I QUADERNI DEL CIMAROSA V-2019
Conservatorio di musica Domenico Cimarosa
I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino
V - 2019
a cura di Marina Marino e Massimo Signorini
I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino V/2019
Comitato di redazione de I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa Carmelo Columbro Direttore del Conservatorio Maria Gabriella Della Sala docente di Storia della musica
ISBN 978-88-99697-11-2
© Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” di Avellino Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta, in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopie, film, diapositive o altro senza autorizzazione degli aventi diritto. Printed in Italy
Tiziana Grande docente di Bibliografia e biblioteconomia musicale Marina Marino docente di Storia della musica Raffaella Palumbo docente di Storia della musica Massimo Signorini docente di Fisamonica Fiorella Taglialatela docente di Poesia per musica e drammaturgia musicale In copertina Cantata, china e matita di L. M. La rivista scientifica «I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa» è una pubblicazione periodica senza fini di lucro a cura del Conservatorio Domenico Cimarosa. La redazione di questo numero è stata chiusa il 30 novembre 2019.
Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” Via Circumvallazione, 156 I - 83100 Avellino (AV) Tel. 0825/306.22 Fax 0825/78.00.74 www.conservatoriocimarosa.org
SOMMARIO
Presentazione del Presidente Presentazione del Direttore
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Introduzione a cura di Marina Marino e Massimo Signorini
9 Saggi
FILOMENA FORMATO, «Tortanetti e penne, impelature ed armaggi». Note di organologia quotidiana dai registri del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana
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GIOVANNI BIANCO, SAVERIO SANTONI, Le cantate da camera a voce sola di Paolo Benedetto Bellinzani (Mantova 1682-Recanati 1757)
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI, SIMONA PELUSO, Ricerche storico-musicologiche sulla lauda di tradizione alfonsiana-redentorista
43
PIER CARMINE GARZILLO, Lo “strano segreto” del Totentanz di Liszt: un’indagine musicologica
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Tesi ANTONELLA D’ARGENIO, La Topic theory dal punto di vista di Kofi Agawu: traduzione e analisi
117
GIOVANNI MOLINARO, Il bayan: un’indagine storico-organologica
129 Note d’archivio
DOMENICO DONATO DE FALCO, Il fondo Imbimbo della Biblioteca di Montevergine
143
Materiali didattici ENRICO BAIANO, Piccola introduzione al Clavicembalo ben temperato
151 Interventi
SARA SALSANO, Musica e linguaggio. Prospettive educative (per l’infanzia e non solo)
167
ANTONIO GRANDE, Diventare musicista. A proposito di una Indagine sociologica sui Conservatori di musica in Italia
171
MASSIMO SIGNORINI, Filippo Gragnani, il mandolinista “ritrovato” dopo 200 anni
179
DILETTA PICARIELLO, Le attività del Conservatorio “Domenico Cimarosa” nel 2019
185
Elenco delle attività svolte dal Conservatorio “Domenico Cimarosa” nel 2019 a cura di Diletta Picariello
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Libertà di parola MASSIMO SEVERINO, Il mancato delitto al Conservatorio. Ad un musicista minore
201 Recensioni
«La nostra musica di Chiesa è assai differente…». Mozart e la musica sacra italiana (Marina Marino)
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Le stagioni di Niccolò Jommelli (Rossella Gaglione)
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Sara Salsano, Educare attraverso la musica. Approcci e strategie a scuola e in famiglia. Il ruolo della musica nella crescita dell’individuo (Domenico Prebenna)
214
Vladimir Jankélévitch, Ravel (Rossella Gaglione)
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PRESENTAZIONE I «Quaderni del Conservatorio», curati dai professori Marina Marino e Massimo Signorini, sono uno strumento importante per divulgare le attività di ricerca che si svolgono all’interno dell’Istituto grazie all’impegno di docenti e studenti che vivono con passione la grande avventura culturale che i percorsi di studio offrono quotidianamente. Il nostro Paese ha un incommensurabile patrimonio che comprende la musica, la storia e letteratura. Tutto ciò va studiato, raccontato e divulgato. Un bagaglio di conoscenze che il «Cimarosa» conserva e che deve essere condiviso. Così come deve essere assolutamente sostenuta la comunicazione e la diffusione di tali ricchezze. In questi anni sono state sempre in crescendo le attività artistiche realizzate dal «Cimarosa», così come crescente è stato il pubblico coinvolto e che oggi più che mai si è affezionato agli appuntamenti organizzati dal nostro Istituto. Tutto questo rappresenta, però, solo la porta d’ingresso che dà accesso ad un mondo più ampio, fatto di risorse culturali straordinarie. I «Quaderni del Conservatorio», invece, raccontano e cristallizzano un altro aspetto, altrettanto pregnante, della vita del «Cimarosa». Sono la visione di quel “dietro le quinte” che rappresentala quotidianità del nostro Istituto. Questo quinto numero dei «Quaderni» conferma l’evidente volontà di costruire un bagaglio formativo all’altezza della storia del Conservatorio e proprio per questo è rappresentato dai contributi che i nostri docenti e gli studenti hanno prodotto e che sono il frutto di accurate e meticolose indagini ampiamente documentate. Il Conservatorio di Avellino, che nel 2021 festeggerà mezzo secolo di storia, si è fatto conoscere, ma soprattutto apprezzare, in Italia e all’estero per affluenza e qualità formativa, raccogliendo, nel corso di questi cinquant’anni, le affascinanti sfide che i tempi ci impongono. Per tutto questo, ma sono solo, è doveroso il ringraziamento indirizzato a coloro che ogni giorno si impegnano affinché tutto questo sia possibile e a tutte le persone che, attraverso pubblicazioni di estremo interesse e di grande valenza culturale e formativa come i «Quaderni del Conservatorio», provano a comunicare all’esterno il lavoro svolto in un intero anno accademico. Luca Cipriano Presidente del Conservatorio
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PRESENTAZIONE Fiore all’occhiello fra i progetti del nostro istituto, i «Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino» sono giunti al traguardo del quinto numero grazie all’impegno del Dipartimento di musicologia e la collaborazione di docenti interni e di studiosi esterni. La cura del volume è quest’anno affidata alla professoressa Marina Marino, musicologa e docente di storia della musica e a Massimo Signorini, docente di fisarmonica, compositore e saggista. A loro e a tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume va il mio più sentito ringraziamento e apprezzamento per l’alto profilo scientifico assicurato alla pubblicazione. Carmelo Columbro Direttore del Conservatorio
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INTRODUZIONE Il quinto numero dei “Quaderni del Conservatorio di Avellino” ha offerto la possibilità a giovani studiosi e ricercatori di pubblicare lavori inediti e originali, frutto di ricerche d’archivio, di minuziose analisi di fonti musicali e di profonde riflessioni estetiche. La sezione dei saggi infatti si apre con il saggio di Filomena Formato, «Tortanetti e penne, impelature ed armaggi». Note di organologia quotidiana dai registri del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana, un resoconto dell’attività dei costruttori di strumenti musicali al servizio dell’antico Conservatorio napoletano di Sant’Onofrio a Capuana attraverso la lettura dei preziosissimi documenti dell’archivio storico del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli. Giovanni Bianco e Saverio Santoni, rispettivamente per l’indagine musicologica e l’analisi musicale, hanno come oggetto un manoscritto di Cantate a voce sola da camera di Paolo Benedetto Bellinzani, maestro di cappella del primo Settecento, unico autografo di composizioni profane di un autore occupatosi prevalentemente di musica sacra. Il contributo di Salvatore Esposito Ferraioli e Simona Peluso si sofferma sulla lauda di Alfonso Maria de Liguori e la sua tradizione. Pier Carmine Garzillo indaga sulla lunga e tormentata vicenda creativa e personale di Liszt nella composizione del suo Totentanz. I contributi degli ultimi due laureati del Corso di secondo livello in Discipline Storiche, Critiche e Analitiche della musica (Discamus) dell’anno accademico 2018/19 sono di Antonella D’Argenio e Giovanni Molinaro. La D’Argenio ha affrontato un recente testo di Kofi Agawu – occupandosi fra l’altro della sua traduzione in italiano – che cerca nella musica romantica i topoi, gli elementi della semantica musicale. Giovanni Molinaro affronta con serietà e conoscenza la tematica del mondo della fisarmonica nell’ambito della sua storia e, in particolare, del bayan. Per la rubrica Note d’archivio Domenico Donato De Falco, bibliotecario della Biblioteca Statale di Montevergine, illustra il fondo Imbimbo che comprende molta musica manoscritta e a stampa. Abbiamo inserito, pur con qualche indecisione circa la sua giusta collocazione, nella sezione Materiali didattici il contributo di Enrico Baiano sul Clavicembalo ben temperato: tanto è timido e reverenziale il suo accostarsi alla monumentale opera di Bach quanto profonda la sua conoscenza della stessa. Nella sezione Interventi largo spazio è dedicato all’aspetto educativo e sociologico della musica. Nello scritto di Sara Salsano la riflessione sulle connessioni fra musica e linguaggio e sull’importanza della prima nell’educazione porta la studiosa ad evidenziare 9
l’enorme contributo pedagogico riferendo di progetti già avviati all’estero che si stanno dimostrando estremamente fruttuosi. Antonio Grande, dall’attenta lettura del testo di Clementina Casula Diventare musicista. Indagine sociologica sui Conservatori di musica in Italia recentemente pubblicato, aggiunge a quelle le sue riflessioni personali sugli enormi cambiamenti nell’insegnamento della musica nei nostri Conservatori a seguito delle modifiche normative avvenute nel corso degli ultimi decenni. Massimo Signorini contribuisce a valorizzare la figura di Filippo Gragnani, che, oltre ad essere stato un valente compositore e un ottimo chitarrista, ha ricoperto anche la veste di insegnante di mandolino. La sezione si chiude con il riepilogo delle attività svolte dal Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino nel 2019 a cura di Diletta Picariello. Una nuova rubrica intitolata Libertà di parola è stata aggiunta in questo numero per inserire uno scritto di Massimo Severino che con il suo stile molto libero e fuori dalle righe riflette e ci lascia riflettere sulle tante contraddizioni delle nostre Istituzioni di alta cultura e formazione musicale dopo la “riforma”. Chiude infine il volume la consueta rubrica delle recensioni. Tutte le immagini incluse nel presente volume sono di pubblico dominio. Le prime due immagini incluse nel saggio di Giovanni Molinaro, alle pp. 133 e 134, tratte dal volume 1839 la fisarmonica di Giuseppe Greggiati (Spoleto: Edizioni Ars Spoletium, 2012) di Ilaria Nardi e Corrado Rojac, si trovano in Immagini Tavola II e Tavola III tratte dell’opera Metodo per l’Armonica a mantice […] di Giuseppe Greggiati (Fondo Musicale “G. Greggiati” di Ostiglia - Segnatura: Mss. Teoria B 71/1-3). Le immagini 3 e 5, presenti alle pp. 135 e 139, sono tratte dal seguente link: http://www.gorkahermosa.com/web/img/publicaciones/Hermosa%20%20The%20acc ordion%20in%20the%2019th.%20century.pdf. L’immagine 4 (presente a p. 136) è tratta dal seguente link: https://www.musikerboard.de/threads/wer-spielt-miii-vorgelagert.656716/. Vogliamo ringraziare in primo luogo tutti gli autori, il Presidente del Conservatorio, dott. Luca Cipriano, il Direttore M° Carmelo Columbro, il Consiglio di Amministrazione e il Consiglio Accademico. Infine un caro e affettuoso ringraziamento all’amico L. M. che ha voluto regalarci il bel disegno in copertina. Avellino, 31 dicembre 2019 Marina Marino Massimo Signorini
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SAGGI ____________________________________________________________________
Filomena Formato «TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI». NOTE DI ORGANOLOGIA QUOTIDIANA DAI REGISTRI DEL REAL CONSERVATORIO DI S. ONOFRIO A CAPUANA1
Nel corso del XVIII secolo la città di Napoli è stata uno dei principali poli attrattivi per i musicisti di tutta Europa, sia per la produzione musicale del luogo che per la creazione di strumenti di eccellente fattura ad opera di artigiani locali. L’attività liutaria a Napoli, con una lunga tradizione consolidata dal 1500-1600, non conobbe battute d’arresto nel corso dei secoli, continuando grazie al lavoro di rappresentanti di illustri famiglie. Il presente lavoro cerca di mettere in luce l’attività di alcuni di questi artigiani (la maggior parte dei quali fino ad oggi sconosciuti), presenti a Napoli tra il 1700 e il 1796 attraverso la consultazione di documenti conservati presso l’Archivio Storico del Conservatorio “S. Pietro a Majella” di Napoli.2 In particolare le notizie di seguito riportate sono il frutto di un’attenta analisi di uno dei tre fondi aggregati conservati presso l’Archivio storico, quello che raccoglie i documenti relativi all’antico Conservatorio di S. Onofrio a Capuana.3 La ricerca ha avuto per oggetto l’analisi dei Libri Maggiori,4 dei Volumi di Copiapolizze,5 delle Deliberazioni del Governo del Conservatorio6 e di due serie contabili: Volumi di Introito ed Esito,7 Volumi di Conti 1
La presente pubblicazione è il frutto della ricerca affrontata per la stesura della tesi di laurea Note d’archivio sulla liuteria napoletana del ’700, sostenuta nell’anno accademico 2006/07 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Federico II” di Napoli, relatore prof. Renato Di Benedetto. 2 Un ringraziamento particolare va alla dottoressa Tommasina Boccia, coordinatrice del Progetto del riordinamento, recupero e valorizzazione della Soprintendenza Archivistica per la Campania e attualmente referente dell’Archivio Storico del Conservatorio S. Pietro a Majella. 3 Per la storia degli antichi Conservatori, si consulti SALVATORE DI GIACOMO, I quattro antichi Conservatorii di musica di Napoli, Palermo, Sandron, 1924-1928. 4 Archivio storico del Conservatorio S. Pietro a Majella, Fondo del S. Onofrio a Capuana, Libri maggiori del Conservatorio S. Onofrio a Capuana (III. 1. 1. 1-10). I Libri Maggiori, conservati in dieci volumi, si aprono con una pandetta alfabetica nella quale sono riportate, in rigoroso ordine, tutte le voci di spese presenti all’interno di ciascun volume, divise in Dare e Avere. 5 Archivio storico del Conservatorio S. Pietro a Majella, Fondo del S. Onofrio a Capuana, Volumi di Copiapolizze del Conservatorio S. Onofrio a Capuana (III. 1. 5.1-13). I tredici volumi di Copiapolizze contengono copie delle polizze che il Conservatorio stipulava sia per gli Introiti che per gli Esiti con i Banchi attivi a Napoli dal 1702 al 1796. 6 Archivio storico del Conservatorio S. Pietro a Majella, Fondo del S. Onofrio a Capuana, Serie: amministrazione, Sottoserie: Deliberazioni. Segnatura archivistica I.1.1. Intitolazione attribuita: Libro degli appuntamenti discussi nelle sessioni dall’8 marzo 1756 al 25 aprile 1796 dai Governa11
FILOMENA FORMATO
e Cautele.8 I documenti consultati evidenziano l’estrema cura e precisione con cui venivano riportate le spese affrontate dal Conservatorio e i guadagni ricavati da varie attività. Attraverso la lettura delle voci di Introito ed Esito e l’analisi delle polizze trascritte negli appositi volumi, si può affermare che il Conservatorio introitava ogni mese grosse somme in particolare: dagli immobili di sua proprietà, ovvero case e poderi ad esso assegnati con testamenti e lasciti di benefattori; dalle attività musicali in cui venivano impiegati i figliuoli, in chiese di Napoli e di tutta la regione (come ad esempio Nola, Avellino, Benevento, Ottaviano, ma anche Montecassino);9 dalla realizzazione di oratori, intermezzi e commedie sacre, eseguiti soprattutto in conventi e monasteri; dalle processioni, dai funerali e dalle feste pubbliche. Dettagliati resoconti permettono di seguire la vita del Conservatorio, dalle spese per gli aggiusti delle camere, delle porte, degli utensili da cucina o da bagno, dagli acquisti di pane, patate e verdure, alle spese sostenute per acquistare o riparare strumenti, per spostarsi con i calessi, per portare e riportare strumenti nei luoghi di esecuzione delle musiche, per l’acquisto di corde e cannucce. Le collettive analizzate – ossia le raccolte che riportavano i proventi giornalieri provenienti dalle musiche eseguite dai fanciulli, dalle Esequie degli Angioli (ovvero i funerali cui partecipavano i figlioli più piccoli vestiti di bianco a rappresentare cori di angeli) e dalle Assistenze colle cotte (eseguite dai ragazzi che indossavano le cotte, ossia l’abito bianco liturgico) – consentono inoltre di conoscere quale ruolo rivestisse l’istituzione nei riguardi di tutti quei figlioli che non avevano l’appoggio di una famiglia benestante
tori. Le Deliberazioni sono conservate in un unico registro con rubrica alfabetica in apertura, in cui sono stati stilati i verbali delle deliberazioni adottate dai governatori del Conservatorio negli anni dal 1765 al 1796. 7 I tre Volumi di Introito ed Esito conservano solo le registrazioni contabili che il Rettore del Conservatorio trascriveva mensilmente, e che talvolta venivano vistate anche da un governatore dell’istituto. Questi volumi ricoprono un arco temporale che va dal 1720 al 1771, con una lacuna per gli anni dal 1725 al 1757. La registrazione degli Introiti e delle spese di Esito segue sempre lo stesso ordine: in apertura di ciascun volume troviamo i Proventi di musiche (distinti in: Musiche, Assistenze, Esequie colle cotte, Esequie d’Angioli), cui seguono l’Esito per le spese del vitto, spese varie riguardanti la riparazione degli strumenti, spese mediche, per il personale, e infine la registrazione delle Spese straordinarie. 8 Archivio storico del Conservatorio S. Pietro a Majella, Fondo del S. Onofrio a Capuana, Conti e cautele del Conservatorio S. Onofrio a Capuana (III. 1. 4. 1-26). L’insieme documentale della preziosa serie di Conti e Cautele è composto da ventisei volumi che raccolgono: polizze, rendite degli Arrendamenti, Bilanci dei Banchi, Rendite delle Case del Conservatorio, Introiti mensili per i servizi musicali, Esiti mensili, spese per il forno, certificazioni rilasciate dal Rettore e dal vicerettore, Note per le calzate che spettavano ai figlioli, cioè tutto ciò che riguardava l’economia del Conservatorio dal 1752 al 1796. 9 Un’attenta analisi dei libri contabili del Conservatorio di Santa Maria di Loreto si può trovare in ROSSELLA DEL PRETE, La trasformazione di un istituto benefico-assistenziale in scuola di musica: una lettura dei libri contabili del conservatorio di santa Maria di Loreto in Napoli (1586-1703), in ROSA CAFIERO-MARINA MARINO, Francesco Florimo e l’Ottocento musicale, 2 voll., Reggio Calabria, Jason, 1999, II, pp. 671-715. 12
«TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI»
o di qualche benefattore che gli consentisse di vivere con decoro:10 oltre ad offrire loro vitto, alloggio ed istruzione, il conservatorio forniva abiti, scarpe ed assistenza medica. Le voci più interessanti emerse nel corso di questa ricerca, sono riportate in prevalenza nei volumi di Conti e Cautele del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana, e si riferiscono alle spese fisse mensili riguardanti acquisti di corde e acquisti di cannucce per l’oboe, e le spese straordinarie effettuate per l’acquisto di accessori per i vari strumenti, riparazioni fatte dai liutai e acquisto di strumenti nuovi o usati, spesso corredati da descrizioni dettagliate. In tali volumi, le spese che si ritrovano sempre tra le voci dell’Esito riguardano l’acquisto di corde prime per strumenti ad arco, in particolare per violino e violoncello, acquisto fatto spesso per mazzi.11 L’acquisto delle altre corde (seconda, terza e quarta) viene riportato separatamente da quello delle prime e si ritrova nelle collettive solo di tanto in tanto, così come avviene per le corde straordinarie rispetto al numero che veniva acquistato abitualmente ogni mese,12 per gli armaggi interi e per le corde acquistate per eseguire musiche fuori Napoli. Di seguito alcuni esempi di tali spese. Quale termine di paragone si può considerare che lo stipendio medio di un muratore nella Napoli del 1760 era di 40 grana al giorno.13 Esito di Giugno 1765 Per un mazzo di prime di violino duc. 00__75 Esito di Luglio 1768 Di più, due prime di violoncello, e mezzo mazzo di prime di violino extra numero per le musiche fatte fuori duc. __60 Esito di giugno 1769 Un armaggio di violetta duc. __13 Terza, e seconda di violoncella duc. __20 Spese ordinarie fatte nel mese di Marzo 1780 Armaggio di violongello duc. __50
Nei volumi del Conservatorio analizzati in queste pagine si ritrova anche testimonianza dell’impiego di corde filate.14 In particolare nell’Esito dell’Agosto 1765 viene riportata una spesa che riguarda l’acquisto di due corde inargentate per il violoncello del Conservatorio, cioè la terza (pagata grano 14) e la quarta (pagata grano 20); inoltre nell’Esito di Dicembre 1765 è da sottolineare una spesa fatta proprio per «essersi innargentata la quarta della violoncella nova del Conservatorio». 10
Dal 1653, infatti, il Real Conservatorio aveva deliberato di ammettere anche figlioli a pagamento. Probabilmente le corde prime, ovvero quelle più acute, proprio perché più sottili rispetto alle altre, erano maggiormente soggette ad usura e quindi i fanciulli ne consumavano in gran numero. 12 Nell’esito di Agosto 1769 si ritrova la voce Prime extra numero grana 50. 13 PAOLO MALANIMA, Prezzi e Salari, in Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, a cura di Paolo Malanima e Nicola Ostuni, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 2013. 14 Sulla manifattura delle corde confronta PATRIZIO BARBIERI, The Roman gut string makers, 15502005, «Studi Musicali», XXXV (2006), pp. 3-128. 11
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FILOMENA FORMATO
Come le corde, così l’acquisto di cannucce15 per oboe (e dal 1766 di cannucce per fagotto)16 faceva parte di quelle spese definite ‘fisse’, sostenute cioè mensilmente dal Real Conservatorio. In realtà queste cannucce venivano acquistate direttamente da chi suonava lo strumento con i soldi forniti dall’istituzione. Dal volume Conti e cautele dell’anno 1770 accanto a queste spese vengono riportati anche i nomi dei figlioli ai quali venivano dati i soldi per acquistare le cannucce: ad ogni figliolo che studiava oboe o fagotto il Conservatorio dava un carlino al mese, e al primo oboe venivano assegnati cinque grana in più rispetto agli altri, come evidente in questa spesa d’esito:17 Esito di Agosto 1769 Cannucce di oboe, e fagotti figlioli dieci se li passa un Carlino per uno, e grana cinque di più al primo oboe, che sono duc. 1__5 Esito di Dicembre 1770 Per cannucce d’oboe, e fagotto a Schiamone Trezza, Bossa Guglielmi Bianco, Niglio, Graziani duc. __75
Talune spese erano a carico degli stessi figlioli, come riportato da un dubbio18 presente nel quinto volume, relativo ad un acquisto fatto nel dicembre 1770, del quale si chiede ragione: la spesa riguarda la fattura di un bocchino per tromba fatto per il figliolo Laudati che lo aveva spezzato «nella musica al Gesù le monache», pagato dal Conservatorio venti grana. La spiegazione viene richiesta perché «li bocchini sono sempre andati a carico delli figlioli». Il Conservatorio, inoltre, procurava anche le custodie per gli strumenti, come si deduce da una spesa che riporta l’acquisto di una «pell’e mezza per fare una borza di fagotto, compresavi la manifattura».19 Tra le voci d’esito si riportano anche le spese sostenute per gli aggiusti effettuati su violini, viole, violoncelli, contrabbassi, ma anche sugli strumenti a tastiera, quali organo e cembalo, e su quelli a fiato, ossia oboi, fagotti, corni da caccia e trombe. L’accomodo di tali strumenti, ordinario (pagato al liutaio ogni sei mesi) o straordinario, veniva riportato con dovizia di particolari: Esito di Maggio 1769 Due fascie nuove nelle violoncelle, e Scannetto, ed altre corde duc. 1__ Esito di Ottobre 1770 Per due penne per due trombe da caccia, due ponti, ed una penna ad un tortanetto in elafà per consiglio del maestro di tromba pagasi duc. __50 Esito di Gennaio 1771 Per accomodo di quattro trombe lunghe, e tre tortanetti, un corno di caccia, 15
La cannuccia è il tubetto in cui viene infilata l’ancia negli strumenti ad ancia doppia, come l’oboe ed il fagotto. 16 Nel caso del fagotto, la cannuccia è costituita dalla S posta all’estremità dello strumento. Ogni cannuccia per fagotto veniva pagata dieci carlini. 17 Vol. III. 1. 4. 4, c. 125 r. 18 Con dubbio venivano indicate le richieste di spiegazioni poste verso la fine dei libri maggiori, in cui venivano appunto richiesti dei chiarimenti riguardanti alcune spese sostenute. 19 Vol. III. 1. 4. 4, c. 118 r. 14
«TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI» con averci fatto verolette, pezze ed altro duc. __40 Esito di Marzo 1773 Per accomodo del Controbasso, essendosi aperto per metterci le catene da dentro altrimenti sarebbe stato inservibile […] duc. 2__ Nota di spese ordinarie fatte nello scorso mese d’ Agosto 1777 Al maestro di tromba per li seguenti accomodi: ad una tromba nuova una meza canna, ad un’altra tromba due pezzi nuovi, all’altra due altri pezzi nuovi, all’ altra due pezze, all’altra una veroletta, ad un corno da caccia una penna, ed un ponte, all’altra una penna ed un ponte, all’altro anche una pezza ed un ponte, che in uno fanno la somma duc. 2__ Spese straordinarie fatte nel mese di Gennajo 1780 Per accomodare un fagotto con farci fare il legno nuovo, e l’ottone aggiustato dal maestro d’oboe duc. 1__ Spese straordinarie fatte nel mese di Novembre 1780 Per impennare il cembalo, e porci il panno sotto i tasti duc. __80 Spese straordinarie fatte nel mese di Dicembre 1780 Per accomodare l’organo, e poste le nuove funi alli Mantici duc. __39 Esito di Aprile 1784 Battituro nuovo e scanno al Controbasso duc. 1__50 Due fascie nuove all’altro controbasso, e per essersi aperto da dentro, e postovi tela, e vernice duc. 2__50
In particolare, le spese che riguardano strumenti a fiato quali oboi, fagotti, corni da caccia e trombe, permettono di venire a conoscenza di termini utilizzati abitualmente, forse solo in ambito meridionale, e che vale la pena spiegare. Con tortanetti (ma anche tortani o vocette) venivano indicate le ritorte aggiuntive che nel ’700 consentivano di modificare l’intonazione dei corni da caccia. In molte voci d’esito viene anche specificata l’intonazione che dovevano avere tali ritorte: in β o in fa o in elafà o in solreut. Verolette erano invece chiamate le ghiere che servivano ad assicurare la tenuta d’aria nei punti di giunzione del canneggio, mentre le pezze, ancora oggi, sono delle inserzioni di metallo saldate nei punti in cui c’è bisogno di un rinforzo, o nelle riparazioni di fessure presenti nel canneggio causate da colpi accidentali. Corona è un sinonimo di fascia della campana, cioè della parte di rinforzo che gira attorno al bordo di quest’ultima, rafforzandone la solidità. Infine le punte sono delle piccole sezioni di canneggio che un tempo si inserivano tra il bocchino e la canna di imboccatura per abbassare lievemente l’intonazione.20 Innumerevoli sono le spese che riportano i nomi di diversi liutai, definiti maestri di accomodo istrumenti, ai quali il Real Conservatorio si rivolgeva sia per la manutenzione di vecchi strumenti che per l’acquisto di strumenti nuovi o usati, a corde oppure a fiato. Molti di questi artigiani servivano regolarmente il Conservatorio, e
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È doveroso ringraziare il prof. Renato Meucci per la gentilezza con cui ha fornito tali spiegazioni. 15
FILOMENA FORMATO
facendo una comparazione tra i numerosi volumi consultati è possibile tracciare un elenco dei vari maestri che hanno collaborato con l’istituzione dal 1765 al 1796.21 Maestri liutai per strumenti ad arco: Michele Sala, presente nelle spese riportate nei Libri maggiori, nei volumi Copiapolizze, pagato ogni semestre per un totale di 5 ducati annui per «l’accomodazioni che fa nell’istrumenti di violini, viole, contrabbasso e altro», nel 1726 e nel 1730; Luigi Filano,22 il cui nome figura nei Libri maggiori e nei volumi Copiapolizze, pagato ducati 2.2.10 ogni semestre dal 1727 al 1730; Nicola Vinaccia, pagato semestralmente attraverso gli Antichi Banchi presenti a Napoli – le polizze intitolate ai vari liutai erano stipulate con il Banco dei Poveri, il Banco dello Spirito Santo, il Banco di S. Eligio, il Banco di S. Giacomo, il Banco del Popolo e il Banco del Salvatore – per la somma di 5 ducati annui, dal 1731 al 1744, anch’ egli quale «maestro d’ accomodo di violini, viole, controbasso e altro»; Ferdinando Maior (o Maria), il cui nome è riportato nei volumi Copiapolizze per pagamenti ricevuti dal Real Conservatorio dal 1745 al 1749, come «maestro d’accomodo violini»; Giovan Battista Priore, «maestro d’ accomodo di viole, violini, et altro», il cui nome si ritrova in spese riportate nei Libri maggiori, nei volumi Copiapolizze, nei Volumi di Introito ed Esito, e nel volume delle Deliberazioni, dal 1766 al 1781; Giuseppe Gagliano (nipote dell’illustre Alessandro e figlio di Nicola), che succede Priore nell’aggiusto degli strumenti a corde dal 1783 al 1796 (anno di chiusura del S. Onofrio a Capuana), e che compare tra i provisionati dell’istituto; Gennaro Vinaccia, pagato con polizza del Banco de’ Poveri il 4 luglio 1743, quale maestro di accomodo di violini; Ferdinando Gagliano (nipote dell’illustre Alessandro e figlio di Nicola), il quale compare in due pagamenti riportati, con particolari interessanti, nel dodicesimo volume di Conti e Cautele del 1781, il primo dei quali per «rifare una violongella», il secondo per accomodare vari strumenti. Maestri liutai per strumenti a fiato: Gaetano Albano (detto anche Albanese),23 «maestro che accomoda le trombe, e li corni da caccia», il cui nome è riportato sia nei Libri maggiori che nei Volumi di Introito ed Esito, dal 1767 al 1784 in spese talvolta corredate da dovizie di particolari riguardanti gli strumenti a fiato;
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Per una conoscenza più approfondita sui liutai napoletani dell’epoca, si rimanda a FRANCESCO NOCERINO, Liutai del sedicesimo e diciassettesimo secolo a Napoli: contributi e documentari, «Recercare: rivista per lo studio e la pratica della musica antica», vol. 13 (2001), pp. 235-247 e GUIDO OLIVIERI, The Gaglianos: Two Centuries of Violin Making in Naples, articolo disponibile online (Academia.edu). 22 Su Luigi Filano si veda: EMANUELE MARCONI, Fabbricatore e Filano. Le leggende della liuteria, in «Seicorde», pp. 16-17, ott-dic. 2005. 23 Un Albanese risulta come liutaio nei primi anni del ’700 al Conservatorio di S. Maria di Loreto. 16
«TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI»
Antonio Carino, presente nel quinto dei Libri maggiori, pagato «per l’annata dell’accomodi di trombette, trombe e tromboni e altre spese» maturata dall’ aprile 1729; Andrea il Trombonaro, il cui nome compare in un volume Copiapolizze per aver ricevuto dal rettore del Conservatorio, don Antonio Cappello, «ducati 13 che sono per tanti dal medesimo spesi in due trombe di caccia niuna fatta dal Andrea il Trombonaro» nel 1742. Altri maestri liutai presenti solo occasionalmente: Marco Antonio Cospito (o Cospanzo), definito chitarraro, il cui nome compare nel terzo dei Libri maggiori, per un pagamento effettuato nel 1686 «per accomodatura de violini viole et archi nuovi per spazio de anni 4», ossia dal 1682 al 1686; Giuseppe Fabbricatore, presente in una spesa riportata nel terzo volume di Conti e Cautele del 1767 perché il Conservatorio acquistò da lui «un’incerata nuova per il controbasso».24 È difficile stabilire se questo Giuseppe appartenga alla stessa famiglia di liutai ed editori di cui Francesca Seller ha tracciato una storia esauriente.25 Anche perché in tal caso dovrebbe essere un contemporaneo del famoso Giovan Battista (nato nel 1745 circa) e di Vincenzo (1750), primi della famiglia Fabbricatore a dar vita alle attività di editoria e liuteria; Girolamo di Donato, il cui nome compare in uno dei Libri maggiori per l’acquisto nel 1769 «di un fagotto usato per uso de figlioli»; Giuseppe Panormo, il quale viene pagato sedici carlini «per complimento della fattura del fagotto di ducati quattro». Senza dubbio ognuno di questi artigiani ha ricoperto un ruolo importante nello sviluppo della liuteria napoletana, ma i nomi degni di nota per il S. Onofrio a Capuana sono quelli di Giovan Battista Priore, Gaetano Albano e Giuseppe Gagliano: i pagamenti ad essi effettuati (in particolare quelli contenuti all’interno dei volumi di Conti e cautele) sono di particolare interesse perché ricchi di descrizioni degli strumenti da essi riparati o costruiti ex novo. Purtroppo dalle spese in cui si trovano citati questi liutai non è possibile ricavare notizie approfondite sulla vita o l’attività dei tre, se non strettamente legate alla collaborazione con il Real Conservatorio. Priore si occupò fino al 1781 degli strumenti del Sant’Onofrio: una spesa in cui compare il suo nome nell’ottobre del 1766 è particolarmente importante in quanto riporta l’acquisto di due strumenti costruiti dal liutaio, un contrabbasso ed un violoncello, pagati venti carlini al mese fino al saldo del compenso. Esito di Ottobre 1766
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Probabilmente il termine ‹‹incerata›› si riferisce all’ inceratura degli archi che veniva eseguita forse esclusivamente dai liutai. 25 FRANCESCA SELLER, s. v. in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Milano, vol. 43 (1993). 17
FILOMENA FORMATO Dati carlini 20 a Priore per aver fatto un contrabasso ed un violoncello per il conservatorio essendo stato il contrabasso apprezzato ducati 22 ed il violoncello ducati 13. Detti 20 carlini si devono pagare ogni mese, fino a tanto che detto Priore sarà del tutto soddisfatto duc. 02__00
In realtà analizzando le spese si capisce che al povero Priore i venti carlini mensili pattuiti vennero corrisposti solo per nove mesi. Il liutaio attese fino all’agosto del 1769 (ovvero tre anni dopo la fattura dello strumento) per vedere remunerato interamente il proprio lavoro. Consultando le voci d’esito riguardanti il lavoro di Priore è possibile ricostruire l’iter per l’acquisto degli strumenti.26 Alla consegna di uno strumento al Conservatorio seguiva la valutazione da parte del maestro dello strumento, che certificava poi la qualità del lavoro del liutaio e ne stimava il prezzo. Tutto ciò si deduce da due voci riportate nel sesto volume di Conti e Cautele: la prima è una certificazione firmata dal rettore del Real Conservatorio, relativa ad un contrabbasso fatto da Priore «da esso lavorato di tutta perfezione e qualità»,27 del quale il Rettore richiede una valutazione al maestro di violino Michele Nasci; nella seconda voce si riporta la valutazione del maestro, il quale attesta che «il controbasso lavorato dal Magnifico G. B. Priore li ho ritrovato di ottima qualità, sufficientemente armonico e di tutta perfezione»,28 e valuta lo strumento ventiquattro ducati. In realtà poche sono le spese che riportano l’acquisto di strumenti da parte del Conservatorio. Forse violoncelli, contrabbassi o viole, sia nuovi che usati, pesavano molto sul bilancio dell’istituzione, che ricorreva ai liutai soprattutto per aggiustare gli strumenti in uso, per poterli conservare il più a lungo possibile. Numerosissime sono le spese riportate riguardanti accomodi di contrabbassi, violoncelli e violini fatti da Priore, sia per gli strumenti del Conservatorio che per quelli dei singoli figlioli. Alcune di esse riportano solo l’accomodo in modo generico, altre invece specificano l’intervento che viene fatto per far sì che lo strumento in questione possa ancora essere suonato. Si parla di fasce nuove fatte ad ogni tipo di strumento, quasi sempre perché rotto da maldestri studenti, o perché caduti accidentalmente dai calessi durante i viaggi intrapresi per andare a suonare fuori città. Tracce di simili aggiusti sono, tra l’altro, le uniche voci riguardanti strumenti presenti nel volume che riporta le deliberazioni del Conservatorio dal marzo 1756 all’aprile 1796. Esito di Marzo 1767 Per essersi accomodati due violoncelli dal Priore, cioè ad uno per essersi fatta la fascia nuova, ed all’altro per essersi incollato duc. __70 Esito di Febbraio 1771 Per accomodo del violino d’Amendolari rotto per esser cascato dal Galesse in una musica fatta fuori […] duc. __60 Esito di Giugno 1771 Per essersi comprata una violoncella usata da Priore col cordiero, e manico di ebano serpentino duc. 6__ 26
Vol. III. 1. 4. 6, c. 226 r. Vol. III. 1. 4. 6, c. 226 r. 28 Vol. III. 1. 4. 6, f. 226 v. 27
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«TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI» Spese ordinarie fatte nel mese di Ottobre 1780 Comprato un oboe usato per uso del Conservatorio duc. 1__20 Spese ordinarie fatte nel mese di Maggio 1780 Comprate due violongelle usate duc. 12__ Luglio 1781 Pagato a Priore per accomodare una violoncella fracassata ed un Controbasso duc. 3__
Appare inoltre evidente che i figlioli accolti dall’istituzione avevano a disposizione degli strumenti per poter studiare, qualora non ne avessero uno proprio: Esito di Giugno 1765 Per una prima di contrabasso posta nel contrabbasso vecchio duc. 00__30 Per una prima di violoncello posta nel violoncello del Conservatorio duc. 00__05
Più esplicitamente: Settembre 1781 Comprata una violoncella usata per studiare i principianti
duc. 2__5
Ci si imbatte spesso anche in collettive che riportano acquisti di strumenti (sia nuovi che usati) per i fanciulli. Da varie spese si può poi dedurre che il Real Conservatorio aveva due violoncelli, divenuti forse tre con l’acquisto di quello fatto dal liutaio Priore, e che probabilmente c’erano strumenti di piccole dimensioni adatti ai figlioli più piccoli, come sembra da una spesa che riporta l’acquisto di «un armaggio per una violoncella piccola del Conservatorio». Il Conservatorio provvedeva all’aggiusto sia dei propri strumenti che di quelli degli studenti: si ritrovano spese riguardanti la riparazione di un contrabbasso o di un violoncello, ma anche l’acquisto di archi per i vari strumenti, oppure l’acquisto di scannetti su cui i figlioli sedevano mentre suonavano. Si può inoltre affermare con certezza che il maestro Priore non si occupasse solo di strumenti ad arco, ma che il Conservatorio si rivolgesse a lui anche per l’acquisto di corde e, cosa sorprendente, anche per l’aggiusto del cembalo. È nel terzo volume di Conti e Cautele che compare la voce del pagamento a Priore per corde di violino e violoncello per tutto il mese corrente (febbraio 1768),29 e così anche il mese successivo. Ancora nel marzo 1771 si fa il nome di Priore in relazione alle prime acquistate nel mese precedente. Ma la spesa più insolita è senza dubbio quella contenuta nel sesto volume, in cui oltre al pagamento dovuto al liutaio per le corde fornite, viene riportata anche l’«accomodatura del cembalo per li mesi di Marzo e Aprile».30 Non si tratta solo di una spesa casuale,31 in quanto anche in altri volumi sono riportati pagamenti corri-
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Vol. III. 1. 4. 3, c. 99 r. Vol. III. 1. 4. 3, c. 158 v. 31 In precedenza, con precisione nel vol. III. 1. 4.1, c. 313 v., viene fatto il nome del maestro Bartolomeo quale cembalaro che accomoda e accorda il cembalo del Conservatorio. 30
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FILOMENA FORMATO
sposti al maestro Priore per l’accordatura del cimbalo, e ciò testimonia la varietà e validità delle sue conoscenze nell’ambito organologico. Fino al luglio 1781 il nome di Priore, in quanto artefice di violini,32 è collegato alle voci che riguardano sia l’aggiusto che l’acquisto degli strumenti contenute nei volumi consultati. Per il proprio lavoro, Priore percepiva uno stipendio annuo di cinque ducati, ben poca cosa se lo si paragona a quello di un maestro di cappella, pagato sessanta ducati, o anche alla lavandara pagata venti ducati all’anno. Nel dodicesimo volume, a partire dall’ottobre 1781, si ritrovano due pagamenti fatti dal Conservatorio a Ferdinando Gagliano per accomodi di strumenti. In dettaglio Gagliano viene pagato «per rifare una violoncella, a cui vi s’è fatto il manico nuovo, il battitore e rinforzata tutta da dentro aggiustata»33 e «per accomodare quattro violongelle, due contrabassi, due violette e tre impelature d’ archi».34 Successivamente a questi due pagamenti, compare il nome di un altro Gagliano, Giuseppe, quale liutaio di strumenti ad arco del Conservatorio, che dal 1783 fa parte dei provisionati fissi dell’istituzione. A partire dal quattordicesimo volume di Conti e Cautele, si ritrova tra le prime pagine dei resoconti delle spese generali, la voce del suo stipendio annuo: A Giuseppe Gagliani Maestro di accomoda istrumenti pagatigli per detto Banco35 a 6 ottobre per detta annata.36 duc. 5__
Oltre questa annualità, Gagliano veniva pagato per i lavori di aggiusto che faceva durante l’anno sia agli strumenti che agli archi, e, come Priore, perché forniva al Conservatorio corde e strumenti nuovi e usati: Febbraio 1783 Per una violetta rifatta da Gagliano, essendosi fatto l’arco, e i piroli duc. 1__30 Luglio 1785 Dati al signor Gagliani ducati cinque per aver fatto il tombagno nuovo al Controbasso duc. 5__ Giugno 1788 Per essersi comprato un violongello usato da Gagliani, inteso il Signor Mensario duc. 3__ Dicembre 1788 Per essersi comprato due prime, due seconde, una terza di contrabasso per mano di Gagliani duc. 2__10 Novembre 1790 Per due armaggi di violongello pagati a Gagliani duc. __90 32
Vol. III. 1. 4. 10, c. 208 r. Vol. III. 1. 4. 12, c. 218 r. 34 Vol. III. 1. 4. 12, c. 236 v. 35 Il Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana aveva effettuato i pagamenti attraverso il Banco dello Spirito Santo. 36 Vol. III. 1. 4. 14, c. 7. 33
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È chiaro inoltre che una parte del compenso gli venisse corrisposta in natura: lo suggerisce una spesa in cui il maestro viene rimborsato per non aver preso il vino dal Conservatorio «nel mese di settembre, ottobre, novembre e dicembre 1784 alla ragione di carafe quattro al mese».37 Negli ultimi anni di vita del Conservatorio, Gagliano viene pagato alla fine dell’anno per tutti i suoi lavori: Novembre 1791 A Gagliano per gli accomodi fatti in tutto l’anno, cioè Tre scannetti di violoncelli Due scanni di contrabasso Accomodato un arco di violongello Una seconda di controbasso Tre piroli nuovi di controbasso Accomodato il manico rotto del Controbasso Aprile 1793 Pagato a Gagliano per l’anno passato 4 scannetti di violongelli, una prima Di controbasso, e per accomodatura del violino del francese rotto in una Musica fuori duc. 1__20
L’unico nome che compare nei volumi di Conti e cautele quale maestro che accomoda gli strumenti a fiato è quello di Gaetano Albano.38 Per la prima volta questo liutaio viene menzionato in una spesa del marzo 1767, in cui è pagato «per aver accomodate quattro trombe sei penne nuove ai tortanetti ed un corno di caccia con penna nuova».39 A differenza di quanto accadeva per Priore, e come invece accade più in là negli anni per Giuseppe Gagliano, il maestro Albano veniva pagato ogni sei mesi con una sorta di stipendio fisso (semestrale nel suo caso) al quale venivano aggiunti pagamenti straordinari per i vari aggiusti effettuati nel corso dell’anno. Tali pagamenti gli venivano elargiti attraverso il maestro di tromba del Real Conservatorio, Francesco Cantone.40 Numerose sono le copie di polizze che si ritrovano nei volumi consultati, stipulate tra il Conservatorio e il liutaio per fattura di strumenti ex-novo o aggiusto di trombe e corni da caccia. Come per gli strumenti consegnati all’istituzione dal maestro Priore, anche quelli opera di Albano venivano pagati solo dopo essere stati valutati e stimati dal maestro di tromba. Esito di Ottobre 1768 37
Vol. III. 1. 4. 16, c. 184 r. Probabilmente il liutaio era di origine albanese, come si può dedurre da alcune voci in cui è definito “maestro Albanese”. Come spesso succedeva a Napoli al liutaio potrebbe essere stato affibbiato un nome derivante dalla storpiatura dell’aggettivo che ne definiva la nazionalità. Ma questa è solo un’ipotesi. 39 Vol. III. 1. 4. 2, c. 108 v. Con il termine “penna” i costruttori meridionali di solito definivano la terminazione delle cannette delle ritorte. 40 Vol. III. 1. 4. 5, c. 158 v. 38
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FILOMENA FORMATO Certo Io qui Sottoscritto, come si sono in questo Real Conservatorio consegnati dall’Artefice Gaetano Albano paja due trombe di caccia nuove, ed un altro pajo usato, ed un pajo di trombe lunghe ad uso de figlioli del medesimo, ordinategli dal fu D. Scipione Manzi, fu nostro Governatore, ed in Fede Napoli 18. Agosto 1768 D. Girolamo Speranza Il Magnifico Francesco Cantone Maestro di tromba de figlioli del nostro Real Conservatorio osservi, e riconosca le espressate paja tre trombe da caccia, e paro uno trombe lunghe se siano della perfezione, che convengano e si contenti riferire la loro espressiva valuta. Napoli 6 Settembre 1768. D. Francesco la Mura. In adempimento de Suddetti Comandi delle Signorie loro, come avendo riconosciuto la para due trombe di caccia nuove fatte per uso del Conservatorio dal Maestro Gaetano Albani, essendono della perfezione che si richieggono si possono pagare ducati venticinque ed un altro pajo usate, anche perfette, ed anche in Gesolreut possono pagarsi ducati sette, essendovi compresi in detti Corni di Caccia due paja di tortanetti in effaut e dodici vocette, in dare due trombe lunghe con due paja di tortanetti nuovi in Gesolfaut si possono pagare ducati sei, e grana Cinquanta, e finalmente avendo detto Maestro Albanese, accomodate tutte l’altre trombe, fatteci vocette, e accomodo de tortini, se li possono pagare altri carlini quindeci, che in unum darebbero ducati quarantatre, dalli quali dedotti, ducati quattro, e grana cinquanta per tanto che sono importate li corni di caccia, e trombe vecchie alla ragione di grana venticinque la libra; restano a pagarsi in beneficio di detto Albanese [corretto in Albani], ducati trentotto e grana cinquanta, e quest’ è quanto ho stimato. Napoli 7 Novembre 1768. Francesco Cantone. Gennaio 1783. Pagato al maestro Gaetano per accomodare le trombe la solita mezza annata duc. __75
Un’altra certificazione, invece, permette di sapere che per due corni da caccia nuovi il Conservatorio pagava tredici ducati, mentre i tortini costavano tre ducati.41 Conto del Conservatorio di S. Onofrio a Capuana per l’annata del 1784. A Gaetano Albano pagatili a 1 Marzo per detto Banco per prezzo di due corni da caccia, e tortini duc. 16___ Esito di Giugno 1784. Certifico Io sottoscritto Rettore del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana come si sono fatti due corni da caccia nuovi con li loro tortini da M. Gaetano Albano per il prezzo di ducati sedici, cioè duc. tredici per li corni e duc. tre per li detti tortini. Napoli 28 Febbraio 1784. D. Luca Cirelli Rettore
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Vol. III. 1. 4. 15, c. 208 r. 22
«TORTANETTI E PENNE, IMPELATURE ED ARMAGGI»
In una spesa riportata nell’undicesimo volume dei Copiapolizze42 è possibile venire a conoscenza dei prezzi pagati al liutaio per differenti acquisti: 14 ducati per due corni da caccia; 3 ducati per quattro tortani in Relasolrè; 1.60 ducati per tre tortani in Elafà; 90 grana per tre tortani in Effaut; 40 grana per otto vocette e 10 grana per due bocchini. Spese ordinarie fatte in questo mese di dicembre 1779. Certifico io qui Sotto Rettore del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana d’ aver comprato per uso del Conservatorio anche con ordine oretenus del Governatore Mensario D. Giovanni Ventapane dall’ Artefice Albano due paja di Corna da caccia con due tortanetti in effaut aggiustati dal Maestro da Sessione a figlioli per ducati 28, due paja di tortanetti in Resolre dallo stesso accomodati per carlini 14, due paja in Elafà carlini 20 e 24 vocette carlini dodici che in unum fanno duc. trentadue e carlini 6, in conto de quali gli ho dato di contanti docati dieci onde S. Onofrio 1 Maggio 1779. D. Gio Pettinati Rettore. Certifico io qui sottoscritto Rettore del Regal Conservatorio di S. Onofrio a Capuana di aver pagato al Maestro delle trombe Gaetano Albani docati dieci in conto delli docati 32 e grana sissanta, se li devono per due paja di trombe fatte per uso del Conservatorio; ed oltre di questi docati dieci ne ha ricevuti da me altri ducati dieci nel mese di Maggio, delli quali ne sono stato io sodisfato. Napoli primo Giugno 1779. D. G. Pettinati Rettore. Certifico io qui sotto Rettore del Real Conservatorio di S. Onofrio a Capuana d’ aver pagato a Gaetano Albano artefice di Corna da caccia e trombe duc. 12 e grana sessanta complimenti di doc. 32 e grana 60 prezzo, e valuta di 2 paja di trombe di caccia ventiquattro vocette, e tre paja di tortanetti così aggiustati dal Maestro del Conservatorio Cantone, cioè docati 28 le due paja di tromba, carlini 34 le tre paja di tortanetti e carlini 12 le ventiquattro vocette, e gli altri doc. 20 complimenti delli trentadue e grana 60 sono stati da me pagati al detto Gaetano in due pagate e dal Conservatorio a me bonificati con polizetta. Napoli 14 Settembre 1779. duc. 12. 60 D. G. Pettinati Rettore.
