scopo. Inoltre i processi di privatizzazione e deregolamentazione dello stato mettono fine al progetto moderno di individuo-cittadino40. Si è aperto, o si sta aprendo, Secondo Bauman, un divario, che mette profondamente in crisi lo spazio pubblico, il luogo principe della politica, intesa come ridefinizione costante dei diritti e dei doveri del cittadino41. La flessibilizzazione dei rapporti sociali e la competizione tratteggiano la figura di un individuo più incerto e “precario” rispetto ai propri progetti civili ed esistenziali. Venute meno alcune “idee collettive” (Stato, capitale) in grado di prospettare un futuro progressivo, il mondo si trasforma, per l’individuo, in una distesa di opportunità che devono esser colte per guadagnare il maggior numero di soddisfazioni possibili: “Il mondo pieno di possibilità è come un buffet ricolmo di prelibatezze che fanno venire l’acquolina in bocca”42. Il capitale ha rotto definitivamente il rapporto con il lavoro. La crescente flessibilità (precarietà) che investe il mondo del lavoro sta trasformando milioni di lavoratori in liberi professionisti della flessibilità. Tali cambiamenti nel mondo del lavoro si riflettono nei rapporti tra gli individui, la cui esistenza viene modellata secondo i valori della società dei consumi, rendono l’individuo più solo e lontano da rapporti costruiti collettivamente, secondo esigenze e sentire comuni, e dalla politica, da istanze di trasformazione del sistema, proprio perché si ha una percezione incerta della vita, così piena di possibili errori, che ognuno tenta, individualmente, di porvi rimedio43. Il sociologo polacco ridefinisce il confine tra la sfera pubblica e quella privata; il fatto che i problemi privati invadano lo spazio pubblico della discussione44, non traduce queste problematiche in questioni pubbliche ma, ed è l’aspetto più importante, toglie lo spazio a tutti gli argomenti pertinenti alla sfera pubblica. Il primo risultato di tale condotta è la fine della Politica come argomento di dibattito pubblico, e di conseguenza la fine dell’agire politico del cittadino. Osservando i luoghi e i tempi, dove l’individuo moderno incontra le altre persone, è possibile tracciare una mappa delle trasformazioni avvenute45. L’incontro nelle piazze, anche per le caratteristiche architettoniche, assume una funzione non di spazio pubblico (inteso come civile), infatti esse ospitano solo il passaggio degli individui. I luoghi di consumo “stimolano l’azione ma non l’interazione”46. L’interazione tra i soggetti in questi luoghi è resa difficoltosa dal fatto che, il consumo che qui si produce, è un’attività che si espleta solo individualmente47.
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Paradossalmente sono luoghi in cui l’incontro con l’estraneo è maggiormente possibile, eppure sono sterilizzate le conseguenze di tale incontro48. Queste analisi riguardanti le forme di vita collettiva (e la critica alla politica spettacolo) e la dimensione spazio temporale pongono alcuni interrogativi critici sulla capacità da parte delle persone di negoziare tra estranei un progetto di vita in comune: “Il progetto di sfuggire all’impatto della multitonalità urbana e trovare rifugio nell’uniformità comunitaria, è autolesionistico quanto autoperpetuantesi”49. Franco Purini e la città eguale In Italia una voce interessante è quella di Franco Purini50, che nel corso degli anni ha condotto un’attenta riflessione all’interno della disciplina architettonica per comprenderne la crisi e prospettarne un futuro in cui l’idea dell’abitare torni al centro dell’architettura. Purini riconsidera l’idea del progetto, ma riconsidera anche criticamente gli esisti artistici dell’architettura, esplosi in una forma di architettura globale, nella quale scompare qualsiasi idea di tessuto urbano nel quale collocare il manufatto, il quale viene caratterizzato unicamente dalla personalità e dalla creatività dell’autore, che diventa marchio ed emblema di un prodotto il cui valore si acquista in base alla sua capacità d’ingenerare valori simbolici, comunicativi e spettacolari. Si può parlare di fine della città: “a fronte di realtà insediative che hanno superato la stessa soglia della megalopoli. La forma città, un’entità concettuale che ha sostenuto la crescita urbana negli ultimi duecentocinquanta anni, sembra definitivamente incapace di individuare narrazioni adeguate e interpretazioni progettuali conformi alla natura dei problemi da risolvere … è il totale collasso dell’idea di città come ambito di un’operatività conoscitiva e formativa, basata sui paradigmi moderni e postmoderni”51. Un termine che può esprimere l’idea della fine della città è quello di degrado, se assunto fuori dai luoghi comuni per indicare come la città si fa rovina, “diventando teatro della sua progressiva distruzione a cui seguono l’abbandono e la conseguente desolazione del paesaggio urbano. Non si tratta di riesumare l’idea romantica del sublime e del pittoresco della rovina”52. Basti pensare, per esempio, a come i centri storici smarriscono la loro originaria connotazione architettonico - urbanistica, per diventare pura scenografia di un teatro del consumo, perdendo gran parte del loro
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valore, trasformandosi in copie di se stesse. Poter dire la città risulta essere molto difficile se non impossibile, e alcune definizioni “residuali” suonano parziali, più intenzionali che effettivamente in grado di elaborare modelli veramente convincenti, ciò vale sia per coloro che interpretano secondo la dialettica tra tipologia edilizia e morfologia urbana, sia per coloro i quali “affrontano la città dal punto di vista della molteplicità, dell’esegesi estetica, dei non luoghi, delle pratiche dell’attraversamento, dell’esplorazione dei terrains vagues, dei paesaggi ibridi, di una non meglio precisata interscalarità, senza pervenire in realtà ad una lettura strutturale dei processi formativi che sono oggetto della loro indagine”53. Per quanto riguarda i sostenitori di una visione molteplice della città (Rem Koolhaas) è da sottolineare come essa “è talmente debitrice all’ipotesi di una stretta equivalenza tra realtà e mercato da cadere in un vero e proprio determinismo operativo, per il quale il progetto urbano è privato è di fatto privato di qualsiasi possibilità di porsi alternativo all’ordine attuale della città. Un’equivalenza posta come fondazione neoideologica di una costruzione disciplinare troppo aderente alle logiche commerciali, per accogliere al suo interno gli elementi di una critica autenticamente libera all’economia politica del modo di essere e di evolvere degli insediamenti contemporanei. Pensare che la realtà sia solo mercato si configura come un nuovo conformismo, in cui ogni operazione urbana trova la propria giustificazione sul piano economico prima che su quello propriamente strutturale”54. Una delle conseguenze della globalizzazione è la deterritorializzazione del mondo, che espone a dissolvenza ogni forma d’identità e della sua possibilità di nominazione. Se da una parte tale fenomeno inquieta, dall’altra parte ci sollecita a trovare nuove forme di nominazione per permettere agli uomini di comunicare tra loro e sfuggire alla logica dell’omologazione. Nella città diffusa il vero problema è l’anonimato. A ciò si reagisce con due strategie diverse. La prima è “una scrittura architettonica che sappia recuperare i segni del passato” per riconquistare un’identità perduta (senza mettere nel conto le artificiali costruzioni identitarie). L’altra, assumendo l’anonimato come semplice condizione dell’abitare contemporaneo, cerca di “trasformarla in una risorsa straordinaria per costruire una città più consapevole di sé e più bella”55. La periferia urbana, come emblema della città contemporanea, può acquisire un nome a partire non dalle astrazioni omologanti, massificanti e del consumo, ma dalla consapevolezza che questi spazi sono abitate
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da persone, che avvertono (pur se tra contraddizioni) di significare singolarmente e comunemente. L’attuale città diffusa sfugge alla forza centripeta del centro “storico” e alla sua forza evocativa. Essa è disseminata in recinti i cui confini sono le infrastrutture, che segnano parti di territori che si marcano reciprocamente o che si penetrano. È all’interno di tali geografie che compaiono più centri, con funzioni e rappresentazioni diverse. Il modello, dunque, è la rete costituita d’intrecci e di nodi che amplificano la circolazione, la comunicazione e l’interazione, i confronti e i conflitti. Forse per poter oggi descrivere cosa è la globalizzazione secondo prospettive diverse bisogna far interagire l’idea dei non luoghi e dell’atopia. “Il mondo dei non luoghi è il mondo del mercato e della nuova ideologia dello shopping, che trova in R. Koolhaas il suo più convinto profeta; il mondo dell’atopia è quello dello spazio del conflitto come messa in atto della libertà, lo spazio di neoluoghi come ambiti riconquistati di azione reale”56. Si tratta di conquistare spazi di libertà contro la virtualità del logo a favore della dissacrazione dell’aurea della merce attraverso il non acquisto, il suo rifiuto rituale. “Alla cancellazione di ogni possibilità descrittiva corrisponde la violenta riaffermazione della natura avventurosa e soprattutto misteriosa della metropoli, una natura che consente ancora l’iscrizione in essa di tragitti eversivi per mezzo dei quali pervenire a nuove narrazioni”57. Il progetto della globalizzazione prospetta scenari differenti e non è indifferente quale via si vuole percorrere. Globalizzazione e comunità La fluidità dei rapporti sociali, così come si presentano nel mondo globalizzato, e la loro individualizzazione spinge a ridefinire i progetti comunitari per controbilanciare la crescente insicurezza del mondo fluido moderno. Superati i confini identitari, statali e nazionali58, sorgono, come contraccolpo, nuovi (e vecchi) comunitarismi, nei quali l’altro-estraneo viene avvertito o identificato come pericolo fondamentale della comunità. Il fenomeno della globalizzazione ha avuto l’effetto di arroccare le identità nazionali di quegli Stati che si considerano i più forti grazie alla loro economia, rafforzando così la dicotomia “noi-loro”, “cittadini-stranieri”59. Max Weber nel secolo scorso ha affermato che una relazione sociale è definita