Nei volumi diciassette e diciotto sono presenti tre spese che riportano pagamenti effettuati per la mezza annata al maestro che accomoda gli strumenti a fiato, divisi però a seconda della famiglia cui appartengono gli strumenti, ovvero al «trombaro che accomoda li corni da caccia»,43 «a quello che accomoda le trombe»44 e infine «a quello che accomoda le tromba di solo stagno».45 Purtroppo non è stato possibile verificare se si tratta dell’unico liutaio Gaetano Albano, o se il Conservatorio si rivolgesse negli stessi anni anche ad altri maestri 42
Vol. III.1. 5. 11, c. 10. Vol. III. 1. 4. 17, c. 84 r. 44 Vol. III. 1. 4. 17, c. 123 r. 45 Vol. III. 1. 4. 18, c. 136 r. 43
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FILOMENA FORMATO
dediti agli aggiusti di determinati strumenti. Anche perché il nome di Albano è l’unico collegato agli strumenti a fiato nel periodo che va dal 1767 al 1784, fatta eccezione per un pagamento riportato nel giugno 1783, nel quale vengono dati sedici carlini «al Sig. don Giovanni Panormo, per complimento della fattura del fagotto di ducati quattro, attesi altri carlini 24 li ricevè nel mese di dicembre passato».46 Le notizie presenti nei volumi contabili di tutti gli antichi Conservatori di Napoli, non solo del S. Onofrio a Capuana,47 conservati con cura presso l’Archivio Storico del “S. Pietro a Majella”, sono importantissime per ricostruire l’attività liutaria della città. Una analisi ancor più approfondita permetterà di tracciare la storia non solo della liuteria napoletana, ma anche delle attività musicali prevalenti tra il 1600 e la fine del 1700. Inoltre le notizie e le descrizioni, spesso assai dettagliate, delle voci relative alle spese affrontate per gli aggiusti degli strumenti, darebbero nuovi impulsi alla ricerca organologica. I registri degli antichi Conservatori napoletani continueranno a custodire segreti immensi, pronti a svelarsi a chi avrà la pazienza di frugare tra quelle carte.48
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Vol. III. 1. 4. 14, c. 132 v. Una prima ricognizione dei volumi dell’antico Conservatorio di S. Maria di Loreto ha messo in evidenza l’esistenza di numerose voci riguardanti gli strumenti e i liutai, alcuni dei quali già citati in questa ricerca. 48 Alla fine di questo lavoro mi preme ringraziare la persona che mi ha aperto le porte della ricerca archivistica, consigliandomi, spronandomi e sostenendomi in ogni momento: grazie al prof. Renato di Benedetto, relatore della mia tesi di laurea. 47
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Giovanni Bianco - Saverio Santoni* LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI (MANTOVA 1682 - RECANATI 1757)
I Paolo Benedetto Bellinzani fu un compositore e maestro di cappella che incarnò appieno lo spirito del suo tempo: il suo linguaggio – caratterizzato da una sapiente razionalizzazione delle strutture formali, dalla linearità e cantabilità dei profili melodici e, più in generale, dall’equilibrio dei moduli costitutivi – è perfettamente conforme al clima di contestazione mosso contro gli eccessi del Barocco che vide in Corelli uno degli autori più rappresentativi di fine Seicento e inizio Settecento. L’attività di Bellinzani fu circoscritta all’interno dei confini dello Stato pontificio seppur con frequenti trasferimenti in diverse cappelle musicali. In seguito al periodo di apprendistato con i monaci benedettini mantovani,1 e dopo aver ricoperto, dal 1715 al 1721, la carica di maestro di cappella presso la cattedrale di Santa Maria Annunziata di Udine, il compositore esercitò il suo ufficio principalmente in territorio marchigiano (Fabriano, Pergola, Pesaro, Urbino, Fano), a eccezione delle occupazioni che lo videro impegnato in Mantova, Orvieto e Recanati, città, quest’ultima, in cui morì il 25 o il 26 febbraio del 1757.2 L’erratica attività di Bellinzani lo condusse a ricoprire, da una parte, incarichi prestigiosi – come nel caso della cappella musicale del Duomo di Pesaro (1724-1727)3 e * L’indagine musicologica è condotta da Giovanni Bianco (I), l’analisi musicale è a cura di Saverio Santoni (II). 1 Zibaldone Martiniano. Contiene notizie di musicisti, ed altre cose relative alla storia della musica (I-Bc, ms. H.63), c. 82: «Studiò di musica in Mantova fra monaci benedettini». Nuove acquisizioni fanno presumere che, molto probabilmente, Bellinzani intraprese gli studi musicali presso l’Abbazia di San Benedetto in Polirone; forse successivamente si perfezionò a Ferrara sotto la guida di Giovanni Battista Bassani. Cfr. ADRIANO CAVICCHI, L’attività ferrarese di Giovan Battista Bassani, «Chigiana», 23, 1966, pp. 43-58: 47; Lettera di Paolo Benedetto Bellinzani al cardinale Annibale Albani (12 dicembre 1727) (I-PESo, 3-16-401), c. 1v. 2 Per una biografia aggiornata di P. B. Bellinzani si cfr. la Nota biografica dell’ed. critica PAOLO BENEDETTO BELLINZANI, Dodici cantate da camera a voce sola, a c. di Giovanni Bianco, Roma, Società Editrice di Musicologia, 2020 (in corso di pubblicazione); si consultino, inoltre, le voci dei principali dizionari musicali: MICHAEL TALBOT, Bellinzani, Paolo Benedetto, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. by Stanley Sadie, 2nd Edition, London, Macmillan, 2012, vol. 2, pp. 212-213; SERGIO MARTINOTTI, Bellinzani, Paolo Benedetto, in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, diretto da Alberto Basso, Torino, UTET, 1985-1989, vol. 3, pp. 432-433; RAOUL MELONCELLI, Bellinzani, Paolo Benedetto, in Dizionario Biografico degli Italiani, 1970, vol. 7, pp. 743-745. 3 Per un approfondimento sulle vicende del duomo di Pesaro e sulla relativa cappella musicale si confronti il lavoro di CRISTINA MONTANARI, La cappella musicale del duomo di Pesaro: storia di un’istituzione ecclesiastica (1447-1903), Urbino, Università degli studi, 2004/2005; si cfr. inoltre 25
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
in quello della celebre Metropolitana di Urbino (1730-1733)4 – dall’altra, ad assumere impieghi a breve termine in piccoli centri periferici. A partire dal 1723 la fama di Bellinzani accrebbe notevolmente e si consolidò nel quadriennio pesarese, come testimoniato dai contatti con la nobiltà locale e l’accademia letteraria, in special modo nei rapporti che intercorsero con Giovanni Abati Olivieri, conosciuto con il nome arcade di Neralbo Miragetico.5 Già censore degl’Accademici Risorti di Ferrara, nel 1727 il compositore fu insignito del prestigioso titolo di accademico filarmonico di Bologna:6 l’opera e l’ingegno di Bellinzani non sfuggirono a Giovanni Battista Martini che non solo si adoperò, in più occasioni, per assicurarsi copie delle sue musiche,7 ma si ingegnò altresì – a conferma della stima riposta nei riguardi del maestro mantovano – per commissionare un ritratto del compositore da includere nella propria pinacoteca.8 Come si evince dal materiale archivistico e dalla disamina dei testimoni musicali in Italia e all’estero, alcune opere dell’autore ebbero grande diffusione e fecero a lungo parte del repertorio delle più prestigiose cappelle musicali del tempo come la Ducal basilica di San Marco.9 La nutrita produzione musicale di Bellinzani è quasi esclusivamente di genere sacro – in cui l’autore si connota come autentica manifestazione della liturgia di derivazione romana fedele allo stile osservato –,10 mentre le composizioni profane – conformi agli stilemi riconducibili al gusto galante – si attestano nelle edizioni delle So-
GIUSEPPE RADICIOTTI, La cappella musicale del duomo di Pesaro (sec. XVII-XIX), «Cronaca musicale», XVIII/18 (1914), pp. 41-48, 65-75. 4 Cfr. BRAMANTE LIGI, La Cappella musicale del duomo d’Urbino, «Note d’Archivio per la storia musicale», II, 1925, pp. 142-147, 151, 339. 5 Cfr. Lettera del Signor D[on] Angelo Maria Carosi Maestro di Cappella di Sinigaglia al Signor D[on] Paolo Benedetto Bellinzani […] (I-Bc, F.11); di questo manoscritto esiste una versione a stampa edita a Pesaro nel 1733 dalla stamperia Gavelli (unica copia in I-PESo, A.II.h.11.m.13). Si cfr. anche LAURA CALLEGARI, Un corrispondente ed allievo pesarese di Padre G. B. Martini: il Cavaliere Vincenzo Olivieri, «Quadrivium», fasc. I, 1985, pp. 173-201; Pesaresi illustri d’ogni tempo (I-PESo, ms 458, vol. 1, scheda n. 35). 6 Cfr. REGIA ACCADEMIA FILARMONICA DI BOLOGNA, Catalogo generale di tutti gli Accademici Filarmonici di Bologna 1741 (1751), Bologna, A.M.I.S., 1993, p. 12; OSVALDO GAMBASSI, L’Accademia filarmonica di Bologna. Fondazione, statuti e aggregazioni, Firenze, Olschki, 1992, p. 422. 7 Cfr. ANNE SCHNOEBELEN, Padre Martini’s collection of letters in the Civico museo bibliografico musicale in Bologna, New York, Pendragon Press, 1979, p. 55. 8 Ivi, p. 68. Il dipinto di Bellinzani è andato perduto o non fu mai realizzato. Per un approfondimento sulla quadreria di Padre Martini cfr. I ritratti del Museo della musica di Bologna. Da Padre Martini al Liceo Musicale, pref. di Lorenzo Bianconi, Firenze, Olschki, 2018; Collezionismo e storiografia musicale nel Settecento: la quadreria e la biblioteca di padre Martini, Bologna, Nuova Alfa, 1984. 9 Cfr. GIOVANNI TEBALDINI, L’archivio musicale della Cappella Antoniana in Padova, Padova, Tipografia e libreria Antoniana, 1895, p. 99. 10 Lo stesso Bellinzani trascrisse la messa Ecce sacerdos magnus di Palestrina, «posta in partitura senza trasporti» (I-PESdi, Faldone 48, ms 418). 26
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
nate a flauto solo con cembalo, o violoncello,11 i Duetti da camera12 e i Madrigali a due, a tre, quattro e cinque voci.13 A eccezione del manoscritto investigato in questa sede, l’intero corpus degli autografi di Bellinzani è custodito dalla Biblioteca e Archivio storico diocesano di Pesaro.14 Il testimone parigino delle Cantate a voce sola da camera (F-Pn, RES-1855), per soprano e basso continuo, rappresenta un unicum nel catalogo del musicista: è l’unico autografo, allo stato attuale della ricerca, che preservi composizioni di genere profano.15 La distribuzione interna delle musiche, organizzate in dodici cantate che si presentano nella tipica configurazione Recitativo-Aria-Recitativo-Aria16 – secondo uno schema tipico della produzione a cavallo tra Sei e Settecento –, riflette la prassi compositiva corrispondente all’arco temporale ipotizzato per la datazione dell’autografo (infra). A testimonianza dell’interesse di Bellinzani per la forma cantata, nel 1726 furono dati alle stampe i già citati Duetti da camera (cantate dialogiche):17 questa «picciola 11
PAOLO BENEDETTO BELLINZANI, Sonate a flauto solo con cembalo, o violoncello […], Venezia, Antonio Bortoli, 1720. L’unico testimone superstite è esposto nella sala 8 del Museo internazionale della musica di Bologna (I-Bc, DD.261). Cfr. la riproduzione anastatica, P. B. BELLINZANI, Sonate a flauto solo […] Venezia, 1720, Firenze, S.P.E.S., 19802. 12 PAOLO BENEDETTO BELLINZANI, Duetti da camera […] Opera Quinta, Pesaro, Niccolò Gavelli, 1726. Cfr. Clori. Archivio della Cantata Italiana, ‹www.cantataitaliana.it›, scheda n. 2224, a c. di Giulia Giovani; ID., Pesaro e i duetti di Bellinzani, in Col suggello delle pubbliche stampe: storia editoriale della cantata da camera, Roma, Società Editrice di Musicologia, 2017, pp. 199-201. 13 PAOLO BENEDETTO BELLINZANI, Madrigali a due, a tre, quattro e cinque voci […] Opera sesta, Pesaro, Niccolò Gavelli, 1733. Per completezza segnaliamo il manoscritto, attribuito a Bellinzani, delle Dodici sonate da Chiesa a 3, con due violini e basso ad imitazione di quelle di Arcangelo Corelli (I-Bc, DD.133); i dati in nostro possesso non ci consentono di stabilire se si tratti o meno di un idiografo. Cfr. GAETANO GASPARI, Catalogo della biblioteca del Liceo musicale di Bologna, Bologna, Libreria Romagnoli Dall’Acqua, 1890-1943, vol. IV, p. 83. 14 Gli autografi di Bellinzani presenti in archivio comprendono le musiche realizzate per le varie cappelle musicali in cui il compositore fu attivo. GABRIELE MORONI, La musica negli archivi e nelle biblioteche delle Marche, Fiesole, Nardini, 1996, pp. 151-165. 15 Per conoscere le modalità che hanno permesso il ritrovamento di questo manoscritto e per ripercorrerne la storia cfr. P. B. BELLINZANI, Dodici cantate da camera cit. 16 L’alternanza più o meno regolare del modulo R-A iniziò a definirsi già a partire dagli anni ‘50 del Seicento. Nel periodo che va dal 1690 al 1730 ca., si iniziarono ad abbandonare le forme seicentesche degli ariosi e delle arie cavate e ad assistere alla consolidazione dell’aria tripartita. Tutti i pezzi chiusi presenti nelle Cantate a voce sola sono con il da capo. Cfr. ALBERTO BASSO, La cantata profana e il “Lied”, in L’età di Bach e di Haendel, Torino, EDT, 1991 (Storia della musica, 6), pp. 133-138. 17 Cfr. nota 12. Nei duetti, in numero minore rispetto alla produzione per voce sola (ancor più rare le cantate a tre voci), generalmente si utilizzava la tecnica del dialogo, una struttura polifonica a due voci in un rapporto di assoluta parità delle parti. Cfr. GIACOMO GILBERTONI, Cantate dialogiche e serenate (1706-1710) di Georg Friedrich Händel, Tesi di dottorato, Università di Bologna, 2013, pp. 43-68. 27
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
Operetta»18 si caratterizza per l’elevata raffinatezza editoriale e per essere stata una delle ultime edizioni di cantate profane a essere stampata in Italia nel XVIII secolo.19 Nel repertorio cantatistico, le musiche date alle stampe risultano essere, rispetto ai testimoni manoscritti, in numero assaiinferiore: questo dato è facilmente comprensibile considerando l’enorme diffusione conosciuta dal genere, divenuto di rapido consumo per mezzo della continua richiesta di nuove composizioni; il manoscritto, per ovvie ragioni, meglio si prestava a soddisfare le stringenti richieste della committenza. Ciononostante le edizioni ci forniscono una serie di informazioni preziosissime per quanto concerne le attribuzioni dei testi poetici, indicazioni che rappresentano una rarità per le fonti manoscritte di età metastasiana. Purtroppo sia per i Duetti che per le Cantate a voce sola non siamo in grado di determinare l’autore (o gli autori) dei versi.20 L’analisi codicologica dell’autografo francese ci permette di far risalire la realizzazione di questa raccolta ai primi trent’anni del Settecento; la filigrana, tipica della produzione cartaria veneziana, colloca la scrittura delle Cantate al periodo udinese di Bellinzani, corrispondente alla fase iniziale della sua carriera, ipotesi rafforzata dal fatto che non era inusuale per gli autori emergenti utilizzare il genere della cantata come banco di prova per dimostrare le proprie capacità compositive. I Duetti da camera, dedicati a Cornelio Bentivoglio d’Aragona (1668-1732),21 rimandano invece alla fase matura dell’autore, coincidente con il periodo in cui Bellinzani fu al servizio della cappella musicale del duomo di Pesaro e nominato accademico filarmonico bolognese. Era prassi comune per i compositori servirsi delle edizioni dedicate al repertorio cantatistico per fregiarsi del proprio status all’interno delle istituzioni in cui operarono. Le cantate ascrivibili a Bellinzani sembrano quasi incorniciare cronologicamente il percorso artistico del compositore, rammentandone l’esordio e suggellando la piena realizzazione della sua vita professionale. Il 7 giugno 1730 Bellinzani fu eletto, su segnalazione di Sua Eminenza il Cardinale San Clemente (Annibale Albani, 1682-1751), maestro di cappella della Metropolitana di Urbino. Il contesto in cui il compositore si trovò a operare fu particolarmente favorevole potendo disporre di un organico vocale e strumentale di alto profilo, un am18
Si cfr. la dedica dei Duetti da camera cit. Negli anni ‘20 e ‘30 del XVIII sec. furono date alle stampe solo due raccolte di cantate profane: nel 1726 i Duetti da camera di Bellinzani, nel 1738 le Quattro cantate da camera (o Cantate quattro) di Giovanni Battista Pergolesi che, edite a Napoli per i tipi di G. e G. Palmiero, delinearono cronologicamente la fine della stampa settecentesca dedicata al repertorio (la cantata settecentesca iniziò il suo rapido declino intorno agli anni ‘40-’50). Cfr. A. BASSO, La cantata profana cit. Sulle ragioni del declino della stampa specializzata di inizio Settecento in Italia si cfr. G. GIOVANI, Col suggello delle pubbliche stampe cit., p. 28; MICHAEL TALBOT, The chamber cantatas of Antonio Vivaldi, Woodbridge, Boydell Press, 2006, pp. 2-5. 20 Secondo G. Giovani non è improbabile che fu lo stesso Bentivoglio d’Aragona, dedicatario dei Duetti da camera, ad aver compilato i testi dell’edizione; cfr. G. GIOVANI, Col suggello delle pubbliche stampe cit., p. 200, n. 103. 21 Cfr. GASPARE DE CARO, Bentivoglio d’Aragona, Marco Cornelio, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, 1996, pp. 644-649. 19
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LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
biente musicale che permise all’autore di realizzare pagine di rara bellezza come i dieci Tantum ergo (siti in I-PESdi) da lui realizzati a cavallo tra il 1732 e il 1733.22 I testi poetici delle Cantate a voce sola, di genere amoroso e pastorale, ricalcano le convenzioni metriche e stilistiche dell’epoca, elaborati musicalmente mediante una grande varietà di soluzioni e sottigliezze compositive, alcune delle quali tipizzate e pienamente confacenti alla scrittura cantatistica, come ad esempio l’utilizzo di madrigalismi su parole chiave, altre meno usuali, come il trattamento dei recitativi che si contraddistinguono per una notevole ampiezza melodica e per l’eterogeneità cadenzale. Il basso continuo solitamente, come nel processo di emancipazione della cantata scarlattiana, non è mai assoggettato in funzione di semplice accompagnamento della voce, bensì si sviluppa ripresentando gli spunti motivici del canto in un ricorrente gioco di scambi e coinvolgenti combinazioni, un raffinato dialogo delle parti. In molte delle cantate presenti nella raccolta la tessitura vocale si dirama in una scrittura che presenta frequenti passi di agilità, dato significativo in quanto ci permette di asserire che la partitura fu realizzata per un professionista o, quanto meno, per un cantante dotato di adeguati mezzi tecnico-espressivi. Paolo Benedetto Bellinzani fu anche uno stimato didatta ed ebbe fra i suoi discenti il pesarese Pasquale Bruscolini (1718-1782), virtuoso cantore dalla brillante carriera: dal 1753 fu attivo a Dresda al servizio dell’Elettore di Sassonia la cui cappella musicale era diretta da Hasse, che volle il sopranista come interprete di molte sue opere italiane.23 È da ritenersi altamente improbabile che Bellinzani possa aver realizzato le Cantate a voce sola per il suo illustre allievo, il confronto dei dati in nostro possesso generano dislivelli cronologici e ambientali che sembrano respingere questa ipotesi. Una supposizione più realistica riguarda i rapporti lavorativi che Bellinzani intrattenne durante il periodo udinese: dal 1715 al 1719 il compositore si occupò della formazione musicale di Pietro Grattoni d’Arcano, rampollo di un’importante famiglia locale e futuro diplomatico, attività quest’ultima grazie alla quale ebbe modo di venire in contatto con musicisti del calibro di Carlo Broschi. Il Farinelli, di passaggio per il Friuli e diretto a Vienna (1731-1734), si intrattenne al castello d’Arcano dove si esibì in un’Accademia appositamente allestita per l’occasione dallo stesso Pietro, egli stesso autore di cantate.24 Bellinzani operò quindi in un contesto che gli permise di 22
Cfr. LUIGI MORANTI, La Cappella musicale del SS. Sacramento nella Metropolitana di Urbino. Inventario (1499-1964), Urbino, Accademia Raffaello, 1995; ANNA MARIA GIOMARO, Strutture amministrative, sociali e musicali nella Urbino dei Duchi: la cappella musicale del SS. Sacramento, Urbino, Quattro venti, 1994; B. LIGI, La Cappella musicale del duomo cit., p. 144. 23 Cfr. DAVIDE MARSANO, Paolo Bellinzani, il linguaggio spirituale, Tesi di laurea, Pesaro, Conservatorio Rossini, 2011/2012; PAOLO BENEDETTO BELLINZANI, Versetti per organo: manoscritto dell’Archivio capitolare del duomo di Pesaro, Davide Marsano (a c. di), Bologna, Forni, 1997, p. XV; UGO GIRONACCI-MARCO SALVARANI, Guida al Dizionario dei musicisti marchigiani di Giuseppe Radiciotti e Giovanni Spadoni, Fermo, Ass. marchigiana per la ricerca e valorizzazione delle fonti musicali, 1993, ad ind. 24 Su Pietro d’Arcano si cfr. ALBA ZANINI, Grattoni d’Arcano, Pietro, in Dizionario biografico dei Friulani, Nuovo Liruti on line, ‹www.dizionariobiograficodeifriulani.it/grattoni-darcano-pietro›; 29
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
entrare in contatto con un ambiente dotto e signorile, terreno fertile per la produzione cantatistica. La fattura del manoscritto delle Cantate a voce sola (i dettagli di pregio, l’accuratezza calligrafica, l’assenza di imprecisioni testuali) ci induce infatti a ipotizzare che la monografia sia stata realizzata per una specifica committenza. Com’è noto, l’esecuzione delle cantate da camera era destinata a un pubblico colto di intenditori in grado di comprendere le nuance della trama musicale,25 generalmente in ambienti riservati alla borghesia e all’aristocrazia o in apposite accademie. Il piccolo organico utilizzato per le Cantate a voce sola – a differenza dei brani celebrativi o politici, in cui di solito la strumentazione veniva ampliata – sembra riflettere questo tipo di entourage. Le cantate profane per voce sola e basso continuo sono, del resto, ancora nel primo Settecento, in numero assai maggiore rispetto a composizioni che prevedono l’ausilio di strumenti d’accompagnamento o concertanti.26 L’indagine sui testi poetici dell’autografo ci ha permesso di individuare alcune concordanze che interessano le prime due cantate della raccolta, Amante geloso e Pastorella disperata, i cui versi – anche in questo caso di autore ignoto e con trascurabili disuguaglianze letterarie rispetto al testimone francese – sono intonati in due manoscritti d’area napoletana: F-PN, RES-1855
INCIPIT
TESTO
CONCORDANZE
[anonimo]
GB-Lbl, Add. ms 14220 Titolo: Cantate à Voce sola di soprano di Varij [sic] Autori […] cc. 9r-13v I-Nc, Cantate 58,58(1),27 olim 33.3.1 Titolo: [Composizioni vocali profane] cc. 26r -31r vuota
[cantate autografe] Titolo spoglio: Amante [R] Non posso, ohimé, geloso | cantata prima soffire; [A] Tiranni miei cc. 1-4v pensieri; [R] Fatto geloso amante; [A] Chi non sa che cosa sia Titolo spoglio: Pastorel- [R] Sopra l’umida sponla disperata | cantata se- da; [A] Quando ti stanconda cherai; [R] Tutte l’ore cc. 4r-7v del giorno; [A] Sempre tra labra il core
[anonimo]
Tabella 1 MAURIZIO D’ARCANO GRATTONI, Arti e società in Friuli al tempo di Bartolomeo Cordans, Udine, Forum, 2007; Notizie intorno alli Sig.ri d’Arcano et alle famiglie da essi derivate degli Asquini, Grattoni, Moruzo, Giavons, ms. sec. XVIII (manca segnatura). 25 Nel genere della cantata, ancor più che nel melodramma, era possibile far emergere le raffinatezze del canto monodico che, distaccandosi dagli elementi scenografici e drammatici che caratterizzano l’opera in musica, può esprimersi in totale autonomia. 26 Cfr. A. BASSO, La cantata profana cit.; LUCA ZOPPELLI (a c. di), La Cantata da Camera nel Barocco Italiano. Atti del Convegno di Studi (Asolo, 21-22 maggio 1988), Milano, Ripartizione educazione, 1990 (I Quaderni della Civica Scuola di Musica, 19-20). 27
Cfr. Clori. Archivio della Cantata Italiana, ‹www.cantataitaliana.it›, scheda n. 1711, a c. di Diana Chiomenti. 30
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
In base ai dati in nostro possesso sappiamo che Bellinzani non ebbe in alcun modo rapporti con musicisti partenopei, le ragioni che possono chiarire le relazioni che collegano il manoscritto delle Cantate a voce sola, vergata su carta di provenienza veneta, ai due testimoni napoletani deve essere cercata altrove. Negli anni che vanno dal 1725 al 1727 si attuò quel processo che Strohm definisce di «napoletanizzazione» dell’opera veneziana, diretta conseguenza della presenza di compositori che dal Viceregno trasferirono la loro attività a Venezia: si avviò un processo di assimilazione tra i due ambienti che determinò, inevitabilmente, ricadute anche in ambito cantatistico.28 In un cospicuo gruppo di antologie di arie e cantate di fine Seicento, custodite dal Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli, il maggior numero di cantate non napoletane sono di derivazione romana, altresì le arie derivano principalmente da opere veneziane (le poche cantate di area veneta sopravvivono in manoscritti di “importazione”).29 Questo elemento è particolarmente significativo in quanto rimarca, in modo eloquente, il predominio della cantata romana da una parte e la supremazia dell’opera veneziana dall’altra. L’individuazione dell’ambiente di produzione è, forse più che in altri generi, di vitale importanza per lo studio della cantata, essendo quest’ultima indissolubilmente legata agli avvenimenti e al contesto sociale da cui si genera. In questo scenario interpreti e compositori viaggiavano tra i vari centri musicali trasportando con loro le partiture che, come spesso accadeva, potevano essere ricopiate (a fini esecutivi o di studio, conservativi, per la creazione di una silloge per una committenza privata o un’istituzione, ecc.) da altri musicisti, da semplici estimatori o da trascrittori professionisti. Questo processo rigenerativo è il principio fondante che determina l’insorgere di problemi di natura filologica che potremmo qualificare come “fisiologici” del repertorio cantatistico, in prima istanza le difficoltà riscontrate nell’attribuzione dei testi poetici, oltre che alle inevitabili corruttele tipiche di ogni vulgata testuale e alle difficoltà riscontrabili nella constitutio textus. Il dislocamento di autori e musicisti che operarono nelle grandi capitali della musica, così come nelle piccole realtà periferiche, alimentò ipso facto la circolazione della carta che si differenziava in base ai luoghi di produzione, definendo schemi di propagazione geografica imprevedibili e da valutare caso per caso, in particolare per quanto concerne l’identificazione delle filigrane che determinano la zona di produzione cartaria e da cui si presume di addurre il luogo d’origine delle fonti. 28
Non era insolito interpolare un’aria d’opera all’interno di una cantata e viceversa. Cfr. TERESA MARIA GIALDRONI, Vivaldi, la cantata e gli altri: ancora sul manoscritto di Meiningen Ed. 82, in «Studi musicali», XXXVII (2008), pp. 359-383; REINHARD STROHM, The Neapolitans in Venice, in “Con che soavità”. Studies in Italian Opera, Song and Dance, 1580-1740, a c. di Iain Fenlon e Tim Carter, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 249-274. 29 MAURO AMATO, Le antologie di arie e di arie e cantate tardo-seicentesche alla Biblioteca del Conservatorio “S. Pietro a Majella” di Napoli, Tesi di dottorato, Cremona, Scuola di Paleografia e Filologia musicale, 1991, vol. I, p. 3. 31
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
A complicare maggiormente le cose si interpongono tutti quei fattori che, durante la seconda metà del Seicento e inizio Settecento, caratterizzano l’economia e la politica dello Stato della Chiesa:30 secondo quanto riportato nel 1664 da Vincenzo D’Onofrio (Innocenzo Fuidoro), la carta prodotta dallo Stato pontificio era diffusissima a Napoli almeno, se non di più, rispetto alla produzione locale.31 Questi dati ci restituiscono solo una piccolissima parte delle difficoltà insite negli studi dedicati alla cantata, maggiori informazioni possono esserci fornite dall’osservazione dei singoli testimoni. Il manoscritto delle Cantate à Voce sola di soprano (cc. 148, 21x27 cm),32 con segnatura Add. ms 14220, fa parte della collezione appartenuta al napoletano Gaspare Selvaggi (1763-1856) e confluita, in buona parte, alla British Library (cfr. tab. 1).33 Si tratta di una raccolta di trentatré cantate [sul dorso: «Cantatas | vol. XI»] vergate per mano di diversi copisti e contenente composizioni attribuite ad Alessandro Scarlatti, Emanuele d’Astorga, Benedetto Marcello, Francesco Gasparini, Leonardo Leo, Nicola Porpora, Giuseppe Maria Orlandini, Francesco Mancini, in una successione cronologica che va dal 1720 al 1770. La cantata Non posso, ohimé, soffrire, di nostro interesse per il testo perfettamente conforme al brano che introduce l’autografo delle Cantate a voce sola, è invece di autore sconosciuto. Selvaggi fu un bibliofilo, musicista, collezionista e un rivoluzionario: nel 1791 prese parte ai circoli sovversivi francesi in territorio napoletano, motivo per cui fu costretto a espatriare per un certo periodo a Londra e, dal 1796, a Parigi.34 30
Durante il Settecento, nell’ambito dei tentativi di riforma attuati dallo Stato pontificio, si pone la condizione necessaria per trovare una soluzione adeguata al declino delle cartiere nazionali, complici l’arretratezza tecnologia degli opifici e la mancanza di cenci a causa delle esportazioni. Sul riformismo settecentesco nello Stato pontificio si cfr. NICOLA LA MARCA, Liberismo economico nello Stato pontificio, Roma, Bulzoni, 1984; LUIGI DAL PANE, Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del settecento, Milano, A. Giuffrè, 1959. 31 Giornali d’Innocenzo Fuidoro, gennaio 1664 (I-Nn X.B.14, c. 1r): «Il Papa ha posto tre Gabelle, cioè: ha cresciuta quella del Tabacco; all’Acquavita; et alla carta da scrivere, otto per cento, e per tutto il suo stato. Però in Napoli è nata una rabbia intestina a studenti, e curiali, et a tutti quelli, che hanno bisogno di scrivere; poiché li venditori d’essa in questa Città hanno alterato li prezzi, e fanno vedere la Bulla [sic] fatta dal Papa; e se li superiori volessero provedere si potria facilm[en]te, poiché alla Tripalda, e Costa d’Amalfi si potria fare la carta all’uso di quella di Foligno, e meglio ancora». 32 Fa eccezione la cantata 29, Occhi, come potete, per contralto e basso continuo. 33 Cfr. DINKO FABRIS, L’art de disperser sa collection: le cas du napolitain Gaspare Selvaggi (1763-1856), in Collectionner la musique, Turnhout, Brepols, 2015, vol. 3 (érudits collectionneurs), pp. 359-375; AUGUSTUS HUGHES-HUGHES, Catalogue of manuscript music in the British Museum, London, British Museum, 1964-1966, vol. 2, p. 526. 34 Per la biografia di Selvaggi si cfr. D. FABRIS, L’art de disperser sa collection cit; Selvaggi, Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XCI, 2018, ad v.; TERESA MARIA GIALDRONI, Leonardo Vinci e la cantata spirituale a Napoli, in Musica senza aggettivi. Studi in onore di Fedele d’Amico, a c. di Agostino Ziino, Firenze, Olschki, 1991 (Quaderni della Rivista Italiana di Musicologia, 26), pp.123-143; BENEDETTO CROCE, Don Gaspare Selvaggi, «Quaderni della Critica», III, 1947, pp. 80-87; F.-J. FÉTIS, Biographie universelle des musiciens, Paris, Firmin Didot, 1878, VIII, p. 12. 32
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
La produzione musicale di Selvaggi fu esigua: un nucleo di manoscritti autografi (che insieme ad altre copie possiamo far risalire al 1790-1813) è custodito dal conservatorio “San Pietro a Majella”, si tratta principalmente di arie e cantate (alcune su testi metastasiani), mentre la produzione a stampa consta in sette raccolte di romanze, tutte edite da stampatori francesi, sette duetti su testi del Trapassi pubblicata a Londra e un’antologia di sedici ariette per camera edite per il napoletano Girard. La figura di Selvaggi è di grande interesse per molti aspetti: da un punto di vista più strettamente attinente ai cambiamenti socio-culturali della musica napoletana, lo studioso rappresenta una figura cardine per aver dato alle stampe il suo Trattato di armonia ordinato con nuovo metodo (1823),35 testo del tutto innovativo in quanto emerge la volontà dell’autore di gestire la disciplina con precisi intenti di ordinamento e classificazione, aspetto del tutto sconosciuto alla trattatistica coeva;36 in riferimento alla produzione partenopea Sette-Ottocentesca tradita in testimoni presenti in diverse biblioteche estere, l’attività libraria di Selvaggi è a dir poco preziosa.37 Selvaggi prima di fare ritorno a Napoli nel 1810-11 si recò a Londra per circa sei mesi, fu in quest’occasione che ebbe modo di licenziare una vasta collezione musicale che cedette a Charles Compton, secondo marchese di Northampton (1790-1851), successivamente acquisita dalla British Library:38 una raccolta di 148 monografie che comprende manoscritti autografi e unica degli autori più rappresentativi della scuola napoletana. Di più difficile interpretazione risulta essere il secondo manoscritto partenopeo, ubicato adespoto e anepigrafo [sul dorso: «Anonimo | Arie Diverse | 39»] al Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli, segnato Cantate 58,58(1) [composizioni vocali profane], una raccolta di ventisette arie e trentadue cantate (cc. 198, 15,3x22,5 cm).
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Cfr. ROSA CAFIERO, Una sintesi di scuole napoletane: il Trattato di armonia di Gaspare Selvaggi (1823), «Studi musicali», XXX, 2001, pp. 411-452; GASPARE SELVAGGI, Trattato di armonia ordinato con nuovo metodo, e corredato di tavole a dichiarazione delle cose in esso esposte, Napoli, Raffaele Miranda, 1823. 36 Cfr. ROSA CAFIERO, La trattatistica musicale, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a c. di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini Edizioni, 2009, pp. 593-656: 596, 599-600. 37 Per un approfondimento sulla dispersione/ramificazione delle collezioni musicali congedate da Selvaggi si cfr. D. FABRIS, L’art de disperser sa collection cit.; ID., Selvaggi, G., in Dizionario Biografico degli Italiani cit.; GASPARE SELVAGGI, Catalogo dei libri appartenuti al fu don Gaspare Selvaggi […], Napoli, Stab. Tip. Vico de’ Ss. Filippo e Giacomo n. 26, 1859. Si cfr. inoltre ROSA CAFIERO, La creazione di un paradigma: musica antica di scuola napoletana nelle collezioni di Gaspare Selvaggi (1763-1856), in Cara scientia mia, musica: studi per Maria Caraci Vela, a c. di Angela Romagnoli et alii, Pisa, ETS, 2018, vol. 1, pp. 343-419. 38 A collection of music made by Signor Gaspar Selvaggi, of Naples (GB-Lbl, Add MS 1410114249). Di questa collezione esiste un catalogo manoscritto redatto nel 1843 da Douglas Maclean Clephane, Anna Jane, cognata di Spencer Compton: Catalogue of music collected by Signor Gaspare Selvaggi of Naples and presented to the British Museum by the Marquess of Northampton, P.R.S., April, 1843 (GB-Lbl, Add. ms 14249). 33
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
Non abbiamo riscontrato la presenza di filigrane e non siamo in grado di determinare se questa raccolta facesse parte del fondo originario Mattei-Sigismondo o sia una successiva acquisizione.39 Il testimone è di natura composita, suddiviso in due distinte sezioni: una prima parte (cc. 1-58v; c. 58r vuota) accoglie una selezione di cantate anonime40 per voce e basso continuo risalenti agli anni ’30 del Settecento; la seconda ripartizione, più estesa rispetto alla precedente (cc. 59-198v), contiene le parti vocali di arie e recitativi tratte da cantate e duetti risalenti al XVII secolo.41 La monografia fu certamente collazionata e legata in un momento successivo la realizzazione delle composizioni e con il preciso proposito di dare unità formale alla raccolta inserendo al suo interno musiche riprese unicamente dal repertorio cantatistico. Nella sezione relativa alle sole parti vocali, scritte per il registro di soprano e, in minor misura, per quello di tenore, traspare una modalità di utilizzo privata, di carattere pratico, materiale d’uso probabilmente adoperato a scopo didattico. Le dieci cantate della sezione iniziale sono di tutt’altra fattura, realizzate per un impiego conservativo o collezionistico, molto probabilmente furono commissionate da un preciso mandatario; esse sono ulteriormente suddivisibili in due sottogruppi, differenziati per veste grafica e per una netta divergenza notazionale. Le prime sei cantate (cc. 1-37, copista A) sono introdotte da grandi capilettera ornati e inquadrati all’interno di una doppia cornice, per ogni cantata appuriamo l’impiego di ornamenti dorati a chiusura dell’ultima aria, la trascrizione è elegante, attenta e accurata; le restanti quattro (cc. 38-58v, copista B)42 esibiscono una scrittura più sbrigativa, meno ricercata ma pur sempre chiara e ben leggibile, appuriamo l’assenza di lettere capitali o di qualsiasi altro elemento di pregio. Probabilmente le decorazioni di quest’ultimo nucleo di quattro cantate sono rimaste incompiute, lo si deduce dal fatto che gli spazi che generalmente sono predisposti a ospitare i capilette-
39
L’unica indicazione biblioteconomica – non più visibile sul testimone ma ben evidente nella digitalizzazione che ne ha preservato l’integrità dall’incuria del tempo – si trova al centro della controguardia anteriore, con inchiostro rosso: «Gasp. 340-I», si tratta chiaramente di un riferimento al catalogo Gasperini. Nel verso della guardia anteriore, per mano dello stesso Guido Gasperini, si legge: «Il fascicolo che comincia a facciata 56 ha rapporto con i due fascicoli, uno vocale ed uno d’accompagnamento, che sono nel volume 33-3-2 [oggi Cantate 58,58(1)]. Si tratta, a quanto pare, di tre parti di una stessa raccolta: una vocale in questo volume e una vocale e instrumentale nell’altro». In alto a sinistra si legge, a matita, un’ulteriore annotazione di Gasperini: «Cantate per voce con accomp.[agnamento] di B. C. | Autore | Anonimo». Cfr. GUIDO GASPERINI-FRANCA GALLO (a c. di), Catalogo delle opere musicali del Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli, Sala Bolognese, A. Forni, 1988 [rist. anast. ed. 1934]. 40 Nel verso della guardia anteriore, al centro, poco leggibile e quasi del tutto estinta, la dicitura «Indice» connota la volontà di redigere un elenco che non fu mai realizzato. 41 Per un totale di 27 arie e 32 cantate. Sono rappresentati autori quali Giacomo Carissimi e Luigi Rossi, in misura minore Domenico Anglesi, Francesco Boccarini e Stradella. Le parti sono scritte nella quasi totalità per soprano, solo alcune per il registro di tenore (cc. 144-151v; 182r-188v). 42 Un terzo copista ha redatto la sezione dedicata alle parti (cc. 59-198v). 34
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
ra espongono un’illustrazione disegnata a penna che si presenta ben curata nei particolari.43 In questo secondo sottogruppo segnaliamo la cantata Perché mai sì brune siete (cc. 53-58v), composizione che ha piena corrispondenza testuale e musicale con lo spoglio Cantata a voce sola | Del Sig.r Nicolò Porpora (cc. 152-157) del manoscritto Arie e cantate diverse | Porpora, sito nello stesso conservatorio di Napoli con collocazione 34.6.25, olim Cantate 4444 (probabilmente le cantate sono una la copia dell’altra).45 Per entrambi gli spogli dei manoscritti di provenienza napoletana, concordanti nella prosa con la prima e la seconda cantata dell’autografo di Bellinzani, non appuriamo alcuna analogia musicale. II Elementi comuni possono ritrovarsi nell’organizzazione formale Recitativo-AriaRecitativo-Aria, nell’utilizzo del tipico schema tonale settecentesco che prevede l’accordo iniziale del primo recitativo coincidere con la tonalità dell’ultima aria, l’uso di tempi e agogiche contrastanti nell’alternarsi dei recitativi e dei pezzi chiusi; le arie, inoltre, seguono la stessa successione delle parti (A: ritornello-voce-ritornello-voce; B: ritornello-voce-ritornello-voce; da capo). Dal punto di vista stilistico l’autore ignoto della cantata Non posso, ohimé, soffrire della collezione Selvaggi si caratterizza per il particolare uso del cromatismo; il compositore anonimo della cantata Sopra l’umida sponda del manoscritto 58,58(1), invece, per la particolare ‘teatralità’ delle cadenze utilizzate. Sono particolarmente chiarificatrici le modalità con cui gli autori connotano musicalmente il testo poetico, rivelando stilemi stilistico-compositivi analoghi ai fini della drammatizzazione, segno di una comune chiave di lettura dei codici interpretativi.
43
A eccezione dell’ultima cantata, Perché mai sì brune siete, dove il paesaggio naturale è appena abbozzato. 44 La raccolta non è monografica, al suo interno appuriamo composizioni di Domenico Natale Sarro, Benedetto Marcello, Francesco Mancini, Leonardo Leo su testi di Metastasio e Silvio Stampiglia. Il manoscritto fu assemblato dopo il 1826, anno in cui la biblioteca di Giuseppe Sigismondo fu acquisita dall’archivio del Conservatorio. Cfr. Clori. Archivio della Cantata Italiana, ‹www.cantataitaliana.it›, scheda n. 5506, a c. di Giulia Giovani; ROSA CAFIERO, Una biblioteca per la biblioteca: la collezione musicale di Giuseppe Sigismondo, in Napoli e il teatro musicale in Europa tra Sette e Ottocento. Studi in onore di Friedrich Lippmann, a c. di Bianca Maria Antolini e Wolfgang Witzenmann, Firenze, Olschki, 1993, pp. 299-367; EVERETT LAVERN SUTTON, The solo vocal works of Nicola Porpora: an annotated thematic catalogue, Ann Arbor, UMI, 1988, p. 87. 45 Un’ulteriore piena concordanza la si riscontra con la Cantata Del Sigr Nicolo Porpora contenuta all’interno di una raccolta ubicata al castello di Sünching (D-SÜN, Ms 33). 35
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
F-PN, RES-1855 (Bellinzani) GB-Lbl, Add. ms 14220 (Anonimo I)
[n. 1] Recitativo Fa maggiore (c) La minore (c)
[n. 2] Aria Sib maggiore (c) Fa♯ minore (3/8)
[n. 3] Recitativo Mib maggiore (6) (c) Do♯ minore (II6♯) (c)
[n. 4] Aria Fa maggiore (2/4) La minore (c)
Tabella 2
Mentre nel primo recitativo Bellinzani si dispiega in una declamazione vivace e metricamente regolare, l’anonimo autore del manoscritto anglo-napoletano crea invece una forte tensione emotiva generando un percorso armonico orientato ai toni lontani (nelle cesure testuali da La minore si giunge a Mib minore, Re minore e Do♯ minore) e mediante la reiterazione di alcuni versi al fine di enfatizzare la parola intonata (che subito il mio cor; ne men volgesse). Se in Bellinzani riscontriamo una mutevole direzionalità della linea vocale, l’Anonimo I presenta una serie di ribattuti relegati principalmente al registro acuto (al di sopra del sib3, tranne poche note comprese tra il la3 e il fa3).
Figura 1: [n. 1] Rec. (An. I), bb. 1-6
Nell’aria che segue il primo recitativo, Tiranni miei pensieri, il motivo vocale è introdotto in entrambi i testimoni dal basso continuo: l’Anonimo I impiega con frequenza un’interessante discesa cromatica nella parte strumentale associabile al tema del lamento.
Figura 2: [n. 2] Aria (An. I), bb. 13-16
36
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
Figura 3: [n. 2] Aria (An. I), bb. 38-45
Figura 4: [n. 2] Aria (An. I), bb. 81-88
Sulle parole chiave penare, fiamma, raffreddare, in entrambi gli autori constatiamo l’uso di estesi vocalizzi, in numero maggiore nell’autografo francese; è di particolare interesse, inoltre, il ‘riutilizzo’ contrappuntistico di un singolo frammento della melodia iniziale sviluppato dal continuo.
Figura 5: [n. 2] Aria (Bell.), bb. 2-3
Figura 6: [n. 2] Aria (Bell.), bb. 11-13
Figura 7: [n. 2] Aria (Bell.), bb. 23-25
37
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
Nell’aria finale Chi non sa che cosa sia del manoscritto Add. ms 14220 il complesso di elementi risulta essere notevolmente semplificato rispetto alla configurazione musicale adottata da Bellinzani: a seguito dell’entrata della linea vocale non constatiamo l’impiego di ritornelli strumentali al basso; la parte A si discosta raramente dalla tonalità d’impianto (La minore) e i motivi vocali delle parti A e B sono generati dallo stesso nucleo di quattro note. Segnaliamo l’uso di madrigalismi che Bellinzani adopera in corrispondenza delle parole rigor di gelosia e gelido timore.
Figura 8: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 16-20
Figura 9: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 66-73
Nella cantata Sopra l’umida sponda l’Anonimo II (corrispondente al copista A, cfr. p. 34) del manoscritto 58,58(1) utilizza il registro di contralto rispetto alla tessitura sopranile adoperata nelle Cantate a voce sola. Entrambe le composizioni sono accomunate dalla tonalità d’impianto maggiore – suggerita, con molta probabilità, dall’ambientazione pastorale – e dall’alternanza di un’aria lenta a cui sussegue un’aria in tempo moderato. Tonalità e indicazioni di tempo sono le seguenti:
F-PN, RES-1855 (Bellinzani) I-Nc 58,58(1) (Anonimo II)
[n. 1] Recitativo Re maggiore (c) Mib maggiore (c)
[n. 2] Aria Si minore (c, Adagio) Fa minore (c, Largo)
[n. 3] Recitativo Do♯ maggiore (6) (c) Lab maggiore (c)
[n. 4] Aria Re maggiore (c/2) Mib maggiore (c)
Tabella 3
In entrambi i manoscritti il primo recitativo inizia con un pedale di tonica, quasi a suggerire la quiete del paesaggio bucolico espresso dal testo poetico. Anche in quest’occasione gli autori inseriscono elementi madrigalistici: a raffigurazione del triste vagabondare della pastorella nelle prime otto battute Bellinzani, grazie all’uso reiterato della cadenza evitata, elude espressamente l’individuazione di un centro tonale e, poco più avanti, utilizzerà la dissonanza generata dall’accordo di quinta specie alle 38
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
parole [del suo] cor gl’aspri tormenti per meglio esprimere lo stato di inquietudine psicologica del soggetto letterario. Sulla parola aspri l’Anonimo II utilizza un breve vocalizzo in forma di arpeggio ascendente su un accordo, come in Bellinzani, di settima diminuita. Il testo della prima aria, Quando ti stancherai, suggerisce a entrambi gli autori un’elaborazione dell’andamento musicale basata su una specifica cellula ritmica (sedicesimo puntato/trentaduesimo); mentre all’interno del variopinto disegno melodico di Bellinzani questo elemento si configura come non caratterizzante, nel manoscritto napoletano tale modulo è di natura costitutiva.
Figura 10: [n. 2] Aria (An. II), bb. 1-4
Figura 11: [n. 2] Aria (Bell.), bb. 1-4
Anche i vocalizzi sulle parole chiave tormentarmi e pace, realizzati dagli autori in punti differenti, hanno una certa somiglianza.
Figura 12: [n. 2] Aria (An. II), bb. 25-27
39
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
Figura 13: [n. 2] Aria (Bell.), bb. 6-10
Nell’ultima aria, Sempre tra labra il core, Bellinzani inventa un motivo dalla fisionomia totalmente differente rispetto a quello della prima parte mentre l’Anonimo II riutilizzerà la cellula ritmica puntata.
Figura 14: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 1-12
Figura 15: [n. 4] Aria (An. II), bb. 1-7
Nella parte vocale è da evidenziare l’uso che fa l’Anonimo II di un particolare modulo melodico, variamente trasposto, ripreso dalla precedente aria (b. 27; fig. 16).
Figura 16 40
LE CANTATE A VOCE SOLA DI PAOLO BENEDETTO BELLINZANI
Le parole chiave mora e morte vengono descritte musicalmente da Bellinzani tramite l’impiego di vocalizzi dal profilo discendente (bb. 24, 81)
Figura 17: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 22-28
Figura 18: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 80-89
o con dissonanze non preparate,
Figura 19: [n. 4] Aria (Bell.), bb. 103-106
mentre l’Anonimo II opta, solo a conclusione della parte B, per una soluzione ‘d’effetto’ come per la seguente cadenza.
41
GIOVANNI BIANCO – SAVERIO SANTONI
Figura: 20 - [n. 4] Aria (An. II), bb. 56-58
L’analisi e il confronto delle partiture in esame mettono in risalto, da una parte, la raffinatezza stilistica delle Cantate a voce sola – in cui ancora una volta Bellinzani si dimostra autore sensibile e accorto –, dall’altra, la levatura compositiva delle cantate d’aria napoletana, contraddistinte per una sapiente scrittura sia sotto il profilo del trattamento vocale-strumentale che contrappuntistico.