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“comunità” se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire poggia su una comune appartenenza , soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), degli individui che ad essa partecipano60. Zigmund Bauman, nel nostro tempo, ha invece chiarito che le identità comunitarie, che si suppongono condivise, sono in realtà i sottoprodotti di una febbrile attività di tracciamento di confini. L’aspetto paradossale che viene messo in luce riguarda il fatto che l’idea di comunità è divenuta imprescindibile dalla nozione di identità, sebbene l’una rappresenti il limite dell’altra; la nozione di identità è per definizione una concezione esclusiva mentre il concetto di comunità, avendo alla sua base eros come forza unificante, tende ad unire più membri possibili61. I neo-comunitarismi riprendono alcuni di questi aspetti ma ne invertono i termini. Di fronte al deserto che avanza si tratta d’invertire il corso della globalizzazione e costruire entità collettive che rinchiudendosi in sé e differenziandosi, relativizzandosi dagli altri possono respingere il nichilismo. Sembra che il concetto di comunità si sposi con l’appartenere ad una collettività, che in quanto tale caratterizza gli individui che ne fanno parte e che tentano di mantenere questa situazione quanto più invariabile possibile per non alterare l’ideale purezza originaria. L’identità è totale e completa e risulta impossibile uscire fuori di sé e incontrarsi con l’altro. L’altro viene riconosciuto solo se rispecchia noi stessi. In fondo è la stessa logica dei fondamentalismi o dei fanatismi (il fanatico è tautologico, ripete sempre la stessa cosa). Io sono io in quanto mi approprio di una sostanza identitaria che mi è data dalla comunità o dalla religione. Mi appartengo in quanto appartengo. Si può leggere, però, il termine comunità in modo non così apparentemente piano. Se si opera sulla parola comunità una sorta di scavo è possibile scorgere sensi nascosti e segreti, smarriti nella retorica delle chiacchiere mediatiche e politiche, ma che danno ad essa un significato ancora più “originario”. È anche evidente che il volare tracciare un significato diverso della parola significa mettere in discussione quanto si dice intorno alla comunità. Se si ritorna al termine d’origine Communitas, si può notare che esso porta dentro di sè il semantema Munus, che apre una costellazioni di significati che fanno riferimento a onus, ufficium, donum, i quali riportano ad una semantica del dovere62. “Questo insomma è il dono che si dà perché si deve dare e non si può non dare …benché generato da un beneficio precedentemente ricevuto il munus indica solo il dono che
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si dà non quello che si riceve. Esso è proiettato tutto nell’atto transitivo del dare. Non implica in nessun modo la stabilità del possesso - e tanto meno la dinamica acquisitiva del guadagno - ma perdita, sottrazione, cessione: è un ‘pegno’, un ‘tributo’, che si paga in forma obbligatoria. Il munus è l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’altro e che sollecita un’adeguata disobbligazione ... Ciò che prevale nel munus è, insomma la reciprocità, o ‘mutualità’, del dare che consegna l’uno all’altro in un impegno, e diciamo pure in un giuramento comune”63.
Possiamo legare questa idea di comunità ad un altro termine che chiarisce quanto detto, esso è: relazione. La relazione mette in luce che nel rapporto con l’altro c’è sempre una sorta di di-stanziamento64 - da se stessi e che non esiste nessuna forma d’identità sostanziale (una eterna e immobile), che l’identità sta nella relazione e che dunque non può che definirsi e ridefinirsi. Si è comunitari, paradossalmente, se vi è una comune non appartenenza. Ciò che ho detto vuole significare: spingersi oltre, forzare i confini individuali per affacciarsi sul “fuori”, dove dimora (abita) l’altro. Questa prospettiva può aiutarci, forse, a pensare e ad abitare nelle nostre città senza timore dell’incontro o dello scontro tessendo relazioni svincolate anche dal puro aspetto economico e comunicativo.
n o t e
R. Musil., L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, p. 27-28 R. Musil, op. cit., p. 6 Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, in un clima di profonde trasformazioni, che porteranno a modificare il volto del mondo si aprirono varie discussioni su alcuni termini posti in contrapposizione come tra Gemeinshaft e Gesellschaft (termini che appartengono al titolo del famoso saggio di F. Tönnies, Gemeinshaft und Gesellschaft, trad. it Comunità e società, Milano 1974), a mettere l’una di fronte all’altra l’idea della comunità rispetto a quella di società (città - metropoli), indicando nel passaggio di vita dall’una all’altra come una perdita di spessore dell’umanità e, soprattutto, di autenticità di valori e legami sociali caldi e avvolgenti. L’altra serie terminologica è caratterizzata dalla contrapposizione tra Kultur e Zivilisation o tra Kultur e Technik. Si avverte, con senso di smarrimento, la messa in discussione di un’idea di cultura come organismo (secondo un certo romanticismo) in grado di fondare identità, tradizioni e spirito nel quale riconoscersi, in contrapposizione ad una società nichilistica, nel senso di abbandono di valori unificanti a discapito di modi di vivere superficiali, impersonali e privi di spiritualità. Il termine Technik, assumerà un ruolo significativo per la nuova industrializzazione e lo spirito di tipizzazione e razionalizzazione emergenti nella società. La Tecnica diventerà sempre di più al centro di alcuni pensatori, se pur con esiti diversi, quali Jünger, Heidegger, Benjamin, Simmel, come centro della modernità, discorso che arriva sino alla contemporaneità.
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J. Gottman, Megalopolis. The urbanized Northeastern seabord of the United States, ed.it. Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, Torino, Einaudi 1970. 5 M. Augé, Non-lieux: introduction a une anthropologie de la surmodernité, Paris, Editions du Seuil, 1992, ed. it. Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano Eleuthera 1993. 6 B. Fortier, La città senza agglomerazione, in “Casabella”, 1993, n. 599, pp. 42-49. 7 Entrambi studiano la metropoli come luogo emblematico della modernità. Il primo procede, riferendosi, per alcuni aspetti, a Marx, dalle forme dell’organizzazione sociale, mentre il secondo (che cita Simmel come unico sociologo) dagli aspetti culturali e comunicativi. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, hrsg. von Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main, 1982, ed. it. I passages di Parigi, Torino, Einaudi 2000. 8 Il concetto di interazione è al centro della sociologia di Simmel. La sua visione sociologica è il tentativo di superare sia la sociologia positiva (alla Comte e alla Durkeim), che stabilisce il fatto sociale come un dato da normare in leggi universali, sia lo schema storicistico che attesta una assoluta inoggettività della società, come prodotto dello spirito. La sua posizione “fuori accademica” gli dà una maggiore libertà di atteggiamento. La sua visione filosofica e sociologica scaturisce dallo sguardo di uno “straniero” (per richiamare una tipologia sociale da lui studiata), che riesce a stabilire connessioni tra ciò che appare a prima vista distante, secondo l’intuizione di una universale interazione e compenetrazione di tutti i fenomeni. Tale intuizione si esprime nella formula - concetto “effetto di reciprocità” = azione reciproca, ossia “la realtà sociale è descrivibile come rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi” (Cavalli). Il concetto di “reciprocità” è basilare per comprendere i suoi saggi e in modo particolare la “Filosofia del denaro”(1900) e “La metropoli e la vita dello spirito”(1903), all’interno dei quali sarà articolata un’analisi delle corrispondenze e dei nessi di causazione reciproca che sussistono fra i diversi elementi della costellazione della modernità. 9 Per il Blasé il significato e il valore delle differenze sono irrilevanti. Avviene che ogni forma di valorizzazione è ricondotta ad un valore astratto ed universale, che trova il suo emblema nel denaro. 10 Come emerge con chiarezza dalla sua riflessione sullo storicismo, bisogna guardare alle “macerie” della storia per poterne ricercare la redenzione di alcuni frammenti, secondo un’idea del tempo non più avvertito come lineare e progressivo, segnato, al contrario, da rotture e discontinuità. Nella storia, infatti, non c’è un telos, un “fine” garantito. Solo recuperando e prendendo al proprio servizio la teologia e il messianesimo (una particolare forma di escatologia) sarà possibile liberarsi dalla fede in un progresso che procederebbe secondo una cieca e necessaria ratio, per cui ciò che avanza è l’autoaffermazione e il perfezionamento della storia dell’umanità che realizza la sua positiva essenza secondo una visione che richiama Hegel. 11 “è lo sguardo del flâneur, il cui modo di vivere avvolge ancora di un’aura conciliante quello futuro, sconsolante, dell’abitante della città. Il flâneur è ancora alle soglie, sia della grande città che della borghesia […]. Alle fantasmagorie dello spazio, a cui si abbandona il flâneur, corrispondono quelle del tempo, in cui si perde il giocatore”. (Walter Benjamin, La capitale del XIX secolo). 12 Questa parte trova un suo riferimento in quanto scrive Viviana Gravano nel suo interessantissimo saggio Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’arte contemporanea e il paesaggio metropolitano, Costa & Nolan, 2008, e in modo particolare la sezione dal titolo Prolegomeni alla definizione del paesaggio ‘contemporaneo’. 13 Benjamin stabilitosi a Parigi, nel settembre del 1939, allo scoppio della guerra, viene internato in un campo di lavori forzati in quanto cittadino tedesco. Tra la fine del 1939 e il maggio del 1940 scrive le Tesi sul concetto di storia, il suo ultimo lavoro e testamento spirituale. Le Tesi avrebbero dovuto essere l’introduzione del Passagen-Werk, che Benjamin non poté completare; gli abbozzi sono stati pubblicati in Italia da Einaudi, prima nel 1986 col titolo Parigi, capitale del XIX secolo e poi nel 2000 col titolo I «passages» di Parigi, a cui noi facciamo riferimento. 14 Nell’opera, L’origine del dramma barocco tedesco (1928), aveva indagato l’origine delle forme caratterizzanti l’animo moderno. Egli descrive il conflitto moderno tra l’essere e il conoscere umano che è rintracciabile nel tentativo (impossibile) di ripetere la tragedia antica nelle forme e nelle figure del dramma barocco (Trauerspiel). Il dissidio che si crea tra simbolo e allegoria è la critica dell’aspirazione classicista a riunificare la scissione originaria prodottasi nell’uomo ed espressa sia nella simbologia tecnologica (il creatore e la creatura, la caduta e la redenzione), sia in alcune coppie oppositive della tradizione occidentale (il finito e l’infinito, il sensibile e il sovrasensibile). La stessa tensione è presente nell’arte moderna. Essa, nella sua esperienza, tende al “simbolo”, come unificazione di cosa, linguaggio e significato ma si risolve in allegoria. Caratteristica della quale è una forma di dialettica priva di centro, tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la malinconia diviene, 4
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per Benjamin, il sentimento fondamentale del soggetto moderno. In essa si manifesta la decadenza della storia e dell’uomo, privo ormai di qualsivoglia forma di senso. 15 W. Benjamin, op. cit., p. 512 16 “Mio caro amico, vi invio un piccolo lavoro del quale sarebbe ingiusto dire che non ha né capo né coda, perchè, al contrario, in esso tutto è, alternativamente e reciprocamente, a un tempo capo e coda. Considerate, vi prego, quali mirabili vantaggi questa combinazione offra a noi tutti, a voi a me al lettore. Possiamo interrompere dove vogliamo, io le mie fantasie, voi il mio manoscritto, il lettore la sua lettura; non tengo infatti la volontà restia del lettore sospesa al filo interminabile di un intreccio superfluo. togliete una vertebre, e i due pezzi di questa tortuosa fantasia si ricongiungeranno senza sforzo. Spezzatela in mille frammenti, e vedrete che ciascuna potrà vivere separatamente” (Baudelair C., Lo speen di Parigi, Milano, SE, 1988, p. 11). 17 “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni” (Benjamin W., Infanzia berlinese, Torino, Einaudi, 2007, p.18). 18 In effetti Nietzsche rispetto al grande stile presenta una posizione contraddittoria. Da un lato egli celebra il grande stile quale volontà vittoriosa, forza capace di «dominare e costringere il caos», estensione dello sguardo su maggiori moltitudini e vastità» (frammento del 1888) , una prospettiva dall’ alto, gerarchica, ordinatrice e legislatrice; forza organizzante che non porta certo alla luce un senso immanente alla vita, bensì, piega il brulichio di quest’ ultima all’ imperiosa volontà di forma. D’ altra parte Nietzsche, nel medesimo frammento, esalta il grande stile per motivi opposti; lo identifica col «raffinamento dell’ organo per la percezione di molte cose piccolissime e fuggevolissime». L’ «ebbrezza e la potenza», com’ egli dice, connesse al grande stile vengono identificate non col dominio o autodominio apollineo, ma con la dispersione dionisiaca dell’ io nel fluire sensibile. La percezione di molte cose piccolissime e fuggevolissime infrange ogni unità e ogni gerarchia, emancipa i particolari da ogni totalità e conferisce ad ognuno di essi, sciolto da ogni nesso, una selvaggia autonomia, gli «eguali diritti per tutti» (Claudio Magris). 19 W. Benjamin, op. cit., p. 85 20 La dimensione intima del salotto casalingo viene proiettata nello spazio aperto dei passages. La sterminata metropoli è “ridotta” alla paradossale intimità aperta dei passage. Sono i luoghi del sogno, delle relazioni sociali, come una propria dimora senza divisioni di soglie. 21 Si tratta di quella figura messa in gioco da Poe e da Baudelaire e scolpita in forma indimenticabile nelle pagine “baudelairiane” di Walter Benjamin. Quel personaggio che attraversava con aria febbrile e con foga sacrale le strade, i quartieri, i “passages” e i nuovi boulevards parigini. 22 Quando insegue il passante, egli mette in atto un gioco di scambi, una sorta di perdita di sé per assumere le sembianze apparenti di un altro, in un gioco interpretativo dell’altrui motivazione del percorso esperito. 23 Il diorama è un edificio sulle cui pareti vengono proiettati habitat e mondi culturali lontani. All’interno di essi l’imperiale cittadino può meravigliarsi e intimorirsi delle differenze che lo circondano, senza però eccessivi traumi. Il labile confine stabilito tra il qui e l’altrove, il senso di vertigine che ciò causa è ben trattenuto. I mondi rappresentati sono quelli coloniali, che da una parte esprimono l’età dell’oro, della pace e della tranquillità di mondi esotici e primitivi, dall’altra l’inquietante diversità che è ricondotta al controllo del presente, di un “qui”, sottoposto ai rapidi e vertiginosi cambiamenti, che cerca di definirsi rispetto ad un’improbabile alterità. Ne L’exspositione universelle del 1867 fa notare come passeggiare all’interno di quel palazzo circolare è come fare il giro del mondo. Nell’esposizione viene rappresentato tutto e tutti i popoli della terra, amici e nemici. In essa è ricostruito un mondo di pace sotto lo sguardo attento di un occidente ormai spirito del mondo. Tale spirito trova una sua identificazione nel valore della merce, che indica lo sviluppo del capitalismo moderno. 24 Haussmann impone una coraggiosa politica demolitoria per ridefinire il nuovo volto della città. Sorge una reazione di massa, una sovversione metropolitana con moti nelle strade, con la riappropriazione degli interstizi cittadini e l’autocostruzione. L’emblema di questa reazione diventano le barricate, che di fronte alla forza imperialista sorgono come resistenza e come rivendicazione di quella individualità, che la visione imperialistica vuole annullare. 25 Per Benjamin le barricate del ‘71 rappresentano le “forme architettoniche” che aprono lo spazio della libertà. 26 Nei Passagenwerk fra gli appunti sui Sistemi di illuminazione Benjamin annota: “I Passages splendevano nella Parigi dell’Impero come grotte fatate. Nel 1817 chi entrava nel Passage des Panoramas era sorpreso di fianco dal canto di sirena della luce a gas e adescato di fronte
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da odalische in forma di lampade a olio. L’improvviso accendersi della luce elettrica cancellò l’illibato chiarore di questi passaggi, che improvvisamente divennero difficili da trovare, esercitarono una magia nera delle porte, come se da cieche finestre guardassero dentro di sé”. 27 L’arte vive i processi di secolarizzazione indotti dalla tecnica in modo particolare. Essa va intesa e studiata come prodotto di uomini per altri uomini, all’interno di circuiti comunicativi, produttivi e nelle particolarità percettive del fruitore. 28 La città senza luoghi: individuo, conflitto, consumo nella metropoli, scritti di Alessandra Castellani ... et al., a cura di Massimo Ilardi, Genova 1997. 29 Cacciari in Metropolis sosteneva che in Simmel il problema della metropoli, in termini filosofici (neokantiani), evidenziava il conflitto tra l’esistenza moderna e le sue forme. Dal saggio del 1903 di Simmel ai frammenti su Parigi di Benjamin per Cacciari “c’è tutta l’avanguardia e la crisi”. M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma Officina 1973. 30 Il postmodernismo architettonico ha preceduto ed ispirato l’opera del filosofo Lyotard che però a sua volta non ha mancato d’ispirare gli architetti. L’architettura decostruttivista fa invece riferimento alle teorie testuali di Deridda sebbene essa giochi anche con il riferimento al costruttivismo russo, mentre sembra, secondo Jormokka, che i nostri olandesi infine siano ispirati più che ad altro a Deleuze e alla Cyber – cultura e forse a Bergson. Non poca importanza ha avuto in questo tipo di architettura la dimensione digitale nella progettazione, e agli effetti di esso e della rete nella vita quotidiana e per alcuni l’estetica del postuman (Un studio - van Berkel e Bos). 