42
Salvatore Esposito Ferraioli - Simona Peluso1 RICERCHE STORICO-MUSICOLOGICHE SULLA LAUDA DI TRADIZ,ONE ALFONSIANA-REDENTORISTA Introduzione La lauda è un componimento poetico-musicale di argomento religioso e di carattere popolare, tipico della letteratura italiana del XIII e XIV secolo, ma sopravvissuto a lungo nei secoli successivi. Durante la stagione medioevale, l’esecuzione di laude ha rappresentato un elemento centrale nelle attività paraliturgiche delle compagnie di laudesi e delle confraternite di flagellanti, con i quali assunse anche una forte valenza spettacolare.2 Dal primitivo repertorio monodico, caratterizzato dalle forme semplici e austere attestate dal laudario di Cortona, si passò nel córso del XIV secolo a uno stile più melismatico, influenzato dalla concomitante affermazione dell’Ars Nova.3 Di estrema importanza ecclesiologica è la valorizzazione del laicato, prodotta attraverso l’esecuzione di laude. I laici si affiancavano o addirittura si sostituivano ai sacerdoti specialmente nell’apostolato del venerdì santo, mettendo in scena la Passio Domini al fine di indurre i peccatori a penitenza.4 Si potrebbe affermare che, oltre a rispondere alla necessità di concedere al laicato la facoltà di annunciare in maniera essenziale e piacevole i principali misteri cristiani, questa prassi si configura quasi come una presa di Parola dei laici stessi: esclusi dalla predicazione e dalla spiegazione di argomenti teologico-dottrinali, essi «potevano almeno così – cantando o rappresentando – partecipare se non alla vera e propria liturgia per lo meno a forme paraliturgiche».5 Successivamente, grazie alla sua versatilità, la lauda conquistò anche gli ambienti cólti, emancipandosi dagli abituali contesti penitenziali: elaborata polifonicamente da esperti compositori e assimilata ad altre forme musicali profane coeve come la can-
1
Il contributo è frutto di ricerche condotte in collaborazione dai due autori e concordato in ogni sua parte. La redazione è stata suddivisa in due blocchi: quella delle pagine 43-64 è di Simona Peluso; quella delle pagine 65-86 è di Salvatore Esposito Ferraioli. Le conclusioni sono di Simona Peluso. 2 Cfr. ARSENIO FRUGONI, Sui flagellanti del 1260, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 75, Roma, Aziende Tipografiche Eredi dott. G. Bardi, 1963, pp. 216-217. 3 Cfr. FERNANDO LIUZZI, La lauda e i primordi della melodia italiana I vol., Roma, Libreria dello Stato, 1935, pp. 44-121. 4 Cfr. FRANCO MANCINI, Lauda, in Dizionario critico della Letteratura italiana, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1986, p. 550. 5 GIOVANNA CASAGRANDE, La fraternita dei Raccomandati di Maria, in Le fraternite medievali di Assisi, linee storiche e testi statutari, a cura di Ugolino Nicolini, Enrico Menestò e Francesco Santucci, Perugia, Centro di ricerca e di studio sul movimento dei disciplinati, 1989, pp. 27-28. 43
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
zone, il madrigale e la frottola,6 è pervenuta in numerose raccolte destinate alla fruizione di laici e religiosi con la dichiarata funzione di costituire un repertorio di svago, alternativo a quello mondano, considerato causa di perdizione.7 Devono essere ricondotte a questo scopo le prassi esecutive della contrafactio, del travestimento spirituale, del cantasi come, con le quali si recuperavano la melodia e lo schema metrico di composizioni profane o sacre preesistenti per adattarle agli argomenti desiderati. Dopo il concilio di Trento, secondo la musicologa Anne Piéjus, la lauda si afferma in due modalità divergenti, ma non del tutto estranee da influenze reciproche: da un lato, la lauda “pedagogica”, impiegata come strumento di catechesi nella diffusione della dottrina cristiana; dall’altro, una alta tradizione laudistica polifonica, che «perpétue les caractéristiques des liturgies sociales médiévales et renaissantes, et se conçoit aussi bien comme un chant processionnel que comme l’élément d’une dramaturgie complexe, mise en œuvre en particulier lors de cérémonies extraordinaires».8 Questa descrizione rende soltanto parzialmente la complessità del fenomeno, poiché è plausibile supporre l’esistenza di un repertorio sommerso, non codificato in manoscritti o raccolte a stampa, coltivato tra il popolo come espressione della sua religiosità. Cantato e trasmesso in forma orale, esso rimane a margine rispetto agli studi accademici e alla storiografia musicale ufficiale e potrebbe essere esplorato principalmente in modo indiretto attraverso testimonianze a carattere cronachistico. Un esempio in tal senso potrebbe essere considerato il saggio Melodie, folclorismo e sta6
Cfr. GIANCARLO ROSTIROLLA, Laudi e canti natalizi in una inedita fonte fiorentina del primo Settecento, in La lauda spirituale tra Cinque e Seicento. Poesie e canti devozionali nell’Italia della Controriforma, a cura di Giuseppe Filippi, Luciano Luciani, Michele Toscano, Danilo Zardin e Elena Zomparelli, Roma, IBIMUS, 2001, p. 522: «Fin dal tempo del Savonarola, compilatori di antologie di laudi con testi e musiche preferirono infatti ricorrere – com’è noto –, per “attrarre le anime”, al repertorio più facilmente circolante nel mondo secolare (canzoni, canzonette, villanelle, napolitane, canti carnascialeschi, canzoni a ballo, frottole, pastorelle etc.), adattandolo attraverso il “travestimento spirituale”, la contrafactio etc. alle esigenze religiose.». Cfr., inoltre, circa la produzione laudistica di santa Caterina da Bologna, ELISABETTA GRAZIOSI, Scrivere in convento: devozione, encomio, persuasione nelle rime delle monache fra Cinque e Seicento, in Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1996, pp. 307-308: «sono barzellette, strambotti, frottole, piccole odi, composizioni per il canto dai moduli elementari che si offrono all’improvvisazione e alla variazione estemporanea. Proprio negli anni in cui, fra Quattro e Cinquecento, a Firenze andavano in stampa le prime raccolte di testi laudistici anonimi e d’autore, intonati sulle arie delle canzoni profane più note, a Bologna e all’interno di un monastero dall’origine ferrarese la tematica religiosa alleggeriva l’impianto della lauda e assumeva le forme della poesia per musica che si praticava nelle corti». 7 Emblematica, a questo proposito, è la posizione del compositore di origine piemontese Giovanni Giovenale Ancina (1545-1604), che collaborò con san Filippo Neri nella Congregazione dell’Oratorio a Roma e a Napoli: egli riteneva che la musica profana, oscena e lasciva, conducesse le anime alla dannazione e per questo ne trasformava i testi con la prassi della contrafactio o travestimento spirituale, se non si spingeva addirittura fino a distruggere le copie di brani profani delle quali entrava in possesso. Cfr. GIANCARLO ROSTIROLLA, La musica a Roma al tempo del Baronio, in La lauda spirituale tra Cinque e Seicento cit., pp. 49-73. 8 ANNE PIÉJUS, Stratégies pastorales, stratégies musicales, in La musica dei semplici. L’altra Controriforma, a cura di Stefania Nanni, Roma, Viella, 2012, p. 290. 44
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
tue di sant’Alfonso, in cui lo studioso redentorista Oreste Gregorio (1903-1976), sulla base di fonti archivistiche, scrive: Ci sembra grave lo sbaglio dell’attribuzione dei versi e della melodia di «Offesi te, mio Dio» al Liguori: è invece una lauda penitenziale del sec. XVI.9 Il flebile motivo si cantava durante il ‘600 nel Regno di Napoli: il Card. Orsini, arcivescovo di Benevento, poi Papa Benedetto XIII, la raccomandava verso il 1699 ai suoi diocesani.10 Sant’Alfonso mai rivendicò a sé i versi predetti; li trovò e li adottò nel suo sistema missionario.11
Al repertorio non scritto, nato da questa prassi, si riallaccerebbe la successiva produzione laudistica di sant’Alfonso Maria de Liguori (1696-1787) e dei membri della congregazione da lui fondata.12 Il musicologo redentorista Paolo Saturno ritiene che le cause della mancata codificazione di tale produzione siano da rintracciare nel fatto che fosse destinata a fruitori carenti di ogni preparazione tecnico-musicale, per cui sarebbe stato pressoché inutile, oltre che impossibile, fissarla in spartiti e consacrarla alla memoria storica.13 Diversa è la sorte della produzione laudistica cólta, che era invece destinata a gruppi specializzati di esecutori:14 opportunamente annotata e consegnata alle stampe, essa rappresenta l’oggetto ideale degli studi musicologici, come nel caso del repertorio in uso ai padri filippini e gesuiti. D’altra parte, bisogna riconoscere che se ne rendeva necessaria una trascrizione puntuale, poiché la polifonia sa9
Cfr. GIOVANNI ROSSI, Le fonti della grazia, Assisi, Pro Civitate Christiana, 1961, p. 475. Cfr. Arch. Parrocchiale di S. Nicola Manfredi, Notificazioni pastorali. 11 ORESTE GREGORIO, Melodie, folclorismo e statue di sant’Alfonso, «Spicilegium Historicum CSSR» 17, 1969, pp. 164-165. Si segnalano, a titolo esemplificativo, alcuni saggi in cui è possibile trovare altri riferimenti circa il canto di laude da parte del popolo: GIUSEPPE ORLANDI, L. A. Muratori e le Missioni di p. Segneri Jr., «Spicilegium Historicum CSSR» 20, 1972, pp. 158-294; GIUSEPPE ORLANDI, Missioni parrocchiali e drammatica popolare, «Spicilegium Historicum CSSR» 22, 1974, p. 324; BERNADETTE MAJORANA, Elementi drammatici della predicazione missionaria. Osservazioni su un caso gesuitico tra XVII e XVIII secolo, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Seicento, a cura di Giacomo Martina S. J. e Ugo Dovere, Roma, Edizioni Dehoniane, 1996, pp. 142-143. 12 Si tratta della Congregazione del Santissimo Redentore (C.Ss.R.), fondata a Scala nel 1732: una famiglia di religiosi missionari, i cui membri sono detti redentoristi. 13 Un caso degno di ulteriori approfondimenti è rappresentato dalla Raccolta di Sacre Poesie Popolari fatta da Giovanni Pellegrini nel 1446 e pubblicata a Bologna dal prof. Giuseppe Ferraro nel 1877. Posta alla mia attenzione dal collega Salvatore Esposito Ferraioli, essa riporta i testi poetici, privi di notazione musicale, del manoscritto quattrocentesco identificato col numero 307, OD1, tra i codici ferraresi nella municipale Biblioteca di Ferrara. Nella prefazione, il Ferraro offre notizie preziose circa l’epoca e l’attribuzione di alcuni dei componimenti riportati, con esplicito riferimento al popolo nell’espressione: «Il canto M e la parafrasi del Pater nostro, non mi farebbe meraviglia che fossero ancora oggidì cantati dai poveri della campagna ferrarese». Testimoniando la persistenza nella sua epoca di un repertorio più antico di alcuni secoli, è plausibile che lo studioso alludesse al fenomeno della trasmissione orale. 14 Cfr. PAOLO SATURNO, Inedito del Settecento musicale napoletano, in Aspetti della cultura napoletana del Settecento letterari, artistici, musicali, Nocera Superiore (Sa), Università delle Tre Età Nuceria, 2015, pp. 70-71. 10
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
rebbe stata piuttosto ardua da ricordare e tramandare oralmente, a differenza del canto monodico o al più condotto per terze parallele tipico del popolo. In un panorama tanto multiforme e articolato, la lauda alfonsiano-redentorista costituisce un fenomeno peculiare, che per alcuni aspetti non è possibile accomunare agli altri repertori di epoca post-tridentina. Per quanto riguarda la sua genesi, bisogna riconoscere che essa si inserì in un solco già tracciato dalla tradizione missionaria precedente, configurandosi tuttavia per una attenzione programmatica nei confronti del linguaggio del popolo: melodie di ascendenza tradizionale, per lo più procedenti per gradi congiunti, erano abbinate a versi di immediata intelligibilità, emendati da ogni espressione forzata, se non addirittura composti in vernacolo come alcune laude del canzoniere di Mattia Del Piano.15 L’elemento più sorprendente è rappresentato dal fatto che tale corpus di laude è ancóra in uso nell’Italia meridionale e in particolare nei luoghi in cui è vissuto sant’Alfonso Maria de Liguori: non si tratta di un repertorio storico, che sopravvive solo sui libri stampati o al più viene riproposto in concerti occasionali di nicchia, ma fa parte di una tradizione liturgica e paraliturgica che dura da alcuni secoli e che è stata consolidata grazie all’incisiva attività missionaria dei padri redentoristi. A Pagani (Sa), nella basilica in cui è custodito il corpo del Santo napoletano, le laude di tradizione alfonsiana sono cantate ininterrottamente da quando egli era ancóra in vita, non solo durante le missioni popolari. Il collega Salvatore Esposito Ferraioli ha raccolto dalla viva voce dell’anziano paganese Vincenzo Pepe testimonianze dirette circa il coinvolgimento dei fedeli nell’esecuzione di questi brani a Pagani durante le attività liturgiche e paraliturgiche prima e dopo il Concilio Vaticano II, corroborate dalle testimonianze di alcuni sacerdoti e dall’esistenza di libricini stampati dagli stessi redentoristi in quegli anni: uno di essi, curato dal parroco Paolo Pietrafesa, dal titolo Chi canta prega due volte, reca infatti la dicitura «ad uso della basilica di s. Alfonso», a differenza di altre raccolte in cui è dichiarato «Il presente libretto è un necessario supplemento delle Massime Eterne [di sant’Alfonso M. De Liguori, ndr] e serve specialmente per le Missioni».16 Attualmente, grazie al Coro Polifonico Alfonsiano, fondato nel 1994 e specializzato nel repertorio della tradizione alfonsianoredentorista, questo corpus di canti è utilizzato per le attività liturgiche, paraliturgiche, concertistiche, discografiche e musicologiche, non solo a Pagani, ma in tutta la penisola italiana. A Bracigliano (Sa), prima della spettacolare Via Crucis del Venerdì Santo, quindi in contesto paraliturgico, nella chiesa dedicata a san Giovanni Battista, davanti alle
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Cfr. MATTIA DEL PIANO, Il freno della lingua ovvero Laudi spirituali composte nell’idioma toscano, e napoletano per lo popolo, Napoli, Fratelli Paci, 1779, pp. 197-252. 16 Cfr. Sempre con te, 1959 [manca il nome del curatore e della casa editrice]; Preghiere, Canti, Ricordi, Materdomini (Avellino), Editrice San Gerardo Maiella, 1966 [manca il nome del curatore]; Chi canta prega due volte, a cura di Paolo Pietrafesa, Pagani [manca l’anno di stampa, ma è databile negli anni ’80 del secolo scorso, durante il quale il padre Pietrafesa fu parroco della basilica di Pagani]. Questi libricini recano solo i testi delle laude (chiamate anche canzoncine spirituali): essendo destinati al popolo, sarebbe stato superfluo aggiungerne anche le intonazioni. 46
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statue del Cristo morto e di Maria addolorata, è tradizione intonare Gesù mio, con dure funi, un canto dalla struttura litanica attribuito a sant’Alfonso. Oltre all’esempio specifico di questi due luoghi, ve ne sono molti altri, sui quali per motivi di spazio non è opportuno soffermarsi; ne riportiamo solo alcuni: Sant’Agata dei Goti (Bn); Scala (Sa); Battipaglia (Sa); Torre del Greco (Na); Anacapri (Na); Casagiove (Ce); Santa Lucia di Serino (Av); Foggia; Genova; Filogaso (Vv); Tropea (Vv); Santa Domenica di Ricadi (Vv); Falerna (Cz); Sant’Andrea Jonio (Cz); Villa San Giuseppe (Rc); Pettogallico (Rc); Santa Caterina Albanese (Cs); Lauropoli (Cs); Larino (Cb); Muro Lucano (Pz); Picerno (Pz).17 Questo elenco non è da considerarsi esaustivo, specialmente in considerazione della capillare diffusione su tutto il territorio nazionale dei canti natalizi Tu scendi dalle stelle e Quanno nascette Ninno. Un’altra peculiarità del filone musicale alfonsiano-redentorista è rappresentata dal fatto che, oltre ad avere una consolidata tradizione esecutiva, esso continua ad arricchirsi di nuove composizioni: da una parte vi sono opere cólte, come le odi e le cantate sacre di Alfonso Vitale; dall’altra vi sono le opere di carattere popolare, come le laude musicate da Mosè Simonetta, Antonio Saturno, Paolo Saturno e lo stesso Vitale. Altrettanto singolare è la trasmissione delle intonazioni: mentre la maggior parte degli altri repertori laudistici sono giunti in raccolte stampate con testi e musiche, a riprova del fatto che i destinatari avessero una preparazione tale da essere in grado di interpretarli, le laude del filone alfonsiano-redentorista sono state codificate in notazione musicale soltanto più tardi, ad uso interno dei padri missionari, alcuni dei quali hanno redatto delle raccolte manoscritte per garantirne la memoria storica.18 In realtà, queste melodie hanno circolato principalmente in forma orale sia tra i redentoristi che tra il popolo, specialmente in ragione del fatto che i testi potevano essere adattati a diverse intonazioni, a seconda della necessità, per consentire al popolo di memorizzarli più facilmente: i redentoristi, infatti, sull’esempio del loro fondatore, non consideravano la musica come una forma d’arte fine a se stessa o come strumento di fascinazione, in grado di appassionare l’uditorio e proiettarlo in un’esperienza trascendente, ma avevano compreso la grande efficacia di coinvolgere attivamente il popolo nel canto e pertanto avevano cura di cucire i testi delle laude su canovacci musicali già noti ai fedeli. Si spiega, in tal modo, anche il fatto che in coda alle opere spirituali di sant’Alfonso M. De Liguori siano stati pubblicati i soli testi poetici delle laude. Quattro erano presumibilmente i motivi di questa prassi: l’intonazione musicale non era necessaria, poiché i destinatari non possedevano una preparazione che li rendesse in grado di intepretare uno spartito; inoltre, essa non era generalmente costituita da composizioni originali, da pubblicare per salvaguardarne la paternità; i testi delle laude potevano essere usati anche come strumento eucologico e, quindi, essere destinati alla lettura intima o comunitaria; infine, uno stesso testo poteva essere abbi17
Cfr. Le Canzoncine di S. Alfonso. Testi e Melodie, a cura di SALVATORE BRUGNANO, «S. Alfonso» 3, 2002, pp. 4-62. 18 Cfr. ivi, pp. 2-3. 47
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nato di volta in volta a una diversa intonazione musicale, già conosciuta dal popolo. Non è un caso, infatti, che di uno stesso canto siano giunte molteplici versioni melodiche, anche a seconda dei diversi luoghi in cui se ne è conservata la tradizione musicale, come emerge dalla raccolta di canzoncine curata dal padre redentorista Salvatore Brugnano. L’attribuzione certa dei testi e delle melodie dell’una o dell’altra composizione, seppure per certi versi di secondaria importanza rispetto alle intenzioni con cui erano concepite, appare tutt’altro che scontata, se non impossibile da determinare. Di questo problema si occupa la vexata quaestio musicalis alfonsiana, nata più di ottanta anni fa con la pubblicazione del Canzoniere Alfonsiano a cura del padre redentorista Oreste Gregorio19 e ancóra vivacemente animata soprattutto dagli studi sul Quanno nascette Ninno a Bettalemme di Paolo Saturno20 e di Angelomichele De Spirito.21 Storia della musicologia alfonsiano-redentorista La tradizione musicale alfonsiano-redentorista è stata oggetto di alcuni studi, sorti specialmente nell’àmbito della congregazione; tuttavia, sono molti gli aspetti che ancóra oggi necessitano di essere ulteriormente approfonditi, chiariti o rettificati. Dall’analisi dei principali contributi pubblicati nell’ultimo secolo, è possibile proporre una ripartizione della musicologia alfonsiano-redentorista in quattro fasi o periodi. La suddivisione non è condotta secondo criteri strettamente cronologici, ma logicoorganizzativi, allo scopo di individuare e orientarsi più facilmente tra i documenti (raccolte manoscritte e a stampa; incisioni su vari supporti; video-registrazioni; cronache di attività missionaria; cronache di attività concertistica e liturgica; biografie; carteggi e diari; studi letterari e musicologici; etc.). Non sorprenderà, dunque, se dalla descrizione di queste fasi emergerà che esse sono talvolta intrecciate tra loro. Prima fase: etnomusicologica La prima fase, che può essere definita etnomusicologica, è quella in cui alcuni padri redentoristi si sono preoccupati di trascrivere o di far trascrivere le melodie tradizionali dalla viva voce dei padri più anziani o da quella del popolo. Di nessuna melo19
Cfr. ORESTE GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano. Studio critico estetico col testo, Angri (Sa), Tipografia C. Contieri, 1933, pp. 30-49. 20 Per la quaestio musicalis alfonsiana in generale, cfr. PAOLO SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana, in Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo. Atti del Convegno internazionale per il Bicentenario della morte del santo (1787-1987) II vol., a cura di Pompeo Giannantonio, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1990, pp. 577-598. Per il Quanno nascette Ninno a Bettalemme, cfr. ID., Inedito del Settecento musicale napoletano cit., pp. 71- 77; ID., Alessandro Speranza e Sant’Alfonso Maria de Liguori. Affinità musicali, discrepanze spirituali, in Alessandro Speranza e la musica sacra a Napoli nel Settecento. Atti del Convegno nazionale di studi. Avellino, 20-21 novembre 2015, a cura di Antonio Caroccia e Marina Marino, Avellino, edizioni ilCimarosa, 2016, pp. 130-131. 21 Cfr. ANGELOMICHELE DE SPIRITO, Sant’Alfonso e il più antico canto popolare italiano, «Spicilegium Historicum CSSR» 63, 2015, pp. 225-252. 48
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dia, infatti, è giunto un esemplare autografo di sant’Alfonso né di eventuali altri autori o una copia originale:22 per decenni questo repertorio era stato tramandato oralmente nelle missioni popolari, nei noviziati e negli studentati liguorini, poi cantato dalla gente «nelle Chiese durante le sacre funzioni, nelle case, nei campi».23 Questo lavoro etnomusicologico ha dato origine a una serie di preziose raccolte manoscritte o stampate, di cui si fornisce un elenco per quanto possibile in ordine cronologico, anche se non esaustivo, con una descrizione delle principali caratteristiche riportate nei testi di Paolo Saturno24 e di Salvatore Brugnano.25 Alcune di queste antologie non sono ascrivibili al mondo redentorista, ma sono ugualmente importanti, per eventuali raffronti e perché testimoniano la diffusione delle canzoncine. Il primo tentativo di trascrizione risale al 1830 circa: si tratta della Raccolta Mautone, consistente in sei canzoncine di cui il padre Giuseppe Mautone (1765-1845), redentorista della prima generazione diventato procuratore generale dell’Istituto e postulatore della causa di canonizzazione di sant’Alfonso, commissionò la trascrizione al maestro Salvatore Meluzzi (1811-1897). Secondo quanto dice Brugnano, tale raccolta è in possesso dell’Archivio Generale redentorista di Roma. All’inizio del secolo scorso fu redatta la Raccolta Villanacci-Vitullo, nata dalla trascrizione che il padre Francesco Villanacci (1880-1933), buon conoscitore di musica, fece delle melodie ascoltate dalla viva voce del padre Giuseppe Vitullo (1870-1949), il quale aveva avuto l’opportunità di apprendere i canti alfonsiani in luoghi tipicamente legati alla vita del santo e alla tradizione redentorista. Tra le trascrizioni non redentoriste, si trova un testo stampato nel 1910 a Torino, che reca questo titolo: Libretto di preghiere e 125 canti spirituali per il popolo: compilati e pubblicati a cura di A. e C. Padre Salvatore Brugnano specifica che esso consta di 240 pagine ed è fornito di un indice; il Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale OPAC SBN consultabile online ne riporta una sola copia situata nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Torino. Nel 1912 fu stampata a Roma una raccolta dal titolo Canzoncine spirituali per le SS. Missioni e per il Mese Mariano. Secondo quanto scrive il Saturno essa è stata curata da un anonimo religioso redentorista, mentre il Brugnano la attribuisce al padre Giuseppe Masquilier, un parigino nato nel 1868 che giunse a Roma insieme ad altri confratelli dopo essere stato espulso dalla Francia. Probabilmente agli anni Venti del secolo scorso risalgono due testi a stampa non datati: uno di ambiente redentorista dal titolo In alto i cuori, pubblicato a Roma 22
Cfr. PAOLO SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., p. 579. L’autore basa la sua affermazione sulla consultazione della tradizione manoscritta liguorina del materiale predicabile, come trasmesso fino alla pubblicazione in tre volumi del padre FRANCESCO MINERVINO, Le Nostre Missioni, Materdomini (Av), Editrice San Gerardo Maiella, 1965. 23 Cfr. Le Melodie di S. Alfonso M. de Liguori in alcuni suoi canti popolari e Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo, a cura di Antonio Di Coste, Roma, Tipografia Agostiniana, 1932, pp. 17-21. 24 Cfr. SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., pp. 583-590. 25 Cfr. SALVATORE BRUGNANO, Introduzione, «S. Alfonso» XVI/3, maggio-giugno 2002, pp. 2-3; ID., Introduzione, «S. Alfonso» XVIII/3, maggio-giugno 2004, pp. 2-3. 49
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(chiesa pontificia di San Gioacchino), che consta di 164 pagine e che il Brugnano chiama Raccolta Romana; l’altro di ambiente non redentorista, ribattezzato da Brugnano Piccola Antologia, mancante delle prime 19 pagine (su un totale di 240) e quindi sprovvisto dei dati identificativi. Alla fonte comune del manoscritto del padre Enrico Saetta26 (1874-1948), che fu adottato nel noviziato e nello studentato napoletano come la fonte quasi ufficiale delle melodie tradizionali alfonsiane, si ispirano tre raccolte di notevole valore, in quanto derivanti dalla tradizione interna redentorista. Esse contengono melodie trascritte dalla viva voce dei padri della seconda metà dell’Ottocento, che si rifacevano alla tradizione risalente agli inizi dell’Istituto. La Raccolta Capone, secondo il Saturno compilata dal padre Domenico Capone (1907-1995) durante il suo anno di noviziato nel 1923 (Salvatore Brugnano ritiene che il manoscritto sia stato riprodotto a partire dal secondo decennio del secolo scorso), è la più antica delle tre. La Raccolta Masone, stilata nel 1929 dal padre Ermelindo Masone (1909-1990) durante il suo anno di noviziato (collocato però dal Brugnano tra il 1927 e il 1928), è impreziosita dal fatto che essa sola contiene le sei melodie della Raccolta Mautone, ricopiate con «la bella grafia del p. Alfredo Ruggiero (1910-1982)».27 La Raccolta Santonicola, riportata solo nel saggio del Saturno, fu compilata nel 1937 dal padre Alfonso Santonicola (1901-1972) ed è significativa perché attinse al manoscritto del padre Saetta nonostante nel 1932 il padre Antonio Di Coste (1865-1944) avesse pubblicato una sua versione delle melodie alfonsiane. La Raccolta Di Coste fu stampata a Roma in occasione del secondo centenario della nascita della Congregazione (1932). L’intestazione recita così: Le Melodie di S. Alfonso M. de Liguori in alcuni suoi canti popolari e Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo a cura del P. Di Coste Antonio d. SS. Red. Consultore Generale. Il libro si apre devotamente con una dedica all’amatissimo padre S. Alfonso M. de Liguori ed è strutturato in due parti: nella prima parte sono riportate venti melodie alfonsiane con accompagnamento per strumento a tastiera del maestro Magri, precedute da una introduzione ai lettori e seguite dai relativi testi poetici; nella seconda è pubblicato lo spartito del Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo o Canto della Passione, scritto nella forma musicale della cantata sacra barocca italiana,28 che rappresenta l’unica composizione cólta del Santo pervenuta. Il limite del lavoro dicostiano sta nella sua cieca fiducia nelle melodie ascoltate dall’anziano Domenico Scaligina, redentorista che – secondo quanto scriveva il padre Capone in una lettera – «fu appena uno o due anni in Congregazione e poi Garibaldi lo spedì a casa»:29 il Saturno precisa che la notizia riportata si riferisce alla soppressione della Congregazione avvenuta nel 1861. Padre Oreste Gregorio, in un articolo citato dal Saturno, rimprovera al Di Coste il fatto di essersi affidato ad un unico testimone, basandosi sulle sue conoscenze empiriche e omettendo qualunque elementare investigazione per individuare affinità o divergenze con le 26
Il padre Saetta suonava discretamente l’organo, ma solo ad orecchio; perciò si era servito di un suo nipote musicista per la trascrizione delle melodie alfonsiane. 27 Cfr. SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., p. 584. 28 Cfr. ID., Inedito del Settecento musicale napoletano cit., p. 100. 29 ID., La tradizione musicale alfonsiana cit., p. 588. 50
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trascrizioni delle melodie alfonsiane possedute dagli altri missionari redentoristi, compromettendo non poco la serietà del lavoro. Ancóra nella prima metà del XX secolo si colloca la Raccolta De Simone, compilata dal missionario Oreste De Simone (1914-2012). Si tratta di un fascicolo manoscritto con oltre duecento laude della tradizione missionaria redentorista, la cui trascrizione si ferma al 1949. Sulla pagina sinistra è riportato il testo, su quella destra la melodia. Risale al 1965 la pubblicazione della Raccolta Pietrafesa, a cura del laborioso pubblicista padre Paolo Pietrafesa (1924-1990), che riporta le melodie alfonsiane secondo la tradizione dei redentoristi della provincia napoletana. Oltre alla raccolta stampata, egli ha lasciato due libretti manoscritti, rispettivamente di 156 e 186 pagine. Un’altra antologia compilata al di fuori dell’ambiente redentorista, datata intorno agli anni Settanta e diffusa in duplicazione ciclostilata, è la Raccolta Seminario Salerno, che consta di 390 pagine con testi e melodie, motivo per il quale Brugnano la definisce ricchissima. Vi sono poi cinque manoscritti non precisamente databili, due dei quali sono quelli lasciati dal padre Pietrafesa. La Raccolta Di Chio Leonardo (1897-1988) è stata compilata da un redentorista molto cólto e versato negli studi danteschi, che ha lasciato nelle sue carte tracce di un tentativo di catalogazione delle canzoncine tradizionali. La Raccolta Marciano Enrico (1914-2007), un libretto di poco più di duecento pagine, contiene testi e melodie trascritti dal missionario della provincia napoletana. Infine, Brugnano ricorda anche la Raccolta Cataldo Vincenzo (1924-1998), un manoscritto di quasi cento pagine con testi e melodie raccolti dal professore e missionario redentorista. Infine, si ricorda l’attività di registrazione e trascrizione di canti dalla viva voce dei fedeli, operata dai sacerdoti redentoristi Mosè Simonetta (1933-2015) e Salvatore Brugnano (1947-) e confluita nella raccolta curata da quest’ultimo. Seconda fase: filologica La seconda fase, che può essere definita filologica, è quella in cui si è cercato di stabilire l’autentica paternità delle laude alfonsiane e di ricostruirne l’urtext, cioè la forma o redazione originale. Dal punto di vista letterario, questa fase è legata al lavoro di Oreste Gregorio (1903-1976), insigne studioso redentorista. Con la pubblicazione del già citato Canzoniere Alfonsiano nel 1933, egli ha avuto il grande merito di rivendicare a sant’Alfonso poeta e musicista un posto d’onore nella critica letteraria del nostro Paese, ponendolo sullo stesso piano di altri significativi esponenti della poesia religiosa italiana. Un limite riscontrabile nello studio del Gregorio, oltre ai toni forse troppo apologetici, è quello di aver voluto a tutti i costi costruire un culto letterario attorno al Santo, talvolta a scapito della verità. Così si è spostato anche in campo accademico il feno51
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meno della pseudoepigrafia alfonsiana, per il quale sant’Alfonso già era considerato da tutti il «trovatore popolare dell’amore divino».30 Alla luce degli ultimi sviluppi della musicologia alfonsiana, appare superato specialmente il capitolo terzo sull’autenticità delle canzoncine, che è come il fulcro ideale di tutto lo studio: già dalle prime parole del Canzoniere, l’autore muove infatti dal presupposto che le laude consegnate dalla tradizione sotto il nome di Alfonso, eccetto pochi casi,31 siano effettivamente da attribuirsi alla sua penna. Pur con questi limiti, l’opera risulta provvidenziale: sebbene, infatti, contro la mancanza di neutralità da parte del Gregorio si possa affermare che sant’Alfonso non ha bisogno delle canzoncine per essere grande, è da riconoscere che queste avevano bisogno di lui e del suo nome, grazie al quale sono state tramandate e si sono conservate fino a noi. Dal punto di vista musicale, questa fase è legata al lavoro di Salvatore Brugnano, un redentorista nato nel 1947 che ha curato delle edizioni di melodie alfonsiane32 e della tradizione redentorista33 sul periodico «S. Alfonso» a partire dal 1982. Egli ha raccolto alcune di esse dalla viva voce della gente in diverse zone dell’Italia meridionale, dove si è recato per la sua attività di apostolato. Il suo contributo si distingue dai precedenti perché, sebbene per ammissione dello stesso curatore esso abbia un «valore essenzialmente antologico»,34 tuttavia alla base vi è un lavoro di comparazione tra le numerose versioni e varianti riscontrate per una medesima canzoncina: Brugnano pubblica una o più melodie per ciascuna lauda (fino a quattro versioni diverse), accordando la preferenza in primo luogo alle intonazioni della tradizione redentorista più antica e in secondo luogo alle varianti significative.35 Come egli stesso ricorda nell’introduzione, la trascrizione delle melodie al computer è stata realizzata con l’aiuto del padre redentorista Mosè Simonetta. Il merito di queste pubblicazioni è quello di aver fornito uno strumento utile, anche se parziale, per la diffusione e lo studio del «repertorio cantato alfonsiano, o almeno un repertorio concertistico».36
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GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. IX. Cfr. ivi, pp. 40-49. Gregorio lascia in sospeso il giudizio sulle laude Salve del ciel Regina, Offesi te, mio Dio e Il mio Dio mi manda qui per deficienza di prove certe; egli sottrae ad Alfonso la paternità solo di alcune laude, per le quali l’errore è troppo evidente, come per Figlio, deh! Torna, o figlio attribuita al discepolo di s. Alfonso padre Gaspare Caione e per le canzoncine Quando penso alla mia sorte di Mons. Maiello, O bello Dio, Signor del Paradiso di Mons. Falcoia e Chiamando Maria del padre Spina. 32 Cfr. Le Canzoncine di S. Alfonso cit., pp. 4-64. 33 Cfr. SALVATORE BRUGNANO, Canti di missione e di vita cristiana, Canti in onore di Gesù, Canti in onore della Madonna, Canti in onore di Santi, «S. Alfonso» XVIII/3, maggio-giugno 2004, pp. 4-63. 34 ID., Introduzione, «S. Alfonso» XVI/3 cit., p. 2. 35 Cfr. ivi, p. 2: Brugnano definisce varianti o varianti di versioni significative quelle che costituiscono una variante della melodia di base o quelle che oggi così sono diffuse e cantate tra il popolo. 36 Ivi, p. 3. 31
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Terza fase: dell’attività di Paolo Saturno e Alfonso Vitale La terza fase è legata all’attività instancabile e feconda dei due redentoristi Paolo Saturno (1944-) e Alfonso Vitale (1937-2018), docenti emeriti del Conservatorio di Musica “Giuseppe Martucci” di Salerno, il primo di Storia della Musica37 e il secondo di Composizione.38 «Custodi della vocalità e musicalità di sant’Alfonso»,39 ne sono divenuti «gli specialisti e i punti di riferimento».40 Essi hanno sempre lavorato insieme per la riscoperta e la valorizzazione della musica alfonsiana,41 ciascuno apportando il suo contributo specifico: Paolo Saturno ha contribuito in qualità di musicologo, direttore di coro e direttore d’orchestra;42 Alfonso Vitale ha contribuito in qualità di compositore «dotato di eccezionale carisma».43 Questa fase si è aperta ufficialmente nel maggio del 1988 con il convegno internazionale per il bicentenario della morte di sant’Alfonso (1787-1987), organizzato a cura del prof. Pompeo Giannantonio. Tra le relazioni degli studiosi, vi fu anche quella di Paolo Saturno,44 che può essere considerata come uno spartiacque nella storia della musicologia alfonsiano-redentorista. Essa parte dal pressupposto che sant’Alfonso ha conseguito durante la sua preadolescenza e adolescenza una completa formazione musicale, come si evince dalla testimonianza del biografo padre Antonio Maria Tannoia45 (1727-1808) e dall’esame del Duetto tra l’anima e Gesù Cristo. Attraverso una 37
Cfr. GIOVANNI DE FALCO, Il magistero di Paolo Saturno, «Positano News» [Testata online], 8/11/2013 (ultima consultazione 13/11/2019 all’indirizzo web https://www.positanonews.it/2013/11/ilmagistero-di-paolo-saturno/77294/). 38 Cfr. PAOLO SATURNO, Alfonso Vitale, la più alta espressione italiana della musica redentorista, «Il Saggio» 142, Gennaio 2008-XII, p. 10; ID., Alfonso Vitale, la più alta espressione italiana della musica redentorista, «Il Saggio» 144, Marzo 2008-XIII, pp. 10-11; ID., Alfonso Vitale, la più alta espressione italiana della musica redentorista, «Il Saggio» 145, Aprile 2008-XIII, pp. 10-11. 39 ANTONIO SATURNO, Libretto, in CORO POLIFONICO ALFONSIANO - GRUPPO STRUMENTALE ALFATERNA, Laude della tradizione missionaria redentorista [CD-ROM], Pagani, 2014. 40 BRUGNANO, Introduzione, in S. Alfonso XVI/3 cit., p. 2. 41 Cfr. GEREMIA PARAGGIO, Le Cantate Alfonsiane, «Il Saggio» 21, Febbraio 1998-III, p. 6. 42 Cfr. DE FALCO, ivi. 43 La poesia e la musica di Alfonso de Liguori e la tradizione missionaria redentorista, a cura di Alfonso Amarante, Materdomini (AV), Editrice San Gerardo, 2006, p. 67. 44 Cfr. SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., pp. 577-598. 45 Cfr. ANTONIO MARIA TANNOIA, Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de Goti e fondatore della Congregazione de Preti Missionari del SS. Rendentore I vol., Napoli, editore Vincenzo Orsini, 1798, pp. 8-9 (ultima consultazione 13/11/2019 all’indirizzo web http://www.intratext.com/IXT/ITA2115/). Al capitolo terzo vi si legge: «Essendo D. Giuseppe suo Padre molto appassionato per la Musica, volle che anche il figlio con perfezione ci fosse riuscito. Tre ore ogni giorno se le doveva divertire in camera Alfonso con Maestro; ed era tale l’impegno di suo Padre, che non potendoci talvolta assistere, come soleva, chiudeva al di fuori l’uscio con chiave, e lasciandolo col maestro, partivane per gli suoi affari. Non era ancora Alfonso in età di dodici in tredici anni, che toccava il cembalo da maestro. Avendo fatta rappresentare i Padri Girolimini l’opera di S. Alessio da varj Cavalerotti, vi recitò anche Alfonso; e dovendo rappresentare la parte del Demonio in atto di sonar il cembalo, lo toccò con tal maestria, che tutta l’udienza ne restò stupita. Ne piangeva Alfonso nell’ultima sua vecchiaia questa sua applicazione: 53
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puntuale analisi dello status quaestionis e un excursus historicus, il Saturno giunge ad evidenziare come gli studi fino ad allora condotti (l’introduzione del padre Antonio Di Coste alla pubblicazione del 1932;46 un articolo del padre redentorista Antonio Canuto, firmato con lo pseudonimo «Il Ceciliano» e pubblicato nel 1935 sul periodico «S. Alfonso»;47 un saggio di Oreste Gregorio dal titolo Melodie, folclorismo e statue di sant’Alfonso, pubblicato nel 1969;48 l’introduzione del padre Salvatore Brugnano alla pubblicazione delle Canzoncine alfonsiane da lui curata nel 1982)49 abbiano un solo comune denominatore, cioè «la preoccupazione di individuare, quanto più è possibile, l’autentica melodia alfonsiana di questa o quella canzoncina, attraverso le differenti versioni che ci sono pervenute».50 Infine, egli espone le sue conclusioni relativamente a tre problemi che ineriscono alla complessa quaestio musicalis alfonsiana. Il primo problema è se ci sia stata o meno una redazione autografa iniziale delle Canzoncine da parte di s. Alfonso. Il Saturno scrive così: il mio pensiero è che ci sia stata, anche se, forse, non per tutte. I motivi sono diversi. Innanzi tutto la testimonianza del Messina. Narra il sacerdote Giuseppe Messina, il quale nel 1762 era ancora redentorista: «Suonando una volta (Alfonso M.) al cembalo, venuto da Roma (dopo di esser stato consacrato vescovo a S. Maria sopra Minerva; a Pagani fu sui primi di luglio), io gli cercai alcune carte da sé composte, come la Salve regina e il Duetto di Gesù Cristo e l’anima».51 Nel testo citato si dice che S. Alfonso consegnò al Messina alcuni suoi manoscritti, il che chiaramente significa che egli scriveva le sue melodie, semmai anche armonizzandole, visto che conosceva benissimo la tecnica del Basso Continuo, secondo quanto ci è dato di osservare dall’armonizzazione del Duetto. C’è pero una testimonianza che in parte turba questa sicurezza. Cito da Bogaerts: «Parendo a Monsignore che i giovani fossero troppo applicati, e volendo dar loro un qualche sollievo che nello stesso tempo fosse il vantaggio allo spirito, fé venire in seminario il maestro di Cappella don Alessandro Speranza, virtuoso e zelante. Avendo Alfonso M. fatto mettere in musica le sue canzoni, godeva nel vedere ammaePazzo che sono stato, disse un giorno guardando il cembalo, in averci perduto tanto tempo; ma doveva ubbidire, perchè cosi voleva mio Padre. Riuscì così eccellente nella Musica, e nella Poesia, che anche vecchio metteva in nota, e componeva a meraviglia. Abbiamo tra le sue canzoni un duetto tra l’Anima, e Gesù appassionato, che da’ Musici fè cantare per intermezzo tra il Catechismo, e la Predica, allorchè in Napoli diede gli esercizj nella gran Chiesa detta la Trinità de’ Pellegrini. Più avrebbe spiccato il suo talento nella Poesia Latina, ed Italiana, se egli non avesse avuto di mira più la divozione ne’ popoli, che il pascere l’intelletto, come si vede nelle tante canzoni da esso composte; e ve ne sono delle eccellenti. Chi le legge ammira, e conosce, non volendo, la mano maestra, che le ha formate». 46 Cfr. Le Melodie di S. Alfonso M. de Liguori cit., pp. 7-22. 47 Cfr. IL CECILIANO, Canzoncine spirituali trascritte quali le cantava S. Alfonso M. De’ Liguori da Salvatore Meluzzi che le udiva da P. G. Mautone della Congr. del SS. Red. contemporaneo del Santo, «S. Alfonso» VI/7, luglio 1935, pp. 189-192. 48 Cfr. GREGORIO, Melodie, folclorismo e statue di sant’Alfonso cit., pp. 157-182. 49 Cfr. BRUGNANO, Introduzione, in Le canzoncine spirituali di S. Alfonso, Materdomini (Av), Valsele Tipografica, 1982, pp. 3-9. 50 SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., p. 591. 51 In D. CAPONE, S. Alfonso Missionario, Materdomini, Valsele Tipografica, 1987, p. 87. Il Capone cita dal Kuntz, VI 413 e dall’Archivio Generale Redentorista, 17a-VII. 54
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA strati nel canto in tempo di sollievo i giovani, e di udirli cantare, allorché uscivano a spasso, o quando si trattavano nella comune ricreazione del pomeriggio o della sera. Egli medesimi non di rado dava l’intonazione, godendo sommamente di vederli allegri e giulivi».52 Alla luce di questa affermazione è d’obbligo chiedersi cosa possa significare «fé venire in seminario il maestro di cappella don Alessandro Speranza» e soprattutto «avendo fatto mettere in musica le sue canzoni (…) fé venire (…)». Certo significa che il vescovo lo incaricò di insegnare canto e forse organo o armonium ai seminaristi. Più difficile è capire cosa possa significare: «avendo fatto mettere in musica le sue canzoni». Fece forse rimusicare i versi delle sue canzoncine? Oppure fece scrivere le sue melodie non scritte? O fece musicare alcune canzoncine proprie, da lui però non messe in musica? A me, in verità, non sembra probabile che facesse musicare canzoncine già da lui stesso intonate, perché non ce ne sarebbe stata necessità. Ugualmente non sarebbe stato possibile ammettere che facesse scrivere sotto dettatura le proprie melodie, perché sarebbe stato più semplice scriverle lui stesso. Rimane possibile che egli facesse musicare qualcosa da lui non messo in nota.53
Il secondo problema viene formulato dal musicologo con il quesito «Come possono essersi smarrite queste carte?».54 Egli ritiene che gli sconvolgimenti politici subìti dal Meridione nel XIX secolo abbiano influito sullo smarrimento degli spartiti musicali, poiché furono coinvolte anche le famiglie religiose e, tra queste, la Congregazione del Santissimo Redentore. Nel ricordare che i liguorini non sapevano leggere gli spartiti musicali, il Saturno paragona l’interesse dei religiosi per i fogli pentagrammati a quello per i geroglifici dell’antico Egitto, tanto più che essi erano «alle prese non tanto col canto, quanto con la parola», poiché «il contenuto di quelli era diventato indiscusso patrimonio del popolo».55 Inoltre, egli formula l’ipotesi secondo cui, in séguito alle «leggi eversive del nuovo Stato italiano, che nel 1866 impose la chiusura delle case religiose»,56 i padri redentoristi abbiano potuto affidare alle famiglie amiche i presumibili autografi del Santo con lo scopo di tutelarne la conservazione, oppure li abbiano ritenuti presso le proprie case, alle quali erano stati costretti a rientrare: infatti, molti dei religiosi dell’Istituto soppresso non vi fecero più ritorno nel momento in cui esso fu riabilitato nell’anno 1880.57 52
J. BOGAERTS, op. cit. [S. Alphonse de Liguori Musicien et la reforme du chant sagré, Paris, P. Lethielleux, 1899, p. 67.]. Cito dal testo tradotto in italiano pp. 60-61. L’episodio è riportato anche dal Tannoia, III, XII, e dal Capecelatro, La vita di Sant’Alfonso M. de’ Liguori, Roma, Desclée, Lefebvre e C., 1893, vol. II, I, III, cap. II. Questa notizia è riportata anche dal p. S. Schiavone nel capitolo Anacreonte cristiano, p. 160 e seguenti (manoscritto). 53 SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., pp. 593-595. 54 Ivi, p. 595. 55 Ivi, p. 595. 56 ID., Trentesimo della traslazione dei resti mortali del Servo di Dio P. Giuseppe Leone a Trinitapoli, «Il Saggio» 213, Dicembre 2013-XVIII, p. 11. 57 Cfr. ID., Padre Giuseppe Leone, redentorista modello di santità e dottrina liguorina dell’Ottocento, «Il Saggio» 220, Luglio 2014-XIX, p. 11: «il quindicennio 1865-1880 approssimativamente fu un periodo duro per gli Istituti religiosi che, all’indomani dell’Unità d’Italia, furono soppressi. Il nuovo governo unitario, mentre mantenne un certo rispetto nei confronti del clero diocesano impegnato in attività parrocchiali, fu del tutto ostile a quello regolare, cui sottrasse soprattutto beni immobili.» 55
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
Il terzo problema riguarda la diversità delle melodie trasmesse attraverso le varie raccolte. Lo studioso rimprovera a coloro che prima di lui si erano accinti a risolvere la questione di essere partiti dal discutibile presupposto che, dopo circa due secoli di trasmissione orale, le melodie del Santo potessero conservarsi intatte come erano uscite dalla sua penna; motivo per il quale, rinvenendosi delle divergenze, essi si proposero di determinare, tra le melodie pervenute, quelle che fossero rimaste sicuramente autentiche. Padre Paolo Saturno sostiene, piuttosto, la necessità di affrontare il problema dal punto di vista filologico, tentando cioè di ricostruire un eventuale archetipo a partire dalle varianti riscontrate.58 Alla ricerca musicologica sulla lauda e sulla cantata sacra italiana,59 il Saturno abbinò presto una intensa attività concertistica con l’ensemble Coro Polifonico Alfonsiano - Orchestra Alfaterna, da lui fondato e carismaticamente diretto.60 In simbiotica collaborazione con il maestro Alfonso Vitale, è stata così inaugurata una nuova età d’oro per la musica alfonsiano-redentorista, che ha «conquistato in pochi anni uno spessore internazionale»,61 diventando un repertorio vivo grazie a numerose incisioni su musicassette e compact-disc; video-registrazioni; trasmissioni televisive su reti locali, nazionali e internazionali; migliaia di concerti e animazioni liturgiche; senza dimenticare gli studi, le pubblicazioni e i convegni.62 Il maestro Alfonso Vitale ha dedicato gran parte della sua attività di compositore a quella che il Saturno definisce «sublimazione della canzoncina liguoriana».63 Infatti, i canti della tradizione alfonsiano-redentorista non solo hanno fatto da modello per un genere popolare che ha prodotto esemplari del tipo di Mira il tuo popolo, Dell’aurora tu sorgi più bella, T’adoriam, Ostia divina,64 ma hanno costituito anche un fecondo materiale per nuove composizioni cόlte.65 Vitale si è inserito in un fenomeno già esplorato, tra gli altri, dai compositori Lorenzo Perosi (1872-1956), Giuseppe Voci (1911-1998) e Giuseppe Fugazzola (1885-1948),66 ma l’ha portato ad un livello più alto sia dal punto di vista dello spessore compositivo che della prolificità. 58
Cfr. ID., La tradizione musicale alfonsiana cit., pp. 595-596. Cfr. ID., Alessandro Speranza e Sant’Alfonso Maria de Liguori cit., p. 155: nella nota numero 53 emerge anche l’importanza che il contributo della studiosa Magda Marx Weber ha avuto per la nascita di questi studi. 60 Cfr. PARAGGIO, Le Cantate Alfonsiane cit., p. 6. 61 PAOLO SATURNO, Il Convegno sulla musica alfonsiano-redentorista, 16/11/2008 (ultima consultazione 13/11/2019 all’indirizzo web https://studylibit.com/doc/439754/convegno-sulla-musicaalfonsiano-redentorista). 62 Cfr. a titolo di esempio PAOLO SATURNO, Copiosa apud eum redemptio. Cantata della Passione secondo S. Alfonso M. de Liguori elaborata per soli, coro e orchestra dal M° Alfonso Vitale C.SS.R. su testi e musiche di s. Alfonso M. de Liguori. Guida all’ascolto, Materdomini (Av), Valsele Tipografica, 2000, pp. 9-10; ID., La lauda da San Francesco a Sant’Alfonso, «Il Saggio» 74, Maggio 2002-VII. 63 Ivi, p. 11. 64 Cfr. ID., Alfonso Vitale cit., p. 10. 65 Cfr. ID., Giuseppe Voci, compositore gerardino e alfonsiano, «Il Saggio» 64, Luglio 2001-VI, p. 10. 66 Cfr. ID., La lauda da San Francesco a Sant’Alfonso cit., p. 11. 59
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LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
Le opere più imponenti del Vitale sono le dodici cantate sacre, nelle quali le canzoncine tradizionali sono state incastonate come pietre preziose in una poderosa architettura strumentale di stampo wagneriano: la cantata della Passione Copiosa apud eum redemptio (1995); la cantata mariana Spes nostra, salve (1995); la cantata natalizia europea Tu scendi dalle stelle (1996); la cantata eucaristica O pane del cielo (1998); la cantata gerardina S. Gerardo. Una storia meravigliosa in tre quadri: notte di dolore, visioni e transito, gloria (2000); la cantata biblica Ghenesis 2000 (2000); la cantata alfonsiana S. Alfonso: visione, morte, gloria (2001); la cantata storica Ritorno di Padre Giuseppe Leone a Casal Trinità (2003); la cantata La vera storia di s. Filomena di Mugnano (2005); la cantata Santa Giovanna Antida Thouret, vergine forte (2008); la cantata in onore della serva di Dio Suor Maria Luigia del Cuore di Gesù, francescana penitente e mistica (2011); la cantata Don Tommaso Fusco, Beato della città di Pagani (2012). Esse sono state tutte incise su musicassette e compact disc. Il catalogo della produzione vitaliana è ricco di moltissime altre composizioni, tra cui: la Messa Alfonsiana67 e la Messa Gerardina; il melodramma sacro La giornata di Monsignore; numerosi brani da camera; diverse odi per soli, coro e orchestra; opere varie di ogni stampo e stile, per i più disparati organici e in ogni linguaggio musicale (seriale-dodecafonico, atonale, politonale, tonale, modale); trascrizioni e orchestrazioni. Molte delle sue opere, in particolare le cantate, sono nate dalla rielaborazione contrappuntistica dei temi alfonsiani, i quali si trovano così ad avere una nuova vita:68 Il Vitale, compositivamente incline al linguaggio dodecafonico, convertitosi all’alfonsianesimo, rappresenta oggi il più fervente assertore della musica del Padre, con l’impegno che sta profondendo a piene mani nello svilupparne le potenziali premesse. […] E se è vero che Alfonso de Liguori si sviluppa attraverso Alfonso Vitale, è altrettanto vero che Alfonso Vitale si realizza attraverso la musica alfonsiana.69
Tutte le composizioni del maestro Alfonso Vitale sono state eseguite in concerti dal vivo su tutto il territorio nazionale. Sebbene – come scrive il suo confratello e collega – il Vitale sia stato riluttante all’uso della penna, sia per comporre (la sua preferenza è accordata alla matita, in quanto permette di correggere gli errori sul medesimo pentagramma e perciò di scrivere direttamente in bella copia) che per lasciare una traccia delle sue numerose intuizioni e scoperte, ha tuttavia dato alle stampe qualche saggio: un’analisi dei canti alfonsiani all’interno della pubblicazione Dove Gesù ten vai? curata dal maestro Gio-
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Cfr. ID., La Messa Alfonsiana del M° A. Vitale, «Il Saggio» 69, Dicembre 2001-VI, pp. 10-11: «Alfonsiana è l’aggettivo che qualifica la natura musicale di questa Messa, in quanto i temi di tutte le sue parti adottano come cantus firmus una melodia di s. Alfonso: - il Signore, pietà il motivo di Offesi te, mio Dio; - il Gloria quello di Evviva Maria; - l’Alleluja quello di Mondo più per me non sei; - il Santo quello di Tu scendi dalle stelle; - l’Agnello di Dio quello di O bella mia speranza». 68 Cfr. ID., Alfonso Vitale cit., pp. 10-11. 69 Ivi, p. 11. 57
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
vanni Vitale70 e il saggio Caratteristiche musicali delle canzoncine-laude di Alfonso de Liguori71 all’interno del volume La poesia e la musica di Alfonso de Liguori e la tradizione missionaria redentorista, curato dal padre redentorista Alfonso Amarante. Quarta fase: dei nuovi studi musicologici sulla lauda alfonsiano redentorista Questa fase, ancóra in córso,72 è stata avviata dagli studi condotti da Paolo Saturno sulla paternità del canto Quanno nascette Ninno a Bettalemme. Il musicologo redentorista riassume la problematica nella nota numero 36 del suo saggio Alessandro Speranza e Sant’Alfonso Maria de Liguori. Affinità musicali, discrepanze spirituali: Il problema della paternità del Quanno nascette Ninno è dibattuto almeno dal Natale del 1985. In quel periodo Roberto De Simone scrisse un articolo su Il Mattino, in cui metteva in dubbio la paternità alfonsiana del celebre poemetto pastorale. Un redentorista, p. Giuseppe Corona (1902-1987), rispose con una pubblicazione di 72 pagine, in cui sosteneva il contrario (G. CORONA, Quanno nascette Ninno a Bettalemme l’autore del poemetto è certamente s. Alfonso Maria dei Liguori, Cortese, Napoli 1985). Il M° De Simone partiva dalla constatazione del fatto che nella penisola sorrentina, durante le sue ricerche etnomusicologiche, aveva ascoltato il canto natalizio con delle varianti, che lo avevano indotto al dubbio. Il p. Corona, da buon filosofo qual era, ne sosteneva la paternità alfonsiana con soli ragionamenti teoretici. Qualche anno fa, propendente anch’io verso la stessa convinzione per motivi più musicali che poetici, scrissi un articolo sulla rivista, S. Alfonso, che suscitò molto più interesse di quanto ne potessi supporre. Fui dunque invitato dalla redazione di Spicilegium historicum Congregationis SS. Redemptoris, la rivista storico-scientifica dei Redentoristi, a farne argomento di un saggio. Ricercando materiale che mi potesse illuminare sull’argomento, m’imbattei nella raccolta delle laudi di MATTIA DEL PIANO, Il freno della lingua ovvero laudi spirituali composte nell’idioma toscano, e napoletano per lo popolo, Paci, Napoli 1779, pp. 278, dove trovai il testo del Quanno nascette Ninno (pp. 207-215) con quello di Giesù Cristo peccerillo. Pensando che il Del Piano fosse solo il collettore delle laudi e non l’autore, cominciai a leggere l’introduzione cercando 70
Cfr. SATURNO, Alfonso Vitale, la più alta espressione italiana della musica redentorista, «Il Saggio» 143, Febbraio 2008-XIII, p. 10: contributi rilevanti del genio vitaliano, come la teorizzazione dell’accordo di ventitreesima, sono stati riportati in articoli e saggi di Paolo Saturno. 71 Cfr. ALFONSO VITALE, Caratteristiche musicali delle canzoncine-laude di Alfonso de Liguori, in La poesia e la musica di Alfonso de Liguori e la tradizione missionaria redentorista cit., pp. 67-71. 72 Una nuova fase di studi era stata auspicata dal Saturno, il quale a pagina 155 del suo saggio Alessandro Speranza e Sant’Alfonso Maria de Liguori cit. scrive: «È da augurarsi che, come s. Alfonso è stato all’origine della nuova ricerca musicologica relativa alla cantata sacra, così lo possa essere anche della canzoncina devota o spirituale, su cui abbiamo appuntato l’attenzione da anni e da cui sono scaturiti degli studi. Cito la tesi di laurea di Maria Schettino, L’opera religiosa di Leonard Giustinian nell’evoluzione della lauda, Università degli Studi di Salerno, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Pedagogia, anno accademico 1985/86, relatore prof. Achille Mango; la tesi ancora in corso di stesura - La lauda monodica da san Francesco a sant’Alfonso - di Simona Peluso per il conseguimento del Baccellierato in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica “San Tommaso d’Aquino” di Capodimonte (Napoli) con il prof. Mario Iadanza; il mio studio, Le canzoncine-laude di Alfonso de Liguori in La Poesia e la musica di Alfonso de Liguori e la Tradizione missionaria redentorista, AA. VV., a cura di A. Amarante, Editrice San Gerardo, Materdomini (AV) 2006, pp. 23-42». 58
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA di trovarvi argomenti a mio favore: più leggevo e più apprendevo che l’autore era lui. Quando riportava qualche testo di altro poeta, ne indicava scrupolosamente l’autore soprattutto se si trattava di s. Alfonso, che lui indica sempre con l’espressione “Ill. Mons. D. Alfonso Maria de Liguori, già vescovo di S. Agata dei Goti e Rettore Maggiore della Congregazione del SS. Redentore”. A questo punto telefonai alla redazione per dire che avevo fatto una dolorosa scoperta e che forse non era il caso di andare avanti. La risposta fu: veritas ante omnia, e amicus Plato, sed magis amica veritas. La difficoltà maggiore, però, era un’altra: occorreva scardinare le argomentazioni di uno storico redentorista, p. Oreste Gregorio (1903-1976). Per addolcire la pillola, cominciai a darne notizia quasi accidentalmente in articoli e cd. Uno studioso amico, l’antropologo Angelomichele De Spirito, che mi aveva incoraggiato ad andare avanti nella ricerca e al quale avevo dato le giuste indicazioni per venire in possesso del testo di Del Piano, essendo pervenuto a conclusioni opposte alle mie, mi ha fatto anche la gradita sorpresa di anticiparmi con una pubblicazione sulla stessa rivista su cui sono impegnato io da circa tre anni (A. DE SPIRITO, Sant’Alfonso e il più antico canto popolare italiano in SHCSR 63; 2015, pp. 225-252). Sono contento della cosa perché, avendo studiato approfonditamente il suo saggio, mi sono convinto ancora di più di quanto vado affermando da tempo. Spero che per il prossimo Natale possa essere pubblicato anche il mio lavoro, e chiudere definitivamente la vexata quaestio.73
Con l’analisi dell’opera del sacerdote Mattia del Piano74 (1741-?) e lo studio del canzoniere della beata suor Maria Celeste Crostarosa75 (1696-1755), entrambi vissuti nel XVIII secolo e legati alla figura di s. Alfonso M. de Liguori, Saturno e Vitale hanno poi approfondito gli aspetti relativi all’impiego della prassi esecutiva del cantasi come nel repertorio musicale alfonsiano-redentorista. Due sono i motivi più plausibili che potevano spingere l’autore di un testo a ricorrere a questa antichissima prassi.76 Nel saggio I “cantasi come” della Beata Suor Maria Celeste Crostarosa, il Saturno scrive:
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SATURNO, Alessandro Speranza e Sant’Alfonso Maria de Liguori cit., pp. 130-131. Cfr. DEL PIANO, Il freno della lingua cit. 75 Cfr. MARIA CELESTE CROSTAROSA, Canzoncine, a cura di Stefania Mangia e Sabatino Majorano, Materdomini (Av), Editrice San Gerardo, 2008. 76 Tra le più remote testimonianze della prassi del cantasi come, si ricordano le indicazioni fornite dal titoletto dei salmi biblici, che, oltre alle informazioni circa l’autore, l’occasione e la circostanza liturgica della composizione, sul carattere o genere del salmo, spesso reca anche suggerimenti sulla modalità di esecuzione, attraverso le formule: Su «I torchi», Su «La morte del figlio», Su «Cerva dell’aurora», Su «I gigli», Su «Macalàt», Su «Colomba dei terebinti lontani», Su «Non distruggere», Su «Il giglio della testimonianza», Su «Iedutùn», Sull’aria di «Macalàt leannòt». Esse riportavano il nome di un canto noto, sulla cui melodia doveva essere intonato il Salmo. Non è raro che più di un salmo abbia come modello lo stesso canto. Cfr. V. SCIPPA, Salmi. Volume 1, Padova, Messaggero di sant’Antonio - Editrice, 2002, p. 249. Paolo Saturno, a pagina 71 del già citato saggio Inedito del Settecento musicale napoletano, ricorda che anche gli antichi Greci utilizzavano questa prassi, da essi denominata nomos. 74
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO L’espressione, cantasi come, significa che un poeta, il quale voleva far cantare i suoi versi, non sapendoli musicare, adoperava melodie precedenti indicando solo il titolo della composizione da cui bisognava attingere la melodia da utilizzare.77
In questa prima ipotesi, dunque, l’accento è posto sulla mancanza di preparazione musicale di un poeta: è il caso di Suor Maria Celeste Crostarosa, ma anche di autori precedenti, come il domenicano marradese Serafino Razzi. Egli, «che modestamente e onestamente dichiara “non essere nella musica molto introdotto”, cercò di adattare le arie più note e più gradite ai testi poetici di rinomati autori»78 o da lui stesso dettati secondo lo schema melico-ritmico delle melodie preesistenti. Un secondo motivo per cui era utilizzata la prassi del cantasi come è trattato dal Saturno nel saggio Inedito del Settecento musicale napoletano: Per quanto riguarda la natura di queste melodie [quelle del corpus di laude alfonsianoredentorista, ndr], va detto che esse per la loro stessa finalità non potevano essere né troppo elaborate, né del tutto nuove. Il principio su cui si fondavano era il presupposto della facilità dell’apprendimento e la corrispondenza, per quanto possibile, al significato delle parole. Per ciò che attiene alla facilità dell’apprendimento, va detto che, se già la memorizzazione del testo letterario comportava impegno, non conveniva aggiungerle anche quella della musica, tenuto conto del grado di preparazione dei destinatari. Dunque la tecnica più semplice, per un facile apprendimento dei nuovi brani, era l’utilizzazione di melodie preesistenti già note al popolo. Ciò spiega anche perché le melodie, a differenza dei testi, non venivano trascritte. […] Per quanto riguarda la corrispondenza tra melodie e testi poetici, pur restando nella prassi dell’utilizzazione di canti preesistenti, si sceglievano quelle melodie che maggiormente interpretavano il senso delle parole. Pensiamo ad es. alla pastorale, di cui Alfonso de Liguori si servì per rivestire di note il suo Tu scendi dalle stelle. Essa era un topos musicale della natività del Redentore cristallizzato dall’uso. Simile, infatti, è quello utilizzato ab immemorabili dagli zampognari durante la novena del Natale. Simile si trova anche in quasi tutte le nenie natalizie. Simile è l’incipit utilizzato da Palestrina (1525-1595) nel suo mottetto natalizio, Dies santificatus, e nell’omonima Missa parodia.79
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PAOLO SATURNO, I “cantasi come” della Beata Suor Maria Celeste Crostarosa, «Il Saggio» 243, Giugno 2016-XXI, pp. 10-11. 78 GIUSEPPE VECCHI, Premessa, in SERAFINO RAZZI, Libro primo delle Laudi spirituali. Ristampa anastatica, Bologna, Forni Editore, 1969, p. 3. 79 SATURNO, Inedito del Settecento musicale napoletano cit., pp. 71-72. Una storia analoga deve essere stata quella della melodia popolare del Quanno nascette Ninno a Bettalemme (questo canto è stato tramandato con almeno due melodie differenti, perciò è opportuno chiarire che quando si parla di melodia popolare, si intende quella seguìta da ROBERTO DE SIMONE e che procede per gradi congiunti discendenti, mentre quando si parla di melodia tradizionale redentorista, si intende quella che inizia con un salto di quarta ascendente; cfr. BRUGNANO, Le canzoncine cit., pp. 8-9): Salvatore Esposito Ferraioli ha, infatti, dimostrato che, sebbene il testo poetico del canto sia stato pubblicato per la prima volta nel 1779 nella raccolta di Mattia del Piano, la melodia popolare era già preesistente, se Georg Friedrich Händel ne inserisce l’incipit nell’aria He shall feed his flock like a shepherd dell’oratorio Il Messia. 60
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
Mattia del Piano e Celeste Crostarosa, ricalcando metri e temi dei canti alfonsiani che essi certamente conoscevano,80 hanno inteso esprimere non soltanto il loro genio poetico, ma anche la profonda stima che nutrivano nei confronti di monsignor Alfonso de Liguori.81 Vitale e Saturno ritengono essere dei cantasi come alfonsiani almeno tre componimenti del primo (Maria Ss. Assonna Gesù bambino, parafrasi del Fermarono i cieli;82 Gesù mio con mille pene, parafrasi di Gesù mio, con dure funi; A Maria nostra speranza, parafrasi di O bella mia speranza) e quattro della seconda (Dialogo tra l’anima ed il suo sposo Giesù, eco d’amore, da intonare con le note de Il tuo gusto e non il mio; È tradito e preso, condotto ne’ tribunali, da intonare con le note di Partendo dal mondo; Flagellato, coronato di spine e crocifisso, da intonare con le note di O fieri flagelli; Dello sposalizio del Verbo con la natura umana, da intonare con le note di Fermarono i cieli). I sette brani sono stati eseguiti a Scala il 7 maggio 2016 dal Coro Polifonico Alfonsiano, secondo la prassi del cantasi come, nella esemplificazione della relazione-concerto di Paolo Saturno al Convegno di Studi dal titolo Maria Celeste memoria vivente. La Missione e il suo messaggio spirituale, tenuto in occasione della beatificazione della fondatrice delle Suore Redentoriste.83 Con questi presupposti, non pare strano o difficile riconoscere che anche alcune liriche alfonsiane siano in realtà dei cantasi come, senza che per questo il loro valore sia sminuito. Tale fenomeno, infatti, al pari di quello della pseudoepigrafia, per la mentalità contemporanea può risultare assurdo o bizzarro, mentre per la mentalità antica era del tutto normale. Anzi, è stato ben evidenziato dal Saturno che l’utilizzo di melodie preesistenti da parte di Alfonso de Liguori o di altri, prima e dopo di lui, rispondeva ad una logica altamente pedagogica. Inoltre, come per Mattia del Piano, anche nel caso di sant’Alfonso vi sono esempi di parafrasi da liriche precedenti, cioè di versi che nascono da un profondo sentimento di stima e identificazione con un altro autore. Già Oreste Gregorio, nel Canzoniere Alfonsiano, mette in evidenza alcune affinità tra i versi di sant’Alfonso e quelli del cardinale Pier Matteo Petrucci (1636-1701), autore di Poesie Sacre e Spirituali pub80
Mattia del Piano inserisce nella sua collezione, Il freno della lingua, alcuni testi dell’«Ill. Monsignor de Liguori»: Come giglio tra le spine (pp.42-43); Duetto tra l’Anima, e Gesù condannato a morte (pp. 126-129). Anche nei codici scalesi delle Canzoncine di Suor Maria Celeste Crostarosa sono presenti alcuni canti di sant’Alfonso: essi erano certamente cantati dalle monache del convento di Scala da lei fondato. Cfr. SATURNO, I “cantasi come” della Beata Suor Maria Celeste Crostarosa cit., p. 11. 81 Cfr. DEL PIANO, ivi, XV-XVI; ANNAMARIA CENERI, Alfonso Maria de Liguori e Maria Celeste Crostarosa un’amicizia profonda e sincera, in Alfonso M. de Liguori, un santo per il terzo millennio. Atti del Convegno nel 170° anniversario della canonizzazione di S. Alfonso (1839-2009), a cura di Giovanni Vicidomini, Materdomini (Av), Editrice San Gerardo, 2009, pp. 65-74. 82 Allo stato attuale della ricerca musicologica alfonsiana, tuttavia, è emerso che il testo del Fermarono i cieli, attribuito a sant’Alfonso, è in realtà di un anonimo Carmelitano scalzo. Questo canto, comunque, è giunto con tre melodie differenti, di cui la prima riportata nella raccolta di BRUGNANO, Le canzoncine cit., pp. 10-11, è tipicamente alfonsiana per l’incipit, gli intervalli, il ritmo, la struttura formale. 83 Cfr. SATURNO, I “cantasi come” della Beata Suor Maria Celeste Crostarosa cit., pp. 10-11. 61
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blicate prima sotto lo pseudonimo di Teofilo Filareto e poi, dopo il 1675, con il proprio nome. Lo storico redentorista afferma che non è arduo dimostrare che S. Alfonso conobbe le poesie del Petrucci […]. Basterebbe rievocare il semplice fatto che nella infanzia frequentò diligente le Pie Congregazioni istituite a Napoli dai Padri dell’Oratorio nel loro artistico e grandioso Collegio, a Via Duomo. Nell’annessa Congregazione dei Giovani Nobili chiamata «San Giuseppe» sotto un’immagine di S. Alfonso sospesa alla parete destra, ov’era il posto del Segretario, leggesi una iscrizione suggestiva: «Qui sedeva S. Alfonso fanciullo». È di questo tempo l’aneddoto del Tannoia:84 «Avendo fatta rappresentare i Padri Girolimini l’Opera di S. Alessio da vari Cavalerotti, vi recitò anche Alfonso; e dovendo rappresentare la parte del demonio in atto di sonar il cembalo, lo toccò con tal maestria, che tutta l’udienza ne restò stupita…». Il Petrucci nel 1675 aveva stampato un Oratorio intitolato «S. Alessio»: non è questa l’Opera, a cui allude il Tannoia? […] S. Alfonso trascorse eziandio la gioventù cogli Oratoriani e […] imparò a conoscere le poesie spirituali del Petrucci e vi si dovè affezionare tanto da non dimenticarle mai. Secondo lo spirito Filippino forse ne cantò anche alcune nelle ore di sollievo, dietro la guida dell’amabile P. Pagano, suo parente e cantandole assimilò ritmo e frasi, che custodì in fondo all’anima quali carezzevoli ricordi giovanili. […] S. Alfonso fondato solidamente negli studi letterari, occulta pensatamente la doviziosa erudizione umanistica. Così parco nel citare poeti italiani, fa eccezione pel Petrucci. […] S. Alfonso, stampando le proprie Canzoncine, non mancò d’inserire qualcuna dello stimato Petrucci.85
In tempi recentissimi, Salvatore Esposito Ferraioli ha chiarito degli equivoci sulla paternità alfonsiana di alcune laude, sostenuta in passato dal Gregorio nei suoi studi. Ciò non deve sorprendere, né far pensare ad una appropriazione da parte di sant’Alfonso di materiale non suo: infatti, la lauda è per definizione una forma letteraria popolare, quindi patrimonio comune, espressione di una religiosità comunitaria e gli autori non scrivono per la propria gloria, ma per quella di Dio. Dunque, rimaneggiarne testi e musiche per adattarli al popolo, al tempo, al contesto socio-culturale costituisce un vero e proprio fenomeno di inculturazione. Proposta di metodo Queste ultime scoperte gettano un dubbio metodico su tutta la produzione finora considerata alfonsiana. Riguardo al Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo, non sembrano esserci riserve, poiché l’autore è indicato sul frontespizio originale.86 Per le canzoncine, invece, non può più essere ritenuto valido il criterio adottato dal padre Oreste Gregorio: egli attribuiva indistintamente a sant’Alfonso tutte le laude da lui fatte pubblicare in alcuni libri del Sarnelli negli anni Trenta e Quaranta del XVIII secolo e quelle pubblicate dal Santo successivamente, nelle Glorie di Maria del 1750 o in appendice alla prima parte della raccolta di alcune sue operette spirituali stampata nel 84
A. TANNOIA C. SS. R. Op cit. [Vita ed Istituto del Ven. Alfonso M. dei Liguori, Napoli 1798] tomo I, p. 8. 85 GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., pp. 66-69. 86 Cfr. Le Melodie di S. Alfonso M. de Liguori in alcuni suoi canti popolari e Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo cit., p. 73. 62
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1755.87 È assai probabile, invece, che sant’Alfonso facesse stampare le canzoncine non tanto per rivendicarne la paternità letteraria, quanto per uno scopo pratico: diffonderle, affinché potessero essere cantate a gloria di Dio e per la salvezza degli uomini, specialmente degli abbandonati, dei quali si preoccupava con tanta premura pastorale.88 Questa ipotesi apparirà tanto più fondata se, considerando il carattere eucologico della lauda, si ricorderà che mons. Antonio Napoletano ha definito sant’Alfonso il «missionario della preghiera».89 Questi, infatti, era solito raccomandarla caldamente nei suoi scritti: «A qualcuno, forse, che avrà letto i miei libri ascetici, saranno sembrate noiose le mie raccomandazioni sull’importanza e la necessità della preghiera. Eppure a me sembra di averne parlato non troppo, ma troppo poco».90 Non è un caso, perciò, che Alfonso Maria de Liguori scelga di pubblicare le laude all’interno di opere a carattere non teologico, ma ascetico-spirituale, poiché in esse sia la prosa che la poesia e la musica avevano la funzione di favorire la preghiera. Un metodo meno approssimativo per risolvere la vexata quaestio musicalis alfonsiana potrebbe essere quello di attribuire a sant’Alfonso con un maggior grado di certezza soltanto le canzoncine su cui si hanno anche dati biografici – come Tu scendi dalle stelle91 e Il tuo gusto e non il mio92 – o quelle che, ad una verifica diretta delle 87
Cfr. GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., pp. 14-29. Cfr. SABATINO MAJORANO, Alfonso de Liguori: la santità per e con gli abbandonati, in Alfonso M. de Liguori, un santo per il terzo millennio cit., pp. 27-51. 89 Cfr. ANTONIO NAPOLETANO, Sant’Alfonso, missionario della preghiera, in Alfonso M. de Liguori, un santo per il terzo millennio cit., pp. 121-142. A p. 127 del suo saggio, egli scrive: «Non vorrei trascurare un aspetto caratteristico che troviamo nelle canzoncine da lui composte. Sono quasi tutte pensate come preghiere. Noi sappiamo che Sant’Alfonso le componeva in funzione di un annuncio missionario e sono poste sulle labbra dei fedeli perché potessero ripetere nel canto il messaggio che intendono trasmettere […]. Con Sant’Alfonso anche la musica diventa preghiera e può essere valorizzata come un’occasione buona per porsi in un atteggiamento di meditazione e di esultanza interiore». Ovviamente, questo aspetto si estende anche ai canti che non sono stati composti dal Santo, essendo la lauda per definizione un inno che loda Dio attraverso i principali misteri cristiani. 90 ALFONSO MARIA DE LIGUORI, La pratica di amare Gesù Cristo, Roma, Città Nuova, 2004, p. 174. 91 Cfr. CELESTINO BERRUTI, Lo spirito di s. Alfonso Maria de Liguori, Prato, Tipografia Giachetti, Figlio e C., 1896, pp. 328-329: «curioso deve dirsi il conoscimento soprannaturale, che ebbe in missione rapporto ad un sotterfugio di D. Michele Zambadelli, presso cui abitava coi suoi compagni. Il santo compose colà la sua canzone sul bambin Gesù, che incomincia: Tu scendi dalle stelle. D. Michele lo pregò, appena l’ebbe terminata, che gliela facesse copiare. Ma egli si negò dicendo, che non poteva permettergli ciò, finché non si fossa stampata. Giunta l’ora della predica, Alfonso andò alla chiesa, e lasciando il suo scritto nella stanza, D. Michele confidentemente sel prese per copiare la canzoncina, e veramente fattane una copia se la pose in saccoccia. Or Alfonso in quella sera appunto cantò la detta canzoncina al popolo, perché correva il tempo del Natale di Gesù Cristo. Il sacerdote frattanto stava nel coro ad ascoltare. Quando all’improvviso il santo dimenticandosi alcuni versetti di detta sua canzoncina disse al chierico, che l’assisteva: Chiamate subito D. Michele Zambadelli, il quale sta nel coro, e tiene in saccoccia lo scritto della mia canzoncina; ditegli, che me la porti, per poterla proseguire. Arrossì D. Michele a questa intimazione; ma poiché osservò che il santo essendosi sovvenuto proseguiva la canzoncina, non vi andò; e neppure ardiva di presentarsi a lui la sera in casa. Ma il santo lo mandò a chiamare, e gli disse per ischerzo di voler fare seco lui un contraddittorio pel furto fattogli della canzoncina.» 88
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edizioni curate dal Santo mentre era ancóra in vita, secondo quanto suggerito dal collega Esposito Ferraioli, fossero esplicitamente rivendicate come proprie o non attribuite ad altro autore, in accordo alla prassi seguìta anche da altri autori o collettori di laude.93 Quest’ultimo criterio non è però da considerare del tutto attendibile, poiché con esso il Gregorio ha attribuito in maniera certa a s. Alfonso il Fermarono i cieli, che è stato poi scoperto essere a lui precedente di parecchi decenni.94 Non sarebbe sufficiente nemmeno considerare l’uso dell’aggettivo possessivo, prassi seguìta dal Gregorio per Gesù mio, con dure funi, attribuita al Santo sulla base di una testimonianza del biografo alfonsiano Antonio Maria Tannoia (1727-1808): Aveva Alfonso alle mani certe sue particolari Canzoncine che non meno della predica venivano mirabilmente a commuovere l’uditorio… Per la pubblica adorazione del Venerabile – che si faceva tutti gli anni nella Chiesa dei Francescani in S. Agata – prima della predica cantar soleva la sua canzone «Gesù mio con dure funi…» ma con tal divozione e con tuono così flebile, che dava il popolo in dirottissimo pianto; ed in senso di quei Padri fruttava più la Canzoncina che il Sermone.95
Le espressioni «sue particolari Canzoncine» e «sua canzone» non indicano necessariamente la paternità alfonsiana del componimento: potrebbero indicare anche il semplice fatto che sant’Alfonso la cantasse, cioè che fosse considerata suo repertorio, ma non è da escludere neppure l’eventualità che il Tannoia immaginasse una paternità alfonsiana, senza basarsi però su un preciso riscontro. Salvatore Esposito Ferraioli, pertanto, ritiene fondamentale distinguere tra la maggiore attendibilità delle edizioni che sant’Alfonso affidava al veneto Remondini, preoccupandosi di effettuare personalmente tutte le correzioni, e la più incerta attendibilità delle edizioni napoletane, che non tenevano sempre conto della volontà dell’autore: gli editori napoletani, infat-
92 Cfr. THÉODULE REY-MERMET, Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de Liguori (1696-1787), Roma, Città Nuova Editrice, 1983, pp. 592-593. Il biografo registra così la reazione di s. Alfonso alla morte del padre Paolo Cafaro, suo direttore spirituale e ardente missionario della sua giovane Congregazione: «“Così ha voluto Iddio, così vogliamo anche noi” […] tutto nella sua vita è volontà di Dio. Così allora in un amen straziato gettava sulla carta le strofe e la melodia che avrebbero fatto andare in estasi san Gerardo Maiella: “Il tuo gusto e non il mio / Amo solo in te, mio Dio. / Voglio solo, o mio Signore, / Ciò che vuol la tua Bontà. / Quanto degna sei d’amore / O Divina Volontà!”.» 93 Cfr. ALFONSO MARIA DE LIGUORI, Novena del Santo Natale colle Meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento, fino all’Ottava dell’Epifania, Bassano, Remondini, 1766, p. 271; pp. 241-243. 94 Cfr. GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., pp. 34-35: «S. Alfonso riproduce le stesse Canzoncine, ma è accorto a segnalarne gli autori. Per qual motivo attribuisce: “Quando penso alla mia sorte” a Mons. Maiello, “O voi che sapete che cosa sia amore” al P. Testa? Certamente per indicare che le altre poesie erano sue. La VII Ed. delle Canzoncine Spirituali (1769) ci rischiara intorno a 1.) O bello Dio, Signor del Paradiso, che attribuisce a Mons. Falcoia, e 2.) Sola sen giva un dì, che dice di altro autore. L’Es. XI del medesimo libretto fatta nel 1785 rivendica a S. Alfonso: 1.) Fermarono i cieli, 2.) Sia lodato ogni momento.» 95 Cfr. ivi, p. 111. Lo studioso riporta la testimonianza da TANNOIA, Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de Goti e fondatore della Congregazione de Preti Missionari del SS. Redentore cit., pp. 80-81.