31 Si veda a tale proposito l’articolo di Roberto Terrosi, Architettura atopica. L’esperienza dell’architettura olandese contemporanea, contenuto nella rivista Ágalma n.13, marzo 2007, Meltemi editore. L’autore prende in considerazioni due testi Undutchable (Sanguigni 2006), che illustra attraverso un cospicuo numero di schede il lavoro di vari studi di architettura che hanno dato vita alla scena olandese, e Olandesi volanti, scritto dal finlandese Kary Jormakka, che propone un’acuta e forse sin troppo coerente interpretazione teorico-filosofico di questo fenomeno. 32 “In questa situazione il tessuto urbano a cui fanno riferimento gli studi olandesi è deleuzianamente deterritorializzato. Le soluzioni previste dal suo interno sono costitutivamente nomadi indipendentemente dal loro dinamismo formale; il nomade non si sposta da un punto di quiete a un altro e in particolare non passa da un contenitore istituzionale ad un altro, ma è un attore instabile che sembra seguire il principio d’indeterminabilità. Le sue dimore non suggeriscono la rassicurante idea del fondamento e dell’arroccamento, ma l’idea effimera della precarietà e della trasformabilità. Alle strutture grandiose succedono strutture grandissime, ma apparentemente leggere” (R. Terrosi). 33 Un’accorta esposizione del pensiero di Bauman è rintracciabile sul web nella rivista telematica Kainos - Rivista Telematica di Critica Filosofica.mht in riferimento alla recensione di Emiliano Maino (di cui qui seguiamo lo schema di esposizione) del testo Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma - Bari, Laterza. Esso propone un’analisi chiara e puntuale dei cambiamenti che stanno attraversando le nostre società all’inizio del nuovo secolo. 34 «Le grandi città sono diventate terreno di discarica di problemi prodotti a livello globale. In particolare sono diventate campi di battaglia dove oggi si scontrano i valori della sicurezza e quelli della libertà, l’amore per il rinnovamento e la fobia dei cambiamenti, l’amore per il melting-pot e la fobia delle mescolanze, i processi di segregazione e quelli di integrazione. Tutto ciò ne fa dei veri laboratori locali, dove vengono sperimentate e testate le capacità di convivere, su un pianeta globalizzato, con le differenze e con gli stranieri. Per cui le grandi città sono come scuole dove queste arti s’imparano». Dalla Stampa 26.03.2004 - Metropoli: futuro sotto assedio. 35 Si potrebbe aprire qui la discussione tra modernità e postmodernità, che rinviamo in altra sede. Diamo solo alcune indicazioni. 36 Ivi p.7. 37 Se consideriamo la modernità attraverso lo sguardo rivoltole da autori quali M. Weber, A.De Tocqueville scopriamo infatti che uno dei compiti assegnati alla modernità fu quello di “fondere i corpi solidi” per costruire una società più stabile e duratura; i primi corpi solidi ad essere liquefatti furono in generale gli obblighi etici e religiosi che caratterizzavano e tenevano unite invece le società pre-moderne. In questa fase di liquefazione l’unico rapporto sociale che resistette al cambiamento fu il rapporto di classe e dunque, da questo momento in poi, un nuovo tipo di razionalità prese la guida della società, e ciò lo possiamo descrivere marxianamente come il primato dell’economia intesa come razionalità che governa tutte le altre vicende umane e sociali. 38 L’immagine che più di ogni altra esemplifica la prima fase della modernità è, secondo l’autore, il Panopticon, questo luogo inventato da J. Bentham e ripreso da M.Foucault, nel quale le persone vivono costantemente controllate e sorvegliate dal potere, in questa sorta di tubo
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di vetro trasparente dove ai controllori, invisibili, tutto è visibile: “ Il dominio del tempo era l’arma segreta del potere dei leader”. La fabbrica fordista con la sua standardizzazione del tempo di lavoro nella catena di montaggio ne è una rappresentazione e una realizzazione. Questo modello di relazione tra controllori e controllati stabiliva funzioni, gerarchia e ordini interdipendenti all’interno dello spazio della produzione rappresentato dalla fabbrica e dalla società ad essa correlata, così come si è sviluppata per la maggior parte del novecento. 39 Qualcuno ha voluto parlare di fine della storia o di fine della modernità, Bauman avverte che, nonostante questa fase può essere definita come post-panottica, essa tuttavia esibisce ancora il tratto caratteristico della modernità, ossia la sempre inarrestabile spinta alla modernizzazione. L’idea di libertà che il concetto di emancipazione tiene legata a sé, viene analizzato dall’autore partendo da un pensatore, H. Marcuse, e da una scuola di pensiero, quella di Francoforte, che nel dopoguerra europeo misero al centro delle loro ricerche critiche il rapporto tra il cittadino e la società, e dunque il rapporto tra libertà e oppressione. L’obiettivo che tale filosofia critica si poneva era la liberazione dell’individuo da tutte quelle routine e forme standard di vita che la società industriale poneva come base del contratto sociale; l’emancipazione individuale, secondo la teoria critica, passa attraverso un radicale ripensamento del rapporto tra individuo, società e stato, quest’ultimo considerato quale guida del percorso emancipativo. Una concezione del genere era, però, endemicamente esposta al rischio, attuato, del totalitarismo, questo spettro della modernità solida, che viene ben esemplificato, secondo l’autore, dal Panopticon di Bentham/ Foucault o dal libro 1984 di G. Orwell. L’idea di Z. Bauman, in merito al valore e all’attualità della teoria critica così esposta, è che questa concezione, nella modernità liquida, assomiglia alla metafora del “modello camping”: nei camping, infatti, qualora qualcosa non funzioni, il visitatore può lamentarsi con la direzione e al limite estremo può andar via dal camping. Ma assolutamente non avverrà mai che il visitatore sostituisca la direzione stessa nella gestione del campeggio. La metafora del camping esemplifica, secondo l’autore, la fine della teoria critica così come l’abbiamo conosciuta attraverso la scuola di Francoforte: nella modernità solida la società era considerata come una casa comune, nella quale bisognava solamente istituzionalizzare le norme ed i comportamenti dei cittadini; la metafora del camping chiarisce invece che la società, intesa come casa comune è ormai tramontata all’orizzonte nella modernità liquida. Scrive l’autore: “Le cause del cambiamento sono più profonde, radicate nella profonda trasformazione dello spazio pubblico” (Zygmunt Bauman, Op.cit, p.XIV). 40 La contraddizione tra le aspettative dell’individuo e quelle del cittadino, si evidenzia nella differenza tra individuo de jure, come portatore di diritti-doveri, e l’individuo de facto, che ha capacità di autoaffermazione. 41 È ancora possibile una teoria critica che tematizzi la liberazione degli uomini e delle donne? Bauman risponde chiarendo che la teoria critica classica è morta e sepolta in quanto, i soggetti a cui era rivolta, come il cittadino, lo stato, si sono ormai sciolti nella fluidità della nostra epoca. Il punto importante che l’autore mette in chiaro è che invece il progetto emancipativo non si è disciolto, e dunque, per rilanciarlo, abbiamo bisogno di una nuova prospettiva, all’interno della quale inserire la teoria critica: tale prospettiva è, in epoca fluida, colmare il più possibile il divario tra l’individuo de jure e l’individuo de facto: “Oggi è la sfera pubblica a dover essere difesa dall’invasione del privato, e ciò paradossalmente, al fine di accrescere, non di ridurre, la libertà individuale” (Zygmunt Bauman, Op. cit., p. 48) 42 Ivi, p. 62. Il lavoro sta subendo le trasformazioni più radicali nella sua lunga storia di rapporto con il capitale. Infatti “l’avvento del capitalismo leggero e fluttuante, è caratterizzato dal disimpegno e dall’allentamento dei legami che uniscono capitale e lavoro.”(Ivi, p. 172). 43 Si complicano i processi d’individuazione, cioè di raffigurazione dell’identità, che diventa, anch’essa, più liquida. Non solo essa (su indicazione della moda) diventa una sorta di abito che s’indossa secondo le circostanze (le sfere sociali, lavorative e del tempo libero, che si frequentano), ma si caratterizza secondo le “leggi” del consumo, rivolto unicamente verso l’appagamento dei desideri. Questo genere di mercato delle identità ben si combina con i processi di flessibilità propri della modernità liquida. 44 Chi può aiutarmi a raggiungere gli obbiettivi giusti? Questa sembra essere la domanda più importante che si pone il soggetto nella modernità fluida, e le risposte a questi quesiti fondamentali per ogni individuo vengono portate direttamente a casa dai talk-show televisivi, il cui scopo è appunto quello di risolvere i problemi privati portandoli al pubblico dibattito. Secondo l’autore, ci troviamo dinanzi ad una vera e propria colonizzazione della sfera pubblica da parte di problematiche che fino a poco tempo fa erano di pertinenza esclusiva della sfera privata. 45 Nel rapporto tra lo spazio ed il tempo, lo spazio rappresenta il lato solido e, dunque, pesante della medaglia, mentre il tempo rappresenta il lato fluido, dinamico e sempre cangiante di tale rapporto. Il tempo diventa, nella nostra epoca liquida, l’aspetto più importante dei cambiamenti in corso. Le persone frequentano i luoghi pubblici e i “non luoghi” dove si palesa una forma d’incontro tra estranei. Bauman richiama il concetto sartiano di serie.
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Ivi p. 107. Traslitterando il significato di strategia antropoemica e antropofagia, fatta da C.L. Strauss nella sua analisi dei comportamenti degli individui, l’autore polacco distingue le due categorie di spazio pubblico ma non civile; la prima categoria di spazio pubblico segue fedelmente la strategia emica, tendendo alla rapida espulsione delle persone, mentre i luoghi del consumo rispecchiano la strategia fagica, in quanto spingono ad una rapida omologazione/digestione dei consumatori. 48 Il riferimento ai luoghi richiama inevitabilmente la dimensione temporale. Il tempo è stato utilizzato come unità di misura necessaria per indicare lo spazio di percorrenza. La distanza spaziale era direttamente o inversamente proporzionale all’unità temporale. Oggi, invece spazio e tempo sono caratterizzati dall’istantaneità. Il passaggio dal capitalismo hardware (modernità pesante) a quello software, è segnato da questa novità temporale. Nel capitalismo software, il tempo considerato come istantaneità è un fattore così importante da essere paragonato allo stesso avvento del capitalismo: l’istantaneità trasforma ogni momento (di tempo) in un momento infinito, ne deriva l’idea dell’immortalità, l’illusorio sogno dell’uomo, che viene ad identificarsi con l’infinità di ogni momento. In una società in cui ha valore solo l’istante, perdono di senso come coordinate della vita di ogni individuo la dimensione del passato e del futuro, sostituite dalla filosofia del carpe diem. 49 Ivi p.118. 50 La riflessione di Purini trova una adeguata sintesi per la ricchezza di materiale contenuto (progetti e scritti dal 1966 al 2004) nel volume a cura di Margherita Petranzan e Gianfranco Neri, Franco Purini - La città eguale, per Anfione e Zeto (Collana di architettura) edito da Il Poligrafo, 2005. La selezione da noi operata dei testi di Purini riguarda, in modo particolare, gli ultimi dieci anni. Il titolo del testo si riferisce all’allestimento di Franco Purini nel padiglione italiano alla Biennale di Venezia del 2000, VII Mostra Internazionale di architettura, Less aestethics more ethics. “Il libro propone una strategia progettuale per la metropoli contemporanea basata sulla scomparsa dell’automobile e sulla riduzione del tessuto a due soli tipi edilizi. Ad un tappeto infinito di abitazioni individuali (la dimensione del single sarà sempre più diffusa) che definiscono un ambiente naturale/artificiale - derivante sia dalla “città giardino”, sia dall’ipotesi wrightiana di Broadacre City, sia, ancora, dall’attuale “città diffusa” - si contrappongono grandi manufatti destinati alla vita collettiva. Si tratta di ipercubi, concrete alternative al solipsismo autoreferenziale e narcisistico del grattacielo, che scandisce prepotentemente il territorio metropolitano. Questi contenitori colossali ospitano le funzioni politiche-amministrative, terziarie, commerciali, culturali e ricreative. Le case individuali e gli ipercubi sono serviti da linee metropolitane sopraelevate, le cui strutture portanti costituiscono anche la canalizzazione degli impianti. I testi che accompagnano i disegni e le tavole, cercano di confrontarsi con i nuovi paesaggi teorici emersi negli ultimi anni nella convinzione che, più la condizione della città contemporanea si fa complessa, conflittuale e imprevedibile nei suoi esiti, più diventa necessario che l’architetto offra alla discussione sul futuro degli insediamenti umani un contributo fatto di idee ed immagini. Idee ed immagini innovative, profondamente antiche, che devono nascere da un’energica felicità creativa, contrapposto a qualsiasi pensiero della rinuncia e della negazione”. 51 Franco Purini in Op. Cit. p. 320, La fine della città, in Riconnessioni Urbane, Officina, Roma s.d., pp. 90-95. Testo della “Conferenza magistrale” tenuta presso la Facoltà di Architettura di Buenos Aires il 5 maggio 2000. 52 Ivi p. 320. 53 Ivi p. 321. 54 Ivi p. 321. 55 Franco Purini in Op. Cit. p. 326, Nomi nuovi per la periferia, testo inedito, 2000. 56 Franco Purini in Op. Cit. p. 345, Metafisiche dell’atopia, testo inedito, 2002. 57 Ivi p. 345. 58 Nella modernità solida, l’idea di nazione era strettamente legata all’idea di stato, o più precisamente, ne rappresentava il senso e l’unità stessa. Nella nostra epoca fluida assistiamo invece al crescente divario di queste due linee una volta parallele, in quanto l’idea di nazione si sta sempre più frammentando nelle diverse comunità e lo stato, come potere costituzionale, sta lentamente e inesorabilmente abdicando le sue funzioni primarie, come dimostrano bene i processi di privatizzazione dei suoi servizi, sotto la spinta dei poteri globali, primo tra tutti il capitale, che impongono le proprie regole all’intero mondo. 59 Gli uni tutelati dal diritto, gli altri senza diritto. Gli immigrati - ha detto Saskia Sassen - non sono soggetti che esistono a partire dalla legge. Sono, di fatto, portatori di elementi parziali di legalità. Perciò, in qualche modo, la legge è la rappresentazione di una cultura che distingue gli appartenenti dai non-appartenenti, fuoriuscendo direttamente dalle matrici violente dei nostri ancestrali presupposti di 46 47
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senso; che vedono nell’hospes l’hostis; che sanciscono simbolicamente i confini di una comunità che esclude l’altro-immigrato, rendendolo invisibile. 60 M. Weber, Economia e società, Milano 1986, vol. I, p. 38. 61 Fin dall’800 l’idea di comunità ha trovato varie definizioni che in genere servivano a prospettare una sorta di decadenza per cui da una situazione precedente avvertita come positiva si passava ad una situazione, l’attuale, avvertita come negativa. Dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, dalla “Kultur” alla “Zivilisation”, sempre però da una condizione originaria di appartenenza ad una dimensione di perdita e di “alienazione” in cui i legami sociali sono persi e il mondo è diventato freddo, una gabbia di acciaio (letteratura della decadenza, tramonto dell’occidente che per moli versi hanno legato i discorsi di destra e di sinistra). 62 Il pensiero della comunità è costantemente al centro del dibattito filosofico-politico internazionale. E tuttavia, scrive Roberto Esposito in “Communitas” (Einaudi, Torino 1998), “niente è meno in vista. Niente così remoto, rimosso, rimandato a un tempo di là da venire, a un orizzonte lontano e indecifrabile...”. L’idea di comunità, in Occidente, ci è, infatti, giunta da una lunga tradizione: dal fuoco come centro della “polis” greca, in cui si trovavano lo spazio umano e quello divino, al “Pantheon” romano, fino al Cristianesimo, essa ha finito con l’identificarsi col teologico-politico in un significato semantico associato al concetto di “appartenenza”. Comunità, dunque, come ciò che appartiene a un collettivo, come “koinonia” nel senso di “communio” od “ekklesia”. Eppure, scrive ancora Roberto Esposito, c’è una complessità semantica del termine “koinonia” che non consente di ricondurlo interamente alla “communitas” (e neanche alla “communio”), ma che non coincide neppure con “l’ekklesia”. Il “luogo comune” della “koinonia”, infatti, è costituito dalla partecipazione eucaristica al “Corpus Christi”, da quel dono - “munus” - che Dio offre attraverso il sacrificio del Cristo. è solo questo primo dono divino che mette gli uomini in comune fra loro; un dono che richiama la concezione del sacrificio, reintroducendo la figura della morte. Il teologico-politico è qui scardinato attraverso l’idea della Trinità e, quindi, del Cristo. è a questo dono come sacrificio che rimanda il significato di “communitas”, nel quale si ritrova la complessità semantica del termine da cui proviene, “munus”, ancorato ad un’area concettuale riconducibile all’idea di dovere: “munus” è un dono “distinto dal suo carattere obbligatorio, implicito nella radice *mei - che denota scambio”. Dunque, ciò che i membri di una comunità hanno in comune non è una proprietà, ma un dovere, un debito nei confronti degli altri; “un limite che si configura come un onere, o addirittura una modalità difettiva, per colui che ne è “affetto”, a differenza di colui che ne è, invece, “esente” o “esentato”. è qui che prende corpo quella categoria di contrasto, “l’immunitas”, che ristabilisce quella relazione tra comunità e morte assunta come problematica fondamentale dell’intero paradigma moderno. 63 R. Esposito, Op. Cit. Si fa presente come l’essere umano è difettivo nella sua realtà, ha bisogno dell’altro per essere riconosciuto. 64 “di” nella matrice originaria di divisione.