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ti, allo scopo di lucrare sulla vendita di opere fortemente richieste sul mercato, stampavano talvolta pubblicazioni non revisionate direttamente dal Santo.96 Il contesto socio-religioso della canzoncina sacra a Napoli durante il XVIII sec. Il sinodo celebrato a Napoli nel 1726 durante il vescovato di Francesco Pignatelli, aveva riscontrato, «attraverso le sicure esperienze delle visite pastorali e delle iniziative missionarie»,97 una forte ignoranza religiosa e aveva ribadito, pertanto, l’obbligo di adozione, per l’insegnamento della Dottrina cristiana, del testo del Bellarmino, rispondente al dettame romano-tridentino.98 Ciononostante, questa disposizione non era più in vigore già nel 1743 quando il successivo vescovo di Napoli, Giuseppe Spinelli, ebbe modo di constatare, durante una visita pastorale, che «quantunque assaissimi libri di catechismi si trovino, e si esponga di continuo la Dottrina Cristiana, pur nondimeno strano cosa è il mirare sì poco profitto de’ fanciulli e degli adulti e sì poco migliorato il costume: cagion chiarissima che la maniera con cui si fa la Dottrina Cristiana non è buona».99 Allora lo Spinelli, per porre rimedio alla situazione, emanò l’Editto ed istruzione per la Dottrina cristiana100 e promosse la stesura di un nuovo testo, passato alla storia come il catechismo Spinelli, coadiuvato101 da Alfonso de Liguori (1696-1787) e Gennaro Sarnelli (1702-1744); l’editto, rivolto sia al clero che ai laici inquadrati nella Congregazione della Dottrina Cristiana, proibiva ai parroci di «rilasciare il certificato di stato libero ai nubendi se non risultavano bene istruiti alla dottrina cristiana»102 e imponeva ai confessori di «negare l’assoluzione ai capifamiglia che trascuravano l’istruzione catechistica ai figli».103 Tuttavia, dato l’alto livello di analfabetismo104 diffuso nel popolo, non era possibile l’utilizzo diretto dei testi catechistici; pertanto si promossero le missioni popolari, una forma straordinaria di pastorale che si differenziava da quella catechistica ordinaria. Presto si diffuse in tutto il Regno una specifica letteratura manualistica che istruiva i sacerdoti al metodo missionario: La via facile e sicura del Paradiso105 (1733) del 96
Cfr. Ezio Marcelli e Santino Raponi, Un umanista del ’700 italiano. Alfonso M. De Liguori, Verona, Editori Provincia Romana C.SS.R. Bettinelli, 1992, pp. 201-218. 97 ROMEO DE MAIO, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1971, p. 261. 98 Cfr. GIUSEPPE ORLANDI, Il Regno di Napoli nel Settecento. Il mondo di s. Alfonso de Liguori, in “Spicilegium Historicum”, Anno 44 (1996), Fasc. 1, p. 201. 99 DE MAIO, Società e vita religiosa cit., p. 266. 100 Cfr. ORLANDI, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 201. 101 Cfr. DE MAIO, Società e vita religiosa cit., p. 267. 102 ORLANDI, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 201. 103 Ibidem. 104 Ivi, pp. 78-97. 105 GENNARO MARIA SARNELLI, La via facile e sicura del Paradiso, Napoli, d’Auria, 1733; «Il y est dit également qu’un extrait de cet ouvrage est publié sous forme de libretto pour être distribué dans les missions». MAURICE DE MEULEMEESTER, Bibliographie générale des écrivains rédemptoristes, 3 voll., Louvain, La Haye, 1933-1939, vol. 2, 1935, pp. 373-374. 65
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Sarnelli, il Missionario istruito106 (1738) di Filippo de Mura, l’Istruzione ai missionari107 (1741) del vescovo Spinelli, gli Esercizi di missione108 (1742) di Domenico Serio, le Sacre missioni109 (1755) di Domenico Maria Paucci, la Selva di materie predicabili110 (1760) di Alfonso de Liguori. In questi manuali è possibile riscontrare una grande importanza per l’intonazione popolare delle canzoncine spirituali, impiegate per predisporre psicologicamente i fedeli111 alle prediche, alle meditazioni e ai Sentimenti di notte; infatti era opinione comune che «le canzoni profane, dal Demonio poste in bocca a’ Cristiani, sogliono rovinare le Anime, di chi le canta, e di chi le ascolta: e talvolta una di que’ lascivi concetti basta a guastare le Anime innocenti» mentre «le canzoncine divote solevano i cuori a Dio».112 La lauda spirituale in ambienti oratoriani e catechistici Tuttavia, la pratica di cantare laudi spirituali in contesti catechistici era già conosciuta a Napoli fin dal XVII secolo grazie all’opera dei padri Girolamini e Gesuiti. La forma di evangelizzazione prediletta dai Girolamini era quella dell’oratorio che poteva essere privato, pubblico e all’aperto. Nel primo caso, come stabilisce intorno al 1580 il padre Tarugi, rettore della Congregazione dei Girolamini, si ammetteva «la musica nel modo usato. Nell’Oratorij di casa, non si canti più di una volta la settimana, et in quel giorno si canti col populo, hinni, salmi o laudi, ma una cosa sola et non di più»; questa disposizione evidenzia la predilezione per «l’Oratorio principale, grande, che aveva la maggiore affluenza di pubblico, al quale era necessario assicurare la compartecipazione della musica»113 rispetto agli oratori interni, nei quali il canto veniva sacrificato dal momento che la partecipazione era più limitata e riservata ai soli congregati.114 Non è da escludere che in questi contesti la pratica musicale fosse affidata a quest’ultimi dal momento che padri, chierici e novizi «amavano trascorrere il poco tempo destinato al riposo pratican106
FILIPPO DE MURA, Il missionario istruito, 2 voll., Napoli, Mosca, 1738. GENNARO SPINELLI, Istruzione per li missionarj, Napoli, Naso, 1741. Alcuni contenuti sono ripresi dal Sarnelli in L’ecclesiastico santificato, opera divisa in tre parti. La 1a contiene esercizii di pietà, ricavati dalle istruzioni dell’Emo Cardinale Spinelli, con l’aggiunta di nuovi suoi ordini, da eseguirsi dai Parochi, Economi, Coadiutori e Sacerdoti proposti dai Missionari deputati all’esecuzione, affin di facilitarne le pratiche…, Napoli, 1742. Cfr. DE MEULEMEESTER, Bibliographie générale cit., vol. 2, p. 376. 108 DOMENICO SERIO, Esercizi di missione, Napoli, Severini, 1742. 109 DOMENICO MARIA PAUCCI, Sacre missioni, Napoli, Gessari, 1755. 110 DE LIGUORI, Selva di materie predicabili, 3 voll., Venezia, Remondini, 1760. 111 Cfr. DE LIGUORI, Selva cit., pp. 280-288, 291, 294, 391; Cfr. DE MURA, Il missionario istruito cit., 3a ed., 1766, vol. 1, pp. 5, 17, 25, 42, vol. 2, pp. 309-310. 112 SARNELLI, Il mondo santificato, Napoli, Naso, 1740, p. 387. 113 GIANCARLO ROSTIROLLA, Aspetti di vita musicale religiosa nella chiesa e negli oratori dei Padri Filippini e Gesuiti di Napoli tra Cinque e Seicento, con particolare riguardo alla tradizione laudistica, in La lauda spirituale tra Cinque e Seicento - Poesie e canti devozionali nell’Italia della Controriforma, Roma, Ibimus, 2001, p. 230. 114 Cfr. Ibidem. 107
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do strumenti ed eseguendo laudi polifoniche a tre e quattro voci, sia in esecuzione vocale sia in esecuzione mista vocale-strumentale».115 Nel secondo caso, come si evince dal manoscritto redatto dal padre girolamino Talpa, l’esecuzione di laudi avveniva di solito due volte «una in principio e l’atra nel mezzo dell’oratorio»116 e in maniera polifonica dal momento che, avendo concorso di pubblico numeroso, le laudi venivano cantate da musici professionisti, assoldati per l’occasione, affinchè l’esecuzione risultasse gradita agli ascoltatori «assolvendo a quello che era l’intento principale di simile prassi, ovvero edificare gli animi e di dare un piacere spirituale che rendesse meno faticoso l’ascolto delle prediche e dei sermoni»,117 avendo cura però di far partecipare l’assemblea all’esecuzione. A Giovenale Ancina (1545-1604), uno dei fondatori della casa filippina napoletana, si deve il merito di aver arricchito l’archivio musicale «grazie alle sue conoscenze personali con compositori operanti in altre corti e cappelle»118 e ai suoi contatti musicali con i confratelli Oratoriani di Roma, come testimonia una lettera inviata al fratello Matteo Ancina il 16 dicembre 1588, nella quale gli raccomanda di «mandare il liutone con qualche buona musica de L. Vittoria e gl’hinni di Palestrina».119 Durante l’oratorio all’aperto, che si può definire come una versione “primaverile” di quello pubblico, le laudi venivano eseguite “popularmente” cioè in maniera monodica; riporta il padre Talpa nella descrizione dell’Oratorio all’aperto celebratosi intorno al 1615 ad imitazione di quelli che ti tenevano a Roma sul colle di Sant’Onofrio presso il Gianicolo: Alcuni de’ Padri in compagnia de altri loro devoti, con titolo di recreatione vanno ad un loco di bellissima e vaghissima vista di mare e di terra e del più bel sito della Città, posto nella pendice di Capodimonte, quale è accomodato in forma di Teatro con sedili di pietra intorno, dove li Padri con quelli devoti si riducono. Et introducono l’esercitio con il canto de’ laudi spirituali, cantate popularmente per inviare quelli, che di mano in mano vengono a formarsi cantando ancor loro. Et alle volte si canta con conserto Musicale. Adunato poi il Popolo, che arriva a molte centinara, dopo il canto se introduce un figliolino di tenera età a recitare un sermoncino devoto e gratioso conveniente all’età, che con la semplicità e devotione puerile con la quale è proferito, e sentito con gusto e non senza motione interiore, et in alcuni non senza lacrime. Finito il sermoncino, per intermedio si torna a cantare o popularmente o musicalmente. Alle volte se introducono più figlioli a dire a modo di Dialogo, sempre interponendosi il canto da un sermone all’altro. In ultimo, per conclusione dell’esercitio uno dei Padri suol fare un breve ragionamento o sopra la materia delle cose dette da’ figlio o altri a suo arbitrio. Finito il sermone per conclusione della ricratione si canta insieme con tutto il populo il salmo Laudate Dominum omnes gentes poi nel’istesso tuono del salmo si canta questo verso Laudate sempre sia il nome di Gesù e di Maria, e l’istesso replica tutto il Popolo. E con questo si da fine al’Esercitio, il quale dal secondo giorno di Pasqua fino alla festa di ognisanti si fa nel detto loco, eccetto li giorni del sol leone, e quando piove, neli 115
Ibidem. Ibidem. 117 Ivi, p. 233. 118 Ivi, p. 219. 119 Ibidem. 116
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO qual giorni si fa nel’Oratorio dell’Annunciatione, nel quale si fa dalla festa d’ognisanti per tutto il resto dell’anno.120
L’attività catechistica gesuita si diffuse invece fin dagli anni 1551-1552 grazie all’opera di Alfonso Salmerone, inviato a Napoli da Ignazio di Loyola121 e venne stimolata dalla pubblicazione, intorno al 1556, del Compendio della Dottrina Cristiana di Gian Francesco Araldo della Compagnia di Gesù.122 Tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento, presumibilmente per influenza oratoriana,123 anche per questo tipo di attività didattica e spirituale, «che prevedeva una serie articolata di pii esercizi, in forma dialogica, fra maestro e fanciulli, recitazione collettiva di preghiere e litanie»,124 si introdusse la prassi di cantare laudi spirituali all’inizio e tra un esercizio e l’altro; presto infatti vennero stampate edizioni comprendenti sezioni dedicate alle canzonette spirituali, talvolta con le relative intonazioni. Il modus operandi gesuita a riguardo è dettagliatamente illustrato in un manuale di missione redatto dal p. Francesco Pavone,125 pubblicato a Napoli nel 1608: MANUALE / D’ALCUNI RICORDI / SPIRITUALI. / CON DIVERSE MEDITATIONI, / & Instruttioni, per introdurre Es- / sercitij di Pietà: Et per inse- / gnar la Dottrina Chriatia- / na, cosi nelli Fundachi, / come nelle Chiese. / COL MODO TENUTO IN FRUTTI- / ficar nell’anime l’Anno del 1601. / nella Città di Napoli. / Stampato all’hora per ordine dell’Illustriss. / & Reverendissimo Cardinal Gesualdo / Arcivescovo di Napoli: Et di nuo- / vo ristampato per commodità / di coloro, che in simili esser/ citij s’impiegano. / (emblema della Compagnia di Gesù) / IN NAPOLI, / Nella Stamperia di Tarquinio Longo. 1608. / Con licenza de’ Superiori. 12°, pagg. 223.
In questo libro, nel secondo capitolo Ordine d’insegnare la Dottrina Christiana nelle Chiese, dove s’insegna le Domeniche, & altre feste è descritto l’insegnamento di laudi spirituali monodiche, esplicitamente preferite a quelle polifoniche, attraverso una forma antifonica a tre cori: Le lodi, che si cantano siano delle familiari, e note, c’habbiano aria allegra, e facile, e si possono far tre cori, uno di quattro, ò sei, che cantano meglio, & hano buona voce, specialmente s’havessero principio di musica, e questi si potriano prima essercitare, initimando la festa precedente la Lode, e l’aria co che si canterà, e cantino la prima stanza della Lode. Un altro di diece, dodici, ò più che cantino la seconda stanza. Il terzo delle citelle, che rispondino la terza stanza, dipoi ripigli il primo choro, e seguitino gli altri. Il cantare à quattro voci per ordinario non è espediente; perche gli altri non possono rispondere, ne anche imparano l’aria, e così non le cantano tra il giorno, es-
120
Ivi, p. 231. Cfr. Ivi, p. 216. 122 Cfr. Ibidem. 123 Cfr. Ivi, p. 216. 124 Ibidem. 125 GAETANO MELZI, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Pirola, 1848, vol. 1, p. 157. 121
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LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA sendo questo uno de’ migliori mezi, perche si lascino le canzoni brutte, faro ch’imparino à cantare le Lodi sante.126
Questa attività è altresì documentata dalla diligenza degli stessi gesuiti nel pubblicare raccolte di laudi spirituali contenenti sia i testi che le intonazioni monodiche o polifoniche; infatti anche i gesuiti, non meno dei filippini, studiavano la musica e il suo insegnamento fu parte integrante del cursus studiorum nei collegi.127 Ci sono pervenute due importanti raccolte pubblicate sul principio del XVII secolo: la prima è quella allegata alla Dottrina Christiana128 edita da Tarquinio Longo nel 1603; la seconda, a cura dello stesso editore nel 1608, è Lodi et canzonette spirituali.129 La raccolta del 1603 contiene 138 testi, 16 intonazioni monodiche e 1 polifonica a quattro voci; quella del 1608 invece contiene ben 329 testi, 28 intonazioni polifoniche a tre voci e 15 monodiche; in entrambe le raccolte, le laudi sono organizzate in gruppi e ad ogni gruppo è associata un’intonazione permettendo, in questo modo, di cantare sulla stessa intonazione più laudi. La presenza di un così gran numero intonazioni polifoniche nella raccolta del 1608 potrebbe sembrare contraria ai principi esposti dal p. Pavone nel suo Manuale d’alcuni ricordi spirituali prima citato ma lo stesso Longo, nell’Avvertimento Primo - Fine, e scopo del libro, è attento a precisare che «dove non vi fusse copia di persone, che tutte le tre parti facessero, si sono in modo disposte, che possono cantarsi a due, e anco, se sarà bisogno, ad una voce da tuta la brigata insieme, o nelle chiese, in altre radunanze; la quale voce communemente qui è il primo canto».130 Tuttavia, è doveroso sottolineare che la non poco trascurabile presenza di intonazioni polifoniche, in particolare nel laudario del 1608, riveli una necessità di una buona competenza in materia musicale, presentandosi pertanto come «un complemento musicale per quelle persone che, sapendo un poco di musica, fossero in grado di cantarle».131 Lo zelo missionario gesuita nel Regno di Napoli, sostenuto dalla pratica laudistica, è testimoniato più tardi sia dalla relazione a cura del p. Giovan Battista d’Elia132 di 126
FRANCESCO PAVONE, Manuale d’alcuni ricordi spirituali, Napoli, Longo, 1608, pp. 194-195. MANUEL BERTOLINI, Censurare la musica. Una prospettiva di ricerca attraverso la Congregazione Oratoriana, in La musica dei semplici - L’altra Controriforma, a cura di S. Nanni, Roma, Viella, 2012, p. 217. 128 Dottrina Christiana composta per il R. P. Ledesma della Compagnia del Giesu. Alla quale nuovamente vi sono aggiunte molt’altre Lodi Spirituali, che nell’altre non erano, divise in tre parti, con l’aria che si cantano. Con le Litanie, che si cantano nella Santissima Casa di Loreto, & quelle de’ Santi, Napoli, Longo, 1603; ristampa dell’edizione pubblicata da Carlino - Pace, 1598. 129 Lodi, et canzonette spirituali. Raccolte da diversi Autori: & ordinate secondo le varie Maniere de’ versi. Aggiuntevi à ciascuna Maniera le loro Arie nuove di Musica à tre voci assai dilettevoli. Per poter non solo leggersi ad honesto diporto dell’Anima: ma ancora cantarsi ò privatamente da ciascuno ò in publico nelle Chiese, Oratorij, & Dottrine, Napoli, Longo, 1608. 130 Ivi, p. 5. 131 ROSTIROLLA, Aspetti di vita musicale religiosac cit., p. 239. 132 GIOVANNI BATTISTA D’ELIA, Relatione di una missione fatta da due Rever. Padri della Compagnia di Giesù, Nella Città di Bitonto del Regno di Napoli, nell’Anno M.DC.XLVI., Trani, Valerij, 1646. Si può leggere a p. 9: «Ad hore ventidue, e mezza, salita il Padre per l’istruttione, dove si toc127
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una missione celebrata a Bitonto nel 1646, ma soprattutto dall’apostolato di san Francesco de Geronimo (1642-1716); infatti il santo «ogni domenica e di festivo tra settimana, egli girava coi suoi congregati per le piazze più malfamate di Napoli e per quei nidi dalla mala vita che sono anche oggi i “quartieri”, e facendo cantare da una scelta schola cantorum la “Dio ti salvi, o Regina”, raccoglieva attorno al labbro dell’Immacolata la plebe, alla quale poi predicava da un palco: con quello stesso inno, al quale associava il popolo in coro, si chiudevano quelle celebri prediche che tante anime conquistarono a Dio».133 Il padre de Geronimo aveva molto a cuore questa traduzione dell’antifona mariana e si preoccupò di stamparla su «fogli volanti a migliaia sopra i dieci mila e si divideva fra i devoti nel tempio e si dispensò in tutta la Città» affinchè «dalle persone ignoranti dal latino, con maggiore devozione e fervore fosse recitata ed accompagnato avessero le parole con affetto e cuore, intendendo ciò che dicevano, e così ogn’uno si fosse affezionato alla Beatissima Vergine».134 La popolarità, quidditas della produzione laudistica di sant’Alfonso de Liguori Alla luce di quanto esposto, cronache missionarie e pubblicazioni di laudari sono concordi a testimoniare una pratica laudistica ben consolidata a Napoli e nel Regno per tutto il XVII secolo. Tuttavia, verso il principio del Settecento, si sentì l’esigenza di rinnovare questo repertorio, sulla scorta delle considerazioni del sinodo napoletano del 1726, volgendo l’attenzione verso le effettive esigenze pastorali e le capacità di comprensione del popolo di Dio; infatti le raccolte gesuitiche continuavano a pubblicare testi di laudi il più delle volte appartenenti ad una tradizione risalente al secolo precedente mentre le intonazioni, seppur all’occorrenza monodiche, risentivano ancora della severità austera della polifonia tardo-rinascimentale. Queste istanze furono pienamente accolte ed incarnate dall’opera di sant’Alfonso de Liguori, sacerdote, missionario, vescovo, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, moralista e autore, fra le altre, di canzoncine spirituali. Tutta l’opera del santo, e in particolare le sue canzoncine, testimonia la sua dedizione e premura ad essere compreso dal popolo. Scrive a riguardo il primo biografo di Alfonso, Antonio Tannoia:
cavano molti punti intorno alla confessione, & apparecchio alla communione, e cose simili, con tanto gusto universale, che temendo egli nel principio, d’insegnare a cantare certe canzonette spirituali, come si era fatto in altre parti, mentre vedea la sceltezza dell’udienza habile à stare dentro ogni famosa Città; con tutto ciò animato, dopo alcuni giorni dal l’altro compagno, per vederla così facile, & inchinveole al bene, resa tanto mansueta, & humile nella missione, si fece cuore, e cominciò a bandire le canzoni profane, come tanto perniciose all’anime, & ad’introdurre altre spirituali, con proporre il modo, con che s’haveano à cantare, facile, e semplice. A pena cominciò a cantarle dal pulpito, che tutta l’udienza, Preti, Gentil’huomini, Dame, e Popolo tutto con una innocenza di Adamo, prima che peccasse, e co una semplicità di un S. Francesco d’Assisi, repetevano quel che si cantava, anzi con tanto gusto, che i primi gentil’huomini andavano à pregare il detto Padre che non lasciasse simile essercitio». 133 F. M. D’ARIA, Intorno all’autore d’un celebre inno mariano, in “La Civilità Cattolica”, Anno 92 (1941), vol. 3, pp. 300-301 134 Ivi, p. 301. 70
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA Riuscì così eccellente nella Musica, e nella Poesia, che anche vecchio metteva in nota, e componeva a meraviglia. [...] Più avrebbe spiccato il suo talento nella Poesia Latina, ed Italiana, se egli non avesse avuto di mira più la divozione ne’ popoli, che il pascere l’intelletto, come si vede nelle tante canzoni da esso composte, e ve ne sono delle eccellenti. Chi le legge ammira e conosce, non volendo, la mano maestra, che le ha formate»;135 infatti «Tutto era profitto per Alfonso. Lo zelo di Dio lo divorava, e non altro che Dio e le Anime erano il suo scopo.136
A tal proposito, è emblematico l’aneddoto che vede il santo intento a dettare «una frase, nella quale era una parola che l’Accademia della Crusca avrebbe trovato poco nobile. Il copista gliela fece osservare e gli suggerì un termine più toscano. “Benissimo, gli disse Alfonso, ma quelle povere donne intenderanno esse la vostra graziosa parola?...”. Il copista comprese da questa risposta che il Santo nei scuoi scritti cercava il bene delle anime e non l’approvazione degli Accademici. Lo stile popolare era il duo ideale»; infatti «nelle sue composizioni sacrificava all’utilità pratica ogni ricercatezza letteraria, senza occuparsi della sua riputazione di scrittore».137 L’efficacia della lauda alfonsiana è espressa da due tecniche compositive impiegate dal santo, una letteraria, l’altra musicale: la prima consiste nel parafrasare testi di canzoncine già esistenti, edulcorandole da termini di non immediata comprensione;138 la seconda consiste nel mutuare le intonazioni delle proprie canzoncine dal repertorio popolare. Rispetto al primo caso è paradigmatico il rapporto che intercorre fra le canzoncine alfonsiane O pane del cielo e O fieri flagelli e le laudi più antiche O pane del ciel e O spine pungenti. La lauda O pane del ciel compare per la prima volta,139 in una versione di sole cinque strofe, nella raccolta Laudi e canzoni spirituali. Con ariette facili, e dilettevoli, stampata a Fiorenza e con nuoua scelta e musica in Roma presso l’editore Ignatio de’ Lazzeri nel 1654 e successivamente, in una versione di otto strofe, nella Corona di Sacre Canzoni o Laude Spirituali di più divoti autori, pubblicata a Firenze nel 1710 da Carlo Maria Carlieri, terza edizione accresciuta della raccolta omonima curata dal sacerdote fiorentino Matteo Coferati nel 1675. Di seguito si mettono a confronto le due laudi, delle quali quella alfonsiana è stata pubblicata per la prima volta nel 1740:140
135
TANNOIA, Vita ed Istituto del Ven. Alfonso M. dei Liguori cit., libro 1, p. 9. Ivi, libro 4, p. 201. 137 GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 227-228. 138 Interessante, a tal proposito, il rapporto già evidenziato dal p. Oreste Gregorio che intercorre fra la produzione di sant’Alfonso e quella del card. Petrucci; infatti da quest’ultimo Alfonso trovò spesso fonte di ispirazione per le sue canzoncine. Cfr. Ivi., pp. 64-77. 139 ROSTIROLLA, Laudi e canti natalizi in una inedita fonte fiorentina del primo Settecento, in La lauda spirituale tra Cinque e Seicento - Poesie e canti devozionali nell’Italia della Controriforma, Roma, Ibimus, 2001, p. 531. 140 GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 21. 136
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO 1. O Pane del Cielo,141 che tutto il mio Dio nascond’in quelo velo, io t’amo, t’adoro, mio caro Tesoro. O Amante Gesù, per darti a chi t’ama, qual pan ti dai Tu.
1. O pane del Ciel,142 o vivo conforto dell’Alma fedel: D’Amore sei segno, Di gioglia sei pegno, Mistero dì Fè: Un cibo più dolce nel Cielo nòn è.
2. O cibo vitale, che ‘l pegno ne doni di vita immortale; io vivo, non io, ma vive in me Dio, che vita mi da: mi pasce, mi regge, beato mi fa.
5. O manna vital Che l’alma nutrisci, la rendi immortal Qui dentro al mio petto Deh purga l’infetto Di mia vanità, Mirar’ non voglio altro, che tua Maestà.
3. O laccio d’Amore, che unisci col servo l’Amato Signore: s’io vivo e non t’amo, più viver non bramo, né viver più so, se non per amare Chi tanto m’amò.
2. O laccio d’Amor, Che stringi col servo l’Amato Signore: Io vivo non io Ma vive in me Dio, Ch’un Christo mi fa, E come a suo figlio la gloria mi da.
4. O Fuoco potente, che accender aneli ogni core, ogni mente, ti cerca il mio core: Deh vieni, o Signore, e accendi me ancor; s’è grande il mio ardire, più grand’è ‘l tuo Amor. 5. O amabil Saetta, se offesi il mio Dio, Tu fa la vendetta: ferisci su via quest’anima mia, che muoia per Chi un dì per mio amore la vita finì.
6. O dardo d’amor, Trapassa, ferisci, trafiggimi il cor; Es’io più non t’amo, Più viver’ non bramo, Ne viver più so, Se ‘l core trafitto d’amore non hò.
6. Diletto mio Bene, che teco m’hai stretto con tante catene, ti dono il mio core, o dolce mio Amore, tuo sempre sarò; te stesso m’hai dato, me stesso ti dò.
4. Mio cibo si fè L’amato mio Christo, morì poi per me: T’adoro mio Dio, Tu sei l’amor mio, Tuo sempre sarò, Te stesso m’hai dato, me stesso ti do.
7. Già dunque, mio Amato, là in Cielo m’aspetti ad amarti svelato;
8. Amato Giesù, Mio Padre, mio sposo, mio gaudio sei tù.
141
Ivi, pp. 237-238. Corona di sacre canzoni o laude spirituali di più divoti autori - In questa terza impressione notabilmente accresciute di materie, & aire nuove ad uso de pij trattenimenti delle conferenze, Firenze, Bindi, 1710, pp. 459-461. Le strofe riportate non seguono l’ordine della pubblicazione; si è voluto riportarle infatti in funzione di quella alfonsiana, per sottolineare la figliolanza di quest’ultima nei suoi confronti. 142
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LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA sì certo sper’io, mia vita, mio Dio. E come mai può il Cielo negarmi chi Sé mi donò?
Il cuor t’invita, Mia gioia, mia vita, Mia somma bontà, Deh sazia quest’alma, per tua gran pietà. 3. Suave liquor’ Conforto dell’alma, dolcezza del cor. Il Mondo non amo, Sue pompe non bramo, Mio bene sei tù, Mia vita, mia gloria, mio cibo Giesù. 7. O candido Agnel, O Sangue più puro del sangue d’Abel Deh lava, e fa monda Quest’anima immonda Di questo mio sen; Null’altro più bramo, che te sol’ mio Ben.
È possibile che Alfonso abbia conosciuto questa lauda in ambiente oratoriano; infatti il santo frequentò la casa dei girolamini per 17 anni.143 Per quanto riguarda l’altra lauda, O spine pungenti, è presente nella settima edizione delle Sacre Canzonette Del Signor Anello Sarriano,144 stampata a Napoli nel 1651 dall’editore Camillo Cavallo; è verosimile che sant’Alfonso sia venuto a conoscenza della canzoncina sfogliando il Missionario istruito di Filippo de Mura,145 nella quale, presente con qual-
143
ANTONIO NAPOLITANO, La musica: una scelta pastorale di s. Alfonso in favore del popolo, in “Spicilegium Historicum”, Anno 45 (1997), Fasc. 1, p. 115. 144 ANELLO SARRIANO, Sacre canzonette, Napoli, Cavallo, 1651, p. 72. Si conosce poco di questo autore, se non che era conosciuto con lo pseudonimo di “l’instabile” nell’ambito dell’Accademia degli Infuriati di Napoli, come testimonia il frontespizio delle sue Rime pubblicate a Napoli nel 1622. Alcune canzoncine del Sarriano ebbero un modesto successo e le si possono trovare stampate in alcune raccolte più tarde: il sacerdote Mattia del Piano, della cui opera se ne parlerà diffusamente più avanti, nella prima edizione del suo laudario dal titolo Il Freno della Lingua (1779), pubblica una Canzoncina del Sarriano dedicata a Maria Santissima dal titolo Arder sempre io bramerei (pp. 37-38) ricavata dalla suddetta edizione delle Sacre canzonette (1651), p. 103; quella dal titolo Cantar vorrei la nonna (Ivi, pp. 41-42) trovò fortuna anche fuori dal Regno di Napoli dal momento che la si può trovare pubblicata nella terza edizione della succitata raccolta del sacerdote fiorentino Matteo Coferati (Cfr. nota n. 44), Corona di sacre canzoni o laude spirituali di più divoti autori, pp. 62-64. 145 È certo che Alfonso conoscesse l’opera del De Mura: «Circa poi gli Esercizj di Missioni; già ve ne sono molti libri che ne trattano a lungo, specialmente v’è la bell’opera del R. Sacerdote D. Filippo de Mura, intitolata, Il Missionario Istruito (dalla quale confesso di aver presa la maggior parte di questa mia Operetta), nulladimeno io per maggior comodità de’ Giovani della nostra Congregazione, ho fatto il presente Compendio, dove ho poste in breve le Regole, e gli Esempi di tutti gli Esercizj; secondo lo stile delle Missioni che si fanno dalla nostra Congregazione; e per ragione della pratica ch’ho avuto di 34 anni di Missioni, ho aggiunte molte cose, e riflessioni utilissimo al profitto dell’Anime». DE LIGUORI, Selva cit., vol. 3, p. 278. 73
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
che piccola variazione rispetto all’originale del Sarriano,146 è adottata per gli esercizi di missione, e più tardi, nel 1758,147 ne abbia voluto pubblicare una parafrasi. O fieri flagelli,148 che al mio buon Signore le Carni squarciate con tanto dolore, non date più pene al caro mio Bene, non più tormentate l’amato Gesù, ferite quest’alma, che causa ne fu. O spine pungenti, che al mio buon Signore la testa pungete con tanto dolore, non date più pene al caro mio Bene, non più tormentate l’amato Gesù, ferite quest’alma che causa ne fu.
O Spine pungenti,149 ch’al mio gran Signor La fronte pungete con tanto dolor, Non date più pene Al caro mio bene Non più trafiggete chi tanto patì. Pungete quest’alma, che Christo ferì.
O chiodi crudeli, che al mio buon Signore le mani passate con tanto dolore, non date più pene al caro mio Bene, non più tormentate l’amato Gesù, ferite quest’alma che causa ne fu.
O chiodi crudeli, ch’à quel sommo Sol, Le carni squarciate con tant’empio duol Venite à me rio Lasciate il mio Dio, Non più tormentate l’amato Giesù Piagat’il mio petto che causa ne fù.
O lancia tiranna, che al mio buon Signore il fianco trafiggi con tanto furore, ti bastin le pene già date al mio Bene, non più straziare l’amato Gesù, trafiggi quest’alma, che causa ne fu.
O lancia spietata, ch’al gran Rè del ciel Il fianco trapassi si fiera, e crudel Deh corri al mio seno Di falli ripieno; Deh lascia il suo petto, che niente colpò Ferisci il mio core, poich’egli peccò.
Oltre a questa doppia coppia di laudi, è interessate segnalare il rapporto che intercorre fra le due canzoncine dal medesimo titolo Al cielo alma mia: la prima versione è presente in una sezione, dal titolo Canzoni spirituali di divoti Affetti verso la Gran Madre di Dio, dell’opera Fiamme e saette amorose del gesuita Tommaso Auriemma pubblicata da Domenico Roselli a Napoli nel 1733; la seconda versione è quella di sant’Alfonso pubblicata per la prima volta150 a Napoli nel 1750 nella prima edizione delle Glorie di Maria. Il santo autore, oltre ad emendarne il testo, opera una variazione strutturale; infatti quella pubblicata nel 1733 è organizzata in cinque sestine di senari delle quali la prima è adottata come ritornello ogni due strofe, mentre quella alfonsiana presenta un ritornello in quartina di senari da interpolare ad otto strofe di senari organizzate in terzine.
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Cfr. DE MURA, Il missionario cit., 2a ed., Napoli, De Bonis, 1747, pp. 309-310. GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 31. 148 Ivi, pp. 248-249. 149 SARRIANO, Sacre canzonette cit., p. 72. 150 GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 26. 147
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LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA Al Cielo alma mia,151 Al Cielo con Maria, Al Ciel con Maria Su vattene va.
Al cielo, alma mia,152 Al ciel con Maria Su vattene va. Il nostro tesoro, La gioja, e’l ristoro Più il mondo non ha.
Fatt’Ella è Regina, E al Figlio vicina Godendo si stà. Al Cielo alma mia, &c. Sempre si ripete.
Ma fatta Regina Al Figlio vicina Godendo si sta: Felice, se il core Con l’ali d’amore Segnir la potrà.
Io come più vivo, Se resto già privo Di tanta Beltà?
Io come più vivo, Se resto già privo Di tanta beltà?
Ahi dura partita! Chi speme, chi vita, Chi ajuto mi dà?
Ahi dura partita Chi speme, chi aita, Chi vita mi dà? Al cielo, alma mia, &c.
Ma benche lontana La nostra Sovrana Benigna sarà.
Ma benchè lontana Regina sovrana Propizia sarà.
Qual Madre amorosa, Cortese, e pietosa Per noi pregherà.
E luce amorosa, Qual madre pietosa Vicina starà.
De’ cari suoi Figli Tra tanti perigli Scordarsi non sa.
De’ suoi cari figli Fra tanti perigli Scordarsi non sa:
Ben’Ella rimira Chi brama e sospira La tua Purità.
Ma dolce rimira, Chi brama, e sospira La tua purità. Al cielo alma mia, &c.
Felice quel Core Che ardendo d’Amore Seguir la potrà.