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GIUSEPPE BISCAGLIA
Su un tratto di parete, lei: un’acquaforte del Piranesi. Piccolo omaggio al “Piranesi” di Franco Purini
Franco Purini legge le “opposte ed esaltate invenzioni piranesiane” come il luogo teorico di nascita della città moderna - dei suoi “caratteri” fondamentali, segnati dalla frammentazione, dalla stratificazione, dallo s-regolamento dimensionale.1 “Sino a poco tempo fa, le mie finestre segnavano l’estremo limite della città di Mosca. E la casa dove abito era l’ultima casa della città. Se per caso lasciavi cadere un cetriolo dalla finestra della cucina, ti cadeva già... in provincia. Adesso i confini della città si sono allargati e lo spartiacque fra la città e la provincia si è allontanato di molto dalle mie finestre”.2 La scrittura del saggio si fa innanzi in maniera complessa, stratificata. Risulta difficile poterla seguire attraverso la molteplicità di sentieri che apre al pensiero. E, quindi, proverò a selezionare semplicemente alcune parole così come emergono dal testo e a tracciare un possibile itinerario di lettura - itinerario teso a creare vibrazioni e risonanze di queste stesse parole con alcuni altri scritti di Purini, ma anche di autori del ‘900. 1. Qual è lo spazio inventato da Piranesi - spazio che ha permeato in ogni sua espressione l’immaginario architettonico, e che ha avuto importanti e significative influenze sull’arte, sulla letteratura, sul cinema e sulla fotografia? Perché appare chiaro che, nella “concretezza storica”, non esiste uno “spazio generico, astratto”. Uno spazio e-quivalente, assoluto, “intemporale”. Al contrario, pur essendo “contenuto” e “forma” di qualunque arte e della stessa architettura,“vi sono tanti spazi quante sono le civiltà, quanti sono gli artisti: più ancora, quante sono le opere d’arte”3. In uno straordinario saggio “Lo spazio e il tempo nell’arte”4, Pavel Florenskij vede nella trasfigurazione della realtà lo scopo dell’operari artistico: “…dal momento che la realtà è soltanto una particolare organizzazione dello spazio, il compito dell’arte
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è quello di riorganizzare lo spazio, cioè di organizzare in modo nuovo, di costruirlo a modo proprio. L’essenza artistica di un oggetto artistico è la sua struttura o forma spaziale, e perciò, per classificare un’opera d’arte, è necessario averne in mente soprattutto la forma”. Nelle parole di Florenskij riecheggia l’interrogativo heideggeriano: “E tuttavia, cos’è lo spazio? Cosa significa confronto dell’artista con lo spazio? Chi deve rispondere a queste nostre domande?”5. La risposta che Heidegger dà agli interrogativi da lui stesso posti è tutta dentro la sua concezione dello spazio come “fare spazio”, sfoltire, render libero, liberare un che di libero, un che di aperto. “E l’arte in quanto poiesis ha nel “portare-fuori-da” l’essenza del suo rapporto con la spazialità. “Fuori” significa nel non-nascosto, e “da” a partire dal nascosto, in modo tale che il nascosto e il nascondere non siano messi da parte, bensì custoditi e protetti”. In questo l’arte è, nel modo che le è proprio, Poesia “più filosofica”, ossia “quel lasciar-vedere che porta allo sguardo ciò-che-è-essenziale delle cose”. 2. Lo spazio inventato da Piranesi è una “spazialità vertiginosa fatta di prospettive accelerate le quali, utilizzando il dispositivo musicale e architettonico della fuga alludono all’infinito, in uno sfumare delle distanze e delle misure”. In “Comporre l’architettura”6, Purini definisce questa spazialità propria delle “Carceri” piranesiane come “una spazialità panottica”, che “consiste in un sistema di volumi, di vuoti e di strutture che si fa attraversare dallo sguardo in ogni punto, creando vertigini visive capaci di penetrare l’interno e l’esterno attraverso sezioni ideali”. La costruzione di questa spazialità avviene attraverso un gioco prospettico che, nell’adottare “parecchi punti di osservazione”, rompe ad un tempo con la “prospettiva centrale”, con la “gabbia prospettica” di Brunelleschi e Alberti, e con lo “spazio euclideo”. “Gli assi sui quali gli spazi si allineano penetrano in profondità verso plurimi
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punti di fuga” e “la decostruzione geometrica dissolve l’interno delle Carceri in una compresenza aperta e divergente di giaciture prospettiche”. Nello stesso tempo, “la successione di campate di diverse dimensioni contenute l’una nell’altra, altrettante cellule tettoniche messe in relazione da schermi, trafori, transenne, diaframmi, nonché da elementi intermedi come scale, passerelle e ponti” hanno “il compito di accentuare la profondità di campo dell’immagine”. Lo spazio diventa un’apertura, un affacciarsi, uno sporgersi sull’infinito. Le “visioni piranesiane” profondamente intrise del “senso dell’infinito” diventano così il frutto del desiderio di “vedere ciò che è nascosto”. Una serie di volumi “si interpongono tra l’osservatore e lo sfondo” e l’ambiguità metrica viene data dal “complesso gioco tra finito ed infinito, tra misura e dismisura”, tra peras ed apeiron. 2.1. Nel “magistrale” saggio dedicato al grande incisore veneziano, “Piranesi o la fluidità delle forme”, Sergej M. Ejzenštejn si sofferma sulla modalità “molto singolare” attraverso cui Piranesi costruisce “le prospettive”. “E la base di questa singolarità è costituita dalla loro discontinuità e dal loro procedere a salti”. Pilastri, archi, ponti hanno la funzione di interrompere la “continuità della figurazione”, il movimento prospettico in direzione dello sfondo, il “ritmo frenetico di penetrazione in profondità e verso l’interno”. Ma - ogni volta, al di là di quei pilastri, di quegli archi, di quei ponti - il movimento riprende in maniera completamento nuova; vale a dire, in una chiave prospettica che riduce le proporzioni “molto più di quanto uno si aspetterebbe”. “La scala di queste nuove porzioni di spazio architettonico risulta diversa da quella che l’occhio si aspetterebbe di vedere”, producendo così un “duplice effetto”. Il primo - “immediato” - si risolve nel fatto che “l’immagine così ridotta che si intravvede oltre la luce dell’arco, o sotto il ponte, o fra due pilastri, crea l’illusione che l’oggetto raffigurato si trovi, nel senso della profondità, a una distanza grandissima”. Il secondo - “ancora più straordinario” - è dato dall’“inatteso salto qualitativo di proporzioni e di spazio”, che si determina “al di là dell’arco”. L’occhio, infatti, si aspetterebbe di “vedere dietro l’arco la prosecuzione del tema architettonico trattato prima dell’arco stesso, normalmente ridotto secondo le leggi della prospettiva”. Ed invece “incontra un motivo architettonico diverso”. Non solo. Il motivo, “prospetticamente ridotto, è grande circa il doppio di ciò che uno si aspetterebbe”, producendo così una sensazione inattesa, un “effetto emotivo” che supera “i limiti del normale effetto realistico”, del puro e semplice “rispecchiamento reale dell’aspetto visibile dei fenomeni”. Ejzenštejn definisce questo effetto “estatico” in quanto - nell’esprimere l’“esplosivi-
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tà” propria dell’estasi “attiva” occidentale (“spagnola, italiana”) - ri-disegna in modo totalmente innovativo lo spazio e la sua profondità. “La serie dei movimenti spaziali in profondità, separati l’uno dall’altro da pilastri e da archi, si struttura come un succedersi di spazi indipendenti, simili a tanti anelli concatenati non solo in virtù di una continuità prospettica unitaria, ma in quanto urti successivi fra spazi la cui profondità ha un’intensità qualitativamente diversa”. Questi urti in quanto opposti non si conciliano né tantomeno si armonizzano in un quieto dissolversi l’uno nell’altro. Al contrario, “esasperando oltre misura ciascuno dei termini contrapposti”, l’estasi piranesiana “si sforza… di indurli a trafiggersi l’un l’altro, portando in tal modo all’estremo il loro dinamismo distruttivo”. 2.2. In “La misura italiana dell’architettura”7, Purini riflette sulla mancanza in Italia di spazi che diano “l’idea di sconfinato”, che “permettano la percezione dell’illimitato”. E questo perché la struttura morfologica del nostro Paese tiene insieme e combina “due caratteri” che stanno a fondamento sia della riflessione teorica che dell’elaborazione poetica dell’idea di paesaggio italiano. “Il primo riguarda l’essere la dimensione della Penisola e della Pianura padana… relativamente piccola; il secondo consiste nel fatto che essa è composta da interni facilmente riconoscibili, stanze territoriali di cui è facile… osservarne i margini”. Tutto questo segna fortemente la percezione della visuale dello spazio - percezione che produce “l’effetto di raccogliere le visuali all’interno di serrate sequenze spaziali nelle quali le ridotte distanze esaltano il valore del dettaglio così come amplificano il significato dell’insieme”. L’idillio leopardiano - a parere di Purini - rappresenta un possibile “esperimento” per contemplare l’infinito: “guardare un limite vicino sullo sfondo del cielo”. L’altro è il “rivolgersi al mare”. “Proprio per il fatto di essere, le coste, l’unico contatto possibile in Italia con l’infinito, è assolutamente necessario restaurarle al più presto, per quanto possibile, ricorrendo con larghezza e precisione allo strumento della demolizione” - è, forse, un invito alla “conquista del vuoto”? 2.2.1. Pagine molto belle nella direzione del rapporto tra finito e infinito, tra “esserci” ed “essere” vengono dedicate da Stefano Levi della Torre8 - architetto e pittore all’idillio leopardiano. C’è - a suo parere - una “formula” che consente una possibile interpretazione de L’infinito: “esserci essendo”. È una formula che racchiude in sé una “doppia dimensione”: da un lato, l’esserci determinato, seduto presso “questa siepe”
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che esclude dallo sguardo l’“ultimo orizzonte” - il limite vicino (“la siepe”) che preserva al nostro sguardo ravvicinato (“ma sedendo e mirando”) l’infinità dell’infinito”, impedendo all’immaginazione di appagarsi di un “surrogato” (“l’orizzonte”), “invece che aprirsi all’infinito stesso”; dall’altro, l’essere che, nella sua infinità spaziale (“interminati / Spazi di là da quella”) e temporale (“e mi sovvien l’eterno”), si dà solo attraverso la “mente” del poeta, che “sente l’essere come luogo del suo esserci (com’è detto: “Non il mondo è il luogo di Dio, ma Dio è il luogo del mondo”). E sente il suo esserci come occasione dell’essere. Sente il suo essere-lì come cassa di risonanza dell’essere; e l’essere come cassa di risonanza del suo essere-lì”. Esserci essendo è, allora, il luogo del forse - il “crinale” tra il “nostro lato” e il “lato altro”. Il luogo dell’ascolto di una voce che richiama al silenzio -di una “voce del silenzio”: … E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei
Il forse è una “zona di confine”, instabile, decentrata, che mina la stessa nostra “indole naturale e culturale insieme” di erigere confini immaginari o reali, di “riparare al centro di un territorio tutto nostro, geografico o domestico o di identità: la patria, la famiglia, il gruppo”. E questo per “stabilirci all’interno, per determinarci e conservarci”. Il forse è un “luogo di indeterminazione e di trasformazione, di perdita dell’identità”. Nelle parole di Edmond Jabès9: Il deserto è il mio luogo - diceva - . E questo luogo è un pugno di sabbia.
Non vi chiedo chi siete. Né il vostro luogo d’origine, e neppure il luogo cui siete diretti.
Il forse è il tra come limite sul quale la coscienza individuale (“il pensier mio”) non si chiude in se stessa né si concentra su stessa, perché consapevole che “provvisorio è il limite” (E. Jabès). Piuttosto, “si sfuoca e si perde” (“s’annega”): … così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio
Tra il “nostro lato” e il “lato altro” si dà un “movimento di integrazione”- un movimento che non genera paura e angoscia, quanto piuttosto un dolce naufragio, una gratitudine che “non ha Persona a cui dire grazie”:
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E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Non c’è qui appropriazione privata dell’infinito, ma “rassegnazione all’inesplicabile, al silenzio dell’altro lato senza rinunciare a spingere sempre più in là i limiti del nostro lato”. Il forse è, allora, la profezia - la parola che avverte di “ciò che avverrà se non ci sarà una svolta nella coscienza e nell’agire degli uomini”. 3. Una “sensibilità acuta” per la comprensione della “struttura ideale dello spazio” deve - secondo Purini - continuamente sviluppare (la mente del) l’architetto - una struttura (spaziale) che, nel rendere astratta “l’esperienza concreta dei luoghi”, si costruisce attraverso “l’accostamento di figure chiuse, semplici e complesse”, di “recinti reali e virtuali”, “materiali” e “immateriali”, dotati di un’autonomia relativa in quanto - nell’intorno di ciascun confine che si va definendo - si creano “interferenze e vibrazioni”, “tensioni e conflitti”, “continuità materiali” e “discontinuità di tracce”. Si creano - in altri termini - regioni/ambiente non fisicamente perimetrate, ma chiaramente percepibili, dal momento che esse “possiedono, come peraltro i corpi, un’aura che le circonda e che può definirsi come il loro territorio”. “Ciò che discende da una simile strutturazione è l’immagine di un cretto spaziale, di un mosaico di zolle ambientali al quale se ne sovrappone un altro, la sua duplicazione auratica, in un gioco di stratificazioni che complica l’appartenenza dei punti dello spazio a un singolo intorno”. A Venezia,“osservando la strutturazione del sistema formato da Piazza S. Marco e dalla Piazzetta si può verificare facilmente la corrispondenza alla realtà di questo modello interpretativo. I due invasi, connessi trasversalmente, si sovrappongono idealmente nella parte della Piazza S. Marco che forma il sagrato della Basilica - un ambiente non fisicamente perimetrabile ma chiaramente percepibile - e ruotano attorno al perno del Campanile, che snoda le sequenze prospettiche verticalizzandole e segnalandole così dall’interno del tessuto e dall’antistante bacino lagunare”. è quella particolare “distanza limite” che nel separare “i corpi entro una certa soglia fa scattare tra di essi un’attrazione magnetica che li rende necessari l’uno all’altro”, una sorta di “territorio della forma” che produce continue vibrazioni al di là del vuoto che delimita i volumi. è il caso del World Trade Center di Minoru Yamasaki a Manhattan. L’ombra - proiettata da una torre sull’altra - fa apparire un “prisma incorporeo”, un “edificio in negativo”, “un’architettura immateriale in movimento che gira attorno alla coppia di torri trasformandole in una colossale meridiana affacciata sulla baia di New York”.
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4. È nel suo saper proporre e affermare una nuova “concezione della composizione” che va cercata - a parere di Purini - “l’attualità di Piranesi”. La sua “tavola”, infatti, ha a suo fondamento un “fenomeno di notevole interesse”, che consiste in una modalità nuova di composizione del rapporto parte/tutto. L’immagine intera si compone di una serie di “parti autonome”, che a loro volta si propongono come “immagini intere”. In questo, la parte non perde mai la sua unità, configurandosi come entità figurativa autonoma. È questo il carattere frattale delle immagini piranesiane, che ne consente una lettura su una “pluralità di piani”: dalla singola tavola come “parte di città” alla sua autonomia concettuale ed artistica, al “fondo misterioso e simbolico per il quale ciò che è messo in scena acquista un valore ulteriore”. Ed è sul tema della rappresentazione come “luogo concettuale e operativo intrinsecamente creativo”, come “spazio nel quale il logos e l’esercizio grafico si uniscono, generando l’idea architettonica nelle sue componenti formali”, che la riflessione di Purini si fa particolarmente interessante in un serrato dialogo con il suo “compagno segreto”. Già in “Comporre l’architettura”, la rappresentazione non viene ridotta ad un “momento meramente illustrativo”. Al contrario, la rappresentazione è un portare alla presenza un’assenza, è “una realtà virtuale che, da un lato, mette in scena ciò che dovrà essere costruito”, dall’altro, “è una realtà essa stessa” in quanto opera autonoma. Piranesi, con la sua “insuperata sapienza tecnica”, produce un ulteriore “livello semantico” nel quale la virtualità della rappresentazione non solo è “perfettamente reale” in quanto incorpora la “verità della cosa”, ma è “più reale” in quanto ha in sé “quel plusvalore conoscitivo e creativo prodotto dalla rappresentazione stessa” - una verità “oltre il reale”, una “tessitura tematica” che tiene insieme il reale e l’immaginario, il mondo della vita e la dimensione del sogno e del simbolo: “La Roma reale si rovescia in un suo simulacro parallelo, diventando una città diversa e al contempo autosimilare”. Nell’incisione piranesiana c’è, forse, il senso di un’architettura come mera “formulazione di ipotesi, non di soluzioni”, come assoluta arbitrarietà di un segno senza più significato, come compiuta scissione ed estraneità da ogni origine naturale? E la stessa infinita varietà di conchiglie incise da Piranesi, non sembra “dimostrare che anche i modelli della natura invitano a un’invenzione continua” ? (M. Tafuri)10. La risposta di Purini è chiara: “… la drammatica scissione tra il linguaggio e i suoi contenuti, una separazione che costituisce la chiave di volta della modernità, il suo segno distintivo, nel quale il nichilismo si fa negazione di ogni possibile corrispondenza tra
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un lessico ed il suo significato, è già del tutto anticipata nell’opera di Piranesi, nella quale essa acquista un tono estremo e definitivo”. 4.1. Ancora, in “Comporre l’architettura” Purini riflette profondamente sul “disegnare” in quanto “sistema di segni” in grado di produrre conoscenza. Il “segno grafico” è, infatti, il vedere proprio dell’architetto, la sua “vera vista” - il “tocco della vista” (Florenskij) che gli consente di intervenire sul mondo, sui suoi corpi, sui suoi oggetti. La mano e la vista - “il gesto della mano nel suo rapporto con la vista”11 - ridefinisce, qui, la stessa classica opposizione “praxis/theoria”. Heidegger lo dice espressamente:“Pensare è un lavoro della mano”. La mano è, dunque, pensiero. Attraverso il disegno - “sguardo specifico dell’architetto sul mondo” (Purini) - egli penetra nella costituzione stessa dell’oggetto, entra “nelle ragioni esplicite e in quelle segrete della struttura che un manufatto possiede”, si interroga sulle cose “distinguendole nella loro identità”, “scomponendole nelle loro parti per poi ricomporle in un nuovo ordine”, in nuove ed innovative trame e connessioni. La linea - il “tratto continuo” - non è pura e semplice separazione dei volumi attraverso i loro contorni. È anche - e nello stesso tempo - loro unione e congiunzione attraverso i piani di tangenza. “Da questo punto di vista la linea è il fondamento logico della continuità dello spazio, la base primaria della sua intelligenza e della sua descrizione” (Purini). Il tratto piranesiano è un incidere, che “comporta l’asportazione di materia da un supporto, un’operazione distruttiva che la assimila concettualmente alla scultura per via di levare”. Lavorando con il bulino che incide, con la matita che trascrive, con la puntasecca che scalfisce, il grafico delimita i volumi “come un sistema di linee, di tratti e ciascuna di esse, in sé, viene da noi valutata… come il simbolo figurativo di una certa direzione, di un certo movimento” (Florenskij). La grafica organizza lo spazio del movimento. E attraverso il movimento stabilisce un “rapporto attivo con il mondo. Qui l’artista non prende dal mondo, ma offre al mondo, non viene influenzato dal mondo, ma influenza il mondo”. Il nostro intervento sul mondo - il nostro “rivelarci” ad esso - è sempre “un gesto, grande o piccolo, in tensione o impercettibile”: è il “balenare di un sorriso”, il “dilatarsi impercettibile delle pupille”, il gesto di una mano. È il nostro corpo che si muove e, con il corpo, la nostra volontà. “Noi facciamo sentire la nostra influenza sul mondo attraverso il movimento”. Ed il gesto/movimento “si pensa come una linea, come una direzione”. Da questo punto di vista, la grafica - nella sua “purezza liminare” - è “un