Per quanto riguarda la seconda tecnica compositiva concernente la natura delle melodie utilizzate da sant’Alfonso per intonare le sue canzoncine «va detto che esse per 151 152
DE LIGUORI, Le glorie di Maria, Napoli, Pellecchia, 1750, p. 403. TOMMASO AURIEMMA, Fiamme e saette amorose... alle quali si è
aggiunto... alcune canzoni spirituali, Napoli, Roselli, 1733, pp. 188-189. Talvolta le sestine sono spezzate in due terzine per meglio evidenziarne il rapporto con quella alfonsiana. 75
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
la loro stessa finalità non potevano essere né troppo elaborate, né del tutto nuove. Il principio su cui si fondavano era il presupposto della facilità dell’apprendimento e la corrispondenza, per quanto possibile, al significato delle parole. Per ciò che attiene alla facilità dell’apprendimento, va detto che, se già la memorizzazione del testo letterario comportava impegno, non conveniva aggiungerle anche quella della musica, tenuto conto del grado di preparazione dei destinatari. Dunque la tecnica più semplice, per un facile apprendimento dei nuovi brani, era l’utilizzazione di melodie preesistenti già note al popolo. Ciò spiega anche perché le melodie, a differenza dei testi, non venivano trascritte [...]. Per quanto riguarda la corrispondenza tra melodie e testi poetici, pur restando nella prassi dell’utilizzazione di canti preesistenti, si sceglievano quelle melodie che maggiormente interpretavano il senso delle parole. Pensiamo ad es. alla pastorale, di cui Alfonso de Liguori si servì per rivestire di note il suo Tu scendi dalle stelle. Essa era un topos musicale della natività del Redentore cristallizzato dall’uso. Simile, infatti, è quello utilizzato ab immemorabili dagli zampognari durante la novena del Natale. Simile si trova anche in quasi tutte le nenie natalizie. Simile è l’incipit utilizzato da Palestrina (1525-1595) nel suo mottetto natalizio, Dies santificatus, e nell’omonima Missa parodia».153 Pertanto, la pedagogia pastorale di Alfonso si esprime nell’affidare la sua canzoncina ad una intonazione di una melodia popolare preesistente la quale, «essendo stata già omogeneamente assimilata in una vastissima area geografica, sarebbe stata meno esposta ad ulteriori trasformazioni, al contrario di quelle che, essendo di nuova fattura e venendo insegnate oralmente al popolo, avrebbero potuto più facilmente subire delle variazioni da zona a zona anche tenendo conto che, essendo le persone che le trasmettevano poco competenti in materia musicale, ne potevano sul nascere già alterare la versione originaria».154 Quest’ultimo aspetto evidenzia uno dei punti di discordanza fra la lauda alfonsiana e quella diffusa in ambiente oratoriano e gesuita; infatti se la prima, come si è visto, prediligeva, a fine didattico, l’utilizzo di intonazioni o topoi melodici preesistenti, le altre due, influenzate dai dettami tridentini155 più vicini, sotto l’aspetto cronologico, 153
SATURNO, Inedito del Settecento musicale napoletano cit., pp. 71-72. È probabile che anche la melodia popolare del Quanno nascette ninno fosse preesistente; infatti è possibile riscontrarne l’incipit fin dalle prime battute dell’aria He shall feed his flock like a shepherd, composta da Händel e inserita nell’oratorio Il Messia. Doverosa, a riguardo, la distinzione fra le due melodie pervenuteci con le quali è possibile intonare il Quanno nascette ninno: la prima, quella comunemente nota come “popolare” e seguita da Roberto de Simone, presenta nel suo primo inciso un intervallo di quinta discendete sciolto per gradi congiunti; la seconda, indicata come “tradizionale redentorista”, presenta un inconfondibile anacrusico di quarta ascendente, dal sapore tipicamente alfonsiano. 154 SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana cit., p. 581. 155 «Alla valorizzazione dei generi spirituali corrispose la volontà di “sopprimere” quelli profani. Ciò è ben documentato dai numerosi casi di “travestimento a scopo spirituali” di canzoni, madrigali e villanelle, che caratterizzarono l’età della Controriforma. Ma lo testimoniano anche alcuni provvedimenti adottati dalla censura ecclesiastica verso la produzione vocale, a partire dagli anni Settanta del Cinquecento. […] La musica fu oggetto di dibattito durante l’ultima fase del Concilio di Trento. Nel “Decretum de observandis et vitandis in celebratione missarum” (approvato nella XXII sessione) si raccomandava ai vescovi di bandire dalle chiese le musiche in cui, o con l’organo o con il canto, si mescolava qualche cosa di lascivo o di impuro. [...] Con l’avvento della Riforma si era fatta più urgente la necessità di uniformare le pratiche liturgiche e devozionali. Il confine fra sacro e 76
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
alla loro tradizione missionaria, rifiutavano la pratica del travestimento spirituale e qualsiasi contaminazione fra sacro e profano. Inoltre lauda filippina e gesuita di inizio Seicento, polifonica ma all’occorrenza monodica, composta ed eseguita da sacerdoti musicisti, nasceva in prima istanza per essere fruita internamente e poi declinata in maniera popolare in contesti pubblici; la canzoncina alfonsiano-redentorista invece, necessariamente monodica, insegnata ai fedeli da sacerdoti a cui era vietato tenere in privato «ogni strumento di musica a fiato o a mano, fuorchè il cembalo in comune, non già nella propria camera»,156 era innanzitutto popolare, cioè scritta per venire incontro ad esigenze pastorali reali, e poi eventualmente eseguita in casa, come sollievo e riposo dallo studio.157 Questo infatti è l’aspetto rivoluzionario della canzoncina alfonsiano-redentorista, non tanto il suo essere monodico – non è infatti sconosciuta l’esecuzione di canzoncine da parte del popolo con una polifonia semplice e spontanea procedente per terze158 – ma quanto piuttosto il suo essere popolare, qualità espressa dalla sua chiarezza, dal suo ritmo scandito dalla rima, volto alla memorizzazione, e dal suo stile capace di destare la fantasia con immagini poetiche semplici e schiette, che penetrano al cuore fino a commuoverlo.159 Inoltre l’aspetto popolare della canzoncina alfonsiano-redentorista è espresso altresì dalla sua immediata ricezioni e dal forte senso di appartenenza e di gratitudine che i fedeli sentono nei suoi confronti; infatti il vero custode di questa letteratura non è la carta ma l’utenza stessa a cui è rivolta, il popolo di Dio, il quale per anni ne ha custodito la conservazione, la trasmissione e, talvolta, celebrato la valorizzazione, restituendo negli anni nuove intonazioni, talvolta radicali, e variazioni dei testi poetici.
profano andava demarcato con nettezza, e si dovevano liberare i luoghi e i tempi del culto religioso da incrostazioni mondane e superstiziose. E la penetrazione del “profano” nello spazio liturgico attraverso la musica era un problema aperto almeno del XII secolo. Qui basta ricordare il successo della prassi medievale della “parodia”, che consistevano nella rielaborazione di melodie o di intere composizioni profane – canzoni francesi, madrigali, battaglie – per la realizzazione di messe polifoniche». BERTOLINI, Censurare la musica cit., pp. 217-219. 156 GREGORIO, Commentario settecentesco del “Regolamento” regio, in “Spicilegium Historicum”, Anno 14 (1966), Fasc. 1, p. 69. 157 «Avendo fatto mettere in nota le proprie canzoni, [Alfonso de Liguori] godeva veder ammaestrati nel canto in tempo di sollievo i giovanetti, e cantarle uscendosi a spasso, o di sera, e di mattina nella comune ricreazione. Egli medesimo affaticavasi spesso in dar loro i tuoni, compiacendosi vederli allegri e giolivi». TANNOIA, Vita ed Istituto del Ven. Alfonso M. dei Liguori cit., libro 3, p. 52. «Si sa, che, stando in Congregazione, [Alfonso de Liguori] soleva talvolta dopo pranzo toccare il cembalo nella stanza comune, massime se vi erano Chierici, per dar loro il tuono delle sue canzoni. In questo vi aveva del piacere. Fatto Vescovo ci diede un solenne addio». ID., Ivi, p. 390. 158 MAGDA MARX-WEBER, Alfonso Maria de Liguori compositore: il ruolo della musica nella sua attività pastorale, in S. Alfonso de Liguori e la sua opera – Testimonianze bibliografiche, a cura di E. MASONE e ALFONSO AMARANTE, Edizioni Centro Associazioni Redentoriste, Pagani, 1987, pp. 289-290. 159 Cfr. M. BARBERA, Catechismo in versi popolari, «La civiltà cattolica», Anno 94 (1943), vol. 3, p. 287. 77
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
La nascita del filone alfonsiano-redentorista160 Si è parlato, a buon diritto, di canzoncina e tradizione alfonsiano-redentorista perché presto altri padri liguorini, guardando al padre fondatore come modello di stile e seguendo le sue orme, si cimentarono nella composizione di canzoncine spirituali; essi sono i padri Caione, Pavone, Del Buono, De Vivo, Spina e Negri. Tuttavia, presto queste istanze si diffusero anche fuori dalla congregazione fino ad eleggere sant’Alfonso “caposcuola” e «centro di una interessante produzione che, partita prima di lui, in lui culmina, ripartita da lui, lui ha come modello fino ai nostri giorni».161 A tal proposito, degna di nota è la produzione laudistica di un sacerdote napoletano coevo ad Alfonso, Mattia Del Piano (1741162 - ?) il quale, recepite le direttive del fondatore dei Redentoristi, le portò alle estreme conseguenze fino a comporre canzoncine spirituali nella lingua propria del popolo, il dialetto napoletano. Il chierico è infatti autore di una raccolta di canzoncine sacre dal titolo Il freno della lingua. Ovvero laudi spirituali composte nell’idioma toscano e napoletano per lo popolo [sic!], pubblicata a Napoli presso l’editore Paci nel 1779; a questa seguirono una seconda edizione Accresciuta di nuove canzoncine, edita a Napoli da Gaetano Raimondi nel 1788 e una terza edizione di Canzoncine da aggiungersi al manual canzoniere intitolato Il freno della lingua […] Oltre a quelle aggiunte nella Seconda Edizione, data alle stampa ancora da Raimondi nel 1801. Che il del Piano fosse al corrente dell’opera del de Liguori e dei suoi congregati è fuori da ogni dubbio. Si può leggere infatti che il del Piano conoscesse «il canto delle belle, e divote canzoni dell’Illustrissimo, e Reverendissimo Monsignor Alfonso Maria de Liguori che fu Rettor Maggiore della Congregazione del SS. Redentore, e Vescovo di S. Agata de’ Goti, il quale passato pochi anni sono all’altra vita, ha lasciato di se la fama non sol di Santo, ma ancor di Letterato, come ognun sà, poiché oggimai di tai canzoni risuonano le Chiese, le case, le piazze ed i villaggi non solo della Città di Napoli, ma del Regno, e fuori ancora [...]. Il suddetto Illustrissimo Monsignor di Liguori, il quale non solo compose le sue canzoncine, ma come intendente di musica, vi adattò alcune semplice modulazioni, e sì da per se stesso, come per mezzo de’ suoi Congregati ha da per ogni dove insegnato il popolo a cantarle»;163 inoltre la sua opera è impreziosita da parafrasi di canzoncine alfonsiano-redentoriste e da fedeli riproduzioni di queste, come il testo del Duetto tra l’Anima e Gesù Cristo, avendo cura di attribuire la paternità dell’opera all’autore con la formula Dell’Ill. Monsignor D. Alfonso Maria de Liguori. L’autore espone chiaramente il suo intento già dalle prime battute della prefazione che precede la prima e la seconda edizione del laudario:
160
In questo caso il termine “alfonsiano” non indica una paternità di sant’Alfonso ma, secondo l’accezione del musicologo redentorista p. Paolo Saturno, un prodotto che ricalca lo stile poeticomusicale del santo autore. 161 SATURNO, Libretto, in CORO POLIFONICO ALFONSIANO - GRUPPO STRUMENTALE ALFATERNA, Tu scendi dalle stelle – Natale con S. Alfonso e i Redentoristi [CD-ROM], vol. 4, Pagani, 2017, p. 16. 162 Ivi, p. 20. 163 MATTIA DEL PIANO, Il freno della lingua... seconda edizione, Napoli, Raimondi, 1788, p. 478. 78
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA Il mio disegno nel comporre queste spirituali Canzoncine è stato quello di giovare principalmente a quella classe del popolo Napoletano, che di sera con somma edificazione frequenta le Cappelle. Tra que’ di questa classe, comechè vi sian delle persone colte, nulladimeno la maggior parte di essi non ha intelligenza, ed abilità sufficiente per ben capire i sensi sublimi, e profferir parimenti le parole della lingua de’ saggi Parlatori, e Scrittori d’Italia. Il perché non senza muover le risa de’ saccentelli, e non senza dispiacere de’ buoni insieme, e dotti, odonsi tutto dì cantarsi da alcuni del basso popolo le più belle, e divote Canzoni Italiane, ma così storpie, e malconce nelle parole, e ne’ sensi, che fan pietà. Per lo contrario il natural garbo, la giusta posata secondo i sensi, e le parole, i finimenti ben accordati colla melodia, e la chiarezza di esprimere, cantando, i sentimenti dell’animo osservansi, quando que’ del popolo minuto cantano canzoni nella di lor lingua Napoletana composte, sian sacre, sian profane».164 «Il popol basso vuol cantar nella sua lingua. E questi in due classi diviso, la prima è portata per lo canto sacro, l’altra per lo profano; quella, per non aver poemi sacri, si ha di proprio talento formato alcune canzoni inette, erronee, e anche di peggio delle quali n’è ammorbata la nostra Città; questa ne và tutto dì cantando cose empie, e scostumate, che per esse si pogon in ludibrio i misteri più sacrosanti della Cristiana Religione». 165 «Queste osservazioni vere, ed innegabili, frutto di lunga sperienza, mi determinarono a voler comporre le mie canzoni, non in istile di perfetta lingua Italiana, né co’ concetti di sublime Poesia (nelle quali due cose volentieri, e con giustizia cedo il campo a chi più ne sa); ma cogli affettuosi sentimenti, e colle più tenere espressioni del cuore di qualunque popolar fedele, e colle parole eziandio del nostro Popolo Napoletano.166
Segue a questa una dichiarazione in cui l’autore si difende da una possibile critica circa l’adozione di una lingua vernacolare per la composizione di versi dal carattere sacro: Ma la Lingua Napoletana, è una lingua corrotta, è una lingua ridicola, è una lingua goffa. Queste, per quando ho potuto esaminare, sono le accuse, onde vien dichiarata una tal lingua indegna di proferir le divine cose, e condannata finalmente, o ad intoscanarsi, o a zittirle sotto pena di lesa Divina Maestà [...]. E noi vogliam negare: ma quando? Allorchè sarà ridicola la materia; ed in questo caso non solo la lingua Napoletana, sebben più di leggieri per la sua corruzione, ma la Toscana ancora, la Latina, la Francese, ecet. le saranno tali [...]. Dal che chiaramente si osserva, che non la lingua Napoletana, ma la materia buffonesca detta in tal lingua debba esser ridicola.167
La prima edizione del Freno della lingua contiene 16 canzoncine in lingua napoletana (pp. 197-248) e 3 in lingua calabrese (pp. 248-252); la seconda edizione aggiunge, a quelli già pubblicati, altri 12 testi (pp. 279-362), se si include la nuova versione della canzoncina Si t’addommanno, Giesù mio doce pubblicata nel 1779 con dodici strofe e in questa arricchita di undici strofe; la terza edizione aggiunge a queste altre 7
164
ID., Il freno della lingua, Napoli, Paci, 1779, p. V. Ivi, p. XIX. 166 Ivi, pp. VI-VII. 167 Ivi, pp. IX-XII. 165
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SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
laudi (pp. 171-189) per un totale di ben 38 canzoncine spirituali in lingua vernacolare alle quali si dovrebbero aggiungere altre in lingua siciliana non pervenuteci.168 Le posizioni sostenute nella prefazione della prima edizione non lo misero al sicuro da alcune critiche e riserve alle sue canzoncine in lingua napoletana mossegli in seguito, alle quali il Del Piano rispose con una apologia posta in coda alla seconda edizione del Manual canzoniere; infatti, sebbene il revisore regio Carmine Fimiani avesse giudicato «lodevol impresa» quella del «pio autore in promuovere appo il popolo volgare la spiritual salmodia, come costumavano i vetusti cristiani», don Mattia «probo et pientissimo juvene bonis litteris innutrito» dovette difendersi da qualche zelante scrupoloso «che giunse a proibir queste canzoncine, condannandone (se non erro) di colpa grave la lettura».169 A riguardo, il Del Piano riporta un aneddoto accadutogli non molto tempo prima: Tra le canzoncine da me composte per aggiungerle in questa seconda edizione a quelle della prima, vi ha la traduzione del Pater, e quella dell’Ave napolitano dialetto: l’impararono a cantare alcuni fanciulli d’una Cappella, dove da’ Superiori della Congregazione detta della Conferenza per le S. Missioni destinato con altri migliori compagni a far il Catechismo la sera […]. Gran fatto! Un de’ suddetti scrupolosi Zelatori niente commosso dalla profana canzone, tutto sentissi pungere nella sua delicata, e tenera coscienza da queste spirituali, le quali stimando quai prodotti di eretica pravità, degne perciò della più rigorosa proibizione, e l’autore reo delle più severe pene di S. Chiesa; si credette nell’obbligo di denuniare, e di fatti denunziò le canzoni, e l’autore al Superiore della suddetta Congregazione. Fui dunque obbligato comparire avanti il suddetto Superiore, il quale, parlando coll’altrui linguaggio, cominciò ad inveire non solo contro le suddette, ma ancora contro tutte le napolitane canzoni. Me ne stavo io in silenzio, […] ma non mi fu possibile durarvi: come le invettive passarono ad attaccare la sostanza delle Canzoncine, mi trovai, senza volerlo, rispondendo. Cominciò la mia difesa dal merito de’ due Revisori, e dall’approvazione dell’una, e dell’altra Potestà; proseguii con quel di più, che su due piedi, ed all’impensata mi riuscì di proporre; ma tanto bastò a soddisfare il Superiore, che non volle più sentirne parlare sarebbe ancora a me bastato, onde non tediare i leggitori co’ nuove approvazioni, e con altra apologia, se lo zelante delatore, con quei di sua communione, che accanitamente interloquirono, si fossero arrestati nelle solite obiezioni, perché è nell’approvazione de’ suddetti Revisori, e nella prefazione di quest’operetta sono sufficientemente confutate.170
Il Del Piano procede nel difendere le sue canzoni, accusate di aver introdotto «novità nella Chiesa di Dio»171 distinguendo «la novità di sostanza dalla novità di modo: la prima è stata sempre aborrita dalla Chiesa; e chi a quella s’è attaccato si è ritrovato fuori dalla cattolica comunione. Ma della seconda novità non è così; anziché aborrirla, n’è andata sempre vaga la nostra cattolica Chiesa»;172 pertanto la novità delle sue canzoncine, composte in lingua vernacolare, è nell’insegnare i dogmi, la dottrina e le 168
«Tra miei pochi libri pure poteva mostrar loro (oltre qualche composizione sacra, e profana in Napolitano data alle stampe) un’operetta manoscritta di bellissime canzoni sacre in lingua Siciliana affettive, ed istruttive insieme». ID., Il freno della lingua... seconda edizione, 1788, p. 472. 169 Ivi, p. 463. 170 Ivi, pp. 463-464. 171 Ivi, p. 465. 172 Ivi, p. 466. 80
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
Scritture in una forma diversa da quella consueta, senza però alterare la sostanza, ovvero i contenuti. Alla lezione di del Piano si ispira il domenicano Errico De Rosa (fl. 1797), autore dell’opera Meditazioni e poemi sacri ovvero Verità eterne... coll’aggiunta di... varie Canzoni sacre pubblicata a Napoli nel 1797 dall’editore Orsini a cui seguì, dopo tre anni e presso lo stesso tipografo, una seconda edizione corretta, ed accresciuta dall’Autore. Infatti si può leggere nella sua prefazione Al lettore: Avendo finalmente formato vari Poemi sacri mi è piaciuto qui inserirli, come una seconda parte dell’Opera. È diviso dunque questo Libro in due parti. La prima contiene 20 Meditazioni, e sera di 10 giorni; le annotazioni; gli esempi, un modo pratico di fare una buona Confessione, e Santa Comunione, con gli atti da farsi prima, e dopo; e gli atti Cristiani per ogni giorno. Contiene la seconda una Parafrasi sulle Litanie di Maria SS. e varie canzoni in vario dialetto formate dove l’offro ancora una semplice sì, ma fedele parafrasi delle Scritture, e Sentenza de’ Padri.173
Riguardo poi le canzoncine composte in lingua vernacolare aggiunge: Il desiderio de’ divoti mi ha indotto ad inserire qui le seguenti Canzonette nel Napolitano, e Calabro idioma formate. Se ad alcuno insorgesse scrupolo per sembrarli lingue corrotte, e ridicole; temesse di avvilirsi la Divina Parola; avesse per cosa inconvenevole trattare così confidentemente Iddio: L’offro a leggere la troppo ragionata Prefazione del nommen dotto, che pio Signor D. Mattia del Piano, che fa nel suo divotissimo manual Canzoniere Napolitano, intitolato: Il Freno della lingua; quasi prevedendo la guerra, che a cagione della Napolitana lingua, gli fu mossa da un certo zelante scrupoloso.174
Il laudario derosiano, tenendo conto di entrambe le pubblicazioni, è composto da 2 parafrasi dal latino all’italiano, una sulla seguenza della messa dello Spirito Santo e l’altra sulle litanie di Maria SS., da 9 canzoni sacre nell’idioma toscano a cui seguono 6 canzoncine in lingua napoletana e 5 in lingua calabrese. Fra queste, oltre a quella dal titolo Peccatore si sapiesse (p. 241) che fa eco all’omonima pubblicata dal del Piano nella seconda edizione del suo canzoniere (p. 349), ci sono alcune canzoncine che fanno intendere che il De Rosa conoscesse la produzione laudistica alfonsiana. Infatti il poeta domenicano è autore, come lo stesso del Piano, di due canzoncine pastorali nello stesso metro del Tu scendi dalle stelle di sant’Alfonso: Di crudo inverno in una notte nera (p. 319) e A fin di convertir me peccatore (p. 321); a queste va aggiunta la trasposizione in lingua napoletana della canzoncina alfonsiana O felice chi giunger potesse, che ne costituisce quasi un tributo. Le prime tre strofe della canzoncina derosiana, di seguito riportate, sono quelle che presentano più assonanze con quella alfonsiana:
173
ERRICO DE ROSA, Meditazioni e poemi sacri ovvero Verità eterne... coll’aggiunta di... varie Canzoni sacre, Napoli, Orsini, 1797, p. 6. 174 Ivi, p. 336. 81
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO O felice chi giunger potesse175 a morire piagato d’amore per quel caro Divino Signore, ch’è ‘l più bello, più degno d’amor.
Ah viato chi potesse176 Arrevà a morì d’amore Pe chill’ottemo Signore, Ch’è chiù bello che n’ ce stà.
Ah ch’Ei solo e sì amabil, si vago, ch’ogni gemma, ogni stella, ogni fiore perde tutto il suo pregio e splendore, posto a fronte al suo Viso Divin.
Scura è a stella, nera è a gemma, Brutta è a rosa co o narciso; Nuje si a chillo o bello viso Li bolimmo confrontà.
Egli sempre va a caccia di cori, ed ha un dardo, che appena ferendo, ogni core d’amore languendo è costretto ad amar chi ‘l ferì.
Co li mmane chiene i frezze Sempe a caccia va de core; Chi ‘nce ancappa, pe l’amore Ave afforza a spanteccà.
La seconda edizione del laudario delpianese è altresì preziosa per alcune note storiografiche riguardanti la diffusione della pratica delle canzoncine spirituali nel Regno di Napoli: Nuove, sì, son le mie canzoni, e per queste rinnovato è il fervore del cantare; ma il comporre le sacre canzoni è antico, è antico il cantarle. Quando comincia ad aver uso di ragione, ritrovai in costume il sacro canto, e ’l libro, che mi trovai posto tra le mani per impararlo non solo a leggere, ma anche a cantare su quello delle canzoni sacre del Reverendo D. Giuseppe Fusco Parroco di Cardito, dato alle stampe fin dall’anno 1697 per uso della Dottrina Cristiana, Missioni, e cet. Questo autore nella prefazione ci dà, che molto prima di lui già si cantava, e che egli non faceva, che promuovere questo santo, ed antico costume [...]. Da questo medesimo libro si rileva, che anche i Padri della Congregazione della Missione fin d’allora erano dati a questo pio esercizio; poiché nella pagina 318 vi è una canzone a Gesù composta dal P. Giuseppe Seghini Superiore di detta Congregazione, ed inviata al detto Autore. Questi stessi Padri nelle Missioni, che fanno, dispensano alcuni libretti, ne’ quali vi sono delle lor canzoni (e tra queste le parafrasi del Pater, e dell’Ave) che col di loro esempio, ed esortazioni, fanno si cantassero dal popolo. Più volte questi Padri medesimi mi han voluto nelle loro Missioni, per render col suono degli organi, e col canto delle canzoncine, più tenere le apostoliche lor funzioni.177
Infatti nella Terza Impressione con l’aggiunta di molte altre più belle delle prime dell’opera Sagre canzoncine... del Rev. D. Giuseppe Di Fusco Paroco di Cardito stampata a Napoli presso l’editore Felice Mosca nel 1731 e curata da Pietro del Giudice, l’autore pubblica alle pp. 308 - 310 la canzoncina Viva, viva in tutte l’hore e la fa seguire da quella dal titolo Viva, viva ogn’un nel Core (pp. 310-312) avendo cura di specificare: «La suddetta Canzoncina inviata da me al molto Innamorato del Sagro Cuore di Giesù, il Signor Giuseppe Seghini, Superiore della Congregazione della Missioni di Napoli rispose con la seguente. / Invito a vivere nel Core di Giesù Sagramentato». Il laudario del sacerdote Giuseppe Di Fusco ebbe un discreto successo: 175
GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 252. DE ROSA, Meditazioni e poemi sacri cit., p. 244. 177 DEL PIANO, Il freno della lingua... seconda edizione cit., pp. 475-476. 176
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si contano almeno cinque edizioni178 e l’ultima ristampa risale al 1790.179 Significativa è la prefazione dell’autore al divoto lettore, nella quale, dopo aver citato gli insegnamenti del p. Francesco Pavone [sic!], lo invita a cantare e recitare le sue sagre canzonette: L’uso delle Sagre Canzonette, che sono il distillato delle massime Verita contenute ne i Libri spirituali, inzuccherato con le dolcezze poetiche, ai quanti beni sia cagione […], per sollevare i peccatori all’emendazione, e l’Anime divote a maggior perfezzione, è cosa inespicabile. Che perciò afferma il mio P. Francesco Pavone nelle sue Instruzzioni, che questo Canto spirituale, principalmente nella Dottrina Christiana hà trè utilità: (1) Trattiene con allegrezza, ed attenzione gli ascoltanti; (2) Imprime, ed inferisce meglio negl’animi quel, che cantando s’insegna; (3) Cantandosi dagl’ascoltanti in altri tempi quel, che nel tempo della Dottrina per via del canto s’inalza l’anima alle cose divine, s’edifica chi ode, si lascia l’uso de’ canti lascivi, e s’insegnano con santo artificio a quei, che non sogliono esser presenti all’esercizio della Dottrina, le materie della Fede [...]. Cantatele dunque, leggetele, e rileggetele, ma sempre meditando, e ponderando bene le verità, che contengono.
Questa terza edizione contiene 195 canzoncine divise in tre gruppi: Delle canzoncine purgative (pp. 1-81), Nelle illuminative (pp. 82-232), Delle unitive (pp. 233335). A queste segue una Breve, e facilissima pratica della Dottrina Christiana (pp. 336-469), interpolata da diverse strofette, coronelle e da altre 11 canzoncine; l’opera si chiude con una canzoncina in cui L’autore raccomanda à S. Giuseppe questo Libretto (pp. 466-467). Il sacerdote Giuseppe Di Fusco è solo uno dei tanti chierici del Regno di Napoli che, attraverso la poesia, hanno considerato come obbiettivo principale della loro pastorale l’edificazione spirituale del popolo di Dio, arricchendo al contempo la letteratura laudistica partenopea. Tuttavia, la storia non ha dato il giusto merito allo zelo pastorale di questi uomini; si procede, pertanto, con una breve rassegna di alcune raccolte di canzoncine sacre pubblicate a Napoli durante il XVIII secolo affinchè l’opera di questi non perduri nell’anonimato. Gennaro Cangiano, Sacerdote Napolitano, è autore di almeno tre raccolte di canzoncine spirituali: Il Consuolo dell’anima afflitta,180 ne contiene 117 divise in due parti delle quali la prima è dedicata alla Santissima Trinita nostro Dio Creatore (pp. 11-192) e la seconda al Mondo con suoi diletti (pp. 193-281); Il canto nuovo spirituale,181 ne comprende 275 divise in quattro parti delle quali la prima è dedicata alla Santa Fede di Giesù (pagg. 9-72), la seconda al Peccato (pagg. 73-202), la terza al SS. 178
Cfr. Scheda bibliografica dal Catalogo del servizio bibliotecario nazionale consultabile al link http://id.sbn.it/bid/BA1E012695 (ultima consultazione 13/11/2019). 179 Cfr. Scheda bibliografica dal Catalogo del servizio bibliotecario nazionale consultabile al link http://id.sbn.it/bid/CAME011796 (ultima consultazione 13/11/2019). 180 GENNARO CANGIANO, Il consuolo dell’anima afflitta, Napoli, Gramignani, 1703. 181 ID., Il canto nuovo spirituale Sopra la vita Attiva, Purgativa; e Contemplativa, che può servire per le dottrine Christiane, & Apostoliche Missioni, come anco per ogni divoto Christiano... Seconda impressione del medesimo Autore corretto con l’aggiunta di più Canti, Napoli, Gramignani, 1706. 83
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
amor di Dio (pagg. 203-502), la quarta, contenente liriche in latino, è intitolata Abstinentia (pagg. 503-527); Il Paradiso spirituale dell’anima cristiana182 ne contiene 46 dedicate principalmente ai santi. Il frate agostiniano Niccola Maria Troisio183 da Solofra è autore di 23 canzoncine spirituali, dedicate alla Vergine e al suo Sposo, pubblicate in coda alla sua opera Sagre novene per l’Immacolata Concezione di Maria e per S. Giuseppe dilei castissimo sposo.184 L’undicesima edizione delle Canzoncine spirituali composte dall’Illmo, e Rmo Monsignor D. Alfonso de Liguori, pubblicata a Napoli nel 1796 Nella Stamperia, ed a spese di Gennaro Migliaccio, attribuisce al sacerdote don Domenico Caputo le canzoncine Peccato maledetto (pp. 48-50), Disciolte dal corpo, quelle Alme purganti (pp. 50-51) e Non è qui tempo (pp. 51-52), al M. R. D. Francesco Lanzilli Sacerdote della Città d’Avellino quella dal titolo Di Gesù Sacramentato questo core innamorato (pp. 59-61) e indica il M. R. D. Giacomo Brunetti Sacerdote della Città d’Andria come autore della canzoncina Eco mortale a nascer s’avvicina (pp. 61-63) il cui metro riecheggia la pastorale alfonsiana Tu scendi dalle stelle. È necessario approcciarsi con dovuta cautela alla suddetta raccolta dal momento che attribuisce erroneamente al monaco calabrese dell’ordine basiliano Giuseppe Muscari (1710-1793) la canzoncina Un dì che fra me stesso (pp. 66-67); infatti la lauda è ben più antica e appare già pubblicata nel 1709, un anno prima che nascesse Muscari, nella Scelta d’alcune laude per comodo delle sacre veglie al S. Presepio (pp. 3-8). Tuttavia, l’opera Traduzione letterale d’alcuni testi, e sentenze della Sacra Scrittura185 rivendica al Muscari 16 componimenti poetici sacri, principalmente traduzioni di inni e salmi, (pp. 17-46) e 10 Arie sulle Massime Eterne Solite farsi cantare dall’Autore nel dare gli Esercizj al Popolo per eccitare l’attenzione a compunzione degli Uditori (pp. 47-52). La raccolta Tenerezze amorose dell’Anima con Dio Bambino, antologia di Sacre Canzonette, raccolte e ordinate, ed ampliate da un Divoto di così alto Mistero, pubblicata a Napoli nel 1716 presso l’editore Felice Mosca, contiene alcune canzoncine dell’oratoriano p. Antonio Glielmi (1596-1644)186 e del gesuita p. Giacomo Lubrano (1619-1693).187 Il padre Glielmi, originario di Magliano Vetere, nel Salernitano, si 182
ID., Il Paradiso spirituale dell’anima Christiana cioè Divoti Canti della Santissima Natività di Nostro Signore Giesù Christo Salvatore del Mondo, & altri Santi, Opera Nuova, e profittevole per ogni divoto Christiano, Napoli, Abri, 1724. 183 Fu maestro dell’orientalista Agostino Antonio Giorgi. Cfr. FRANCESCO FONTANI, Elogio del reverendissimo padre maestro Agostino Antonio Giorgi eremita agostiniano, Firenze, Cambiagi, 1798, p. 8. 184 NICOLA MARIA TROISIO, Sagre novene per l’Immacolata concezione di Maria e per S. Giuseppe dilei castissimo sposo... contiene... preghiere colle sue Canzoncine spirituali, Napoli, Gessari, 1752. 185 GIUSEPPE MUSCARI, Traduzione letterale d’alcuni testi, e sentenze della Sacra Scrittura, Roma, Fulgoni, 1788. L’opera è pubblicata anonima ma attribuita all’abate Muscari. Cfr. G. MELZI, Op. cit., vol. 3, p. 159. 186 Cfr. TERESA MEGALE, s. v. Glielmo Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 57, 2001, versione online. 187 Cfr. LUIGI MATT, s. v. Lubrano Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 66, 2006, versione online. 84
LAUDA DI TRADIZIONE ALFONSIANA-REDENTORISTA
dedicò all’arte poetica e drammaturgica: «Non minor efficacia haveano le canzoncine, che da Musici si cantavano nell’istesso Oratorio Vespertino per esser anch’esse composte dal medesimo Padre: onde a pari dell’innocenza de’ fanciulli serviva la soavità de’ Musici per guadagnare anime a Dio»;188 la raccolta gli attribuisce le canzoncine Onori, diletti, ricchezze fugaci (pp. 59-60), Ciel, e stelle, limpide e belle (pp. 60-61), Fanciullin, che porta fiamma (pp. 80-81), Fanciullino Giesù, dammi due baci (pp. 101-102). Il padre Lubrano, poeta, latinista e fervente predicatore fu autore, con lo pseudonimo di Paolo Brinacio napoletano, dell’opera Scintille poetiche, o poesie sacre e morali, una raccolta di sonetti, odi e composizioni per musica divisa in tre libri «presentata come frutto di svaghi letterari, condotti però tenendo sempre ben presenti le istanze religiose»;189 l’antologia Tenerezze amorose indica il gesuita come autore delle canzoncine Silenzio, o stelle (pp. 106-107) e Riposa, cor mio (pp. 107-108). Inoltre, la raccolta in questione rivendica la paternità della canzoncina Fermarono i cieli (pp. 34-36), attribuita finora ad Alfonso de Liguori, ad un anonimo padre Carmelitano scalzo; la lirica, pubblicata in quest’opera quando Alfonso esercitava ancora l’attività forense, venne pubblicata sotto il nome del santo poeta soltanto nel 1785.190 L'attendibilità di queste attribuzioni è comprovata dalla presenza nella raccolta di alcune canzoncine di Anello Sarriano:191 Che fanciullin bellissimo (p. 52), Mira cor mio durissimo (pp. 55-56), Venite o pastori su su che si fa (pp. 56-57), Quel bambin dolce e gradito (pp. 79-80), Cantar vorrei la nonna (pp. 115-116), O nome soavissimo (pp. 123-124);192 queste si trovano effettivamente nell'opera Sacre Canzonette (Napoli, Cavallo, 1651) del Sarriano, rispettivamente alle pagine 77-78, 48-49, 50, 76-77, 154155, 41-42. Conclusioni Il Saturno definisce sant’Alfonso «musicista del popolo», ricordando che egli «si servì della musica non per fare arte, ma per supportare la sua predicazione» e facilitarne l’assimilazione, offrendo «un fulgido esempio di pedagogia allineata ai tempi».193 In rapporto alla lauda, la grandezza del Santo sta nell’averne riconosciuto la validità di potente strumento di evangelizzazione e catechesi, di interiorizzazione delle verità di fede ed espressione dei sentimenti di pietà. Egli l’ha utilizzata e fatta utilizzare dai suoi missionari dando vita ad un connubio che si è rivelato provvidenziale: 188
GIOVANNI MARCIANO, Memorie historiche della Congregatione dell’Oratorio, Napoli, De Bonis, 1693, vol. 2, p. 286. 189 MATT, Lubrano Giacomo cit. 190 GREGORIO, Canzoniere Alfonsiano cit., p. 35. 191 Cfr. nota n. 46. 192 Questa versione di nove strofe ha in comune con l’originale del Sarriano solo le prime tre; infatti il curatore della raccolta è attento a specificare prima della canzoncina: «Per il dolcissimo nome di GIESU’; del Sarriano, accresciuta in sei ultime Strofe da un Carmelitano Scalzo». Cfr. Tenerezze amorose, Napoli, Mosca, 1716, p. 123; Cfr. SARRIANO, Sacre canzonette cit., pp. 41-42. 193 PAOLO SATURNO, Sant’Alfonso Musicista e la Tradizione Musicale Alfonsiana, «Il Saggio» 27, Agosto 1998-III, p. 7. 85
SALVATORE ESPOSITO FERRAIOLI – SIMONA PELUSO
da una parte, i figli di sant’Alfonso hanno potuto conquistare molti cuori a Dio, anche grazie alla lauda; dall’altra, la lauda, in seno alla Congregazione del Santissimo Redentore, non soltanto ha avuto una capillare diffusione dal XVIII al XX secolo, ma è giunta fino al nostro tempo ancóra capace di offrire numerosi beni spirituali alla Chiesa. In questo senso, è possibile affermare che Alfonso Maria de Liguori è stato come un catalizzatore. La sua grandezza ne ha fatto un nuovo Omero, un nuovo Salomone, un nuovo Geremia,194 diventando come una calamita e attirando a sé il repertorio laudistico precedente, coevo e successivo, permettendo che si conservasse e giungesse fino a noi.
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Il paragone si riferisce al fenomeno della pseudo-epigrafia, che ha interessato, tra i tanti, anche questi illustri autori.
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Pier Carmine Garzillo LO “STRANO SEGRETO” DEL TOTENTANZ DI LISZT: UN’INDAGINE MUSICOLOGICA Dopo averne completato la revisione del 1853, Franz Liszt lasciò il Totentanz per undici anni. Nel 1864, il pianista e direttore d’orchestra Hans von Bülow, suo genero, espresse un particolare interesse per l’opera e chiese al compositore di prepararla per concederle finalmente una prima esecuzione in pubblico. Ma perché Liszt gli rispose in una lettera1 che avrebbe ritoccato l’opera solo per esaudire la sua richiesta e senza l’intenzione di pubblicarla? Perché, nel ritoccarla, scompare lo speranzoso tema del De Profundis a favore dello sconfortante Dies Irae? E perché, anni dopo, il critico russo Vladimir Vasil’evic Stasov - le cui teorie musicali mostrano che la musica ha il potere di dipingere la vita delle persone -, dopo aver incontrato il compositore, riportò le seguenti parole? To no avail I asked him to explain the principal variations in Totentanz, for which no programme is given (contrary to the practice Liszt has followed in all his symphonic works). He flatly refused to play this piece, and as for its programme, he said only that he felt it was one of those Works whose content must not be made public. A strange secret, a strange exception, the strange effect of his life as an abbé and his stay in Rome!2
Risulterebbe impossibile cercare di trovare una spiegazione a questo «strano segreto» senza ripercorrere la storia evolutiva3 dell’unico programmatic concerto4 per pianoforte e orchestra dell’ungherese, e senza far riferimento alle sue esperienze di vita e agli avvenimenti – storici, politici, sociali e culturali – del mondo circostante che hanno modificato, anno dopo anno, la percezione del mondo da parte del compositore. Vita e musica, in Liszt, sono legate da un filo invisibile, e questo è più che evidente al suo altrettanto ‘romantico’ collega Robert Schumann: «Alle gioie che l’artista vi prepara, egli ha consacrato la vita; delle fatiche che la sua arte gli è costata, voi non sapete nulla; egli vi dà il meglio di quanto ha, il fiore della sua vita, ciò che è divenu-
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Cfr. lettera scritta il 12 novembre 1864 e indirizzata a Hans von Bülow, in Briefwechsel zwischen Franz Liszt und Hans von Bülow, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1898, pp. 322-323. 2 VLADIMIR VASIL’EVIC STASOV, Selected Essays on Music, London, Barrie & Rockliffe Cresset Press, 1968, p. 50. 3 De Profundis – Psaume instrumental pour l’Orchestre et Piano principal par F. Liszt à Monsieur l’abbé de Lamennais (S.121/a - 1834) Totentanz – Phantasie für Pianoforte und Orchester (S.126/1 - 1853) Totentanz – Paraphrase über Dies Irae für Pianoforte und Orchester (S. 126/2 - 1865a) Totentanz – Paraphrase über Dies Irae für Pianoforte allein (S.525 - 1865b) 4 ANNA HARWELL CELENZA, Liszt’s piano concerti: a lost tradition, in KENNETH HAMILTON [ed.], The Cambridge Companion to Liszt, Londra, Cambridge University Press, 2005, p. 162. 87
PIER CARMINE GARZILLO
to perfetto».5 Inoltre, non si deve sottovalutare il tema della religione6 come guida di grande importanza per Liszt: il suo carattere inquieto alla ricerca della pace e di spiegazioni etiche e mistiche si riverbera nella musica, vista come missione e aspirazione ultima dell’uomo, eterna ricerca e sperimentazione volte allo svelamento del mistero della divinità e come atto di amore e fede. L’evoluzione del suo stesso pensiero e i suoi più intimi segreti potrebbero, quindi, essere investigati attraverso uno studio attento delle sue opere e del contesto nel quale sono state composte? Questo è sicuramente possibile, a condizione che le analisi musicali riescano ad avvalersi di simboli e immagini sonore, utili a ricreare i processi mentali – coscienti o incoscienti – del compositore, e in particolare di un compositore che è stato, durante tutta la vita, alla ricerca della sua pura essenza e il cui gigantesco lascito musicale contiene, di conseguenza, «una ricchezza, una trasformazione e una coerenza impressionanti».7 Questa stretta connessione che viene a crearsi in Liszt risulta, quindi, essere un campo fecondo per uno step alternativo della ricerca musicologica in relazione alla sua figura; comunque, già tempo addietro, lo studioso Paul Merrick affermava che «any serious study of Liszt must search for the unity that underlies his varied output. Clearly this unit is not simply musical… it must be psychological».8 Il giovane Liszt e il De profundis Fino ai quindici anni di età, prima di stabilirsi definitivamente a Parigi, Liszt compì la sua scalata al successo da enfant prodige, quale virtuoso che riuscì a dominare ed emozionare chi lo ascoltava suonare e chi lo vedeva esibirsi. Nel 1827 un senso di sazietà nei confronti del concertismo e del contesto sociale, che lo portò da una parte quasi all’esaurimento nervoso e dall’altra al disprezzo per il ruolo subalterno imposto al musicista, andò ad aggiungersi alla morte del padre, colui che era stato il suo mentore e ispiratore, come motivazioni per la prima interruzione della carriera concertistica. Lo stesso Liszt parlò di una corrispondente crisi mistica, resa ancor più estrema dalla delusione amorosa vissuta nel 1828 con Caroline de Saint-Cricq: In quel tempo ebbi una malattia durata due anni, in seguito alla quale il mio imperioso bisogno di fede e di dedizione, non trovando altra via d’uscita, fu preso dalle austere pratiche del cattolicesimo. La mia fronte febbricitante si chinò sugli umidi marmi di San Vincenzo di Paola, feci sanguinare il mio cuore e umiliai il mio pensiero. Un’immagine di donna pura e casta, come l’alabastro dei vasi sacri, fu l’ostia che of5
ROBERT SCHUMANN, La musica romantica, Milano, SE, 2007, p. 145. La questione dell’importanza del lato religioso nella musica e nello sviluppo della vita di Liszt non fu investigata adeguatamente fino alla pubblicazione del seguente libro, di cui sono molto interessanti anche gli studi sull’uso programmatico della fuga, del Cross motif e della trasformazione tematica: PAUL MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt, Londra, Cambridge University Press, 1987. 7 MICHELE CAMPANELLA, Il mio Liszt: considerazioni di un interprete, Milano, Bompiani, 2011, p. 56. 8 PAUL MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., p. 296. 6
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LO “STRANO SEGRETO” DEL TOTENTANZ DI LISZT fersi con le lacrime al Dio dei Cristiani; la rinuncia a ogni cosa terrena fu l’unico impulso, la sola parola della mia vita...9
In questo periodo della sua vita, Liszt si dedicò a lunghi momenti di preghiera, di digiuni e di pratiche ascetiche, nonché alla lettura di antichi testi sacri e teorici, come l’Imitazione di Cristo. Tale opera, di dubbia attribuzione, scritta nel Medioevo, è composta da quattro libri: il primo si basa sul disprezzo delle vanità del mondo e sulla carità, il secondo sulla necessità e sull’inevitabilità della sofferenza per poter entrare nel regno di Dio, il terzo instaura una sorta di dialogo mistico con Cristo, il quarto tratta dell’unione con Gesù tramite l’Eucarestia. Si può dire che il primo libro ricalchi nella vita del compositore il rifiuto delle esperienze giovanili e le numerose opere caritatevoli, il secondo i momenti di raccoglimento e isolamento, il terzo il suo intimo colloquio con Dio, il quarto il conseguimento degli ordini minori nel 1865. Si è di gran lunga lontani da questa data, ma anche nel Liszt diciassettenne non mancava il pensiero relativo all’ordinazione religiosa, come ricordato da lui stesso molti anni dopo: Ho sentito il richiamo della Croce nel più profondo del mio cuore fin dai 17 anni, quando con umiltà e lacrime implorai il permesso di entrare nel seminario di Parigi; a quel tempo speravo mi fosse concesso di vivere la vita dei santi e forse anche la morte dei martiri. Questo purtroppo non è successo.10
Non successe per via delle insistenze della madre e dei suoi più stretti amici, che lo esortavano a coltivare il suo talento musicale, così come aveva fatto il padre nel suo ultimo anno di vita, sottolineando la sua appartenenza all’arte e non alla Chiesa. Nonostante il mancato compimento del proposito, il compositore sentiva ancora il dovere di cambiare stile di vita rispetto al passato: Giovane ed esuberante com’ero allora, soffrivo terribilmente nell’impatto con quelle circostanze esteriori verso le quali mi sospingeva di continuo la mia condizione di musicista, che ferivano così dolorosamente il mistico sentimento d’amore e di religiosità di cui era pieno il mio cuore.11
Quindi, Liszt capì che il destino del virtuoso non gli poteva più appartenere e trovò risposta al binomio conflittuale arte-religione in un’altra lettura: La génie du Christianisme (1802) di Viscount de Chateaubriand. Questo scrittore predicava un cristianesimo ricco di allegorie e misteri affascinanti, vissuto tramite un fervore intenso, una passione devota ed estatica, e dotato del potere di rinnovare la letteratura e l’arte e, anche grazie a queste, l’uomo e il mondo. Così, il musicista e compositore unghe9
Dalla lettera scritta nel gennaio del 1837 e indirizzata a George Sand; trad. it. a cura di Raoul Meloncelli, in FRANZ LISZT, Divagazioni di un musicista romantico, Roma, Salerno Editrice, 1979, pp. 55-56. 10 Dalla lettera scritta il 14 settembre 1860 a Weimar e indirizzata alla principessa Carolyne SaynWittgenstein; trad. it. a cura di Rossana Dalmonte, nel suo Franz Liszt: la vita, l'opera, i testi musicati, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 23-24. 11 Ivi, p. 24.
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rese sentì il dovere di diffondere lo straordinario, il sublime e il divino attraverso le sue stesse opere, strumenti necessari per mostrare il trascendente nella vita mondana. D’altra parte, i contatti tra la musica e il misticismo non erano rari nell’estetica romantica: per esempio, lo scrittore proto-romantico Wilhelm Heinrich Wackenroder credeva nella capacità della musica di lenire la pena del vivere e liberare l’uomo dall’involucro mortale per dargli un assaggio della beatitudine divina. Intanto, nuovi ideali di libertà e nuove consapevolezze furono portati dalla Rivoluzione francese del 1789, con il riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, libero da particolari vincoli sociali ed economici. Ogni minaccia a questo nuovo status, più o meno in tutta Europa, provocava ribellioni, e lo stesso Liszt espresse il suo appoggio e la sua aderenza durante i movimenti rivoluzionari parigini del luglio 1830 – Les trois Glorieuses –, l’evento che ripristinò la passione di Liszt per la vita: «C’est le canon, qui l’a guéri» diceva sua madre. Questi erano rivolti contro un governo (ossia la restaurazione anti-popolare con un colpo di mano anti-costituzionale attuato da Carlo X) e una chiesa (avente l’aspirazione a riguadagnare gli antichi privilegi ecclesiastici persi con la Rivoluzione del 1789) quali simboli di repressione e regresso, quali istituzioni che, al fine di soddisfare interessi aristocratici, trascuravano quei principi civili e religiosi che avrebbero dovuto, invece, essere il punto focale del loro operato. Il compositore ritrovò, quindi, la sua voglia di mettere inchiostro su carta, gettandosi con ardore sul progetto, mai terminato, forse per mancanza di tecnica, di scrivere una Sinfonia della Rivoluzione. Dall’analisi degli schizzi risaltano quattro temi fondamentali: un canto slavo degli hussiti, il corale luterano Ein’ feste Burg ist unser Gott, la Marseillaise e l’allora inno nazionale francese Vive Henri IV, dedicato al re che pose fine alle guerre religiose. L’eterogeneità dei riferimenti mostra, senza dubbio, un notevole impegno sociale e politico e una ricchezza contenutistica a scopo educativo: c’è, infatti, la volontà di creare un grande inno universale capace di profondere un senso di fraternità tra tutte le vittime delle oppressioni cieche e violente della storia umana. L’intento generale è quello di promuovere una missione salvifica, nella quale la sua stessa musica riesce a svegliare l’umanità da uno stato di torpore spirituale, a farla ardere di passione nella difesa dei diritti e della libertà dei cittadini, e a farle credere in Dio come la risposta a tutti i mali della mondanità. In quel periodo, Liszt aveva cominciato a partecipare ad alcuni incontri dei sansimonisti parigini, e alcune delle loro idee si rispecchiavano tanto nel compito utopico della sinfonia quanto in molte delle scelte successive di Liszt in quanto uomo sociale. L’ormai defunto Claude Henri de Rouvroy, Comte de Saint-Simon, ambiva, infatti, al miglioramento spirituale ed economico della classe più povera e numerosa, ad un progresso scientifico basato sull’operosità delle masse, ad un sistema sociale fondato sulla meritocrazia, al rispetto del messaggio evangelico dell’amore per il prossimo, alla realizzazione del compito religioso dell’arte. Questo senso umanitario venne da Liszt confermato negli anni 1831-32, durante i quali visitò ospedali, bische, manicomi e prigioni. È rilevante segnalare come il sansimonismo prevedeva anche l’emancipazione della donna e la riabilitazione della carne che, tramite l’unione con lo spirito, viene da esso santificata: così, si potrebbe giustificare la coesistenza in Liszt di un profondo sentimento religioso e di una vita intensa e, spesso, scandalosa.
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Il compositore trovò un’altra importante fonte di ispirazione nel filosofo e teologo cattolico Felicité de Lamennais, che, a sua volta, vide in Liszt l’incarnazione di uno dei suoi grandi ideali, ossia l’artista credente e sociale che disprezza l’uso dell’arte come semplice diletto. Dopo alcuni mesi dalla Rivoluzione di Luglio, Lamennais fondò la rivista «L’Avenir», che aveva per motto «Dio e la libertà» e per messaggio il rigetto del potere divino conferito ai re e l’esaltazione della dottrina della sovranità popolare, con la rivendicazione delle ‘libertà moderne’ (coscienza, stampa, insegnamento, tolleranza religiosa). Allo stesso modo, il papato avrebbe dovuto rinunciare al potere temporale, in quanto, per il filosofo, solo ed esclusivamente l’isolata autorità spirituale poteva condurre il mondo in un nuovo ordine di cose, basato sulla libertà costituzionale e sulla rigenerazione morale. Se questo non avveniva pacificamente, allora la ribellione armata era necessaria: il fedele doveva essere pronto a combattere per Dio e per gli altari della propria patria, per la giustizia e contro le catene dell’oppressione, per la salvaguardia del lavoratore e la cancellazione della povertà, figlia del peccato in cui cade una società corrotta. Quest’ultima doveva, quindi, necessariamente, essere rigenerata dalla religione. Nell’anno 1834, Lamennais pubblicò Paroles d’un croyant, una difesa eretica e francescana della povertà evangelica e dell’amore contrapposti al potere temporale della chiesa, un ardente sermone a favore dell’umanità, un documento pregno di visioni apocalittiche a favore della libertà e dell’uguaglianza cristiane e contro la tirannia dei proprietari terrieri e dei governanti. Liszt lesse subito questo libro e gli dedicò accesi elogi, descrivendo Lamennais come il futuro religioso e politico dell’umanità. Attraverso il pensiero del filosofo, scrisse un manifesto romantico sulla musica religiosa dell’avvenire, tenendo in conto che per «musica religiosa» non si intende una parte settoriale dell’arte, bensì la musica in senso lato. Quindi, la «musica religiosa» non è più quella che, semplicemente, accompagna e/o orna le cerimonie ecclesiastiche, ma, data la nuova fragilità delle istituzioni cattoliche, quella che esce dal sacro tempio e che si fa diretta intermediaria tra l’uomo e Dio, proprio per la sua duplice natura. Liszt la chiama anche «musica umanitaria», musica come fait social, musica potente come la Marseillaise, capace di svegliare nuovamente e di portare in auge i moti più intimi dell’essere umano. La sua speranza era che l’arte si perfezionasse e potesse unire, profondamente, ogni uomo del pianeta nell’esperienza di sentimenti sublimi. Per la grande importanza artistica e spirituale di questo scritto di Liszt, anche ai fini del discorso intrapreso, lo si propone qui in versione integrale: SULLA MUSICA SACRA DEL FUTURO Sono passati gli dei, sono passati i re, ma Dio rimane in eterno e i popoli risorgono: perciò non disperiamo della sorte dell’arte. Secondo una legge emanata dalla camera dei deputati, la musica dovrà, prossimamente, essere insegnata nelle scuole. Ci congratuliamo per questo progresso e lo consideriamo un impegno per un progresso ancora più grande, che avrà un’influenza trascinante, meravigliosa. Intendiamo parlare di una nobilitazione della musica sacra. Nonostante di solito con questo termine s’intenda soltanto la musica eseguita in chiesa durante le funzioni religiose, lo uso qui nel suo significato più ampio.
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PIER CARMINE GARZILLO Quando la funzione religiosa esprimeva e soddisfaceva ancora le conoscenze, i bisogni e le simpatie dei popoli, quando uomo e donna trovavano ancora nella chiesa un altare davanti al quale inginocchiarsi, un pulpito da quale poter ricevere nutrimento spirituale e per giunta uno spettacolo che dava refrigerio ai loro sensi e elevava il loro cuore a una sacra estasi, la musica sacra aveva bisogno soltanto di rinchiudersi nel suo ambiente misterioso e di cercare in esso il suo appagamento, di fungere da accompagnatrice allo sfarzo della liturgia cattolica. Ma al giorno d’oggi l’altare trema e oscilla, il pulpito e le cerimonie religiose sono materia di scherno e scetticismo e allora l’arte deve abbandonare l’interno del tempio e diffondersi nel mondo esterno per cercare lo spazio adatto alle sue grandiose manifestazioni. Come sempre, anzi più che mai la musica deve riconoscere il popolo e Dio come sue fonti di vita, deve muoversi dall’uno all’altro, nobilitare l’uomo, consolarlo, purificarlo e lodare e magnificare la divinità. Per ottenere ciò è inevitabile la creazione di una nuova musica. Questa musica, che noi in mancanza di un’altra definizione battezzeremo umanitaria, deve essere solenne, vigorosa ed efficace, deve unire in colossali rapporti teatro e chiesa, deve essere contemporaneamente drammatica e sacra, sfarzosa e semplice, festosa e seria, infuocata e sbrigliata, impetuosa e tranquilla, luminosa e profonda. La Marsigliese, che ci ha rivelato il potere della musica più di tutti i leggendari racconti degli indù, dei cinesi, e dei greci, la Marsigliese e i bei canti di libertà sono i precursori terribili e splendidi di questa musica. Sì, bando a qualsiasi dubbio: presto sentiremo risuonare nei campi, nei boschi, nei villaggi, nelle periferie, negli opifici e nelle città, canti, melodie, e inni nazionali, popolari, politici e religiosi. Essi saranno composti per il popolo, e insegnati al popolo e dal popolo cantati: sì, verranno cantati da operai, braccianti, artigiani, ragazzi e ragazze, da uomini e donne del popolo! Tutti i grandi artisti, poeti e musicisti porteranno il loro contributo a questo patrimonio d’armonia popolare, che si rinnova continuamente. Lo Stato istituirà ricompense pubbliche per quelli che, come noi, sono stati tre volte alle riunioni generali e tutte le classi si fonderanno finalmente in un unico nobile, grandioso, religioso sentimento comune. Questo sarà il fiat lux dell’arte! Dunque fai la tua comparsa, epoca magnifica in cui l’arte si sviluppa e si perfeziona in ognuna delle sue manifestazioni, in cui si eleva fino alla somma precisione e diventa un legame di fratellanza per l’umanità che unisce in meraviglie esaltanti! Fai la tua comparsa, epoca in cui la rivelazione non è più per l’artista l’acqua amara e passeggera che egli a stento trova scavando nell’arida sabbia; vieni, epoca in cui essa scorrerà come da una sorgente inesauribile, dispensatrice di vita! Vieni, ora del riscatto in cui poeti e artisti dimenticano il ‘pubblico’ e conoscono un unico motto: «Popolo e Dio!».12
L’influenza di Lamennais si mostra direttamente nella musica del giovane Liszt, in particolar modo in tre opere per pianoforte o per pianoforte e orchestra, che rappresentano anche il primo segnale del suo essere un compositore originale e le prime occasioni d’impiego della tecnica della trasformazione tematica: Harmonies poétiques et religieuses (1833), De profundis: Psaume instrumental (1834) e Lyon (1837), pri12
FRANZ LISZT, Sulla musica sacra del futuro, in Un continuo progresso: scritti sulla musica, a cura di György Kroó, Milano, Ricordi, 2007, pp. 435-436.
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mo brano della raccolta Album d’un voyageur e ribellione musicale alle sofferenze e alla disperazione degli operai dei setifici. Le altre due opere vennero create con l’intento di essere una sorta di preghiera e per Liszt erano chiaramente connesse tra di loro: in effetti, il brano Pensée des morts, il quarto della raccolta Harmonies poétiques et religieuses pubblicata nel 1853, è una sintesi riveduta dell’opera – omonima rispetto alla raccolta – del 1833 e del tema salmodico del De Profundis. Le composizioni del 1833, del 1834 e del 1853 sono espressioni molto chiare della religiosità del secolo XIX: il rapporto di devozione nei confronti di Dio assumeva le caratteristiche di un innamoramento, e le preghiere a Lui rivolte sembravano essere parte di un romanzo emozionale, in cui «sentimentalizzazione della fede e affermazione dell’individualismo»13 erano punti focali. Così trovano spiegazione tutte le opere religiose di Liszt che non sono prettamente musica sacra e che si mostrano come un intimo dialogo con sé stesso e con Dio, le due supreme realtà e voci che, se ascoltate, possono salvare l’intera umanità dalla transitorietà delle apparenze. Dall’analisi delle prime tre opere originali degli anni Trenta, risulta evidente la ‘contaminazione’ avuta dall’incontro con tre musicisti – Paganini, Berlioz e Chopin – che Liszt conobbe proprio in quel periodo. Nell’anno 1831, Liszt conobbe Paganini: soggiogato dal virtuosismo demoniaco dell’italiano, nacque in lui l’ambizione di sfruttare ogni possibilità ancora inesplorata del pianoforte, aspirando a diventare il Paganini di tale strumento. E, contemporaneamente, notando la mancanza di un contenuto spirituale nelle opere del violinista, si adoperò affinché questo costituisse l’humus della sua musica. Liszt decise di propendere per un particolare arricchimento delle sonorità, attraverso l’utilizzo di accordi non più in funzione strettamente armonica, ma anche in funzione timbrica, il raddoppio ad ottave per sottolineare il pathos della melodia o per ottenere effetti di crescendo, la tecnica dei salti e l’ampiezza di registro che permettono, sia alla melodia che all’accompagnamento, di poter coprire potenzialmente tutta la tastiera, e ancora la multiformità dei gesti (pizzicati, glissandi, doppi meccanismi, trilli acuti, incroci e sovrapposizioni delle mani, e improvvisi passaggi d’agilità non più relegati alle sole cadenze). Quindi, «assistiamo ad un totale affrancarsi dalla meccanica pianistica dovuto al motivo apparentemente paradossale che, salvo casi particolari, egli non fa della tecnica per la tecnica ma della tecnica per la musica».14 Nell’anno 1833 Liszt entrò in contatto con la Symphonie fantastique di Berlioz, criticata da tutti per il suo anticonformismo e difesa tenacemente dall’ungherese come frutto di uno spirito profondo, audace e innovatore. Come negare l’abbondanza e la varietà d’idee del compositore, che nella stessa opera ha saputo descrivere con pari superiorità la vaghezza delle passioni, l’ebbrezza del ballo, le misteriose armonie della natura, i tormenti del supplizio e trasportarci infine in mezzo a un sabba, dove ritroviamo al contempo la lugubre fantasia delle streghe di Macbeth e le orge sataniche del Broken?15 13
MICHELA DE GIORGIO, La fedele, in UTE FREVERT & HEINZ-GERARD HAUPT, L’uomo dell’Ottocento, Bari, Editori Laterza, 2000, p. 134. 14 CLAUDE ROSTAND, Liszt, Verona, Mondadori, 1961, p. 100. 15 FRANZ LISZT, Feuilleton: concerto di Berlioz, in Un continuo progresso cit., p. 275.
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Fondamentalmente, tre sono gli elementi della musica di Berlioz che influenzarono Liszt: la fiducia nel progresso con il superamento dei principi classici, l’impiego di una forma più libera e subordinata ad un’idea poetica o anche emotiva e un uso intenso dell’illimitata ricchezza timbrica dei suoni. A questo proposito, Liszt formulò anche il concetto di ‘musica poetica’, nel quale «l’elemento poetico e pittorico fornisce l’appoggio semantico necessario per salvaguardare anche nella musica – l’arte più asemantica – l’impegno etico, civile, nazionale e, non ultimo, religioso».16 Infine, Liszt fu amico intimo di Chopin, e prese da lui la raffinatezza lirica, l’introspezione romantica, la ricerca di atmosfere sognanti, il caratteristico rubato e l’audace utilizzo dei cromatismi nel discorso armonico. Tutto questo non influenzò solo Liszt come compositore, ma anche come interprete. Detto ciò, si può introdurre l’analisi del De profundis: Psaume instrumental pour l’Orchestre et Piano principal par F. Liszt à Monsieur l’abbé de Lamennais, composto nel 1834, anno che segna l’inizio di un lungo progetto compositivo di un concerto programmatico per pianoforte e orchestra, che lo accompagnerà fino al 1865. A conferma della dedica, Liszt scrive a Lamennais: Avant cela, j’aurai l’honneur de vous envoyer une petite oeuvre, à la quelle j’ai eu l’audace d’attacher un grand nom, le vôtre. C’est un De profundis instrumental. Le plain-chant que vous aimez tant y est conservé avec le faux bourdon. Peut-être cela vous plaira-t-il un peu; du moins je l’ai fait en mémoire de quelques heures passés (je voudrais dire vécues) à La Chênaie.17
Il De profundis, incompiuto per poche battute,18 introvabile nei repertori orchestrali ai giorni nostri, dura più di mezz’ora ed è il primo esperimento di Liszt volto al delineamento di una grande forma ciclica in un unico movimento. Si è di fronte ad un nuovo genere musicale per pianoforte e orchestra, chiamato da lui stesso «concerto symphonique» in una lettera inviata alla madre il 26 luglio 1835. Importante è anche parlare della tonalità scelta, re minore, associata da Liszt alla morte e alla sofferenza; infatti, il Totentanz, la Dante Sonata e il Purgatorio della Dante Symphonie sono composti in re minore. Come analisi strutturale dell’opera, è utile riportare quella realizzata dal pianista e musicologo americano Jay Rosenblatt: The single movement that makes up De profundis may be divided into four large sections: Exposition, Development, Interlude and Recapitulation. Within these sections, there are various subdivisions, transition sections, and, in the last two, changes of tem16
ENRICO FUBINI, Il pensiero musicale del Romanticismo, Torino, EDT, 2005, p. 138. Dalla lettera scritta il 14 gennaio 1835 e indirizzata all’abate Felicité de Lamennais, consultabile in LA MARA [ed.], Franz Liszt Briefe, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1893-1905, vol. 1, p. 12. 18 L’opera presenta più di 900 battute messe per iscritto, e recenti studi confermano che manca solo una piccola coda di 8 battute. La partitura per pianoforte e orchestra fu terminata da Jay Rosenblatt e da Michael Maxwell, però i due lavori non sono editi; per di più, la riduzione per due pianoforti ultimata da Joseph Ács nel 1989 è attualmente fuori catalogo. Quest’ultima, essendo l’unico progetto edito, sarà utilizzata come testo di riferimento. 17
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LO “STRANO SEGRETO” DEL TOTENTANZ DI LISZT po. The allusion to sonata form implied by these labels is deliberate, and the sections function very much as they do in classically oriented composition. […] De profundis is admirably well organized, and the form is easy to hear over its length. Exposition and Development follow classical precedents closely, as does the Recapitulation. The Interlude functions as a contrasting movement, much the same way as a scherzo in a symphony, although Liszt has taken care to relate one of its principal themes back to the other sections and to dovetail the transition into the Recapitulation. In addition, there is a rhythmic motive in all sections […] derived from one of the principal themes. Finally, the two extended cadenzas are not used for mere display but are organically related to the whole, both thematically and tonally. The single movement departs in three significant ways from classical expectations, however. First is the unique tonal structure, ultimately establishing a tonality a tritone away from the tonic as the final destination of the secondary key area. The second is the use of thematic transformation for the restatement of the secondary key area in the Recapitulation, itself derived from a transformation first heard in the Development. Finally, there is the return of the concluding material of the Development to round off the Recapitulation, blurring the boundaries of the one-movement sonata cycle – the Development now being seen in retrospect as part of the Exposition, not a separate section – but giving greater unity to the whole. These large-scale effects are additionally reflected in local events throughout the score, as Liszt has set up a network of such relationship to provide another level of unity. Such novel use of tonality, thematic transformation, and musical organization will become the cornerstones of Liszt’s symphonic poem technique.19
Sicuramente, alla base di questa prima rivisitazione della forma-sonata e di questa seconda manifestazione (dopo Harmonies poétiques et religieuses) della tecnica compositiva della trasformazione tematica, si disvela un intento programmatico, che segue il testo del salmo 129 (130): ¹ De profùndis clamàvi ad te, Dòmine; ² Dòmine, exàudi vocem meam! ¡Fiant àures tuae intendèntes in vocem deprecatiònis meae! ³ Si iniquitàtes observàveris Domine, Domine, quis sustinèbit? ⁴ Quia apud te propitiàtio est et propter legem tuam sustìnui te, Dòmine. ⁵ Sustìnuit ànima mea in verbo eius, speràvit ànima mea in Dòmino. ⁶ A custòdia matutìna usque ad noctem, speret Ìsraël in Dòmino, ⁷ quia apud Dòminum misericòrdia, et copiòsa apud eum redèmptio. ⁸ Et ipse rèdimet Ìsraël ex òmnibus iniquitàtibus eius.
Il percorso ascendente del penitente dall’invocazione alla redenzione e alla salvezza è tradotto in un discorso musicale che parte con un’introduzione tempestosa (le passioni della vita, con l’incipit musicale realizzato tramite l’uso di strumenti gravi, ossia violoncelli e contrabbassi, rappresentanti gli «abissi» del testo) e che trasforma tematicamente una sommessa salmodia in minore (la preghiera) in una marcia trionfale in maggiore (la celebrazione di una nuova vita). Non è un caso se si possono leggere, in relazione alla tecnica della trasformazione tematica, le seguenti parole: 19
JAY ROSENBLATT, The Concerto as Crucible: Franz Liszt’s Early Works for Piano and Orchestra, Chicago, University of Chicago, 1995, pp. 392-393-400-401.
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The use of the thematic transformation signifies the redemption process, and this use remained constant throughout Liszt’s life. […] Liszt had fully formulated in music the idea of redemption through love, expressed through thematic transformation. […] The pieces which do use thematic transformation are about the process of change that is required to eliminate those things that stand in the way, such as pride selfishness, doubt, despair, in other words those things Liszt identified with Satan. The result of this attitude is that Liszt objectified suffering in his music instead of expressing it, as Wagner did. This lies at the root of all Liszt’s serious music, in which gloom gives way to jubilation. The journey is from the human to the divine, a progress requiring effort.20
Affinché risulti chiara l’attitudine di Liszt nell’utilizzare semanticamente e nel trasformare abilmente i temi, è utile dare un’occhiata allo schema dell’opera pianificato dal musicologo Keith Johns (Figura 1).21 Per dare punto di riferimento concreto, si precisa il numero di battuta nella edizione Ács per un ognuno dei temi dello schema, nelle loro prime apparizioni: a¹ alla battuta 2, a² alla 4, a³ alla 7, B alla 21, C alla 138, D alla 196, E alla 475. Il tema A, diviso in tre micro-temi, ha uno stile sturm und drang, dalla forte tensione emotiva e con alterazioni cromatiche poco usuali, e dovrebbe rappresentare l’invocazione e la preghiera del penitente. Il tema B ha uno stile più operistico, con una melodia cantabile armonizzata per terze e seste, e rappresenterebbe le passioni terrene. Il tema C si basa su una figurazione di note ribattute in pizzicato facenti parte di una scala discendente con il tritono in evidenza (SIb-MI, nella sua prima apparizione), suggerendo, quindi, una relazione con il diabolico. Nello schema precedente si può notare come i temi B e C, rispettivamente passionale e demoniaco, scompaiono a partire dalla section 13, perché il primo risulta purificato in una giubilante celebrazione della libertà e della salvezza divina e il secondo è lontano dalla raggiunta condizione spirituale, tramite l’esposizione della salmodia nel modo maggiore. Il tema D è, giustamente, la salmodia, che è il principale oggetto della tecnica della trasformazione tematica. La prima volta si presenta in stile liturgico (Figura 2a), con campi armonici larghi e ribattuti, prima al pianoforte e poi all’orchestra, come ad imitare la voce del sacerdote e la risposta della congregazione dei fedeli. Nella Figura 2b si può osservare che lo stile è, chiaramente, operistico, per l’accompagnamento ad accordi e per la presenza di volatine nella melodia. Inoltre, questa cadenza per pianoforte ha anche la funzione di rimuovere la tonalità di La bemolle, in relazione di tritono - il diabolus in musica – con il centro tonale dell’opera. Verso la fine del brano, il tema D viene trasfigurato in una marcia (Figura 2c), in un canto patriottico, con terzinati di crome e una successione caratteristica di suoni e pause, il tutto reso possibile con una piccola modifica della linea melodica. 20
PAUL MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., pp. 21-305-306. KEITH JOHNS, De Profundis, Psaume instrumental; an abandoned concerto for piano and orchestra by Franz Liszt, in Journal of the American Liszt Society, 15 (1984), p. 97. 21
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Figura 1: Schema tematico del De Profundis, di Keith Johns
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Figura 2a: Tema della salmodia del De Profundis in stile liturgico
Figura 2b: Tema della salmodia del De Profundis in stile operistico
Figura 2c: Tema della salmodia del De Profundis in stile di marcia
In questo modo, Liszt ha avvicinato l’uomo a Dio eliminando le mediazioni puramente ecclesiali, uscendo dal sacro tempio e proponendo una liturgia allargata in cui sacro e profano si compenetrano, come nel Medioevo. Non è un caso che il 1834 risulta essere anche l’anno della scrittura del manifesto romantico sulla musica sacra del futuro – riportato precedentemente – e che lì vengono plasmate le stesse idee sotto forma letteraria. Il tema E, relazionato con il tema D, dà vita a un Interludio brillante in forma di polacca, oggetto di numerose interpretazioni. Per Jay Rosenblatt rappresenterebbe «the idea of waiting»22 (vv. 5-6 del salmo) del fedele; per Piero Rattalino, «la polacca potrebbe simboleggiare le “iniquità” di cui parla il salmista»23 (v. 8); per Keith Johns,
22 23
JAY ROSENBLATT, The Concerto as Crucible cit., p. 402. PIERO RATTALINO, Liszt o il giardino di Armida, Torino, EDT, 1993, p. 22. 98
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«does little to convey the profundity of the chosen programme»24 e darebbe l’idea della doppia personalità di Liszt, terrena e spirituale, come se esistessero in una persona due entità completamente distinte. Qui, invece, si è del parere che la polacca, simbolo del terreno e del popolare, materializza nel De profundis quel progetto ‘umanitario’ del manifesto romantico di Liszt, nel quale la musica «deve essere contemporaneamente drammatica e sacra, sfarzosa e semplice, festosa e seria, infuocata e sbrigliata, impetuosa e tranquilla, luminosa e profonda».25 Così pensando, anche il virtuosismo dell’opera acquisisce un particolare significato: The piano writing is fiendishly difficult, yet we realize it is not another one of his early ‘showpiece’ composition. Though more technically demanding than the other concertos, it is not intended merely to demonstrate virtuosic prowess. The work is a testimonial to the incredibly innovative manner in which Liszt conceptualized a particular programme: religious, yet maintaining the ‘earthly’ and virtuosic traits that have become so recognizably Liszt.26
Inoltre, un altro intento programmatico del De profundis potrebbe essere l’impulso dell’artista verso il futuro: Several aspects of Lamennais thought are relevant here, including the idea of promoting the cause of art by avoiding «the servile imitation of the past», and, along with it, the concept of the artist as «the prophet of the future». The novel approach to form and harmony in itself displays the extent to which Liszt was caught up in creating new techniques for organization and expression, in particular the single-movement sonata cycle and thematic transformation.27
E, relativamente alle innovazioni armoniche che fanno di Liszt ‘il profeta del futuro’, si scrive: To the extent that a piece of music can be ‘about’ a purely technical procedure, De profundis may be said to be about, first, the juxtaposition and resolution of tonalities a tritone apart, and, second, an exploration of the ways an augmented triad may be treated as a functional chord, as opposed to the result of passing tones.28
In poche parole, il De profundis è un’opera ricca di significati e prodezze sotto vari punti di vista, e anche un lavoro unico nel suo genere: questo esperimento radicale è l’unico brano lungo di Liszt che può essere inserito in quella musica religiosa che non è specificamente sacra, come invece lo sono le messe, i salmi di uso liturgico e gli oratori che il musicista compose dalla metà degli anni Quaranta fino alla fine della sua vita. Essendo un notevole unicum nel corpus lisztiano, si tratta di un’opera che 24
KEITH JOHNS, De Profundis, Psaume instrumental cit., p. 103. Si veda la nota 12. 26 MICHAEL MAXWELL, The completion of De Profundis: Instrumental Psalm for Piano & Orchestra by Franz Liszt, in Clavier Companion, vol. 3, n. 5, Georgia, The University of Georgia, Settembre/Ottobre 2011. 27 JAY ROSENBLATT, The Concerto as Crucible cit., p. 403. 28 Ivi, p. 405. 25
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comunica molto, che aiuta a intendere meglio le intime ambizioni musicali ed esistenziali del compositore. La maturità di Liszt e il Totentanz Si espongono qui alcuni esempi in cui Liszt, nel suo periodo di vita a Weimar, mostrò chiari atteggiamenti derivati dal suo modo di pensare giovanile, ricco di idee liberali e progressiste. Nel 1856, per introdurre il poema sinfonico Prometeo, scrisse: «Audace, Souffrance, Endurance, et Salvation: aspiration hardie vers les plus hautes destinées que l’esprit humain puisse aborder; activité créatrice, besoin d’expansion…».29 Inoltre, l’opera letteraria del Prometeo di Herder gira intorno ai concetti di «amore trionfante, abnegazione, perseveranza, audacia mossa dalla generosità e moderata dalla ragione, concorso dello sforzo multiforme degli individui ad un’opera comune»,30 qualità che Liszt attribuì all’artista rivoluzionario del futuro. Infatti, un anno prima, nel 1855, criticò positivamente il libro La Musica del diciannovesimo secolo e la sua Cultura: Metodo Musicale (1855) del teorico ebraico Adolf Bernhard Marx, così riflettendo: «Nel suo [della musica] regno non si deve predicare la rinuncia alla libera volontà, al libero giudizio, alla libera opinione, all’impulso dell’intimo: poiché solo in virtù del potere, e non delle loro rinunce, gli artisti sono artisti». 31 Cosa rinnovò, a distanza di due decenni, quest’attitudine spirituale e cosa fece in modo che, nello stesso tempo, questa fosse più cauta, dati i suoi riferimenti sempre così presenti nel profilo artistico e sempre meno nella sua vita attiva? La risposta sta nel biennio 1847-48, quando Liszt incontrò la cattolicissima principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein e quando scoppiarono nuovi moti rivoluzionari destinati al fallimento. Durante queste ribellioni, il solito fervore rivoluzionario di Liszt, che aveva spinto negli anni Trenta la polizia austriaca a produrre un dossier su di lui, si ridimensionò nella semplice visita di carità alle barricate viennesi. E sembra che un altro motivo lo avesse portato lì, cioè la visita al Padre Albach del Monastero Francescano di Eisenstadt, dedicatario di una Messa per quattro voci maschili, scritta a Weimar nel 1848. A proposito di questa, lo studioso Émile Haraszti scrive: «Devant l’incendie de la révolution et de la guerre pour la liberté, le maître chercha refuge dans la musique d’Église et composa sa Messe à quatre voix».32 Inoltre, quest’opera fu rappresentata per la prima volta nel 1852 per celebrare il compleanno dell’allora Presidente della Repubblica francese, Luigi Napoleone, al quale Liszt si avvicinò, trovando nel suo modo di governare una convergenza delle più nobili forme del repubblicanesimo (promozione del disarmo generale durante i moti rivoluzionari) e del cattolicesimo (difesa del Papato). I suoi ideali giovanili cercavano, quindi, una nuova 29
FRANZ LISZT, Préface al poema sinfonico Prometeo. MARA LACCHÉ, Il mito di Prometeo nell’opera e nel pensiero di Franz Liszt, in Nel cosmo di Franz Liszt, Roma, Aracne Editrice, 2012, p. 102. 31 FRANZ LISZT, Marx e il suo libro «La musica del XIX secolo e la sua pratica», in Un continuo progresso cit., p. 412. 32 ÉMILE HARASZTI, Franz Liszt, Paris, Picard, 1967, p. 201. 30
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armonia, tra il credo in Roma e la lealtà verso la Francia: infatti, la fedeltà che aveva riposto nella rivoluzione, con il 1848, non aveva portato all’appagamento del suo desiderio, ovvero la pacificazione sociale, ma a tutt’altro. Liszt stesso, nel 1849, disse: I would be the first to answer the call to arms, to give my blood and not tremble before the guillotine, if it were the guillotine that could give the world peace and mankind happiness. But who believes that? We are concerned with bringing peace to world in which the individual is justly treated by society.33
Gli inni alla libertà composti per i moti rivoluzionari del 1830 si trasformarono nel monumento artistico eretto per i defunti, i Funerailles del 1849, e la stessa Sinfonia della Rivoluzione acquisì un programma differente nella sua rielaborazione, il poema sinfonico Heroide funèbre del 1849-50. Proprio nel suo programma, pubblicato nel 1857, è evidente la sfiducia nella rivoluzione, come mezzo per placare i mali dell’uomo: Si è parlato spesso di una mia sinfonia composta nel 1830. Diverse ragioni mi hanno spinto a conservarla nel portafoglio. Tuttavia, pubblicando questa serie di poemi sinfonici, ho voluto inserire un frammento di quell’opera e precisamente la prima parte. Lo spirito umano, lungi dall’essere più stabile del resto della natura, ci pare al contrario più mobile di qualsiasi altra cosa. Comunque si voglia chiamare la sua attività costante – marcia, progresso, spirale o semplicemente rivoluzione circolare – sempre si può constatare che non resta mai stazionario né nei popoli, né negli individui. Da parte loro le cose, anch’esse mai immobili, come le onde di una marea eternamente crescente sulla spiaggia dei secoli, s’avanzano e passano come un sogno. Ne consegue che il loro aspetto muta incessantemente, come pure il nostro modo di considerarle. Da questo doppio impulso risulta necessariamente che i nostri punti di vista cambiano: lo spirito coglie le cose in cornici diverse, e le cose vi si riflettono con colori assai differenti. Ma in questa eterna trasformazione d’oggetti e di impressioni, ve ne sono che sopravvivono a qualsiasi cambiamento, a tutte le mutazioni e la cui natura è invariabile. Una di queste è il dolore la cui fosca presenza contempliamo sempre con lo stesso pallido raccoglimento, lo stesso segreto terrore, lo stesso rispetto misto a fremente attrazione, sia ch’egli visiti i buoni o i cattivi, i vinti o i vincitori, i forti o i deboli. Qualunque sia il cuore o il terreno sul quale egli stende la sua vegetazione funesta e velenosa, qualunque sia la sua provenienza e la sua origine, quando cresce in tutta la sua altezza ci appare augusto e c’impone riverenza. Provenienti da campi nemici e ancora fumanti di sangue appena versato i dolori si riconoscono fratelli, poiché tutti sono fatidici mietitori dell’orgoglio umano, grandi livellatori di tutti i destini. Tutto può cambiare nell’umana società, i costumi e i culti, le leggi e le idee; solo il Dolore resta lo stesso; esso resta ciò che era all’inizio dei tempi. Gli imperi crollano, le civiltà scompaiono, la scienza conquista i mondi, l’intelligenza umana brilla di luce sempre più chiara, eppure nulla lo priva dei suoi diritti di primogenitura, nulla modifica la sua solenne e inesorabile supremazia. Le sue lacrime sono sempre della stessa acqua amara e bruciante, i suoi singhiozzi sono sempre modulati sulle stesse note stridenti e lamentose, i suoi fallimenti si perpetuano con inalterabile monotonia; la sua vena nera corre attraverso ogni cuore e il suo dardo ardente ferisce ogni anima di incurabili ferite. Il suo funebre stendardo sventola su tutti i campi e tutti i luoghi. 33
Da una lettera scritta nel 1848 e indirizzata a Fanny Lewald; trad. ingl. a cura di Paul Merrick nel suo Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., p. 32.
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PIER CARMINE GARZILLO Se ho saputo raccogliere qualche suo accento, se ho reso la sfumatura scura delle sue tenebre rossastre, se sono riuscito a dipingere la desolazione che pesa sui ruderi e la maestà che si diffonde sulle rovine, a prestare una voce ai silenzi che seguono le catastrofi, a ripetere le grida smarrite che si levano nelle calamità; se ho ben ascoltato e ben inteso le lugubri scene dei rivolgimenti popolari che segnano la morte e la nascita degli ordinamenti pubblici, un tale quadro può essere vero sempre e ovunque. Sulla passerella che ogni evento sanguinoso getta fra il passato e l’avvenire, le sofferenze, le angosce, i lamenti, e i riti funebri si rassomigliano sempre e ovunque. Sempre e ovunque si sente sotto le fanfare della vittoria un sordo accompagnamento di rantoli e di gemiti, di preghiere e di bestemmie, di sospiri e d’addii, e si potrebbe credere che l’uomo vesta mantelli di trionfo e abiti da festa solo per nascondere un dolore da cui non sa liberarsi, e che gli aderisce come un’invisibile pelle. De Maistre osserva che in migliaia d’anni se ne contano ben pochi durante i quali, per rara eccezione, la pace regnò sulla terra, che così ci appare come un’arena dove i popoli si combattono come una volta i gladiatori e dove i valorosi entrano in gara salutando il Destino come maestro e la Provvidenza come arbitro. Nelle guerre e nelle carneficine che si succedono, giochi sinistri, qualunque sia il colore delle bandiere che si levano fiere e ardite l’una contro l’altra, sui due campi esse sventolano madide di sangue eroico e di lacrime perenni. Spetta all’Arte gettare il suo velo trasfigurante sulle tombe dei valorosi, di coronare col suo nimbo d’oro i morti e i morenti affinché siano invidiati da tutti.34
Il tentativo di trovare una nuova armonia accostandosi, in tutto e per tutto, alla Chiesa portò il compositore a scrivere sempre più brani religiosi. In altri termini, trasferì progressivamente i suoi ideali dalla vita all’Arte e in una critica alla sua Messa di Gran si può leggere: «Tant de passion, tant de fogue, tant de colère dans une musique religieuse! C’est que l’auteur de la Symphonie révolutionnaire n’est pas mort dans Liszt».35 Intanto, l’amore nato tra il compositore e la principessa Carolyne SaynWittgenstein, basato su un «sentimento che si nutre di religione e di filosofia, che cresce nella preghiera e nella creazione artistica e dà a Liszt la sensazione quasi fisica di realizzare lo scopo della sua vita»,36 è tra i motivi che lo portarono a lasciare la sua vita da virtuoso errante e a concentrarsi sulla composizione e sulla cura della spiritualità, insediandosi prima a Weimar e poi a Roma. Dopo la delusione artistica vissuta da direttore di cappella, e ormai sulla soglia dei 50 anni, Liszt sentì il dovere morale di redigere il suo testamento,37 in cui donava tutto ciò che gli era più caro alla principessa, l’unica persona che, abnegandosi, gli era stata sempre fedele. La profondità delle parole che frequentemente le scriveva fa ben capire come avesse potuto seguire la principessa a Roma per sposarla e come, dopo il fallimento del loro progetto matrimoniale a causa dell’incompatibilità con il loro stato civile, fosse rimasto nella Città Eterna e accanto a lei. In questo nuovo capitolo della sua vita, Liszt sembrò avvici34
FRANZ LISZT, Préface al poema sinfonico Héroide funèbre; trad. it. a cura di Rossana Dalmonte, nel suo Franz Liszt cit., p. 361. 35 JULES CLARETIE in ÉMILE HARASZTI, Franz Liszt cit. p. 226. 36 ROSSANA DALMONTE. Franz Liszt cit., p. 55. 37 Cfr. lettera scritta il 14 settembre 1860 e indirizzata alla principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein, consultabile in LA MARA [ed.], Franz Liszt Briefe cit., vol. 1, p. 365.
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narsi sempre più ad un cristianesimo di tipo ascetico e mistico: lo confermano gli isolamenti fisici alla ricerca di un riposo dall’asfissiante società moderna, l’impronta nobilitante da lui impressa alla sua musica che non deve soggiacere per nessuna ragione ai bisogni estetici del pubblico, gli ottimi rapporti con Pio IX e la presa degli ordini minori nel 1865. La sua ricerca di benessere spirituale assunse le rinnovate forme di un’indipendenza segnata da un’unica eccezione, confessata a Olga von Meyendorff in una lettera del 1874,38 quella per i dogmi della Chiesa; a questo proposito, in una lettera del 1878,39 disse chiaramente che i nobili sogni dei Cattolici liberali erano evaporati e che ai fedeli rimaneva solo l’obbedienza incondizionata alla Chiesa. Tuttavia, il liberalismo non poteva certo essersi spento nell’animo dell’ungherese e questo può essere rintracciato nel rapporto triangolare che venne a crearsi tra lui, il Papa e il cardinale Gustav von Hohenlohe, entrambi in buoni rapporti col primo ma nemici tra loro per la tendenza liberale del porporato. La figura del Papa Pio IX fu sicuramente fondamentale per il passaggio di Liszt ad un cattolicesimo canonico e ad un rinnovato atteggiamento spirituale: ciò è confermato non solo dal progressivo infittirsi dei rapporti col Pontefice, ma anche dalla composizione di musica da Chiesa, che ha il suo inizio nell’anno dell’elezione del Papa, il 1846, con un Ave Maria e un Pater Noster. Agli esordi della sua carriera pontificia, si distinse, infatti, per le riforme liberali, che colpirono l’animo allora rivoluzionario di Liszt: la concessione dell’amnistia per i reati politici, la libertà agli Ebrei, la libertà di circolazione dei giornali e una moderazione della censura. Solo dopo, con l’occupazione di Roma del 1848-49 e le ondate rivoluzionarie pre-unitarie e postunitarie fino alla perdita del potere temporale e l’annessione dello Stato della Chiesa al Regno d’Italia avvenute nel 1870, il Papa si vide costretto ad assumere una posizione sempre più conservatrice, sia dal punto di vista territoriale che da quello spirituale. Nel 1861, Pio IX scrisse: Da lungo tempo si chiede al Sommo Pontefice che si riconcilii con il progresso e con la moderna civiltà. Ma come mai potrà avvenire un simile accordo, quando questa moderna civiltà è madre e propagatrice di infiniti errori e di massime opposte alla fede cattolica?40
E, per lo stesso motivo, nel 1864 promosse il Syllabus, in cui erano condannati il liberalismo, le eresie, l’ateismo, il comunismo, il socialismo e l’indifferentismo, e l’enciclica Quanta cura, in cui si oppose radicalmente alla creazione di uno stato italiano aconfessionale, con la completa rottura del legame tra altare e trono fino ad allora vigente. E, ancora, nel 1870 riuscì a far approvare, a pochi mesi dalla Breccia di Porta Pia, il dogma dell’infallibilità papale. 38
Cfr. WILLIAM TYLER & EDWARD WATERS [ed.], The Letters of Franz Liszt to Olga con Meyendorff, 1871-1886, Washington, Dumbarton Oaks, 1979, p. 134. 39 Cfr. ivi, p. 306. 40 Da una Allocuzione ufficiale, scritta da Pio IX il 18 marzo 1861 e inviata a Vittorio Emanuele. Disponibile su: <http://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Pio_IX>.
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Nel frattempo, Liszt, il novello ‘Palestrina’ ammirato da Pio IX, si sottomise pienamente alle sue volontà, scorgendo nel Papa sé stesso, colui che aveva confidato, senza ottenere risultati gratificanti, nel liberalismo: sperava quindi nel Sommo Pontefice come garante di una superiore armonia sociale e religiosa. Inoltre, c’era, senz’altro, anche il seguente motivo: la Chiesa affrontava un periodo difficile in cui, per conservare il suo potere e per salvare il Cattolicesimo canonico, esigeva totale obbedienza. L’amicizia tra Liszt e il Papa è confermata da concerti celebrativi, doni, visite e manifestazioni caritatevoli; sono da riportare anche due composizioni come significative testimonianze. L’inno a Pio IX, Tu es Petrus, venne più volte rivisto e si ritrova, di conseguenza, pubblicato in tante versioni, cosa che lo fa diventare un simbolico leitmotiv dell’importanza della figura papale nella vita e nella musica di Liszt negli anni Sessanta: venne, infatti, composto per organo nel 1863, trascritto per piano a due e a quattro mani e per orchestra nel 1865, per coro e per coro con organo nel 1867, e riportato anche nell’oratorio Christus del 1866. L’Inno a Maria Vergine per coro, organo e arpa, composto sulle parole di un poeta anonimo italiano che implora la Vergine affinché protegga e rinforzi Pio IX, ministro di Dio in Terra e per questo padrone delle anime, venne composto nel 1869, anno dell’anticipata proclamazione del dogma dell’infallibilità papale. Alla morte del Pontefice, Liszt scrisse: Pius IX was a Saint! Never has anyone inspired so many countless panegyrics in all corners of the world as he has. In his lifetime, he was practically submerged beneath universal eulogy – and this will continue to grow, if that is possible, after his death. The whole of Catholicism is united in almost adoring worship of the Pope who proclaimed the dogma of the Immaculate Conception of the Virgin Mary, and that of the dogmatic Infallibility of the Supreme Pontiff, Vicar of Jesus Christ, and the legitimate successor to St Peter. For a long time, schismatics, heretics, and even the majority of unbelievers have been full of respectful devotion and praise for the person of Pius IX, including those who contributed to ‘discharging’ him of his temporal royalty.41
Non si può, però, non notare la simpatia che Liszt provava per il porporato Hohenlohe, e, sicuramente, ciò era dovuta alle conseguenze delle tendenze liberali giovanili del compositore. La più grande testimonianza del loro legame è l’apertura delle porte di Villa d’Este a Liszt da parte del suo enfiteuta, ovvero il cardinale stesso. Un’altra tacita prova della condivisione di ideali col cardinale è data dalla dubbia posizione di Liszt sul – legittimo o meno – potere temporale del papato, inespressa durante lo scacco romano del 1870. Nonostante l’immensa fiducia nell’attitudine neoconservatrice del Papa, in Liszt ancora si celava il desiderio giovanile e liberale di separazione del focale potere spirituale dal periferico potere temporale, affinché la Chiesa potesse concentrarsi sul primo. In ogni caso, la ricerca della libertà e del progresso risulta più che evidente nel campo prettamente musicale: dopo la rivoluzione del 1848, tutti gli ideali liberali furono trasferiti chiaramente dalla vita e dall’Arte solamente all’Arte, in un mondo do41
Dalla lettera scritta nel febbraio del 1878 e indirizzata alla principessa Carolyne SaynWittgenstein; trad. ingl. a cura di Paul Merrick nel suo Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., p. 40.
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ve un esperimento di questo tipo non può condurre alla morte, in un mondo dove i sentimenti possono essere sublimati senza alcun rischio, se non quello di una minore comprensione del proprio patrimonio artistico. Per concludere: La ruta es larga desde Años de peregrinaje hasta Christus, pero la búsqueda de la austera verdad se mantiene de principio a fin. […] Ya se trate de la Sinfonía revolucionaria esbozada por un francmasón de veinte años con ocasión de la insurrección de Julio, o de la Messe basse escrita por un abate Liszt al que invade ya el torpor devoto, una sola palabra ha hecho latir el corazón más generoso del siglo XIX: libertad. El sansimoniano de los años parisinos y el clérigo de los años romanos, el amigo de Enfantin y el autor de Christus, el compañero de David Stern y de la otra mujer redentora, la princesa mística, siempre militaron en un único partido: el del sublevado: siempre defendieron una única causa: la del hombre.42
Tra l’idea di comporre una sinfonia rivoluzionaria e la pubblicazione delle messe, tra l’aderenza al sansimonismo durante il periodo parigino e la presa degli ordini minori a Roma, tra il Grand Tour compiuto con la focosa Marie d’Agoult e i momenti di raccoglimento e di preghiera condivisi con la mistica principessa Carolyne SaynWittgenstein, si situa quel travaglio creativo del Totentanz, scrigno d’inestimabile valore, traboccante di informazioni e risposte riguardanti Liszt come uomo e come artista. A pochi mesi dalla composizione del De profundis, nell’anno 1835, il compositore venne a contatto, a Basilea, con un ciclo di xilografie di Hans Holbein del XVI secolo, intitolato Der Todtentanz. Questo sviluppa in versione pittorica lo schema del tema con variazioni, con le prime quattro che fanno da introduzione, mostrando la Creazione della Terra, il Peccato Originale, l’Espulsione di Adamo ed Eva dal Giardino e la Vita dopo il Paradiso. La quinta illustrazione (Figura 3) presenta quello che può essere apostrofato come ‘tema’ dell’opera: l’Uguaglianza della Morte. Qui, un macabro gruppo di scheletri, suonando vari strumenti, annunciano all’umanità che la Morte verrà per tutti: «Malheureux qui vivez au monde | tousiours remplis d’aversitez | pour quelque bien qui vous abonde, | serez tous de Mort visitex».43 Le variazioni su questo tema cominciano dalla sesta xilografia fino alla quarantaseiesima, dove gli scheletri si mostrano a singole persone di ogni classe sociale, per accompagnarle al loro preannunciato trapasso. Dopo alcune rappresentazioni di putti che costruiscono uno stendardo alla Morte vittoriosa, la cinquantaduesima illustrazione rappresenta il Giudizio Universale, nella quale tutti coloro che sono apparsi precedentemente ascoltano le parole di Dio. Il ciclo termina con la Morte stessa, ormai inutile e sconfitta dal divino, mandata al patibolo. Tre anni più tardi, nel 1838, Liszt rimase affascinato, al Camposanto di Pisa, dal Trionfo della morte (Figura 4), un affresco – attribuibile all’Orcagna o al Buffalmacco – del XIII-XIV secolo, che rappresenta il Dies Irae. Le anime sono contese tra gli 42
VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Liszt: Rapsodia e improvisación, Barcellona, Alpha Decay, 2014, pp. 23-63. 43 HANS HOLBEIN, La Danse des Morts, Paris, Jules Labitte, 1842, p. 204.
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angeli soccorrevoli e i demoni implacabili, mentre la Morte, in orribili sembianze di mostro munito di falce e di ali di pipistrello, strappa un’anima in forma di infante da un corpo ammassato su tanti altri, di pontefici, imperatori, regine, principi, poveri, servi e villani, ormai tutti accomunati. Solo alcuni monaci sembrano spiritualmente immuni al destino di morte: ritirati nel loro eremo, guardano dall’alto tutto ciò che accade. Illusoria è, invece, l’amenità della scena d’amor cortese: la falciatrice sta, infatti, puntando i giovani e presto sarà da loro.
Figura 3: Quinta xilografia del ciclo Der Todtentanz, di Hans Holbein
Figura 4: Trionfo della morte, di Andrea Orcagna o di Buonamico Buffalmacco
La fragilità delle spoglie umane, l’uguaglianza di fronte a Dio, la superiorità spirituale di coloro che vivono al suo servizio e la beatitudine suprema di questi stessi dopo la morte sono tematiche ricorrenti in Liszt, sia nelle scelte di vita che nella compo
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sizione e conduzione di alcuni brani musicali. Questi stessi, inoltre, sono elaborazioni e sintesi delle esperienze vissute, dei viaggi compiuti, dei libri letti, delle opere d’arte ammirate. Non rimaneva che tracciare l’ambizioso piano: «Si je me sens force et vie, je tenterai une composition symphonique d’après Dante, puis une autre d’après Faust - dans trois ans - d’ici-la, je ferai trois esquisses: le Triomphe de la mort (Orcagna), la Comédie de la mort (Holbein), et un Fragment Dantesque».44 Ripercorrendo il grande corpus lisztiano, spuntano, infatti, due abbozzi, perduti, dell’anno 1839, intitolati Commedia della morte, con riferimento a Holbein, e Trionfo della morte, con riferimento all’affresco pisano. Le due idee sembrano riapparire unite nel concerto programmatico del Totentanz e, ancor più chiaramente, nella versione ‘misconosciuta’ del 1853 (revisione di un lavoro già cominciato nel 1847 e concluso nel 1849), scoperta e pubblicata da Ferruccio Busoni nel 1919 e denominata Totentanz – Phantasie für Pianoforte und Orchester. La prima influenza di Holbein è già evidente sotto la prospettiva strutturale: Liszt sceglie la forma del tema con variazioni e il tema inquietante della morte si traduce nella sequenza liturgica del Dies Irae. A convalidare questa ipotesi, all’inizio dell’edizione del 1853, appare per iscritto l’annuncio universale della morte, presente anche nella descrizione della quinta xilografia di Holbein: «Vae, vae, habitantibus in terra…». Infatti, l’apertura di questa versione rivela un chiaro legame con la quinta xilografia, in cui gli scheletri annunciano la morte a tutti gli uomini suonando sackbuts (antichi tromboni) e tamburi: così, il compositore realizza la prima esposizione del Dies Irae con i moderni tromboni e i tam tam. A seguire, la morte delle persone di diversa estrazione sociale viene rappresentata con tre variazioni di differente carattere: grottesco, maestoso e violento. A tal proposito, il critico Richard Pohl scrive: «Ciascuna variazione rivela un personaggio diverso: l’uomo serio, il giovane irresponsabile, colui che dubita, il monaco che prega, il guerriero imprudente, la fanciulla affascinante, il bambino che gioca»45. Queste sono, inoltre, organizzate secondo una climax ascendente, che sfocia nel fugato: qui, l’impiego combinato dei differenti motivi ritmici, caratteristici delle variazioni precedenti, può essere spiegato con la presenza di tutti i personaggi del ciclo di xilografie nella cinquantaduesima di queste, quella del Giudizio Universale. Per lo studioso Paul Merrick,46 la forma della fuga in Liszt rappresenta sempre una battaglia o una conquista spirituale e nel Totentanz avrebbe un significato molto particolare. Questa sezione inizia in re minore, la tonalità della morte e della sofferenza, ma subito comincia a cambiare centro tonale, ad agitarsi e ad accumulare energia, come se si volesse giungere ad una caricatura mefistofelica della morte stessa. Non a 44
FRANZ LISZT, Journal des Zӱi, in MARIE D’AGOULT, Mémoires par Daniel Stern, Paris, Calmann-Lévy, 1927, p. 180. 45 RICHARD POHL, Programme zu Symphonische Dichtungen Liszts: IV. Totentanz, in Franz Liszt: Studien und Erinnerungen, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig: Bernhard Schlicke, 1883, Band 2, pp. 401-402; trad. it. a cura di Mariateresa Storino, nel suo Franz Liszt a Pisa: alle radici del recital pianistico tra suggestioni pittoriche e letterarie, Pisa, Pisa University Press, 2018, p. 125. 46 Cfr. PAUL MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., pp. 267-282.
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caso l’orchestra entra sulla seguente indicazione espressiva: marcato scherzando. Qui, l’uomo sta lottando contro il suo stesso destino, burlandosi della morte. Contemporaneamente, questa variazione collega Holbein con Orcagna (o Buffalmacco): segue, infatti, un secondo tema che, da un lato, deriva dal primo e, dall’altro, ricorda un estratto del Requiem di Mozart, opera che nell’immaginario di Liszt si lega all’affresco. In una lettera inviata a Hector Berlioz, scrive: Every day my realization of the hidden relationship between works of genius is reinforced through my thoughts and emotions… The Coliseum and the Campo Santo are not so different from [Beethoven’s] Heroic Symphony and [Mozart’s] Requiem as one might think. Dante found his visual echo in Orcagna… Perhaps one day he will find his musical echo in a Beethoven of the future.47
Liszt riveste questo nuovo tema, già utilizzato nell’abbozzo del Trionfo della morte del 1839, con lo schema armonico della Follia, che, da una parte, avvicina lo stile musicale all’antica realizzazione dell’affresco e, dall’altra, avendo un tono più leggero del Dies Irae, rende in musica la parte destra dello stesso, in cui è raffigurato un gruppo di giovani amanti che si diletta suonando in un arcadico giardino. Si trova conferma in una citazione di Liszt messa per iscritto dalla sua prima biografa, Lina Ramann, che lo accompagnò all’esecuzione in concerto, da parte di Alexander Siloti, del Totentanz (seconda versione), il 3 giugno del 1886: «Do you see this Amoretten? – he suddenly interjected, while Siloti was gracefully playing Variation I [che nella versione del 1853 era il tema del secondo gruppo di variazioni] – You find those in Pisa by Orcagna».48 Però, le variazioni su questo tema diventano man mano più grevi, e chiaro diventa quel memento mori espresso con la prossimità, nell’affresco, della Falciatrice alla scenetta conviviale. Qui si aprono le ultime tre sezioni della prima versione, delle quali due vengono eliminate e l’altra invertita nella riedizione definitiva: Adagio ma non troppo – De Profundis, Allegro e Allegro con fuoco. L’Adagio ma non troppo – De Profundis introduce il secondo canto gregoriano dell’opera, e questa scelta trova spiegazione nella parte sinistra dell’affresco, che rappresenta la leggenda medievale de I tre morti e i tre vivi. Tre uomini interrompono la loro battuta di caccia alla vista di tre cadaveri in tre stati diversi di putrefazione e con elementi che si collegano con il passato dei tre vivi: ciò li porta a ragionare sulla precarietà della loro vita e sulla loro condizione di peccatori. La richiesta di perdono e l’invocazione a Dio sono l’unica via di fuga dalla vanità dell’esistenza e dalla dannazione eterna. San Macario, vecchio eremita, posto in tale scena alla base di una stradina in salita, mostra ai cacciatori il rotolo che ha tra le mani, insegnando loro il ruolo 47
Dalla lettera scritta il 2 ottobre del 1839 e indirizzata a Hector Berlioz; trad. ingl. a cura di Anna Harwell Celenza, nel suo Death transfigured: The Origins and Evolution of Franz Liszt’s Totentanz, in Nineteenth-Century Music: Selected Proceedings of the Tenth International Conference on Nineteenth-Century Music, Ashgate, Aldershot, 2001, p. 147. 48 LINA RAMANN, Lisztiana: Erinnergungen von Franz Liszt in Tagebuchblättern, Briefen und Dokumenten aus den Jahren 1873-1886/7, Mainz: Arthur Seidl, 1983, p. 331; trad. ingl. a cura di Anna Harwell Celenza, nel suo Death transfigured cit., p. 146.
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salvifico della fede e proteggendo, nel frattempo, l’entrata di un monastero che sembra rimanere immune al terrore scatenato dalla Morte. Il De Profundis è, infatti, un’invocazione e lo stile musicale con cui è trattato parte da un’atmosfera liturgica (con accordi ripetuti che si chiudono con una cadenza ad ogni versetto; il tutto viene ripetuto due volte, prima con gli strumenti bassi e poi con gli strumenti acuti dell’orchestra), passa per un misticismo lirico pregno di un sentimentalismo ‘umano’ (il pianoforte entra e ripete la sequenza in stile liturgico, ma con dinamiche che creano una grande tensione romantica, anche con l’aiuto dei tremoli agli archi; nel frattempo, un clarinetto propone, come in un’opera lirica, passaggi in stile recitativo), e giunge a un effetto altamente paradisiaco (il pianoforte propone soavi ed estesi accordi arpeggiati sotto un sistema lirico basato sull’alternanza tra archi e fiati). Questa sezione suscita nell’animo dell’ascoltatore quella sensazione romantica di streben, parola tedesca con la quale si era solito definire quel caratteristico anelo verso l’infinito, nel caso di Liszt verso Dio e la luce. Nel Totentanz del 1865 l’Adagio non appare, perché cambia l’intento narrativo. L’Allegro propone una riutilizzazione dei primi due temi, il Dies Irae e il tema mozartiano, separati tra di loro: il primo scompare per lasciare spazio al secondo, che si ripete due volte con uno stile che dà forma nuovamente agli Amoretten, questa volta non più seguiti dalle sempre più tetre variazioni. Il significato potrebbe essere, in questo caso, il raggiungimento di una allegria terrena più duratura, sintetizzando l’esperienza derivata dagli episodi precedenti. Nella seconda versione del Totentanz, questa sezione risulta invertita: infatti, dal secondo tema si arriva al primo, con un percorso che va quindi dalla luce all’oscurità. L’Allegro con fuoco acquisisce, nuovamente, la forma di una marcia trionfale e popolare, come nel salmo strumentale del 1834. Capito ormai che il Dies Irae assume un ruolo negativo e il De Profundis una funzione positiva, la sovrapposizione tematica in quest’ultima sezione potrebbe rappresentare la parte centrale dell’affresco, nella quale angeli e diavoli combattono tra di loro per aggiudicarsi le anime dei morti. La battaglia tra il bene e il male si risolve a favore del primo, in quanto il Dies Irae perde la sua imponenza e si plasma negli schemi salmodici e armonici del De Profundis: per coloro che hanno condotto un’esistenza riposta in Dio, il Giudizio Universale non può incutere timore e può essere solo il più grande trionfo contro la Morte. Così, il Giudizio Universale, il Dies Irae, diventa l’occasione della redenzione tanto desiderata dal fedele che recita il salmo penitenziale del De Profundis e che festeggia la libertà e la salvezza immergendosi pienamente, fino all’ultimo giorno, nella gioia del mondo incarnato, strettamente connesso, nel pensiero del compositore, al mondo invisibile. Il programma liberale e progressista del 1834 viene, così, rispettato e la prima versione del Totentanz potrebbe essere considerata un inno al Papa Pio IX perché, in quello stesso periodo, il Santo Padre stava conducendo i primi anni del suo pontificato, completamente volti al liberalismo e al progressismo. E, come suo solito, «he used his art to portray uncompromisingly what he saw as psycholog-
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ical truth: the inevitability of struggle, the strength of faith and courage, and the inspiration of love».49 Quando Liszt ritornò a lavorare al Totentanz, dopo gli undici anni di pausa e la richiesta del genero Hans von Bülow anticipati al principio di questo saggio, il programma dell’opera diventò molto più oscuro. D’altra parte, tra il 1859 e il 1864 due dei suoi figli morirono e l’unica che rimase in vita, Cosima, tradì proprio Hans von Bülow lasciandolo nella più completa disperazione, con Richard Wagner, grande amico di Liszt. Queste tragedie, insieme alla delusione ricevuta a Weimar come direttore artistico e direttore d’orchestra e all’impossibilità di sposarsi con la sua amata principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein, contribuirono a rendere Liszt un uomo più cinico, avvilito e meditativo. Il compositore ‘corresse’ il Totentanz durante il suo soggiorno romano al convento di Santa Maria del Rosario, immerso nella semplicità della sua piccola stanza. Questa nuova residenza indica sia l’umiltà francescana del musicista sia la cinica condanna della superficialità umana. Uno dei suoi allievi scrisse, vedendo questo posto: Un inginocchiatoio di pietra e un semplice tavolo! Sono stato invaso da una profonda tristezza. Dopo una vita coronata dai più grandi successi mai ottenuti da un musicista, indigenza, privazioni, solitudine assoluta! Ho visto due mondi davanti a me: quello del Liszt che, osannato dai potenti, aveva conquistato l’Europa intera, poi quello di... Santa Maria del Rosario!50
La revisione romana portò alla nascita, nel 1865, del Totentanz – Paraphrase über Dies Irae für Piano und Orchester. Già la scomparsa della parola Phantasie e la presenza del Dies Irae nel titolo dell’opera comunicano utili informazioni. Tramite nuovi studi di composizione durante il soggiorno romano, Liszt perfezionò la struttura interna del tema con variazioni, realizzando un coerente programma sulla morte, senza divagazioni o discontinuità, e concentrandosi solo sulla sequenza liturgica indicante il Giudizio Universale (e sul tema derivato dal Requiem di Mozart, che però si percepisce come un’evoluzione del Dies Irae), ricalcando musicalmente quello che Holbein fa con le sue xilografie. Solo la Morte, con il suo esercito di scheletri, sembra dominare il mondo: scompaiono la lunga invocazione speranzosa, la marcia trionfale e popolare e, di conseguenza, il riferimento a Lamennais che si materializzava tramite il De Profundis. Come analisi strutturale dell’opera, si fa riferimento a quella realizzata dalla studiosa Anna Harwell Celenza, tramite le sue parole e il suo schema (Figura 5): […] a brief description of the work as it was published by Liszt in 1865. Liszt’s Totentanz is an elaborate set of free variations based on the liturgical plainchant Dies Irae. Following a short orchestral introduction and a statement of the theme by piano, a set of five numbered variations begins (m.52). Variations 1-3 are not labelled, but the fourth and fifth are classified as canonique and fugato. Approximately three-quarters of the way through the piece (m.467) the Dies Irae drops out and a new eight-note theme ap49
PAUL MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., p. 309. AUGUST STRADAL, in ERNST BURGER. Prefazione a Franz Liszt nelle fotografie d’epoca della collezione Ernst Burger, Tivoli, De Luca Editori d’Arte, 2011, p. 3. 50
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Figura 5: Schema strutturale del Totentanz (1865), di Anna Harwell Celenza
Sempre facendo riferimento alle parole di Anna Harwell Celenza, si sintetizzano i cambi tra la versione tedesca e quella romana del Totentanz: Comparisons of the 1853 and 1864 versions of Totentanz reveal that Liszt made four fundamental changes to the work while living in Rome: he reorchestrated the opening, amplifying the timpani and trombones with clarinets, bassoons, violas, cellos and basses; he added the demonic tritone motives; he eliminated the benevolent De Profundis theme; and he rewrote the coda, making it more malevolent in character.52
Queste sono le modifiche fondamentali apportate a livello strutturale, e, insieme ad altre più ristrette che saranno qui riportate, possono trovare facilmente una spiegazione programmatica, mentre sarebbe più difficile motivarle in un’ottica prettamente tecnica. L’incipit, quindi, vede un’amplificazione orchestrale e l’aggiunta del motivo demoniaco del tritono. La Morte appare, così, più terribile e imponente con un amaro assaggio del Dies Irae alla terza battuta, introdotto già dalla prima battuta con la evidentissima diabolica divisione dell’ottava in due parti uguali. Questa è resa con una figurazione molto caratteristica di accompagnamento, raddoppiata tra il pianoforte e i timpani. Inoltre, il tritono si ripresenta, poco più tardi, al pianoforte, ovvero nelle tre violente e vorticose sequenze di accordi di settima diminuita. 51 52
ANNA HARWELL CELENZA, Death transfigured cit., pp. 125-127: 126. Ivi, p. 152. 111
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A partire da questi accordi, l’esposizione completa del tema e le prime tre variazioni sono trattate più o meno nello stesso modo rispetto alla prima versione del Totentanz; mentre, è completamente nuova la quarta variazione (Figura 6), detta anche canonique. Qui, Liszt sembra focalizzare l’attenzione sulle dieci figure religiose presenti nelle xilografie di Holbein: sebbene appaiano pie, anche loro sono macchiate dal peccato. Infatti, l’apparenza canonica e gli elementi demoniaci nascosti sono idee forgianti della quarta variazione: Paying close attention to Holbein’s satirical treatment of religious figures, Liszt adopted a similar approach when writing Variation 4. Liszt labelled the variation canonique, and this indication, along with the sacred style of measures 125-42, reveals a direct connection to contemporary church music. On the surface Variation 4 appears quite benign. But if we take a closer look at the variation’s harmonic structure, we soon discover elements more malevolent in character. The most obvious is Liszt’s use of the tritone (diabolus musicae). The first tritone occurs in measure 126, where the third entrance of the first subject begins an augmented fourth higher than the B natural in the middle voice. The use of the tritone here is no mistake. It is the only subject entrance accentuated with a bracket, informing the pianist to strike the pitches separately (this bracket is also present in Liszt’s earliest sketches of the work). At the end of the canonique Liszt again employs the tritone. Here we see a German sixth chord moving to Cadential V 6/4. If we are to assume that the A in the bar is to be held throughout, then this chord never resolves to the expected 5/3 position. Having introduced the G-sharp in the German sixth chord, Liszt brings it back as a leading tone to A in the final chord. As a leading tone the G-sharp should be struck simultaneously with the D in the upper voice, thus accentuating the tritone G-sharp-D. Like Holbein’s depiction of religious figures, Liszt’s canon has an appealing façade, but a diabolical core.53
Figura 6: Variazione canonique del Totentanz (1865) 53
Ivi, p. 144. 112
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Come è possibile notare dalla scritta in tedesco presente in coda all’immagine precedente, alla battuta 143 – fino alla battuta 183 – si mostra una possibilità di tagliare, erroneamente non indicata nello schema strutturale proposto. Questo dettaglio si traduce in qualcosa di molto importante dal punto di vista programmatico, perché significherebbe tagliare l’unica sezione realmente luminosa di tutta l’opera: l’accordo col tritono in forma di appoggiatura porterebbe direttamente alla battaglia del fugato. Quindi, la paradisiaca sezione in si maggiore, che comincia alla battuta 145, non ha influenza su ciò che Liszt vuole comunicare con quest’opera e rappresenta unicamente una condizione di allegria mistica passeggera. Nonostante ciò, risulta interessante come il compositore riesce a creare questa sensazione: un improvviso cambio di tonalità con un procedimento cromatico, già tipico delle sue opere composte a Weimar, permette a Liszt di ‘riempire’ la tonalità terrena del la minore con tutti i tasti neri possibili del pianoforte, arrivando alla tonalità del si maggiore, celestiale nel linguaggio musicale dell’autore, perché ricca di diesis. A proposito di questo passaggio, si riporta una considerazione del celebre compositore ungherese Bela Bartók: This composition, which is simply a set of variations on the Gregorian melody Dies irae, is astonishingly harsh from beginning to end. But what do we find in the middle section? A variation hardly eight bars long, of almost Italianate emotionalism. Here Liszt obviously intended to relieve the overwhelming austerity and darkness with a ray of hope. The work as a whole always has a profound effect upon me, but this short section sticks out so from the unified style of the rest that I have never been able to feel that it is appropriate.54
La quinta variazione, ora detta fugato, è materiale derivante dalla prima versione, con l’eccezione di alcune evoluzioni del contrappunto. Invece, tra questa e il tema mozartiano si inserisce, nella riedizione del 1865, una nuova sezione che parte con una cadenza pianistica, molto interessante ed emblematica. Infatti, qui appare, sebbene nascosta, la firma di Liszt (Figura 7): il Cross motif, ovvero il motivo iniziale del canto gregoriano Crux fidelis.
Figura 7: Il Crux fidelis nel Totentanz (1865)
54
Cfr. BELA BARTÓK, Liszt-Probleme in Franz Liszt. Beiträge von ungarischen Autoren, Budapest, Corvina, 1978, pp. 122-132; trad. ingl. a cura di Paul Merrick, nel suo Revolution and Religion in the Music of Liszt cit., p. 280.
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Che significa per il compositore questa piccola sequenza? Liszt stesso lo chiarisce, descrivendo, in una lettera del 1879, il suo poema sinfonico Hunnenschlacht (1857): «The chorale Crux fidelis, which is gradually developed, illustrates the idea of the final victory of Christianity in its effectual love to God and man». 55 Ma, nel Totentanz, il motivo non è «progressivamente sviluppato» e, anzi, si nasconde tra le note acute dei tremoli alla mano destra del pianista, in una piccola cadenza collocata immediatamente dopo il fugato, dopo la battaglia dell’uomo contro il suo triste destino di sofferenza. Forse, il Crux fidelis rappresenta, in questo caso, una piccola invocazione al Signore da parte dello stesso Liszt - essendo la sua firma -, un uomo stanco delle vicissitudini della sua vita, piena di conflitti e delusioni. Inoltre, il tutto precipita in un passaggio di settime diminuite discendenti, logicamente ricco di tritoni demoniaci: un altro barlume di speranza è annientato. Se si decide di utilizzare il secondo taglio, si arriva direttamente al nuovo finale, prima definito «more malevolent in character», e così si ottiene la peggiore conferma della predominanza dell’oscurità. Quindi il taglio acquisisce nuovamente un significato programmatico, che, per di più, risulta essere lo stesso rispetto al precedente. Infatti, con questa decisione si salta tutto ciò che si relaziona con l’affresco del Trionfo della morte, inclusi i piccoli momenti luminosi, comunque simboli di una speranza solo apparente, offerti dai cacciatori e dagli amanti. Senza tagliare, il discorso musicale continua con un elemento nuovo, la sezione Animato, quasi corni da caccia, la quale dovrebbe rappresentare la spensieratezza dei cacciatori. Il tutto, però, precipita in una nuova enunciazione del Dies Irae con feroci ottave, feroci come l’immagine dei tre cadaveri nella leggenda de I tre morti e i tre vivi. A seguire, si viene a contatto con il tema mozartiano, già presente nella prima versione, che, però, va qui diversificandosi per quattro motivi. Il primo è l’aggiunta di una frase che va a precedere quella degli Amoretten e che assume la funzione tematica: qui il motivo del Requiem è unito a un inciso ritmico e melodico di caccia, ovvero le quinte ascendenti in fortissimo, eseguite prima dagli ottoni e poi dai legni, insieme agli strumenti a corda. Il secondo motivo è l’imitazione di un nuovo strumento presente nella quinta xilografia di Holbein, la ghironda, aggiunta in rinforzo del solo triangolo in un passaggio della prima versione. A questo proposito, lo studioso Laurence Le Diagon-Jacquin scrive: Liszt donne parfois un effet archaïque à sa musique. Il s’appuie vraisemblablement sur la gravure de Holbein «les ossements de tous les hommes». En effet, il faut remarquer que, sur la gauche, au second plan des squelettes jouent du cromorne tandis que, au premier plan, un squelette joue de la vièle à roue: bien sûr, Liszt n’a pas utilisé cet instrument au son aigre et grinçant au sein de l’orchestre. Cependant, une allusion à son timbre se retrouve aux violons, dans les mesures 504-505, 509-510, 514-515. L’impression d’un bourdon rageur, due à l’arrivée sur la quinte, est manifeste ici. De plus, les accents et les appoggiatures contribuent à donner l’image sonore du célèbre 55
FRANZ LISZT, in LA MARA [ed.], Letters of Franz Liszt, trad. ingl. a cura di Constance Bache, London, H. Grevel & Co., 1894, vol. 2, p. 352.