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sistema di gesti” che costruisce “tutto lo spazio e tutte le cose che vi si trovano attraverso dei movimenti, cioè delle linee”. La scultura e la grafica non sono altro che la trascrizione degli ampi movimenti di uno strumento, che incide o che scalfisce, che intaglia o che sbozza. 4.1.1. Il gesto della mano che offre al mondo - un pensiero della mano che non si lascia semplicemente determinare come un organo corporeo di prensione, quanto piuttosto nella sua essenza di dono - apre a ciò che Derrida chiama la doppia vocazione della mano. Attraverso un serrato confronto con il testo heideggeriano: Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non pensiamo abitualmente. La mano non tocca e non afferra soltanto, non stringe e non spinge soltanto. La mano offre e riceve, e non soltan-
to le cose, perché essa stessa si offre e si riceve nell’altra. La mano custodisce. La mano regge. … Ogni movimento della mano in ciascuna delle sue opere è portato dall’elemento, si com-
porta nell’elemento del pensiero. Ogni opera della mano poggia sul pensiero. Ecco perché
il pensiero è per l’uomo il più semplice e di conseguenza il più difficile lavoro della mano, quando viene l’ora in cui deve essere espressamente (propriamente) compiuto,
Derrida coglie l’essenza stessa dell’esser-mano, la sua vocazione a “mostrare o a far segno, e a donare o a donarsi, in una parola la mostratività del dono o di ciò che si dona”. Il “nerbo dell’argomentazione” di Heidegger appare riducibile, in primo luogo e in prima approssimazione, “all’opposizione assodata tra dare e prendere: la mano dell’uomo dà e si dà, come il pensiero o come ciò che si dà a pensare e che noi ancora non pensiamo”. E questa opposizione non è altro che l’opposizione tra il “dare/prendere-la-cosa come tale” e il “dare/prendere senza come tale, e infine senza la cosa stessa”. È la differenza tra la mano dell’uomo ed il puro e semplice afferrare, prendere, manipolare dell’animale, che non “non ha rapporti con la cosa come tale. Non la lascia essere ciò che è nella sua essenza. Non ha accesso all’essenza dell’ente come tale”. La mano dell’uomo è la mano che pensa. Ed in questo suo esser pensiero dona e si dona. Attraverso la scrittura ed il segno grafico si dà pura “gratuità, esondanza, creazione”. La scrittura è “apertura di mondo: tutt’altro che semplice riproduzione”12. Nelle parole di Paul Klee13: “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile” e nel dilatare l’oggetto al di là del proprio fenomeno “sappiamo che la cosa è più di ciò che la sua
apparenza dà a vedere”. Nel pensiero di Purini, il disegno “sa creare attorno alle cose… un’aura particolare”, che le immerge in una “dimensione metafisica” - nella dimensione profondamente umana e finita della meraviglia e dello stupore: “l’esistenza dell’esistente”. 4.1.2. Nella riflessione di Purini, la “notazione grafica” trascrive la realtà ed i suoi oggetti in un “testo parallelo e alternativo alla loro concretezza cosale”. Il “tocco della vista” - proprio del disegno - non è un afferrare, un prendere per mano, ma piuttosto - come scrive Jean-Luc Nancy - “un toccare rivolgendosi, inviandosi al contatto di un fuori, di qualcosa che si sottrae, si allontana, si spazia. Il suo stesso toccare, che pure è certamente suo, gli è per principio sottratto, spaziato, distanziato”14. È proprio delle tavole piranesiane produrre una differenza, un distanziamento dal proprio oggetto: “Inventore di processi di formalizzazione fondati su una calcolata e totale autoreferenzialità, Piranesi, la cui opera è, nel suo complesso, un crudele e insieme liberatorio congedo dal classico, è oggi un riferimento obbligatorio per qualsiasi esercizio compositivo che voglia essere libero di esplorare territori formali sconosciuti” (Purini). Non si dà più, dunque, mera “illustrazione”, semplice descrizione delle cose. Le sue tavole, infatti, creano la realtà - una realtà virtuale ed eventuale, che porta in sé l’ambiguità strutturale del linguaggio architettonico, sospeso tra illusione e verità, tra realtà fisica del manufatto costruito o da costruire e (realtà virtuale) virtualità del suo simulacro grafico; danno vita a visioni architettoniche capaci di mettere in scena l’inaspettato, lo sconosciuto, il sorprendente; rappresentano drammaticamente l’inconscio della città - “luogo nel quale tutto è incerto e, in contraddizione con l’aspetto ciclopico dell’architettura, instabile e provvisorio”. La sua produzione, insondabile e profonda, pratica costantemente una sorta di andirivieni, un doppio tragitto che dalla realtà porta alla visione e da questa, di nuovo alla realtà. “Una realtà trasfigurata, distorta, mutevole”. 5. Questa “capacità di creare” da parte di Piranesi si definisce - secondo Purini - attraverso tre scelte principali. “La prima consiste nel pensare le parti della composizione come elementi isolati”. Ciò consente a Piranesi, da un lato, di rappresentare ogni dettaglio, ogni particolare architettonico, ogni oggetto nella “sua più piena individualità”; dall’altro, di conferi-
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re una “visibilità nitida fino all’assolutezza plastica” a ciascun elemento, “facendo sì che la totalità dell’immagine non sia mai superiore alla più secondaria parte della composizione”. La seconda definisce la natura stessa del “procedimento compositivo” piranesiano come procedimento di “tipo paratattico”. Ormai, non si dà più nessuna “connessione sintattica” tra le parti, ma - al contrario - una libera associazione tematica, che consente semplicemente l’accostamento degli elementi. In questo modo, essi vanno ad iscriversi “in una specie di sistema gravitazionale”, che - nel governare “le loro distanze” - crea “un campo tensionale” contraddittorio, nel quale si garantisce ad un tempo “l’isolamento delle parti” e “la loro appartenenza reciproca”. Le tavole della Forma Urbis Severiana espongono in termini “teoricamente e poeticamente definitivi” tale concezione: “In esse una serie di frammenti della pianta di Roma fluttuano nello spazio come se la loro volontà di ricongiungersi si scontrasse con una opposta tendenza a restare separati”. Inoltre, non legandosi più ad un preciso tipo iconico, la “composizione paratattica”, in quanto innovativa relazione tra elementi primari, diventa “il codice genetico della composizione stessa”. Infine, la terza scelta: l’“elenco”, che presuppone “la scomparsa di ogni principio gerarchico a favore dell’equivalenza di ciascun elemento della composizione”. Questo significa che l’importanza dell’elemento “non deriva più dalla sua costruzione” quanto piuttosto “dalla posizione che occuperà nella composizione stessa”. L’isolamento, la disposizione paratattica e l’elenco degli elementi - “i vertici del triangolo compositivo piranesiano” - “si iscrivono nell’ambito tematico del frammento” e della sua “ambiguità genetica”, che nasce dall’ “idea che l’elemento sia la parte di una unità perduta o, all’inverso, che sia qualcosa che non ha mai raggiunto il proprio compimento”. Quest’idea legata all’unità perduta o mai esistita produce quella “qualità unica del mondo architettonico piranesiano” come “luogo di un incessante esercizio ermeneutico nel quale l’analisi scientifica si risolve nella pura immaginazione”. Ritorna ancora una volta il tema dell’infinito. Quanto più forte è la “pura immaginazione”, tanto più essa, nell’abbandonare le convenzioni, apre nuovi sentieri per una sua possibile esplorazione. Il frammento viene in questo modo immerso all’interno di un “contesto simbolico” in grado di produrre una “vera e propria tavola delle corrispondenze”.
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Le ultime straordinarie pagine del saggio di Purini sono dedicate all’opera “Il Campo Marzio dell’Antica Roma”. In esse si aprono una serie di interrogativi e di ipotesi interpretative che in questa sede potrebbero essere soltanto sfiorate per la quantità di “risonanze” e “vibrazioni” che mettono in movimento. Saranno l’occasione di ulteriori approfondimenti in futuri incontri.
b i b l i o g r a f i a
F. Purini, Attualità di Giovanni Battista Piranesi, Librìa, Melfi, 2008. S. Ejzenstejn, Piranesi o la fluidità delle forme, in Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980. 3 S. Bettini, Tempo e forma. Scritti 1935-1977, Quodlibet, Macerata, 1996. 4 P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano, 1995. 5 M. Heidegger, Corpo e Spazio. Osservazioni su arte - scultura - spazio, Il Melangolo, Genova, 2000. 6 F. Purini, Comporre l’architettura, Laterza, Bari, 2000. 7 F. Purini, La misura italiana dell’architettura , Laterza, Bari, 2008. 8 S. Levi della Torre, Zone di turbolenza, Feltrinelli, Milano, 2003. 9 E. Jabès, Il libro dell’ospitalità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991. 10 M. Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980. 11 J. Derrida, La mano di Heidegger, Laterza, Bari, 1991. 12 S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz, Einaudi, Torino, 2005. 13 P. Klee, La confessione creatrice e Vie allo studio della natura, in Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano, 1984. 14 J-L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995. 1
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