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LO “STRANO SEGRETO” DEL TOTENTANZ DI LISZT instrument populaire. Liszt met en scène le timbre de l’instrument afin de susciter dans l’imagination de l’auditeur sa représentation physique.56
Il terzo motivo è l’impiego di un gesto violento molto particolare, il Col legno degli strumenti a corda, che serve per evidenziare il carattere aspro della Morte. Anche qui sono particolarmente interessanti le considerazioni di Laurence Le DiagonJacquin: Dans le Totentanz, la violence est éminemment présente. Nous en proposons ici quelques exemples emblématiques. Ainsi, les modes de jeu employés dans certains passages sont à remarquer; par exemple dans la quatrième variation sur le second thème, mesure 532. À partir de ce moment, les cordes doivent jouer Col legno, procédé moderne pour l’époque, qui donne un timbre particulièrement démoniaque dans cette œuvre macabre. Ajouté aux autres indications (marcato aux bois, tutto staccato au piano), ce timbre renforce l’énergie frénétique du passage.57
Il quarto motivo ha a che fare con l’attitudine di riversare il tutto verso la sfera del negativo, senza mai deviare dal percorso che conduce al macabro finale, esclusivo della versione romana, dove riappare il Dies Irae in tutta la sua potenza. Gesti violenti, accordi pieni e glissandi precedono la scala cromatica discendente finale, suonata sia dall’orchestra che dal pianoforte. Così si chiude quest’opera maestosa, in una disperazione senza alcuna soluzione. Sempre nel 1865, immediatamente dopo la pubblicazione della versione romana per pianoforte e orchestra del Totentanz, fu messa alle stampe una versione per solo pianoforte. Esiste un’unica grande differenza: nel finale mancano due frasi a gestione prevalentemente orchestrale. Sicuramente ciò non è dato dalla povertà tecnica di riduzione in Liszt: basti pensare alle meravigliose riduzioni delle sinfonie di Beethoven. E non ha neanche a che vedere con la sostanza di quelle frasi in particolare, dato che non sarebbero così difficili da suonare, in un’eventuale riduzione. Non rimane che pensare ad una decisione di tipo programmatica: si eliminano, con una frase, una serie di glissandi ascendenti e, con l’altra, un sistema ritmico che sembra rimandare ad una marcia trionfale, comunque molto breve e subito seguita dalla scala cromatica finale che fa collassare tutto. Quindi, si elimina un eventuale riferimento al popolo e a Dio. Conclusioni Si è visto come nelle versioni romane del Totentanz sparisce il riferimento a Lamennais e, contemporaneamente, l’argomento sacro si converte in un mysterium tremendum et fascinans. Avendo ottenuto risultati nulli o poco soddisfacenti dalle esperienze giovanili, l’agire umano era, a questo punto, ricoperto di sfiducia e la specie umana cinicamente 56
LAURENCE LE DIAGON-JACQUIN, Essay d’analyse comprarée d’après Panofsky du Totentanz de Liszt et de ses modèles visuels, in La musique de Liszt et las arts visuels, Strasbourg, Hermann, 2003, pp. 420-421. 57 Ivi, pp. 406-407.
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condannata da Liszt, mentre le vie del Signore diventavano inconoscibili per il raziocinio antropico limitato, in quanto terreno. Dopo essersi sfogato musicalmente con il Totentanz, ormai spogliato del suo programma liberale e gettato nella più completa desolazione, in pochi mesi Liszt prese gli ordini religiosi minori e, con questa scelta, decise di fidarsi ciecamente di Pio IX, che, come lui, era un cattolico liberale sconfitto. Intanto, per il compositore, la parafrasi sul Dies Irae doveva rimanere una parentesi chiusa, e il suo oscuro programma – il suo pensiero più vero e profondo – non poteva, per nulla al mondo, essere rivelato agli uomini del suo tempo, specialmente nell’ambiente in cui aveva deciso di vivere l’ultima tappa della sua vita spirituale. Di qui la volontà espressa ad Hans von Bülow di non pubblicare il Totentanz, di qui il rifiuto espresso a Vladimir Vasil’evic Stasov di suonarlo e di spiegarne il programma, come invece fece per i suoi poemi sinfonici. E se il Dies Irae era ormai stato lasciato alle spalle, la stessa sorte non fu condivisa dal De Profundis,58 riutilizzato negli anni ’80, gli ultimi della sua vita, come strumento per indirizzare la musica verso radicali innovazioni e verso il sovvertimento delle tradizioni. Il cuore del giovane Liszt, del rivoluzionario cattolico, ancora pulsa – e più forte che mai – nell’ultimo Liszt, nel cattolico rivoluzionario.
58
Cfr. PIER CARMINE GARZILLO, Liszt allo specchio: dal De profundis al Totentanz, Varazze, PM edizioni, 2019, cap. IV, «Le due edizioni del Salmo vocale 129», pp. 59-65.
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TESI ____________________________________________________________________ Antonella D’Argenio
LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU: TRADUZIONE E ANALISI
La presente tesi si propone come un lavoro di commento critico all’interno del campo dell’analisi musicale, prendendo come punto di partenza il testo di Kofi Agawu, Music as Discourse: Semiotic Adventures in Romantic Music.1 La scelta di tale testo è stata dettata da un interesse nei confronti di una teoria analitica che dà spazio non soltanto alla sintassi musicale ma anche alla sua semantica, analizzando da un punto di vista differente il significato oggettivo della musica, andando oltre il dato semiotico ma partendo sempre e comunque da esso. Per meglio comprendere e analizzare il testo in questione, si è ritenuto opportuno offrirne una traduzione nei suoi punti salienti, poiché una pubblicazione italiana del suddetto libro non è stata ad oggi ancora presentata. In particolare, si è scelto di tradurre l’introduzione e la prima parte del testo, escludendone la seconda, decidendo dunque di occuparsi della parte teorica, in cui viene esposta la teoria analitica vera e propria e rimandando invece la traduzione della parte in cui si espongono gli esempi pratici ad un altro momento, per questioni di brevità e attinenza. La tesi dunque, si propone suddivisa in due parti principali: la prima offre una traduzione del testo; la seconda invece è un puntuale commento delle parti precedentemente tradotte. Entrando nel vivo della trattazione, il lavoro di tesi si interroga innanzitutto sul significato musicale, partendo dalle stesse riflessioni elaborate da Agawu. La premessa dell’autore è estremamente interessante e merita un’accurata riflessione sia contenutistica, sia sui motivi da cui è stata spinta. Questa si riferisce alla differenza tra il punto di vista della topic theory e quello formalista, per ciò che concerne il significato musicale: ci si riferisce, rispettivamente, alla distinzione tra estrinsecità ed intrinsecità del significato musicale. Secondo i formalisti, infatti, la musica si riferirebbe solo e soltanto a sé stessa, senza rimando alcuno al mondo al di fuori di essa. Una tale prospettiva, dominante nel contesto post-romantico, venne a tal punto dilatata da essere estesa persino a periodi musicali precedenti, in cui l’idea semantica era ben altra – bisogna ricordare che Agawu si occupa in questo contesto di musica del periodo romantico – arrivando a condizionare il campo stesso della semantica musicale, da allora in poi considerata come una disciplina triviale, soggettiva e completamente inutile. L’idea formalista, insomma, ha condizionato le analisi dal Novecento in poi, determinando la debolezza ad oggi attribuita all’indagine semantica. Come Agawu stesso spiega nel testo: 1
KOFI AGAWU, Music as Discourse: Semiotic Adventures in Romantic Music, Oxford, Oxford University Press, 2009. 117
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Infatti, gli analisti di una certa generazione (e/o di una certa provenienza istituzionale) si preoccupavano particolarmente che si sapesse che l’oggetto della loro ricerca era la musica in sé; diversamente dagli storici musicali e come linea di principio, preferivano evitare tutto ciò che poteva essere considerato irrilevante ed extra-musicale.2
Una tale premessa vede la sua ragion d’essere nel soggetto stesso della trattazione di Agawu: l’autore, infatti, si spinge a considerare il significato semantico all’interno del variegatissimo repertorio romantico, entrando in un campo minato, poiché in tale contesto sono state molteplici le speculazioni di questo genere. In effetti, la semantica musicale non è mai stata considerata a tutti gli effetti una branca della semiologia musicale, a causa dei suoi contorni ritenuti sfocati rispetto, invece, alla semiologia linguistica, da cui prenderebbe le mosse; il paragone però, appare inappropriato, poiché il soggetto – il codice semiotico – analizzato dalle due discipline considerate è nettamente differente. Il paragone tra il codice musicale e quello linguistico è stato da sempre attuato per un motivo fondamentale, ossia perché si tratta di due codici semiotici che in qualche modo hanno una funzione comunicativa. Se però nel campo linguistico è semplice rintracciare un significato più o meno specifico per ogni parola o termine esistente, nel caso del codice musicale non è possibile trovare con la stessa determinatezza un significato per ogni elemento musicale esistente e più fattori concorrono a determinare una tale asserzione. Per comprendere la differenza, bisogna partire dall’indagine del segno quale parte caratterizzante di ogni codice semiotico; esso è definibile come un’entità bifacciale composta dall’espressione o token (ossia la parte sensibile) e da un contenuto o type (ossia la parte concettuale). Il linguista Charles Sanders Pierce ha individuato tre tipologie di rapporto tra queste due parti del segno – non soltanto linguistico – identificando il simbolo, l’icona e l’indice: si parla di simbolo quando il rapporto tra espressione e contenuto è convenzionale e garantito da una conoscenza comune; di icona quando il rapporto tra espressione e contenuto è diretto, ossia quando il significante rinvia al significato per analogia, per somiglianza; infine di indice quando tra il significante e il significato si realizza un rapporto di contiguità o causalità. Mentre in una lingua è possibile trovare tutte e tre queste tipologie, il musicologo Raymond Monelle ha riflettuto su questo nel testo The Sense of Music3 arrivando alla conclusione che in musica si può parlare soltanto di icone o indici, specificando però che l’iconicità pura è difficile da rintracciare. Secondo la sua teoria, anche se si pensa all’Affektenlehre – dove si mette in pratica una vera e propria imitazione letterale dell’oggetto a cui ci si riferisce, mirando alla realizzazione di icone – si sottintendono sempre in qualche modo una serie di convenzioni culturali, che si sono poi cristallizzate a mano a mano che sono state utilizzate nel corso della storia della musica: ovverosia, più si reitera l’uso di un certo significante per esprimere un certo significato, più il suo utilizzo diventerà un richiamo simbolico nel tempo, perdendo il ruolo di mera imitazione letterale. Ne consegue, dunque, che una certa espressione musicale è collegata ad un significato, ossia a un referente simbolico o 2
Ivi, p. 8 (trad. mia). RAYMOND MONELLE, The Sense of Music: Semiotic Essays. New Jersey, Princeton University Press, 2000. 3
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LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU
oggettuale a cui si riferisce. Per Monelle, il concetto di referenzialità in musica è una chimera, poiché il codice musicale non farebbe riferimento alla realtà esterna ma ciò non significa che non abbia un suo contenuto in quanto codice formato da segni. Il richiamo è ancora una volta a Pierce, il quale nella teorizzazione del triangolo semiotico, rintraccia nel rapporto tra significante e significato un terzo elemento, ossia l’interpretante, un segno che interpreta il primo segno originario e che si crea nella mente dell’interprete per mediare la relazione tra l’espressione e l’entità vera e propria. Ne consegue che una vera e propria referenzialità diretta non esiste, poiché di fatto ci si riferirebbe soltanto a un mondo di concetti, che non devono obbligatoriamente esistere nella realtà fattuale ma che esistono soltanto nel codice stesso. Monelle scrive: The meaning of the musical sign is not to be sought in the world at all. It is to be sought within the system: the semantic web of a language, or other signifying system including music, lies back-to-back with the phonological and syntactic pattern […]4
A questo proposito, Hatten parla di correlazione piuttosto che di referenzialità, riferendosi a un tipo di rapporto tra significante e significato che è diventato convenzionale in un determinato stile e dunque, simbolico.5 Agawu indaga tale rapporto, con la volontà di riscattare il campo della semantica musicale da quell’alone di vaghezza e trivialità che per lungo tempo lo ha contrassegnato. L’idea della topic theory affonda le radici nel concetto di topos letterario; il termine deriva dal greco e significa luogo comune, ossia un concetto chiave il cui significato non può essere tutto racchiuso nell’interpretazione letterale, rimandando invece a concetti metaforici, a un mondo altro diverso da quello concreto, magari lontano nel tempo o inventato. La sua funzione è di evocazione e dunque si potrebbe parlare di un rapporto di correlazione tra significante e significato. Il topos musicale ha la stessa funzione di quello letterario, come specifica Agawu: Theorists of the literary and musical topic, therefore, must take care not to assume that signifier and signified are necessarily contemporaneous, or even that the signified was ever part of the social and material world.6
Leonard Ratner è stato il primo teorico musicale a rintracciare in musica tali luoghi e a riflettere sul loro ruolo fortemente convenzionale, riportando tali riflessioni nel testo cardine Classic Music: Expression, Form and Style.7 Come suggerisce il titolo, l’opera si occupa di rintracciare all’interno del repertorio musicale del periodo classico dei luoghi, dei gesti retorici codificati, condivisi dalla società dell’epoca – pubbli4
RAYMOND MONELLE, The Musical Topic: Hunt, Military and Pastoral, Bloomington, Indiana University Press, 2006, p. 22. 5 ROBERT HATTEN, Interpreting musical Gestures, Topics and Tropes: Mozart, Beethoven, Schubert. Bloomington, Indiana University Press, 2004. 6 AGAWU KOFI, Music as Discourse, cit., p. 13. 7 LEONARD RATNER, Classic Music: Expression, Form and Style, New York, Schirmer Books, 1980.
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co, compositori ed esecutori – portatori di uno specifico significato, un significato letterale riconosciuto e riconoscibile da tutti. L’inquadramento di un periodo storico preciso è fondamentale: la relazione tra un topos e il suo significato non rimane immutabile e proprio come il significato delle parole, è destinata a cambiare col passare del tempo, favorendo un rapporto simbolico ad uno iconico. Un esempio su tutti è quello del topos della pastorale, il quale poteva apparire più chiaramente iconico in un determinato periodo storico, conservando soltanto un significato simbolico col passare degli anni, richiamando luoghi e costumi lontani nel tempo. Tali luoghi comuni hanno un significato intrinseco, racchiuso all’interno del codice stesso ed è alla scoperta di questo significato che mira la topic theory; bisogna specificare però che in questo caso, il ruolo principale nella decodifica del codice non risiede nella partitura – alla quale è stato sempre affidato un ruolo quasi testamentario – ma nell’ascoltatore e nell’atto dell’ascolto stesso, poiché «la semantica non si trova all’interno del testo ma nelle reazioni dell’ascoltatore».8 Con l’ascolto si può andare molto oltre a ciò che suggerisce il segno scritto ma bisogna essere cauti nell’interpretare in maniera corretta il termine “reazione” utilizzato da Monelle, facilmente associabile a termini come sentimento, emozione, ecc. In realtà, qui l’autore vuole intendere delle reazioni oggettive, che scaturiscono dall’ascolto e che riguardano ogni ascoltatore e sono relative agli eventi di superficie che si succedono in un determinato brano musicale. Agawu parte da una «impressione significativa»9 che gli eventi di superficie lasciano sull’ascoltatore, per andare ad analizzare poi i motivi di una tale impressione: in altre parole, si dà più spazio all’intuizione fisica e acustica, mettendo in secondo piano l’analisi degli eventi profondi, senza screditarne la funzione comunque importante ma conseguente ad una prima analisi che parta invece dalla superficie. Al contrario, l’autore si mostra altamente critico nei confronti dell’analisi della forma, specificando che all’atto pratico l’orecchio percepisce relazioni tra gli eventi musicali che sono del tutto differenti dalla mera catalogazione di primo o secondo tema. Agawu sostiene che una tale catalogazione delle forme inibisca l’analisi, imbrigliando le osservazioni dell’ascoltatore all’interno di schemi predefiniti. La volontà di raggruppare delle composizioni in macro-insiemi appiattisce l’individualità degli eventi presenti al loro interno, i quali verrebbero in questo modo semplicemente catalogati come eventi aderenti o meno a una norma prestabilita dalla teoria. Ciò svaluta tutti quegli strappi alle norme volutamente calcolati dal compositore, il quale, manomettendo un codice di regole condiviso, mira a giocare proprio con le aspettative dell’ascoltatore, sottolineando l’importanza di ciò che va oltre il testo e che è latente nella partitura e si realizza soltanto nel momento dell’ascolto. Ecco che cosa scrive l’autore: Eppure, ogni volta che si assegna una categoria come “forma sonata” a una composizione, non si riesce a fare a meno di sentire che in qualche modo si sta mentendo. […] dal punto di vista dell’ascoltatore, tali forme sono spesso eccessivamente determinate, inscritte troppo rigidamente; per questo bloccano l’accesso alla ricca esperienza del si8 9
RAYMOND MONELLE, The Sense of Music, cit., p. 11. KOFI AGAWU, Music as Discourse, cit., p. 7 (trad. mia). 120
LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU gnificato musicale. Le tendenze complesse e spesso contraddittorie del materiale musicale sono sottovalutate quando assegniamo loro delle etichette predefinite quali “primo tema”, “secondo tema” e “ricapitolazione”.10
Tale riflessione mette in evidenza l’assunto di base della teoria dei topics: l’ascolto è l’atto dal quale si può partire per individuare i punti salienti di una composizione musicale. Solo a seguito di una tale individuazione, si può procedere a comprendere gli eventi musicali, facendosi aiutare soltanto a questo punto da un’analisi maggiormente approfondita anche degli eventi profondi. In pratica, l’analisi ha la funzione di giustificare le reazioni dell’ascoltatore, ossia non si presenta più come un atto speculativo fine a sé stesso. Ne consegue che il livello da cui si parte, come già specificato, è il livello di superficie degli eventi, fatto abbastanza innovativo se si considera l’analisi schenkeriana, il cui punto di partenza – e di arrivo – è sempre e comunque il livello profondo, mentre al contrario il livello di superficie non viene affatto considerato. L’atto dell’ascolto consapevole viene insomma rivalutato quale primo vero approccio all’opera d’arte, ridimensionando di conseguenza anche il ruolo dell’analista, che in questo modo si estende a qualunque potenziale ascoltatore consapevole, ovviamente, degli stilemi e degli usi della musica a cui sta approcciando. Per riconoscere un topos, sia esso letterario o linguistico, è necessario possedere delle conoscenze riguardo ai valori condivisi dalla società che li utilizzava, poiché un topos si innesta in un contesto storico-culturale specifico, al di fuori del quale può assumere una connotazione completamente differente. Monelle spiega il concetto di topic musicale in maniera estremamente semplice: Il topic è una semplice affermazione riguardo al periodo storico a cui si riferisce, e le attività e le sensazioni associate a quel periodo, e a quel genere di persone che ne godono.11
La mancata conoscenza di questi elementi condivisi da compositori e ascoltatori sfocia di conseguenza nella mancata comprensione, rischio in cui si può facilmente incorrere quando si è molto distanti dalla società che ha prodotto quel determinato lavoro musicale. Come già specificato, Agawu si sofferma sul repertorio romantico e in ciò consiste la vera novità di questo libro poiché, con una tale mossa, l’autore cerca di identificare un principio unificatore all’interno di un repertorio da sempre connotato per la sua varietà. L’autore cerca dunque delle caratteristiche salienti, sia dal punto di vista strutturale che stilistico e in particolare si sofferma a rintracciare come la salienza viene costruita all’interno di un brano del repertorio romantico. Parlare di salienza significa ancora una volta rimanere nell’ambito percettivo e dunque sul piano delle strutture musicali superficiali, quelle cioè immediatamente percepite al momento dell’ascolto e alle quali si cerca di dare un senso in maniera istintiva. Agawu stesso
10 11
Ibid. RAYMOND MONELLE, Musical Topic cit., p. 3. 121
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definisce i topics come schemi per organizzare delle idee intuitive, che hanno bisogno però di essere approfondite con ulteriore ricerca e analisi: Insieme [i topics] facilitano l’esplorazione della dimensione immediatamente percepibile di una composizione del periodo romantico.12
All’interno del testo vengono rintracciati sei topics: parti iniziali, centrali e finali, climax e curva dinamica, periodicità, discontinuità e parentesi, speech mode, cantabile e danza e narrazione. Tali luoghi o gesti non sono certamente prerogativa esclusiva del repertorio romantico ma le modalità del loro utilizzo sono strettamente vincolate a questo repertorio: sebbene cioè esista – e volutamente – una continuità coi topics rintracciati da Ratner, Agawu aggiunge questi altri sei sopra elencati, specificando che nel repertorio romantico ogni autore utilizza tali luoghi in maniera peculiare, sviluppando un proprio personale idioletto e determinando la varietà di cui sopra. Nel citare Janice Dickensheets, Agawu esprime la sua personale adesione alla continuità tra il repertorio classico e quello romantico, sfatando il mito secondo cui classicismo e romanticismo si ritrovino agli estremi opposti nell’ambito della produzione musicale: […] l’autrice nota la persistenza, nel diciannovesimo secolo, di alcuni topics di Ratner, inclusi i tipi musicali di minuetto, giga, siciliana e marcia e gli stili musicali militare, di caccia, pastorale e fantasia; l’emergere di nuovi stili e dialetti; e la declinazione contestuale di vecchi topics per dare loro dei nuovi significati.13
Considerando i topics rintracciati da Agawu, ciò che chiaramente li accomuna è la volontà dell’autore di osservare la funzione musicale non in base al loro ruolo semantico ma in base alla loro tensione energetica, facilmente percepibile al momento dell’ascolto. Se si considerano in particolare i topics di climax, segmentazione in inizio, centro e fine, narrazione e periodicità, questi partono dal presupposto di una musica lineare e finalizzata verso un obiettivo; al contrario, principi quali discontinuità e parentesi prendono in considerazione l’aspetto non lineare del materiale musicale. Innanzitutto, bisogna specificare che un brano musicale è formato da un insieme di eventi in relazione tra loro sulla base di un prima e un dopo all’interno di una struttura; quando tale struttura è fortemente gerarchizzata, la segmentazione del flusso è facilmente ottenibile. Tale coesione del materiale musicale viene definita da Kramer14 e da Imberty15 linearità o continuità, la quale si verifica quando il rapporto di causaeffetto tra gli eventi è molto forte. In tali casi, l’ascoltatore è facilitato nella costruzione di una fitta rete di rapporti tra gli eventi:
12
KOFI AGAWU, Music as Discourse cit., p. 41 (trad. mia). JANICE DICKENSHEETS, «Nineteenth-Century Topical Analysis: A Lexicon of Romantic Topoi» in KOFI AGAWU, Music as Discourse, op. cit., p. 45. 14 Cfr. JOHNATAN D. KRAMER, Il tempo musicale in Enciclopedia della musica, Torino, Einaudi Editore, vol. II, 2002. 15 Cfr. MICHELLE IMBERTY, Continuità e discontinuità, in Enciclopedia della musica, Einaudi Editore, Torino, vol. II, 2002. 13
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LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU Ogni nuovo avvenimento, compreso e successivamente ricordato sotto l’influenza delle aspettative precedenti, implica anche gli eventi futuri. La linearità è quindi una complessa rete di implicazioni (nella musica) e di aspettative (nell’ascoltatore) che cambiano costantemente.16
In un contesto di linearità orientata, Lerdahl e Jackendoff17 introducono i concetti di tensione e distensione come principi regolativi del flusso musicale: quando il secondo evento è percepito come meno stabile del primo, allora la successione è sentita in tensione e viceversa, se il secondo elemento è percepito come maggiormente stabile, la successione è percepita in distensione. La non-linearità, invece, è determinata secondo Kramer da principi non lineari, ossia che non sono causati dal rapporto con altri eventi ma che sono immanenti e immutabili, riferendosi dunque all’entità stessa del brano musicale nella sua interezza e non all’aspetto del divenire. La non-linearità può essere determinata da fattori di vario genere, come ad esempio da segmenti musicali stazionari o da interruzioni frequenti all’interno di un contesto di linearità. In quest’ultimo caso, le attese correlate al forte grado di prevedibilità della musica lineare, vengono disattese, causando un senso di discontinuità. Si potrebbe dire, dunque, che tale tipo di discontinuità non è una caratteristica strutturale del brano ma è piuttosto determinata dall’assenza momentanea di linearità e dalle inferenze che l’ascoltatore determina da questa assenza. Si parla, quindi, non delle relazioni che si creano in presentia ma di quelle che invece si formano in absentia, ossia nella mente dell’ascoltatore; proprio come in linguistica si applica la distinzione tra asse sintagmatico e asse paradigmatico, distinguendo le relazioni tra gli elementi linguistici che si presentano nella realtà e quelle che potenzialmente sono previste dal parlante, così in musica Kramer introduce il concetto di tempo gestuale. La carica gestuale di un evento è forte e si riferisce ad un mondo di convenzioni riconosciuto dall’ascoltatore. Nella teoria dei topics come formulata da Agawu, si parte dalla concezione energetica e dinamica della musica del Romanticismo considerandone non solo la linearità ma anche e soprattutto la non-linearità. La volontà di ricercare nell’analisi dei punti di rottura piuttosto che di giunzione può sembrare perversa a primo acchito; nella realtà dei fatti però, la rottura degli equilibri esiste ed è ben percepibile all’orecchio dell’ascoltatore, anche in maniera molto evidente e dunque non può essere ignorata, sebbene si continui a mettere da parte nell’analisi ciò che spesso l’orecchio in primo luogo ci suggerisce. La destabilizzazione creata dai compositori in alcuni punti è strategica e si ricollega sempre e comunque a un mondo di inferenze, alle convenzioni musicali di un’epoca, ben inscritte nella mente dell’ascoltatore: se così non fosse, tali punti di rottura degli equilibri non verrebbero percepiti e invece spesso rappresentano i punti di salienza assoluti, perché scatenano la curiosità dell’ascoltatore, ridestandone l’attenzione. Con questa necessaria specifica, si considerino adesso i topics rintracciati da Agawu. Il primo su cui si sofferma è la segmentazione in parte iniziale, centrale e fi16
JOHNATAN D. KRAMER, Il tempo musicale cit., p. 145. FRED LERDAHL, RAY S. JACKENDOFF, A Generative Theory of Tonal Music, Massachusetts, MIT Press, 1983. 17
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nale di un brano, segmentazione abbastanza banale forse e certo non inventata dall’autore stesso, il quale però introduce un’interessante riflessione a riguardo. Siccome il suo punto di partenza è sempre e comunque l’ascolto, lui distingue tra il livello locativo e il livello funzionale di questi luoghi, specificando come sebbene a livello strutturale questi tre luoghi possano essere identificati in maniera semplicissima, non sempre la loro funzione corrisponde alla loro collocazione: ossia, non sempre un segmento iniziale ha funzione di inizio e lo stesso dicasi per il centro e la fine. Secondo una tale concezione quindi, l’inizio non è ciò che è collocato in apertura ma il materiale che ha funzione introduttiva al brano; ugualmente il centro non è ciò che si colloca subito dopo l’inizio ma è tutto il materiale che adotta le strategie retoriche del ritardo e del rinvio; la fine poi, non è obbligatoriamente l’ultimo evento musicale che si ascolta ma quel materiale musicale che ha forza conclusiva. In base a tale assunto, il livello locativo e quello funzionale non sempre coincidono e Agawu sottolinea la propensione a rintracciare il secondo, piuttosto che il primo, in quanto solo in questo modo possono essere spiegate le reazioni e le percezioni uditive dell’ascoltatore. Non è un caso infatti, se il compositore, perfettamente consapevole di una tale banale distinzione, decide di non far coincidere i due livelli e dunque un’analisi accurata deve tenere ben conto di una tale scelta autoriale, dandole il giusto peso. Una simile differenza però, può essere percepita soltanto a livello uditivo e dunque, ancora una volta, l’analisi serve come spiegazione alle reazioni dell’ascoltatore e non in quanto mera speculazione. Sulla stessa linea si colloca il parametro del climax, una figura retorica che consiste nell’ordinare le parti di un discorso in ordine crescente di valore e di forza. Stiamo parlando ancora una volta di un evento di superficie, poiché l’ascoltatore riesce a percepirlo in maniera istintiva, come un’esperienza memorabile e un punto di demarcazione, un luogo di «puro piacere viscerale».18 I climax sono categorizzati da Agawu come degli elementi superficiali fondamentali, dai quali ha inizio la ricerca del livello profondo, ossia è per spiegare i climax che l’analisi profonda deve avere inizio e non viceversa. La curva dinamica è il modo più immediato di rappresentare un climax all’interno di un’opera; anche in questo caso, però i soliti parametri di costruzione del climax – secondo cui dovrebbe presentarsi soltanto ad un certo punto del brano e dovrebbe essere adeguatamente preparato – potrebbero non essere rispettati, contravvenendo alle attese dell’ascoltatore. L’approccio allo studio del climax dipende dall’autore e dal contesto ed è per questo che una tale indagine non ha riscosso un grande successo: Occuparsi dei climax significa occuparsi della forma come un insieme. Uno dei motivi per cui questo particolare criterio di analisi non si è diffuso tra i circoli teoretici americani è che i parametri costituenti non possono essere specificati in anticipo. Piuttosto l’analista deve occuparsi delle forme sonore all’interno di ogni singolo contesto. Fare questo, credo, significa prendere più in considerazione la musica piuttosto che ciò che emerge da una modalità di analisi confinata, diciamo, al voice-leading o ai processi
18
Kofi Agawu, Music as Discourse, cit., p. 61 (trad. mia). 124
LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU ipermetrici. Significa guadagnare l’accesso ai confini peculiari del livello di superficie.19
Per quel che riguarda invece il topos della periodicità, questo implica la caratteristica intrinseca del materiale musicale a poter essere strutturato in unità più piccole. Le unità formali di un brano sono percepibili all’ascolto ed è di questa scansione temporale che Agawu parla: come specificato in precedenza, l’autore non fa riferimento alla Formenlehre ma a ciò che l’orecchio riesce a cogliere. Agawu invita a una nuova riflessione sulla forma, chiede agli analisti di non adottare la teoria della forma come un approccio sovradeterminato ma di considerarne le potenzialità al momento dell’ascolto. Istintivamente, un ascoltatore della musica romantica possiede già la capacità di intuire la periodicità di un’opera, anche a livello meramente corporeo; l’ascoltatore è altrettanto cosciente di quando questa periodicità viene elusa, tradita ma gli studi sulla musica romantica ignorano, ancora una volta, tali procedimenti. Agawu invita il lettore a considerare la musica romantica non soltanto nelle sue regolarità ma soprattutto nelle sue irregolarità, soffermandosi sulle conseguenze che queste adducono alla forma: L’enfasi analitica, quindi, non dovrebbe essere sugli antecedenti e conseguenti, sulla giusta o sbagliata strutturazione delle sentences, o sull’adesione o meno di una sonata a una forma prestabilita, sebbene queste osservazioni possano essere di aiuto negli stadi iniziali dell’analisi. L’enfasi dovrebbe essere piuttosto sul senso che si nasconde dietro ai gesti musicali, la tendenza del materiale a rimanere aperto o chiuso o la sua predilezione a rifiutare entrambe le tendenze e rimanere sospeso tra tali caratteristiche.20
A proposito di periodicità interrotta, Agawu si sofferma anche sui topics di discontinuità e parentesi, contravvenendo alla regola non scritta di rintracciare sempre l’equilibrio all’interno di una composizione, specialmente se di un determinato periodo storico. Per secoli si è cercato, infatti, di indagare la musica in maniera derivazionale, facendo del pensiero organicista il motore di ogni ricerca. Ciò ha chiaramente limitato ogni riflessione sulla non-linearità e sebbene fosse più che lecito rintracciare nella musica del periodo classico o contemporaneo dei punti di cesura, dove idee o gesti musicali si presentano in voluto contrasto, per la musica romantica questa riflessione ha faticato a innestarsi all’interno della prospettiva analitica. Agawu scrive: Infatti, si potrebbe sostenere che cercare di dimostrare un’assenza di connessioni è un atto perverso. L’analista semplicemente non avrà provato con abbastanza impegno (o non è attrezzato in maniera adeguata) per scoprire fonti di connessione. E con questo impegno verso il metodo piuttosto che verso le peculiarità di un dato lavoro d’arte, gli analisti sottovalutano ciò che talvolta dovrebbe essere un principio strutturale centrale.21
19
Ivi, p. 65. Ivi, p. 77. 21 Ivi, p. 93. 20
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ANTONELLA D’ARGENIO
L’impegno verso il metodo oscurerebbe una peculiarità, rappresentata proprio dalla discontinuità, un elemento che, collocandosi in opposizione, diventa naturalmente saliente, rompendo col principio di continuità. Un tipo particolare di discontinuità è la parentesi, un surplus, qualcosa di eliminabile dal discorso eppure portatore di significato e del tutto indispensabile. Infatti, sebbene le parentesi musicali siano facilmente eliminabili, la loro cancellazione impoverisce a tal punto l’ingegnosità del discorso musicale da renderlo banale e privo di interesse. Infine, si considerino gli ultimi due topics di Agawu, i modi di enunciazione e la narrazione. L’autore rintraccia tre modi di enunciazione, i primi due derivati dal canto, ossia lo speech mode e il cantabile, il terzo invece peculiare del repertorio strumentale, ossia il danzato. Questi tre modi non si presentano in maniera distinta all’interno delle composizioni musicali ma si mescolano tra di loro; forniscono solo uno schema attraverso il quale osservare un’opera musicale ma, come spesso accade, non sono sufficienti a categorizzare o suddividere tutti gli elementi presenti all’interno di un certo lavoro. Col topos della narrazione, infine, Agawu sembra allontanarsi dal dettaglio dell’opera, per risalire a considerarne tutta la sua interezza. Innanzitutto, si conferma l’idea secondo cui la musica è arte che si dispiega nel tempo: una narrazione, infatti, è composta da eventi in successione. Secondariamente, l’idea secondo cui la musica possa raccontare coerentemente qualcosa si accorda con il desiderio, del tutto innato nell’essere umano, di voler spiegare qualunque fenomeno. Perciò, l’interpretazione nasce spontanea nell’ascoltatore, il quale abbina la musica alla narrazione proprio per il suo carattere spiccatamente temporale. Tuttavia, se da un lato si cerca di affidare alla musica un tale ruolo, dall’altro si tenta di svincolarla da questo legame, poiché la musica si esprime su un piano differente da quello delle parole. Adorno parla di narrazione non narrativa, ossia di una sequenza temporale sistematicamente organizzata, dalla quale però è difficile ricavare un filo conduttore. A prescindere da significati estrinseci, è innegabile che ogni analista si avvicini ad una composizione considerandone l’aspetto in divenire e tale prospettiva dinamica, secondo cui gli eventi si susseguono in rapporti di tensione e distensione, è in sé una forma di narrazione. Lo spostamento da una tonalità all’altra, oppure ancora il ritorno tematico, sono interpretati come eventi con un loro significato intrinseco, che si dispiegano per assecondare un certo progetto narrativo del compositore. Affidare un significato extra-musicale a tale tipo di narrazione è prerogativa di quelle composizioni quali i poemi sinfonici ad esempio, ma in questi casi, scrive Agawu, si tratta piuttosto di persuadere l’ascoltatore, siccome è una vera e propria finzione voler pretendere che la musica narri ciò che le parole esprimono. Trovare una narrazione di questo genere all’interno della musica è opera di persuasione messa in atto dall’ascoltatore stesso. Agawu, dunque, intende per narrazione non la capacità della musica di raccontare una storia, bensì la sua capacità di dipanare eventi strettamente musicali che si dispiegano in successione e che stanno tra loro in una qualche relazione di continuità o rottura.
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LA TOPIC THEORY DAL PUNTO DI VISTA DI KOFI AGAWU
Come si è potuto osservare, il lavoro di tesi qui esplicato ha avuto l’obiettivo di entrare nei dettagli della personale teoria dei topics di Agawu, soffermandosi però soprattutto sull’esclusiva visione che questo approccio ha della musica, dell’evento musicale ma soprattutto dell’atto dell’ascolto. Con questa tesi si intende aprire ad altre riflessioni sui topics e sulla loro applicazione, magari a un repertorio differente da quello romantico o classico, dando spazio a un nuovo tipo di analisi anche del repertorio del ’900. Si è riflettuto brevemente in questa tesi anche su un altro progetto di analisi altrettanto interessante, ossia quello promosso dal Laboratoire Musique et Informatique de Marseille che si propone di rintracciare il significato di unità morfologiche musicali all’interno però della musica elettronica sempre partendo dall’ascolto, servendosi di parametri psico-acustici e psico-percettivi. Tale riflessione è scaturita da una somiglianza tra gli obiettivi della topic theory delle Unité Sémiotique Temporelles, nonostante le due teorie si siano sviluppate in momenti e in ambienti lontani. Sarebbe interessante, come spunto futuro, analizzare in maniera più profonda le possibili declinazioni e combinazioni delle due teorie su un repertorio differente come quello della musica elettronica o comunque del Novecento. Tuttavia, nella tesi discussa si è offerto solo un primo approccio a un tale collegamento, come input per ricerche future, auspicando l’elaborazione di nuove idee e nuove intuizioni, necessarie per approcciarsi al mondo nient’affatto statico dell’arte musicale.
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Giovanni Molinaro IL BAYAN: UN’INDAGINE STORICO-ORGANOLOGICA Premessa Questa ricerca ha preso in esame uno dei primi modelli di diatoniche a mantice apparsi in Austria negli anni venti dell’Ottocento e ne ha delineato il percorso storicoorganologico fino ad approdare al bayan contemporaneo inteso come fisarmonica da concerto oggi adottata nei Conservatori italiani. Il lavoro ha anche tenuto conto del cambiamento riguardante la letteratura musicale che, dalla nascita dell’accordion (o fisarmonica diatonica) fino al bayan attuale, ha subito molte variazioni a seconda del luogo o delle possibilità dello strumento. Indagare su uno strumento musicale così mutevole nel suo percorso storico, nella sua forma, nelle sue componenti meccaniche interne e nel suo utilizzo, è stata una impresa laboriosa ma entusiasmante. Alla fine questa ricerca rappresenta un serio approfondimento sul processo tecnologico che ha interessato questi tipi di strumenti facendo chiarezza su come le sue due tastiere possano avere avuto un’evoluzione totalmente differente. Ad un certo punto le continue innovazioni hanno fatto si che l’accordion, poi diventato fisarmonica, abbia varcato il confine musicale per il quale era stato concepito: produrre una melodia accompagnata. Nel tempo l’incremento di possibilità armoniche e melodiche su questi strumenti è stato costante. Botteghe di artigiani costruttori di diatoniche nascono prima in tutta Europa e subito dopo anche nel continente americano. Molti praticanti richiedevano agli artigiani delle modifiche per avere più possibilità armoniche e tonali. Il risultato è stato una diffusione frastagliata di modelli differenti che in pochi anni ha avuro una diffusione globale. Le diatoniche hanno fatto ‘proprio’ il repertorio popolare e in alcuni casi hanno affiancato altri strumenti popolari o addirittura sostituito. Alcune caratteristiche della fisarmonica diatonica sono state determinanti per la sua enorme diffusione. La semplicità con la quale poteva essere suonata è una di queste. Non erano richieste nozioni musicali di alcun tipo. Un altro elemento chiave è stato sicuramente la portabilità. Poi nella sua semplicità era possibile accompagnare una melodia con i due accordi presenti alla tastiera sinistra. Tra i primi paesi costruttori di diatoniche e successivamente di fisarmoniche abbiamo proprio l’Italia che, da un lato ha dato prova di grande sapienza artigianale e poi di produzione industriale di grande qualità, dall’altro non ha saputo interpretare al meglio le possibilità sonore che si nascondevano in questi strumenti. Ciò si è verificato altrove, infatti nella seconda metà del XX secolo dai paesi dell’est è arrivato il bayan, un modello di fisarmonica da concerto che ha avuto un’evoluzione differente causata dall’isolamento culturale della ex Unione Sovietica. L’analisi ha quindi abbracciato, nel tempo e nello spazio, due secoli di evoluzione tecnologica che hanno trasformato questo ‘giocattolo’ musicale in uno strumento completo e capace di suonare a quattro voci direttamente dalle partiture dell’organo. 129
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Lo sviluppo della sua letteratura musicale e le sue possibilità timbriche hanno cominciato ad incuriosire compositori importanti, anche quelli dell’avanguardia musicale post anni ’50 del Novecento. Compositori come Sofia Gubajdulina hanno preferito il bayan ad altri strumenti per creare un repertorio di musica contemporanea che sfrutterà effetti sonori e percussionistici non previsti nemmeno dai costruttori. Sebbene in ritardo nei confronti degli altri strumenti dell’orchestra, il bayan ha in parte colmato il gap culturale che la caratterizzava. Si ha così, agli inizi degli anni Novanta il riconoscimento istituzionale in Italia. Il Conservatorio infatti ha accolto il bayan nel suo ordinamento didattico. Il retaggio di uno stile strumentale prettamente folklorico ha inizialmente frenato la sua svolta classica, soprattutto nel nostro paese. Le risorse bibliografiche prese in considerazione, molte di autori stranieri, sono state tutte valutate adeguatamente tenendo conto sia dell’autorevolezza degli autori che della datazione delle stesse. Inoltre una parte della ricerca è stata svolta sul campo. Mi sono personalmente recato a Castelfidardo dalla ditta “Pigini Accordions” che è risultata essere la prima ad accogliere la fisarmonica bayan dai paesi dell’est e quindi a produrre il primo bayan italiano. Ho avuto la possibilità sia di incontrare maestri artigiani e di intervistare il dirigente Massimo Pigini. Tale esperienza è stata fondamentale per fare chiarezza sui metodi di costruzione che sono rimasti inalterati e su quelli innovativi da poco intrapresi. Castelfidardo, nelle Marche, risulta essere un luogo in cui la tecnologia si è legata ad un artigianato ormai secolare. Diversi musicologi e organologi sono d’accordo nell’attribuire la nascita della fisarmonica al suo stesso principio sonoro, cioè l’ancia libera. Ciò ci riconduce inesorabilmente al 2700 a.C., periodo in cui nell’antica Cina esisteva lo sheng, un organo a bocca portatile, diffuso in tutto il medio oriente con nomi e forme diverse, costituito da canne di bambù nelle quali vi erano ance che vibravano liberamente.1 Non è chiaro il momento in cui questo strumento sia arrivato in Europa anche se viene citato sia ne Il Milione di Marco Polo sia nel Syntagma Musicum di Michael Praetorius al secondo volume intitolato De Organographia.2 I perfezionamenti tecnico-costruttivi che hanno interessato i progenitori del bayan in realtà sono cominciati subito dopo un brevetto di un piccolo strumento portatile a mantice brevettato a Vienna del 1829 da Cyril Demian (1772-1847), costruttore viennese di organi. Uno strumento quasi giocattolo a due tastierine (5 note alla tastiera destra e dua accordi alla sinistra) chiamato accordion (nome che attualmente viene ancora usato per la fisarmonica in buona parte dei paesi europei) ad ance libere fatte vibrare dalla pressione d’aria generata da un mantice messo in pressione dal braccio umano. L’accordion di Demian produceva due suoni per ogni tasto per cui veniva definito “bitonico”, a seconda della direzione del mantice ed era impostato in una sola tonalità. Da qui la possibilità di poter produrre una melodia accompagnata che da subito permise all’accordion e a tutte le varianti successive di rivestire un ruolo impor1
DANIEL JOURQUETTE-JEAN PAUL BRIGEL, L’accordèon du XVIII au XX siècle, Germania, Hohner France, 1986, p. 11. 2 PAOLO PICCHIO, La fisarmonica da concerto ed il suo repertorio, Ancona, Brillarelli, 2004, p. 12.
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tante nell’acquisizione dei repertori popolari di molti paesi, prima europei poi extraeuropei. L’apporto di soluzioni tecniche per migliorare la fisarmonica diatonica, o ‘armonica a mantice’ (così nell’Ottocento veniva chiamata in Italia), era continuo. Non vi era una linea standard degli strumenti e ogni suonatore richiedeva piccole modifiche all’artigiano di turno, dando così vita a nuovi modelli e nuovi brevetti. Questo auspicato ‘miglioramento’ serviva, nella maggior parte dei casi, ad andare oltre l’unica tonalità che lo strumento permetteva. Sono questi i motivi principali che hanno tenuto lontano la fisarmonica diatonica dalla ‘musica seria’ nel XIX secolo. Un esempio di strumento che invece è stato accettato sin dalla sua origine come ‘strumento serio’ è l’armonium, che apparteneva comunque alla stessa famiglia della diatonica per il principio dell’ancia libera. Dal 1840, epoca della sua invenzione da parte di Alexandre-François Debain (1809-1877), l’armonium fece irruzione nel mondo della musica classica perchè rispondeva alle esigenze dei musicisti di avere uno strumento a tastiera in grado di produrre dinamiche. Ciò è avvalorato dal fatto che, insieme al pianoforte, è stato uno dei primi strumenti a tastiera ad essere prodotto industrialmente. Fu da subito incluso nei Conservatori e furono numerosi i compositori che scrissero musica per armonium. La fisarmonica diatonica, invece, ottiene una importante diffusione mondiale per via della sua portabilità, il suo prezzo accessibile, le sue dimensioni, la possibilità di accompagnare la melodia con bassi e accordi, la facilità con cui era possibile impararla, ma nel campo della musica popolare e folklorica.3 Recenti studi musicologici hanno fatto luce sulle prime armoniche a mantice nell’Italia del XIX secolo e soprattutto sul primo metodo scritto per fisarmonica diatonica, pochi anni dopo dal primo brevetto del 1929. Queste fonti provengono dal “Fondo Musicale Giuseppe Greggiati” della Biblioteca Comunale di Ostiglia nel mantovano. Negli anni dopo la morte del Greggiati questo archivio, che contava circa settecento volumi, ha rischiato di andare perso in quanto poco valorizzato e trasferito in siti poco adatti alla corretta conservazione. Fortunatamente negli anni Ottanta del Novecento è stato schedato dalla dottoressa Mariangela Donà (1916-2017), che curò la sezione dei manoscritti, e da Claudio Sartori (1913-1994),4 che curò le edizioni a stampa, entrambi facenti parte dell’“Ufficio Ricerca Fondi Musicali” presso il Conservatorio di Milano. Giuseppe Greggiati (1793-1866) nacque ad Ostiglia nel 1793. Egli, provenendo da famiglia benestante, fece studi ecclesiastici e musicali divenendo organista nella chiesa di Quistello a Mantova. Divenne sacerdote e insegnò nella scuola elementare maggiore maschile di Mantova fino al 1846. La sua passione per la musica e per documenti musicali lo portò a migliorare le armoniche a mantice dell’epoca e a scrivere un metodo didattico che in quel periodo risultò più che innovativo. Il motivo fu che, all’atto di acquistare un’armonica a mantice a Vienna, non trovò metodi didattici 3
http://www.gorkahermosa.com/web/img/publicaciones/Hermosa%20%20The%20accordion%20i n%20the%2019th.%20century.pdf (ultima consultazione 26 luglio 2019). 4 ILARIA NARDI-CORRADO ROJAC, 1839 la fisarmonca di Giuseppe Greggiati, Spoleto, Edizioni Ars Spoletum, 2012, p. 5.
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adeguati, percui decise di scriverne uno egli stesso.5 All’epoca la scrittura musicale adottata per le armoniche a mantice era la Griffschrift che consisteva nel numerare tutti i tasti del manuale destro. In questo caso lo spartito era composto da numeri, e non da note, e dalle indicazioni del verso del mantice. Questo sistema di scrittura è in uso ancora oggi per gli organetti.6 Giuseppe Greggiati scrisse il Metodo per Armonica a Mantice che fu un’opera molto diversa dalle coeve perchè veniva affrontata per la prima volta la tematica della “tecnica esecutiva” cosa del tutto innovativa per questo strumento. Questa preziosa opera autografa conteneva descrizioni particolareggiate dello strumento oltre che lezioni di tecnica strumentale e centinaia di brani musicali scritti con note e non con numeri. Grazie a questo metodo è stato possibile replicare (2015) il modello dell’armonica a mantice posseduta dal Greggiati, in una sala della biblioteca dove è conservato attualmente il fondo ostigliese. La stesura del metodo ebbe inizio il ventirè aprile del 1842 e venne portata a termine il ventotto agosto dello stesso anno. Non essendo un commerciante di strumenti, Giuseppe Greggiati ricercava soprattutto l’espressione artistica, e si prodigò intensamente per raggiungere tal fine. Colui che intendeva imparare l’armonica doveva primariamente istruirsi nella teoria musicale, una visione professionale alquanto dissimile dalla concezione molto più pratica di quell’epoca. Le preziose informazioni contenute nella prefazione del metodo sono frutto di grande passione e sensibilità musicale. Dalla trattazione del Greggiati si evince che la fisarmonica diatonica fu presente in Lombardia già dal 1833 e che la prima utenza fu la borghesia, contrariamente a quanto si pensasse. Si presume quindi che la diffusione dell’armonica a mantice presso gli altri ceti sociali sia avvenuta in un secondo momento.7 La valenza del metodo di Greggiati risulta importante anche per capire nel dettaglio che tipi di strumenti a mantice fossero usati all’epoca. Egli descrive armoniche bitoniche con due file di bottoni al manuale destro, una di undici (quella esterna) e una di dieci (quella interna) e aventi quattro ‘chiavi’ (bottoni) al manuale sinistro per i bassi e accordi. Queste producevano il suono fondamentale e l’accordo «Alla prima e alla quinta del Modo», quindi tonica e dominante più i relativi accordi maggiori a seconda della direzione del mantice. Al fine di ampliare le loro possibilità armoniche e melodiche, Greggiati amplia la gamma dei suoni di questo strumento tramite l’ausilio di artigiani locali e fa aggiungere alla tastiera sinistra bassi e accordi per le armonie di quarto terzo e sesto grado e alla tastiera destra riesce a raggiungere le tre ottave di estensione (vedi fig. 1).
5
NARDI-ROJAC, 1839 la fisarmonica cit., p. 14. ALEKSI JERCOG, La fisarmonica: organologia e letteratura, Treviso, Edizioni Musicali Phisa, 1997, p. 58. 7 NARDI-ROJAC, 1839 la fisarmonica cit., p. 15. 6
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Fig. 1 - L’armonica a mantice sviluppata dal Greggiati
La descrizione delle modifiche è molto dettagliata e lo è anche per quanto riguarda la notazione. Avendo la particolarità di produrre due suoni per ogni bottone l’armonica ha bisogno, di conseguenza, di una scrittura che indichi la direzione del mantice a seconda del suono desiderato. La soluzione fu data dal gambo delle note; quelle col gambo verso l’alto indicavano l’apertura del mantice e quelle verso il basso la chiusura. Inoltre, le note nere indicavano la fila di bottoni interna e quelle bianche la fila esterna della tastiera destra.8 Minuziose sono anche le descrizioni delle parti interne dello strumento; si apprende che le ance metalliche erano in lega di rame, zinco e nichel, detta Packfong, oggi detta Alpacca. Le ance dei bassi invece erano di ottone e di dimensioni maggiori. La valvola per la fuoriuscita dell’aria dal mantice veniva chiamata ventilatore. Alla tastiera sinistra Greggiati fece aggiungere delle chiavi producenti basso e accordo contemporaneamente e un altro tasto che dava un accordo incompleto per essere utilizzato in diverse relazioni armoniche. La scrittura utilizzata era nella tonalità di Do maggiore per ottenere le condizioni di lettura ottimali. Ovviamente il risultato tonale veniva dato dalla tonalità dello strumento utilizzato. La numerazione delle dita è di estrazione pianistica o organistica; venivano numerate con il primo dito del pollice al quinto dito del mignolo. Questa diteggiatura risultava avanzata per l’epoca visto che solitamente il pollice veniva bloccato tramite un’asola (vedi figura 2) posta al lato di dietro della tastiera destra.
8
NARDI-ROJAC, 1839 la fisarmonica cit., pp. 13-14.
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Fig. 2 - Bloccaggio del pollice. Alla mano sinistra si scorge il “ventilatore”
Questa importante opera autografa per armonica a mantice risulta essere un precursore assoluto in Italia per quanto riguarda la didattica della fisarmonica che sarebbe apparsa nello scenario musicale di li a poco. A Giuseppe Greggiati va dato il grande merito di aver posto le basi per la risoluzione delle problematiche estetico-esecutive di uno strumento nato da poco e quindi senza didattica e senza musica originale. Tutto il XIX secolo è stato caratterizzato da una grande quantità di versioni di strumenti a mantice ad ancia libera e per questo non è facile tracciare una linea diretta che identifichi il percorso dei reali predecessori della fisarmonica e quindi del bayan. Come nel caso di Greggiati le diatoniche venivano modificate a seconda delle esigenze stilistiche e del grado di istruzione musicale del praticante. In questo periodo oltre alle diatoniche ebbero fortuna altri strumenti ad ancia libera come l’Armonium, l’Armonica a bocca, il Bandoneòn e la Concertina. I centri che per primi ebbero vocazione artigianale nell’Ottocento furono Parigi (Francia); Klingental e Trossingen (Germania); Tula (Russia); Castelfidardo (Italia).9 I primi brevetti di fisarmonica a bottoni alla tastiera destra, con bassi ed accordi precomposti alla tastiera sinistra, spettano al costruttore di fisarmoniche diatoniche Paolo Soprani (1844-1918). Questo artigiano marchigiano ha il merito di aver creato l’industria della fisarmonica in Italia. È nel 1897 che Paolo Soprani deposita a Parigi un brevetto per fisarmonica a ‘bottoni’ (all’epoca detta ‘cromatica’) con bassi ‘standard’.10 Questo brevetto rappresenta un passaggio importante. Da uno strumento diatonico si passa ad uno strumento unisonico. Vale a dire che mentre nell’accordion ogni tasto produceva due suoni diversi a seconda della direzione del mantice, nella fisarmonica il suono era unico per ogni tasto, sia che si aprisse o che si chiudesse il mantice. La tastiera destra era a bot9
http://www.gorkahermosa.com/web/img/publicaciones/Hermosa%20-%20The%20accordion%20 in%20the%2019th.%20century.pdf (ultima consultazione 26 luglio 2019). 10 http://www.gorkahermosa.com/web/img/publicaciones/Hermosa%20-%20The%20accordion%20 in%20the%2019th.%20century.pdf (ultima consultazione 26 luglio 2019).
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toni disposti su tre file contenenti tutti i toni e semitoni. La tastiera sinistra ‘standard’ era dotata di una particolare meccanica interna che la divideva, dal punto di vista funzionale, in due sezioni: due file di bassi ‘pedale’ più gravi e quattro file di accordi ‘precomposti’: ogni bottone conteneva tre suoni formanti accordo maggiore, minore, settima di dominante e settima diminuita (gli accordi principali dell’armonia tonale). La tastiera sinistra inoltre era composta da centoventi bottoni divisa in sei file da venti pulsanti ciascuno ad angolo crescente verso il mantice. Una disposizione per un accompagnamento armonico-ritmico che perfettamente ha sposato il repertorio tradizionale e folkloristico di tutti i paesi europei ed extra-europei (vedi figura 3).
Fig. 3 - Brevetto di Fisarmonica cromatica (oggi detta “a bottoni”) del 1897 di Paolo Soprani
Questa fisarmonica era chiamata fisarmonica cromatica a bassi standard o anche sistema ‘Stradella’.11 Vale la pena sottolineare che la fisarmonica diatonica come anche la fisarmonica di Paolo Soprani sono strumenti che sono arrivati ai giorni nostri in quanto non vi è stata una sostituzione (ipotizzando che l’uno sia il progenitore dell’altro). Le diatoniche hanno continuato a suonare semplici melodie e la fisarmonica ha iniziato un percorso musicale più ampio perché adatta ad esprimersi in tutte le tonalità. Innumerevoli sono state le trascrizioni da opere famose e le composizioni di musica da ballo per fisarmonica e la necessità di un repertorio dedicato inizialmente era avvertita solo da pochi. Una grande diffusione ma con il limite di non poter entrare a far parte del mondo della musica colta per la tastiera sinistra vincolata al semplice accompagnamento. I paesi che daranno il maggior contributo per la svolta classica della fisarmonica saranno la Germania, la Scandinavia e la Russia. Nello stesso periodo storico del brevetto di Paolo Soprani, in Russia, il costruttore artigiano di fisar11
http://www.comune.stradella.pv.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/432 (ultima consultazione 26 luglio 2019). 135
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moniche diatoniche Nikolaj Ivanovicic Beloborodov (1828-1912)12 diviene il pioniere delle prime fisarmoniche a bottoni creando i presupposti che porteranno al bayan. Purtroppo, per un lungo periodo, il bayan sarà limitato solo a quell’area geografica in quanto l’ideologia comunista non favoriva scambi culturali con i paesi capitalisti nè tantomeno il divulgarsi di strumenti prodotti in occidente con sistemi tecnici diversi. Ciò fece sì che i metodi di costruzione del bayan si sviluppassero separatamente rispetto al resto d’Europa. Si passa, sia in Russia che in Italia, da una produzione di fisarmoniche diatoniche (cioè basate su toni e semitoni nella tastiera destra) e bitoniche (producenti note diverse a seconda della direzione del mantice) ad un sistema unisonoro (avendo quindi a disposizione tutti i suoni in sequenza cromatica con lo stesso suono sia in apertura che in chiusura del mantice). Siamo agli inizi del Novecento e ai fisarmonicisti cominciava a non bastare una tastiera sinistra che poteva solo accompagnare la melodia e cominciarono molti tentativi per ottenere note singole che sostituissero l’accompagnamento armonico ritmico dei bassi. Importanti traguardi nella ricerca tecnica vengono fatti in Germania a Trossingen dalla ditta costruttrice di strumenti musicali Hohner.13 In quest’area verranno prodotti già dal 1912 tipologie di fisarmonche con nove file di bottoni alla tastiera sinistra denominata ‘bassetti’ (vedi figura 4).
Fig. 4 - Esempio di fisarmonica sistema ‘bassetti’
Le sei file di bassi standard con l’aggiunta di tre file di bassi a note singole riuscivano a ricoprire un’estensione di quattro ottave.14 Chi intraprendeva lo studio dei bas12
JERCOG, La fisarmonica cit., p. 97. Ivi, p. 99. 14 Ivi, p. 81. 13
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si singoli non voleva perdere i vantaggi della tastiera standard per cui i costruttori escogitarono un modo per combinare tutto in un'unica tastiera. La soluzione dei bassetti faceva sì che si avessero a disposizione entrambi i sistemi contemporaneamente ma sul piano pratico costringeva il braccio sinistro ad allungarsi troppo per raggiungere note non vicinissime. Sarà comunque questo il modello di fisarmonica che si affermerà in Europa nella prima metà del XX secolo nell’ambito fisarmonicistico colto. Gli sforzi fatti dalla ditta Hohner per ottenere uno strumento non solo destinato a semplici melodie o trascrizioni, ma che potesse eseguire musica contrappuntistica e d’avanguardia, sono andati oltre cercando di creare i presupposti per una letteratura originale, andando incontro alle esigenze concertistiche di molti esecutori. La necessità primaria era quella di poter eseguire melodie su diverse altezze anche con la mano sinistra. Trossingen diventa un centro importante per gli strumenti a mantice e dagli anni Trenta del Novecento per quanto riguarda l’organizzazione didattica.15 Già nel 1931 troviamo lo studio della fisarmonica in istituzioni statali come la “Stadtische Musikschule”16 e, cosa importante, si comincia a produrre una letteratura originale per fisarmonica che tiene conto delle sue peculiarità tecniche e foniche. Verranno prodotti i primi studi specifici che tratteranno dell’utilizzo del mantice e del tocco sulle tastiere che ancora oggi costituiscono materiale di riferimento di notevole utilità. Una figura determinante di questo periodo risulta essere Ernst Hohner (1886-1965), presidente della ditta costruttrice Hohner che nacque nel 1903 a Trossingen come azienda produttrice di fisarmoniche diatoniche. Egli fu un convinto sostenitore di una nuova musica per fisarmonica. Solo la nascita di un repertorio dedicato poteva allontanare la fisarmonica dalla sua connotazione di strumento popolare e dilettantistico con un progressivo inserimento nella musica colta. Grazie ai suoi contatti con importanti didatti e compositori egli si impegna a far scrivere musica originale per fisarmonica classica; un lavoro di sensibilizzazione nei confronti dei compositori che si è rivelato fondamentale. Musicisti come Hugo Herrmann (1896-1967) si prodigano alla composizione e alla trattazione della fisarmonica come strumento classico pur non potendosi basare su trattazioni tecniche, musicali ed interpretative in campo fisarmonicistico. Hugo Hermann definirà la fisarmonca classica come “materia nuova” e comporrà quella che sarà definita la prima composizione per musica colta originale per fisarmonca da concerto:17 Sieben neue Spielmusiken, anno 1927. In totale furono prodotte oltre duecentocinquanta opere per fisarmonica solista, musica da camera e concerti per fisarmonica e orchestra. Oltre Hugo Herrmann contribuirono a questo rinnovo della letteratura musicisti come Hans Brehme (1904-1957) e Wolfgang Jacobi (1894-1972), creando il primo repertorio per musica colta originale per fisarmonica.18 In questo periodo è il 15
Alla fine sarà la didattica sovietica ad ottenere i migliori risultati e ad essere la più valida a livello mondiale. Ciò si rivelò in pieno dopo gli anni Settanta. 16 PICCHIO, La fisarmonica cit., pp. 148-149. 17 JERCOG, La fisarmonica cit., pp. 99-100. 18 http://www.gorkahermosa.com/web/img/publicaciones/Hermosa%20-%20Brief.pdf (ultima consultazione 26 luglio 2019).
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jazz ad essere il genere predominante negli Stati Uniti e il genere musette in Francia; l’Italia, legata al genere popolare, purtroppo si adeguerà molto tardi a questi cambiamenti in quanto si registrano pochi tentativi di innovazione riguardo al repertorio. Bisognerà aspettare il D.M. del 13 aprile 1992 e l’anno scolastico 1993-1994 per vedere istituzionalizzato questo strumento. Al contributo della scuola di Trossingen si affianca, un trentennio più tardi, quello della scuola scandinava. Importante risulta essere un evento dal quale scaturirà una nuova fase per la letteratura classica per fisarmonica. Avviene nel 1957 a Copenhagen, in Danimarca. Durante un concerto del fisarmonicista danese Mogens Ellegaard (1935-1995) siede tra il pubblico il compositore e direttore d’orchestra danese Ole Schmidt (1928-2010) che dopo il concerto avvicina l’esecutore stimolato dalla sua bravura e interpretazione. Ole Schmidt, convinto da Ellegaard, compone Symphonic Fantasy and Allegro op. 20 per fisarmonica e orchestra da camera nell’anno 1958. Questo brano è considerato dal mondo fisarmonicistico la prima prova delle qualità musicali della fisarmonica.19 Mogens Ellegaard darà vita ad una lunga serie di collaborazioni con altri compositori scandinavi e nel 1980 redigerà un elenco di ben centoventi composizioni originali per fisarmonica classica. Insegnerà nella “Städtische Musikscule Trossingen”, all’“Accademia Reale di Musica” di Copenhagen e presso la “Hochschule für Musik und darstellende” di Graz in Austria. Parallelamente al contesto europeo anche in Russia assistiamo allo sviluppo del bayan come strumento classico. Fino agli anni Sessanta del Novecento, in Russia, sia la produzione di fisarmoniche che la letteratura bayanistica, hanno avuto un’evoluzione quasi esclusivamente interna e separata dalla tradizione occidentale. I concertisti partecipavano a concorsi ma quasi esclusivamente nel territorio dell’ex Unione Sovietica. Il primo passo verso l’apertura all’occidente viene fatto nel 1966 quando i bayanisti penetrarono nel mondo occidentale partecipando al “Internationale Vogtländische Musiktage” (giornata internazionale della musica di Vogtland, per fisarmoncisti) a Klingenthal (al tempo Repubblica Democratica Tedesca settore Sovietico).20 Klingenthal, cittadina della Sassonia, prima di essere famosa per questa importante competizione fisarmonicistica era un centro importante e storico per la produzione di fisarmoniche. Già nei primi anni del ventesimo secolo Klingenthal contava trenta aziende produttrici di fisarmoniche e armoniche a bocca21 e nel 1953 (anno di maggiore produzione di fisarmoniche nel mondo) i centri produttivi di Trossingen e Klingental produssero per l’esportazione circa 200.000 strumenti al pari della produzione di Castelfidardo nelle Marche.22 I rapporti commerciali tra i due centri hanno oltrepassato il secolo di storia. Il 9 maggio del 2003, infatti, è stato suggellato nella città tedesca, tra l’allora sindaco Reiner Shneidenbach e l’ex vice sindaco di Castelfidardo Mirco Soprani, il ‘patto di 19
JERCOG, La fisarmonica cit., p. 157. FRIEDRICH LIPS, The Art of Bayan Playing, Kamen (Deutschland), Karthause-Schmulling Internationale Musikverlage, 2000, p. 22. 21 JERCOG, La fisarmonica cit., p. 85. 22 http://www.scuolamusicatestaccio.it/index.php/16-dispense/221-l-39affascinante-storia-dellafisarmonica (ultima consultazione 29 luglio 2019). 20
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amicizia’; un gemellaggio nato e sviluppato sull’affinità storico-musicale.23 I bayanisti russi al concorso di Klingenthal crearono stupore. Una tecnica indubbiamente superiore, uno strumento avanzato: era già il bayan multitimbrico con convertitore a sinistra, cassotto, registri e una tastiera a cinque file realizzata da maestri artigiani sovietici specializzati (vedi figura 5).
Fig. 5 - Il bayan russo
A Klingenthal gli esecutori russi fecero conoscere al mondo occidentale il magico strumento della ditta costruttrice di bayan “Jupiter” di Mosca, simbolo del timbro russo e del più alto risultato dell’evoluzione tecnica. Il repertorio non era altro che la musica popolare russa portata a livelli altissimi. Da quel momento, nel mondo occidentale, il nome bayan fu associato agli strumenti a mantice per il repertorio classico, con stile accademico, per repertorio ‘serio’. Furono tutti influenzati da questo strumento, sia i concertisti per il repertorio da affrontare sia i costruttori che dovettero adeguarsi. Alcuni produttori europei di fisarmoniche utilizzarono il nome ‘bayan’ per un particolare modello o serie di modelli di fisarmonica nella loro produzione, indipendentemente dal fatto che fosse sistema a pianoforte o a bottoni.24 Questo strumento, sempre trattato con grande rispetto in Russia e simbolo di identità nazionale, da questo momento diventa specchio della tecnologia e della grande cultura russa all’estero.25 L’incremento dei musicisti russi nei concorsi e nelle sale da concerto fu costante, ma solo dalla caduta del muro di Berlino (inizio anni Novanta) si comincia-
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http://www.centropagina.it/osimo/la-musica-unisce-castelfidardo-alla-germania/ (ultima consultazione 29 luglio 2019). 24 http://www.strumentiemusica.com/notizie/la-storia-dellappellativo-bayan-della-fisarmonica-russa/ (ultima consultazione 29 luglio 2019). 25 http://www.swingjo.com/melimelo/BrunoMaurice.pdf (ultima consultazione 29 luglio 2019).
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rono a svelare i segreti tecnico costruttivi dello strumento russo e della tecnica utilizzata dai musicisti che lo suonavano. La fisarmonica da concerto bayan consiste in una variante della fisarmonica a bottoni molto evoluta tecnicamente e con un’estensione tale da arrivare a 64 note suonanti alla tastiera destra (dal Mi 1 al Do 6) e 58 alla tastiera sinistra (dal MI 0 al Do♯ 5). Una grande estensione ed un timbro del tutto diverso dalla tradizionale fisarmonica occidentale ha permesso a questo strumento di entrare a pieno titolo nel mondo della musica colta. Una delle caratteristiche principali della fisarmonica da concerto sono i bassi sciolti o free bass (note singole ad ottava alla tastiera sinistra). Mentre il sistema bassetti, sviluppato in Europa, aveva alla tastiera sinistra sia i bassi standard che le note singole, il bayan russo tramite un tasto detto ‘convertitore’ trasformava istantaneamente i bassi standard in note singole a quattro ottave di estensione, e viceversa. Quindi a seconda delle esigenze musicali l’esecutore selezionava il sistema di note più adatto. I bottoni alla tastiera destra sono disposti su cinque file, solitamente in bianco e nero, disposti per semitoni. Le prime tre file sono dette di ‘file reali’ ed arrivano ad un massimo di 64 note (dal Mi1 al Sol6), mentre la quarta e la quinta fila sono la ripetizione delle prime due. La disposizione dei bottoni nel bayan russo è con il Do in terza fila e viene comunemente detto “B-Griff” mentre il sistema italiano adottato anche in altri paesi tra cui la Francia è detto “C-Griff” con il Do in prima fila. Meno diffuso è il sistema “G-Griff” adottato in Finlandia. Inoltre la tastiera destra è spostata più in avanti rispetto al corpo dell’esecutore; una soluzione ergonomica che evita una posizione scomoda del braccio destro e l’irrigidimento della spalla.26 Le funzioni svolte dai registri sono essenzialmente due: 1) selezionano il tipo di timbrica; 2) fungono da traspositori dei suoni. Premendo il tasto di un registro delle sottili lamine di alluminio dette “lamelle” scorrono andando a chiudere o ad aprire dei fori corrispondenti a diverse combinazioni di ance.27 Il bayan è uno strumento a 4 voci (a inizio Novecento era a due voci) e il registro che produce suoni reali è l’8’ (otto piedi), mentre il 16’ (sedici piedi) traspone i suoni un’ottava verso il basso ed il 4’ (quattro piedi) verso l’alto.28 Ad ogni registro è dato un nome che corrisponde ai nomi degli strumenti dell’orchestra, a seconda delle caratteristiche timbriche (violino, organo, flauto, ottavino ecc.).29 Questa denominazione dei registri è un antico retaggio di un passato in cui si cercava di accomunare la fisarmonica a strumenti accademici.30 Una delle particolarità del bayan è che l’accordatura è di perfetta intonazione, quindi senza tremolo e, sin dal suo inizio in Russia, è stata sempre caratterizzata da un timbro raffinato, profondo, potente e poco squillante.31 Le “voci”32 sia di tutte le fisarmoni26
CLAUDIO JACOMUCCI, Modern accordion perspectives, Cava de’ Tirreni (SA), Grafica Metelliana spa, 2013. p. 10. 27 JERCOG, La fisarmonica cit., p. 37. 28 Terminologia prettamente organistica. La fisarmonica trae spunto dagli effetti sonori dell’organo in base alla similitudine dei meccanismi interni. 29 «Nonostante l’Italia sia approdata con ritardo all’adozione della fisarmonica da concerto ha dato ottimi contributi allo sviluppo dei registri» (JERCOG, La Fisarmonica cit., p. 110). 30 PICCHIO, La fisarmonica da concerto cit., pp. 63-64. 31 JERCOG, La fisarmonica cit., p. 109.
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che che delle diatoniche sono posizionate sui “somieri”. I somieri sono dei parallelepipedi di legno sui quali vengono applicati piastrini metallici contenenti due ance ciascuno. Essi sono incollati al legno con della cera particolare a tenuta stagna, o chiodati, per veicolare il passaggio dell’aria prodotta dal mantice. Una delle soluzioni tecniche più particolari adottate dai maestri artigiani del bayan è che tutte le voci posizionate sui somieri sono su piastra. Il risultato sonoro per il bayan è un suono più ricco e brillante, ma anche più morbido rispetto alle altre fisarmoniche.33 Anche la forma dell’ancia è lievemente differente, nel bayan abbiamo un’ancia più lunga e rettangolare.34 Originariamente il materiale utilizzato per le piastre era l’ottone ma dopo gli anni Cinquanta fu utilizzato l’alluminio per ragioni di peso. All’inizio del Novecento il repertorio bayanistico era costituito da melodie popolari e da trascrizioni come quelle di Aleksandr Porfir’evič Borodin (1833-1887), Pëtr Il’ič Čajkovskij (18401893), Modest Petrovič Musorgsky (1839-1881), Igor Stravinsky (1882-1971) o Sergej Prokof’ev (1891-1953)35 ma la considerazione di questo strumento è cresciuta man mano che la letteratura originale compiva i suoi primi passi. Già nel 1935, a Leningrado, si verifica un evento molto importante: il concertista Pavel Aleksandrovič Gvozdev (1905-1969) tiene il primo concerto con bayan solista e due anni dopo esegue la prima opera per bayan e orchestra scritta da Pheodosiy Rubtsov (1904-1986). Importante sottolineare che in Russia la maggior parte della letteratura è per bayan solista, diversamente dalla scuola scandinava che dava maggiore importanza al repertorio cameristico.36 Tra i tanti compositori per bayan vi è un personaggio che ha che sarà un grande innovatore del repertorio bayanistico:37 Vladislav Andreevič Zolotarëv (1942-1975). Seppur in un difficile contesto politico-sociale, Zolotarëv ci ha lasciato delle opere di enorme valore che lo hanno reso uno dei compositori più eseguiti dai bayanisti di tutto il mondo. Fino a quel momento il bayan era stato uno strumento usato principalmente per arrangiare e imitare. Dopo di lui compositori di musica contemporanea di grandissima fama si sono avvicinati a questo strumento nuovo. L’esempio più eclatante è Sofia Agastovna Gubajdulina (1931). Nata il 24 ottobre del 1931 a Chistopol, nella Repubblica Autonoma del Tatarsan, Gubajdulina appartiene alla generazione degli anni Sessanta dei musicisti e compositori più creativi dell’Unione Sovietica. Studiò pianoforte e nel 1952 ricevette la “Stalin Scholarship”, una borsa di studio che le avrebbe permesso di frequentare il Conservatorio di Mosca.38 Fu nel 1974 che Gubajdulina ascoltò per la prima volta la 32
Una “voce” è un piastrino metallico in alluminio con due fori rettangolari conteneti due ance in “acciaio armonico”. Le due ance sono accordate in egual misura per per ricevere aria e vibrare alternatamente l’una in trazione, l’altra in pressione a seconda della direzione del mantice. (PICCHIO, La fisarmonica da concerto cit., p. 8 e JERCOG, La fisarmonica cit., pp. 26-28). 33 http://www.swingjo.com/melimelo/BrunoMaurice.pdf (ultima consultazione 26 luglio 2019) . 34 http://www.barynya.com/russianmusic/Bayan-russian-accordion.htm (ultima consultazione 26 luglio 2019). 35 http://www.swingjo.com/melimelo/BrunoMaurice.pdf (ultima consultazione 29 luglio 2019). 36 JERCOG, La fisarmonica, cit. p. 167. 37 Ibid., p. 167. 38 ALEXANDRA BIRCH, Balancing Mathematics and Virtuosity: A Performer’s Guide to Sofia Gubaidulina’s “Dancer on a tightrope”, U.S.A., Arizona State University, 2017, p. 4.
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composizione più famosa di Zolotarëv, la Sonata n. 3, eseguita dal vivo dal famoso didatta e concertista Friedrich Lips, con il bayan. Ben presto Gubajdulina esplorò le caratteristiche del bayan39 e nacque una collaborazione con Lips che diede grandi frutti. La compositrice russa riuscì ad ottenere una nuova qualità musicale utilizzando con successo tutte le possibilità timbriche offerte dal bayan facendo largo uso dei cluster, del rumore prodotto dallo sfiato al manuale sinistro, dei glissandi e del microcromatismo.40 Il primo brano composto da Gubajdulina per bayan solista fu De profundis. Un brano contemporaneo e innovativo che si basa sul Salmo 129 (De profundis clamavi ad te Domine), un testo contenuto nel libro dei Salmi, facente parte dell’Antico Testamento. Per la prima volta nella letteratura sovietica per bayan fu introdotta una notazione del tutto nuova in un ambito simbolico-religioso che, insieme alla pluralità di effetti sonori utilizzati, resero conpartecipe il bayan delle possibilità musicali della seconda metà del XX secolo.41 Questo excursus in campo storico ed organologico ha definito l’evolversi di uno strumento dai primi anni del XIX secolo ad oggi ed ha fatto chiarezza sulla provenienza del bayan oggi adottato nei Conservatori italiani. Si è tenuto conto del repertorio, di importanti eventi e di personaggi che hanno contribuito al processo di classicizzazione di questo strumento. Infine dall’intervista fatta da me medesimo a Massimo Pigini di Castelfidardo (costruttore di fisarmoniche e di bayan della ditta “Pigini Accordions”) risulta chiaro che l’evoluzione tecnica non si è fermata per gli strumenti a mantice ed ancia libera. Come da egli confermato le richieste di personalizzare gli strumenti continuano incessanti e ogni paese conserva e modifica nel tempo i propri modelli.
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DZINOVIC BRANKO, The Composer-Performer Interrelationship in the Bayan and accordion Composition of Sofia Gubaydulina, Faculty of Music of Toronto, 2017, p. 23. 40 ALEKSI JERCOG, La fisarmonica: organologia e letteratura, Treviso, Edizioni Musicali Phisa, 1997, p. 170. 41 ENZO RESTAGNO, Gubajdulina, Torino, EDT, 2001, p. 200.
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NOTE D’ARCHIVIO ____________________________________________________________ Domenico D. De Falco IL FONDO IMBIMBO DELLA BIBLIOTECA DI MONTEVERGINE Alla fine del 2018 presso la Biblioteca di Montevergine si è concluso un progetto che ha riguardato il riordino e la catalogazione di un importante fondo musicale che, pur da diverso tempo acquisito per dono, attendeva ancora un lavoro sistematico che lo valorizzasse e, soprattutto, ne facesse uno strumento d’uso quotidiano per gli addetti ai lavori e fosse, al tempo stesso, una lettura piacevole di una prestigiosa raccolta di quasi 800 spartiti musicali a stampa. Ne narriamo qui nel dettaglio, non prima però di aver dato qualche informazione sulla Biblioteca presso cui il fondo è depositato ed è consultabile. La Biblioteca di Montevergine La Biblioteca Statale di Montevergine occupa un’ala del Palazzo abbaziale di Loreto1 in Mercogliano (provincia di Avellino), un gioiello dell’architettura barocca meridionale. Sorta inizialmente come strumento esclusivo di sussidio e supporto all’attività di studio e ricerca dei monaci della Congregazione monastica verginiana di Montevergine – fondata da san Guglielmo da Vercelli nei primi decenni del secolo XII – ne seguì le alterne vicende storiche, fino alle leggi di soppressione delle corporazioni religiose successive all’Unità d’Italia. Nel 1868 il Santuario di Montevergine venne dichiarato Monumento nazionale e la Biblioteca diventò patrimonio dello Stato. Essa è ora un ufficio periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo; è specializzata in ambito religioso e conserva circa 200000 volumi a stampa, poco meno di 500 periodici, 1048 edizioni del Cinquecento, 35 incunaboli, 24 codici, manoscritti figurati. Inoltre, nel piccolo archivio annesso custodisce un patrimonio archivistico di circa 7000 pergamene e più di 100000 documenti sciolti. Nel 2000 ha aderito ad una vasta ed estesa rete virtuale, il Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), un progetto governativo avviato più di trent’anni fa e ormai consolidatosi quale prezioso e insostituibile strumento a servizio tanto delle biblioteche quanto degli utenti. La Biblioteca di Montevergine2 è oggi un ufficio moderno che, 1
Sul palazzo abbaziale di Loreto di Mercogliano cfr. GIOVANNI MONGELLI, Il palazzo abbaziale di Loreto di Montevergine, [Montevergine], Edizioni del Santuario, 1969 e PLACIDO MARIO TROPEANO, Palazzo abbaziale di Loreto. Guida storico-artistica, Montevergine, Padri Benedettini, 2008. 2 Sulla Biblioteca di Montevergine cfr. PLACIDO MARIO TROPEANO, La biblioteca di Montevergine nella cultura del Mezzogiorno, Napoli, Berisio, 1970 e La storia e i servizi della Biblioteca statale di Montevergine e dell’Archivio annesso, a cura di Domenico D. De Falco ... [et al.]; presentazione di Placido Mario Tropeano, Montevergine, Padri Benedettini 2004. 143
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senza dimenticare la sua gloriosa storia, è costantemente al passo con i tempi. È in grado di offrire numerosi servizi fruibili sia in modalità tradizionale, con gli utenti in presenza, sia soprattutto da remoto, attraverso il sito web istituzionale, un autentico avamposto della Biblioteca in rete. Inoltre, la sua continua attività di promozione dei fondi archivistici e librari viene svolta con l’ormai indispensabile ausilio dei canali social (Facebook, Twitter, Instagram) e di un canale dedicato You Tube, sui quali la Biblioteca è presente. Il fondo Imbimbo Nel 1955, a tre anni dalla morte del marito, la signora Esther Magno, decise di donare alla Biblioteca di Montevergine la ricca raccolta libraria del maestro Gino Imbimbo, comprendente opuscoli e volumi di narrativa e saggistica, ma soprattutto una straordinaria collezione di spartiti musicali, in parte manoscritti, per lo più a stampa, che erano stati per Imbimbo degli strumenti di lavoro quotidiano. Della stessa donazione faceva parte anche un non meno consistente e importante campionario di documenti d’archivio che ha trovato ospitalità nell’Archivio annesso alla Biblioteca di Montevergine. Tale documentazione archivistica copre un lungo arco temporale, dal 1571 al 1934, e contiene testamenti, donazioni, capitoli matrimoniali, numerosi opuscoli, in cui sono stati annotati avvenimenti significativi tutti riguardanti la famiglia Imbimbo di Avellino, del cui ramo principale il maestro Gino fu l’ultimo discendente, in quanto morì senza eredi. Si compone di tre buste, il cui inventario è consultabile presso la Biblioteca di Montevergine in formato cartaceo, dal quale è stata tratta una versione digitale che si può agevolmente leggere nella sezione Archivio à Documenti à Inventari à Archivio famiglia Imbimbo del sito web istituzionale della Biblioteca.3 Nella prima busta (documenti dal 22 luglio 1571 al 31 dicembre 1772) sono contenuti atti notarili, capitoli matrimoniali, copie di testamenti e atti di compravendita di case e terreni; non manca un catalogo redatto nel 1630 in cui sono elencati, suddivisi per argomento (come usava all’epoca), i libri a disposizione della famiglia. Molto interessante è l’atto di fondazione del Conservatorio della Santissima Immacolata Concezione, attualmente Conservatorio delle Suore delle Oblate, che si trova in Avellino nell’omonima strada. Nella seconda e terza busta, relative rispettivamente al periodo 1773/1779-luglio 1898 e marzo 1899-1934, si alternano atti e decreti emessi in favore del Conservatorio e documenti privati, quali certificati e atti di matrimonio. La parte più interessante della ricca documentazione della famiglia Imbimbo riguarda sicuramente le vicende legate alla fondazione e alla vita del Conservatorio, i cui protagonisti furono all’inizio, in quanto fondatori dell’ente, i fratelli Imbimbo, Francesco – dottore in legge e sindaco in tre occasioni della città di Avellino (1628/29, 1643/44, 1653/54) – e Simone, arcidiacono della Cattedrale. L’atto di fondazione del Conservatorio, datato 20 aprile 1654, è composto da 21 capitoli in cui sono elencati i principi base della sua fondazione e della sua attività, tra cui spicca il pa3
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tronato perpetuum da parte della famiglia Imbimbo e degli eredi, nonché un elenco delle Regole che dovevano essere osservate nell’istituto. L’attività del Conservatorio, sorto inizialmente per accogliere fanciulle di buona famiglia che intendevano abbracciare la vita monacale, proseguì, sempre sotto l’egida della famiglia Imbimbo, svolgendo anche il ruolo di educandato in favore della gioventù femminile della città e della provincia. Durante il periodo post-unitario il Conservatorio rischiò di rientrare nel novero degli enti che, non dedicandosi all’educazione o all’assistenza degli infermi, erano destinati ad essere soppressi, come disponevano i provvedimenti di legge del maggio 1855. Il pericolo fu sventato perché, a seguito di una approfondita e ben documentata istruttoria formalizzata dal presidente della Commissione del Conservatorio delle Oblate, l’avvocato Giovanni Trevisani, il prefetto di Avellino emise un documento il 31 ottobre 1864 dal quale si evinceva lo stato laicale dell’istituto.4 Infine, con un documento del 22 gennaio 1897, la Regia Prefettura di Avellino nominava quale governatore Amilcare Imbimbo, il padre di Gino, già professore di storia e geografia in molti licei italiani. A seguito delle vicende che abbiamo qui riassunto, durate due secoli, Gino Imbimbo ereditò la carica di conservatore del Conservatorio della Concezione di Avellino, presso il quale fondò e di cui fu insegnante la Schola Cantorum Caeciliana, a voci miste. Luigi Tommaso Imbimbo5 (1879-1952) fu uomo di grandi doti morali e di qualità intellettuali; egli eccelleva «nell’arte, nella cultura umanistica e nelle scienze sociali, restando sempre modesto, semplice, gentile e generoso…».6 Il suo primo insegnante di pianoforte fu Ignazio De Marco, ammiratore di Federigo Cordella, che sarebbe divenuto solido riferimento per lo stesso Imbimbo; successivamente, Imbimbo conseguì il diploma al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, sotto la guida del maestro Giovanni Sgambati. A Pesaro perfezionò gli studi in composizione e arte direttoriale con Pietro Mascagni, ma, di nuovo a Roma, presso la Scuola Superiore di Musica Sacra, si diplomò in Canto gregoriano e Contrappunto nell’anno scolastico 1912/13. Una significativa influenza Gino Imbimbo ebbe dalla frequentazione con il compositore e grande pianista Ferruccio Busoni, nel 1915 direttore del Conservatorio “Martini” di Bologna, prima di rientrare infine nella sua città natale, Napoli, dove rimase affascinato dal periodo d’oro irripetibile per la musica e la canzone d’autore di cui la città – definita, dai tanti stranieri che la frequentavano, senza mezzi termini la “capi4
Sull’Archivio della famiglia Imbimbo cfr. AMELIA PECORARO, Archivio famiglia Imbimbo, http://www.bibliotecastataledimontevergine.beniculturali.it/index.php?it/249/archivio-famigliaimbimbo (ultima data di consultazione: 7 aprile 2020) e EAD., Famiglia Imbimbo e fondazione del Conservatorio delle Oblate in «Il Santuario di Montevergine», A. 86, n. 4 (lug.-ago. 2005), pp. 2325; inoltre SABRINA TIRRI, L’Archivio Imbimbo conservato presso la Biblioteca di Montevergine in Il fondo Imbimbo della Biblioteca Statale di Montevergine, Atripalda, Mephite, 2018, pp. 13-16. 5 Su Gino Imbimbo cfr. GIUSEPPE MACCHIA, Un maestro di musica avellinese. Gino Imbimbo in Il fondo Imbimbo cit., pp. 17-26, specialmente la vasta bibliografia a corredo del saggio. 6 Così lo ricordava Lorenzo Ferrante nel necrologio Ricordo di Gino Imbimbo, pubblicato, a quattro anni dalla morte, il 28 gennaio 1956, sul «Corriere dell’Irpinia».
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tale del mondo musicale” – fu protagonista tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. All’epoca della donazione da parte della signora Esther Magno, il numeroso materiale fu selezionato per natura: i documenti furono collocati in archivio; i libri di argomento vario, non musicale, furono collocati nella Sala H della Biblioteca; infine, gli spartiti musicali a stampa trovarono ospitalità in una piccola sala che ospita tuttora una sezione di cinema, musica, spettacolo, teatro, denominata Sala C. In quell’occasione, degli opuscoli del fondo Imbimbo fu fatta una sommaria descrizione, in attesa di un riordino più coerente di tutto il materiale e di una vera e propria catalogazione. La combinazione di alcuni lavori di ristrutturazione di parte dei locali della Biblioteca di Montevergine ha poi offerto l’opportunità di una più funzionale sistemazione anche della Sala C, nella quale dunque, pure per ottimizzare gli spazi che tendono progressivamente a diminuire, sono stati ricollocati tutti i libri che vi erano già presenti. Inoltre, la pubblicazione nel 2012 delle norme per il trattamento del materiale musicale in SBN nella Guida alla catalogazione in SBN. Musica e libretti a stampa, registrazioni sonore, video e risorse elettroniche musicali curata dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), ha fornito anche il supporto scientifico al lavoro di catalogazione degli spartiti musicali. La pubblicazione di questa Guida ha rappresentato la codificazione dello standard delle regole di catalogazione del materiale musicale nel contesto del Servizio Bibliotecario Nazionale, ma bisogna dire che si trattava di regole già conosciute, alla cui definizione avevano lavorato di concerto bibliotecari e musicisti. All’inizio del 2017 fu pertanto redatto un progetto di revisione complessiva della Sala C, in cui la parte preponderante ha riguardato la ricollocazione e la catalogazione degli opuscoli della donazione Imbimbo, che alla fine del lavoro, durato poco meno di 2 anni, si sono perfettamente integrati in quella piccola sezione specifica dedicata anche al materiale musicale. In questa sala gli opuscoli del fondo Imbimbo, in totale 757, occupano ben 4 scaffali; sono stati catalogati nella rete SBN e le relative notizie bibliografiche sono perciò disponibili attraverso i diversi cataloghi on line. Inoltre, la quasi totalità degli opuscoli del fondo reca sul frontespizio, o in copertina, o comunque sulle prime pagine, una nota manoscritta autografa di Gino Imbimbo, molto spesso tracciata con matita rossa, talvolta in inchiostro nero (fig. 1).
Fig. 1 - Firma autografa di Gino Imbimbo
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Questa particolarità è stata segnalata in fase di catalogazione in SBN per cui si è creato sempre un legame tra la notizia bibliografica e il “possessore” Imbimbo, che è dunque esso stesso una chiave di accesso alla notizia. In particolare, sull’opac della Biblioteca di Montevergine – raggiungibile dal sito web della Biblioteca o attraverso qualsiasi motore di ricerca per parola chiave “opac montevergine” – è possibile lanciare la ricerca anche selezionando l’opzione “Possessore”, scrivendo dunque “Imbimbo, Luigi”. In tal caso il sistema restituirà ben 1008 risultati, relativi ad altrettante notizie bibliografiche in cui sono naturalmente compresi i 757 opuscoli musicali, ma figura anche parte dei volumi che facevano parte della donazione ricevuta dalla Biblioteca di Montevergine e che però, riguardando altre materie, sono stati collocati altrove. Ancora, nello sforzo costante di perseguire la missione della Biblioteca di Montevergine – dare il maggior risalto e rilievo alle proprie collezioni – si sono sfruttate nella maniera più ampia tutte le possibilità che la moderna tecnologia mette a disposizione anche delle biblioteche; nel dettaglio, all’interno del sito web istituzionale della Biblioteca di Montevergine è stato allestito un archivio dei possessori, cioè un censimento di tutte quelle note di possesso manoscritte, degli ex-libris, dei cartigli, dei timbri, che frequentemente si riscontrano sui libri, non soltanto quelli antichi. Sicché in questo Archivio Possessori ha trovato naturalmente la sua collocazione anche il nostro Gino Imbimbo, cui si è dedicata una scheda succinta – come richiedono l’etica e la prassi della comunicazione in rete – ma comunque esaustiva. In 10 delle note manoscritte lasciate da Gino Imbimbo sui suoi spartiti, egli cita anche il padre Amilcare, utilizzando per lo più la formula Gino di Am. Imbimbo, oppure Luigino di Amilcare Imbimbo. Il progetto di ricollocazione e catalogazione del fondo Imbimbo prevedeva anche sin dal principio la pubblicazione di un catalogo a stampa,7 che fu possibile realizzare grazie ad un contributo generosamente erogato dal comune di Mercogliano, con cui la Biblioteca di Montevergine ha intrattenuto sempre cordiali e proficui rapporti, che sono andati ben al di là dei doveri istituzionali. Il catalogo, pubblicato nel 2018 per i tipi dell’editrice Mephite di Atripalda, fu presentato in Biblioteca domenica 14 ottobre 2018, nell’ambito dell’annuale evento organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, denominato Domenica di carta, che si svolge per l’appunto nel mese di ottobre; in quell’occasione, le conclusioni furono affidate alla collega Tiziana Grande, presidente nazionale dell’Associazione Italiana Biblioteche Musicali (IAML) e bibliotecaria del Conservatorio Statale di Musica “Domenico Cimarosa” di Avellino. Questo catalogo è consultabile in molte biblioteche italiane; inoltre, sul sito web della Biblioteca di Montevergine è possibile scaricarne liberamente una copia in formato .pdf all’interno della sezione Le collezioni digitali. Molti dei maestri e dei riferimenti di Imbimbo sono presenti nella raccolta, alcuni oggetto di studio, tutti ugualmente strumenti di lavoro, a cominciare da Federico Cordella (20 canti a una e a due voci, con accompagnamento di pianoforte…, Milano 1923); Ignazio De Marco (Brevi riflessioni sugli abusi, tollerati nella musica…, 7
Il fondo Imbimbo della Biblioteca Statale di Montevergine, a cura di Domenico D. De Falco, Vito Colonna, Giuseppe Macchia, Atripalda, Mephite, 2018.
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Avellino 1895); gli 8 titoli di Pietro Mascagni (fig. 2); Giovanni Sgambati (Appunti ed esempi per l’uso dei pedali del pianoforte…, Milano 1915 e Nocturne: Op. 33…, Milano primi decenni del 1900).
Fig. 2 - Pietro Mascagni, Cavalleria Rusticana, Riduzione per Canto e Pianoforte, edizione Edoardo Sonzogno, Milano, copertina (fronte)
La catalogazione sistematica del fondo Imbimbo ha consentito anche una ricognizione per ora superficiale – che meriterebbe sicuramente un approfondimento da parte degli esperti del settore – sulla presenza imponente nel panorama dell’editoria eu
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IL FONDO IMBIMBO DELLA BIBLIOTECA DI MONTEVERGINE
ropea di una vasta rappresentanza di editori musicali, per lo meno relativamente al periodo in cui visse ed operò il maestro Gino Imbimbo; per cui, alle case editrici famose, ancora oggi in attività, quale ad esempio la casa editrice Ricordi, oppure Edoardo Sonzogno, si affiancano i tantissimi editori napoletani, tra i quali l’Associazione musicale industriale, Raffaele Calace, la Calcografia e copisteria de’ Reali Teatri, Pietro Clausetti, Michele D’Auria, i fratelli De Marino, i Giannini, Biagio e Francesco, Domenico Sposato. È inoltre presente un editore avellinese, il Premiato Stabilimento tipo-litografico V. Maggi, che pubblicò le Brevi riflessioni di Ignazio De Marco. Non mancheremo qui di citare, con compiacimento e soddisfazione, una ‘sorpresa’ che ci ha riservato la catalogazione del fondo Imbimbo. Durante la ricollocazione degli opuscoli ci imbattemmo in tre diverse edizioni – due stampate a Milano, una a Vienna – del melodramma La Vestale di Gaspare Spontini, grande compositore nato a Majolati (Ancona) nel 1774 e morto nel 1851. Nello scaffale, di seguito a questi tre opuscoli se ne trovano altri sei dello stesso Spontini, che però non appartenevano alla donazione Imbimbo, ma comunque collocati coerentemente anni fa nella piccola sezione musicale della Biblioteca e da dove non sono stati spostati. Su due di questi opuscoli, e cioè due edizioni de La petite maison, entrambe stampate a Parigi presso Imbault, la nostra attenzione fu attratta da quella che sembrava una firma autografa del compositore maiolatese. Per approfondire la questione decidemmo di contattare la Biblioteca “Gaspare Spontini” di Majolati, ricevendo dal suo conservatore, Marco Palmolella, una cortese ed esaustiva risposta con la quale egli confermava l’autenticità della firma di Spontini (fig. 3).
Fig. 3 - Firma autografa di Gaspare Spontini
Poiché la scoperta ci sembrò degna di attenzione, decidemmo di inserire tutte le opere di Spontini possedute dalla Biblioteca di Montevergine nel catalogo Il fondo Imbimbo, in una specifica Appendice, corredata peraltro da due interessanti ed esaustivi saggi di Marco Palmolella, uno sulle opere di Spontini, l’altro un dettagliato profilo biografico del compositore. Anche Gaspare Spontini è presente, con una sua propria scheda, nell’Archivio Possessori della Biblioteca. Come abbiamo scritto sopra, le notizie bibliografiche del fondo Imbimbo sono consultabili anche attraverso i cataloghi on line, principalmente l’opac della Biblioteca di Montevergine. È inoltre possibile la consultazione in sede. Tranne qualche eccezione – riguardante monografie con data di stampa più recente – la gran
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DOMENICO D. DE FALCO
parte della raccolta degli opuscoli musicali della donazione Imbimbo non è ammessa al prestito esterno, perché si tratta di un tipo di materiale che risale a prima del 1900, oppure di opuscoli rilegati insieme in miscellanee. Tuttavia, è sempre possibile ottenere una riproduzione fotografica o una scansione. Peraltro, come ben sanno gli utenti di archivi e biblioteche, la recente normativa contenuta nella legge n. 124 del 4 agosto 2017 ha liberalizzato la riproduzione dei documenti conservati negli uffici pubblici: questo significa che un utente può chiedere ed ottenere di riprodurre con dispositivi propri (smartphone, tablet, macchina fotografica digitale) qualsiasi documento, sempre che siano fatte salve, naturalmente, la salvaguardia e la cura dello stesso. L’utente che non ha invece possibilità di recarsi personalmente in biblioteca, può inoltrare una richiesta di fotoriproduzione tramite una biblioteca vicina alla sua residenza alla quale è iscritto, ovvero contattare direttamente la Biblioteca di Montevergine per richiedere la scansione di ciò cui è interessato (in tal caso dovrà sostenere le spese di riproduzione e di spedizione). A tal proposito, sul sito web della Biblioteca di Montevergine si può consultare la sezione Servizi per sapere che cosa è possibile richiedere, in originale o in riproduzione, e, nella stessa sezione, il Listino prezzi, per conoscere i costi e le modalità di rimborso delle spese. A conclusione di questo resoconto sul fondo Imbimbo, non ci resta che invitare i lettori a venire in biblioteca, per consultare documenti e libri, ma anche per una semplice visita.
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MATERIALI DIDATTICI ____________________________________________________________ Enrico Baiano PICCOLA INTRODUZIONE AL CLAVICEMBALO BEN TEMPERATO1 Bach è per la storia della musica occidentale ciò che Dante e Shakespeare sono per la letteratura: personalità musicale somma, dagli sconfinati poteri creativi, egli esprime e sintetizza tutte le esperienze musicali del tardo Rinascimento e del Barocco, portandole a vette insuperabili. Dotato di una formidabile capacità di organizzazione del discorso musicale, egli elabora un nuovo modo di pensare in musica, che diventa elemento fondante del pensiero musicale europeo dei successivi due secoli. La sua fama, grandissima mentre era in vita, non si offuscò dopo la sua morte come vorrebbe una certa vulgata. In un’epoca nella quale la musica di vent’anni prima era considerata vecchia e non più interessante, copie manoscritte delle sue più importanti opere circolavano in Europa: Mozart e Haydn se ne procurarono parecchie, dietro stimolo del barone van Swieten. Beethoven, secondo la testimonianza di Carl Friedrich Cramer, all’età di dodici anni eseguiva il ‘Clavicembalo ben Temperato’ a memoria; anche i giovani Felix e Fanny Mendelssohn ne offrirono in regalo ai genitori un’esecuzione integrale. È poi superfluo ricordare l’importanza attribuita a quest’opera da grandi musicisti come Schumann, Chopin, Brahms, Bartók. All’alba del XIX secolo cominciarono le edizioni a stampa, che si sarebbero susseguite sempre più numerose, fino alla pubblicazione dell’opera completa intrapresa nel 1850 dalla Bach-Gesellschaft, la ‘Società Bach’ costituitasi in occasione del primo centenario dalla morte. Che cosa significa ‘ben Temperato’? ‘Das Wohltemperirte Clavier’ (questa la grafia originale) significa letteralmente ‘la tastiera ben accordata’. Com’è noto, negli strumenti a suono fisso bisogna stabilire in anticipo l’intonazione di ciascun suono perché non è possibile alcuna correzione durante l’esecuzione - cosa invece praticabile fino a un certo punto sugli strumenti ad arco e a fiato. La ricerca di questa intonazione è stata una delle maggiori preoccupazioni di teorici, compositori ed esecutori di tutti i tempi: infatti i rapporti tra i suoni, calcolati secondo i modelli matematici ed acustici, non sempre si traducono in combinazioni gradevoli all’orecchio. È necessario perciò temperare, smussare le asperità di certi intervalli, fino a trovare relazioni foniche matematicamente imprecise ma ac1
Questo articolo utilizza parte del testo di accompagnamento dei CD da me registrati (con clavicembalo, clavicordo e fortepiano) per l’etichetta Limen (2017) e due paragrafi tratti da Le Sonate di Domenico Scarlatti, pubblicato da me e Marco Moiraghi per LIM – Libreria Musicale Italiana, Lucca 2014. 151
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cettabili musicalmente. Naturalmente il concetto di ‘gradevole all’orecchio’ cambia nel tempo, e nel corso dei secoli sono stati teorizzati e praticati numerosissimi ‘temperamenti’ (sistemi di accordatura), ciascuno rispondente a precise esigenze espressive. Nel Novecento si è universalmente affermato il cosiddetto ‘temperamento equabile’, che suddivide l’ottava in dodici gradini perfettamente uguali (è la soluzione più razionale ed immediata dal punto di vista matematico). Questo sistema però ha un difetto intrinseco: tutte le tonalità hanno lo stesso colore e le modulazioni dall’una all’altra sono ‘indolori’; esso appiattisce e mortifica la varietà dei colori e delle tensioni/distensioni del discorso armonico; sebbene fosse conosciuto da teorici e musicisti fin dal Cinquecento non era particolarmente apprezzato. Dalla metà del Cinquecento in poi furono in uso molti temperamenti diversi. Alcuni privilegiavano la corretta intonazione delle terze: non permettevano l’uso di tonalità con molte alterazioni, ma quelle praticabili erano particolarmente calde grazie alle terze maggiori pure, mentre le dissonanze risultavano drammatiche ed espressive. Agli albori del Settecento si preferì rinunciare a parte di questo ‘calore’ in favore di sistemi che consentissero di utilizzare un sempre maggior numero di tonalità: erano i cosiddetti temperamenti ineguali, dove tutte le tonalità sono possibili, ciascuna suona un po’ diversa da tutte le altre e il trapasso dall’una all’altra segna anche un cambiamento di colore. È del 1702 – ma pubblicata nel 1715 – la raccolta ‘Ariadne Musica’ di Johann Caspar Ferdinand Fischer, raccolta di brevi preludi e fughe in venti diverse tonalità (conosciuta da Bach che addirittura ne utilizzò alcuni temi, cfr. infra). Nel 1719 Johann Mattheson pubblicava la ‘Grosse General-Bass-Schule’, contenente esercizi in tutte le tonalità. Diversi compositori minori si cimentavano poi in ‘circoli armonici’, preludi modulanti in tutti i toni maggiori e minori (anche Beethoven, anni dopo, ne avrebbe composti due); un Piccolo Labirinto Armonico, attribuito a Bach, è quasi certamente spurio. L’arco delle ventiquattro tonalità diventa così un mondo di possibilità espressive tutto da esplorare. Questo ci porta a superare un altro luogo comune associato a Bach: quello secondo il quale il Wohltemperirte sarebbe stato concepito per sancire in via definitiva l’uso del temperamento equabile: al contrario! Bach preferiva l’esempio pratico alla disquisizione dotta, perciò piuttosto che scrivere un complicato trattatello ci ha lasciato un semplice schema, visibile nelle figg. 1a e 1b: in testa alla pagina di frontespizio è tracciato quello che a prima vista sembra un ornamento calligrafico, un ghirigoro; questo ghirigoro è costituito da una sequenza di undici ‘nodi’, che possono facilmente corrispondere a undici quinte (la dodicesima sarebbe costituita dai due estremi, idealmente ricongiunti). Verso destra, in corrispondenza della C di Clavier, è notata una piccola c, cioè do; verso sinistra, la voluta della D di Das interseca il nodo che corrisponde al re diesis, in tedesco Dis, mentre la barra della lettera è decorata con il disegno Eb, cioè mi bemolle; questo rimanda al Preludio e Fuga VIII, nei quali il Preludio è in Mi bemolle minore e la Fuga è in Re diesis minore. I nodi non sono tutti uguali: alcuni sono semplici, altri hanno al proprio interno uno o due nodi supplementari.
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PICCOLA INTRODUZIONE AL CLAVICEMBALO BEN TEMPERATO
Figura 1a: Frontespizio dellâ&#x20AC;&#x2122;autografo del Primo Libro
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Figura 1b: Particolare del frontespizio
Brad Lehman,2 che offre secondo me un’analisi particolarmente convincente, assume che il nodo semplice indichi una quinta pura (cioè matematicamente corretta) e che quelli con uno o due nodi supplementari indichino quinte un po’ strette (1 nodo = pochissimo stretta, 2 nodi = un po’ più stretta). Seguendo queste indicazioni si realizza un tipico temperamento ineguale tedesco del XVIII secolo, che permette di usare tutte le tonalità ma le mantiene differenziate: infatti per ogni tonalità il rapporto tra tonica, terza maggiore e quinta è lievemente diverso (e quindi ‘suona’ un po’diversamente) da quello delle altre. È un temperamento che evita i tranelli solitamente presenti in quelli coevi: la quinta mi-si è pura e addolcisce la triade di Mi maggiore, generalmente problematica a causa della terza mi-sol♯ piuttosto ‘acida’; contemporaneamente il sol♯, enarmonicamente inteso come lab, fa una buona terza maggiore con il do; le terze maggiori do♯-mi♯ e fa♯-la♯ sono ‘nervose’ ma non sgradevoli. Un altro pregio di questo temperamento è che aiuta a superare certi problemi di intonazione che possono presentarsi quando si suona con strumenti ad arco e a fiato, e questo è esattamente ciò che si richiede all’accordatura di uno strumento a intonazione fissa. Bach, il didatta Das Wohltemperirte Clavier [La Tastiera Ben Accordata], ovvero Preludi, e Fughe in tutti i Toni e Semitoni, sia in terza maggiore […] che in terza minore […]. Per utilità e uso della gioventù musicale desiderosa di apprendere, e anche a ricreazione di coloro che sono già provetti in quest’arte.
Questo il titolo della prima raccolta, terminata nel 1722: si tratta dunque anche di un’opera didattica. Bach era un grande insegnante – certo adatto più a talenti eccezionali che alla media degli studenti – e avvertiva periodicamente la necessità di ordinare e sistematizzare il materiale di studio che andava via via approntando. Il Clavicembalo ben Temperato costituisce la parte finale di un programma di insegnamento che accompagna la “gioventù desiderosa di apprendere” dal livello elementare a quello trascendentale. Si comincia dai Piccoli Preludi, le Invenzioni a due voci e altri preludi (che confluiranno poi nel Primo Libro del CBT, cfr. infra); si continua con le Sinfonie a tre voci e le Suites. Il Clavicembalo ben Temperato conclude in maniera 2
BRAD LEHMAN, Bach’s Temperament: Our Rosetta’s Stone, «Early Music», Vol. 33, No. 1, February 2005, pp. 3-23; «Early Music», Vol. 33, No. 2, May 2005, pp. 211-231.
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monumentale il percorso, e dà istruzioni complete riguardo a tecnica, interpretazione, basso continuo, contrappunto, composizione, improvvisazione, forma musicale, estetica e retorica. Poiché Bach era estremamente esigente quanto a posizione della mano, tocco e qualità del suono, tutti gli studenti3 dovevano sottoporsi a un periodo preparatorio di tecnica che poteva durare da qualche mese a un anno, durante il quale dovevano lavorare su brevi esercizi preparati dal maestro. Non abbiamo gli esercizi di Bach, ma possiamo farcene un’idea esaminando le évolutions scritte da François Couperin per il suo metodo L’Art de Toucher le Clavecin:4 si tratta di varie formule da esercitarsi a mani separate sull’estensione di una o due ottave e in diverse tonalità. Lungi dall’essere aridi esercizi tecnici, queste évolutions presentano semplici idee musicali sviluppate in maniera musicalmente piacevole; quelle per la mano sinistra possono essere considerate dei veri e propri piccoli preludi. Sono in effetti il principio generatore dell’Invenzione: un semplice motivo (inventio, ‘invenzione, scoperta, trovata’) diventa il materiale generatore dell’intero pezzo; questo principio porterà allo Studio nella sua accezione artistica e alta, che darà frutti gloriosi da Clementi a Ligeti… L’analisi attenta di alcuni dei Piccoli Preludi, delle Invenzioni, di molti preludi del Clavicembalo ben Temperato (principalmente quelli del Primo Libro) rivela che essi sono la trasformazione da évolutions scritte da Bach stesso a brani di ben altro spessore artistico. Nel caso di undici preludi del Primo Libro è possibile seguire da vicino le fasi della trasformazione. Nel piccolo libro di pezzi istruttivi compilato da Bach per il suo primogenito (‘Clavierbüchlein für Wilhelm Friedemann Bach’, iniziato il 22 gennaio 1720) troviamo una versione più corta e più semplice dei preludi in do maggiore, do minore, re minore, re maggiore, mi minore, mi maggiore, fa maggiore, do♯ maggiore, do♯ minore, mib minore, fa minore (proprio in quest’ordine) nei quali è evidente l’intento di fornire materiale di studio tecnico-musicale in ordine crescente di complessità. Il Preludio in do maggiore, con i suoi accordi arpeggiati in style luthée (cioè tenendo fermi i tasti appartenenti alla stessa armonia), aiuta ad acquisire la corretta posizione della mano; il do minore sviluppa l’agilità vicina, alternata a rapida aperturachiusura del palmo; nel re minore le figure arpeggiate si muovono lungo la tastiera, e nel re maggiore lo stesso principio viene applicato alle agilità già viste nel do minore; il mi minore è dedicato all’articolazione quieta e legata della mano sinistra, mentre la destra si limita a realizzare le armonie. I preludi in fa maggiore e do diesis maggiore insegnano il tocco brillante e non legato (il fa maggiore è anche un esercizio per il trillo), mentre nei preludi in do diesis minore, mi maggiore, mi bemolle maggiore e fa minore lo studioso si misura con la scrittura espressiva e la polifonia.
3
Si trattava di studenti privati, severamente selezionati da Bach in base alle loro capacità, che stavano a pensione in casa Bach per due-tre anni. 4 FRANÇOIS COUPERIN, L’Art de Toucher le Clavecin, Paris, chez l’auteur 1716, 21717. Edizioni moderne: L’Art de Toucher le Clavecin, a cura di Vera Alcalay e Sara Ricci, UtOrpheus, Bologna 2018; Metodo per Clavicembalo, a cura di Gabriella Gentili Verona, Curci, Milano 1989. L’Art de Toucher le Clavecin, a cura di Anna Linde, Breitkopf & Härtel, Wiesbaden 1933.
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Ma questi (e altri) Preludi non sono semplici studi tecnici: essi costituiscono anche esempi di sequenze-base del Basso (con relative armonizzazioni) e di come la realizzazione armonica può essere ‘rotta’ e trasformata in figurazioni tastieristiche: è il primo passo nell’apprendimento del basso continuo e dell’improvvisazione (quest’ultima infatti richiede la padronanza di centinaia, migliaia di formule melodiche, armoniche, ritmiche e tecniche, e la capacità di combinarle estemporaneamente in mille modi). Nel passaggio dal Clavierbüchlein al primo libro del Clavicembalo i Preludi subiscono varie modifiche: per esempio, il do maggiore si espande e acquisisce una migliore struttura armonica e formale; il do minore, re maggiore e re minore vengono allungati mediante l’aggiunta di una sezione conclusiva in stile improvvisativo (il do minore ha perfino un brevissimo recitativo). Il preludio in mi minore è un caso interessante, perché il semplice, breve esercizio per la mano sinistra viene trasformato in un bellissimo brano bipartito. La prima parte corrisponde al preludio originario, nel quale però alla mano destra viene affidata anche una melodia: l’esercizio si è trasformato in una Sonata alla Corelli per strumento e basso continuo. Una transizione di due battute porta a un improvviso Presto nel quale la figurazione della sinistra prende il sopravvento: la quieta e melanconica atmosfera della prima parte si trasforma in una corsa vertiginosa, ideale preparazione per la brillante fuga che segue. Anche alcuni brani del Secondo Libro sono il risultato del rimaneggiamento di composizioni precedenti; si tratta dei preludi e fughe in do maggiore, do diesis maggiore e sol maggiore, del preludio in re minore e della fuga in la bemolle maggiore. In particolare il preludio in do maggiore e il preludio e fuga in do diesis maggiore ebbero almeno tre stadi di elaborazione prima di trovare la forma definitiva del Secondo Libro. Bach perfezionava e limava incessantemente le sue composizioni, anche dopo avere ‘chiuso’ un ciclo e averne realizzato una bella copia; questo era dopotutto inevitabile, dato che le Invenzioni e Sinfonie, le Suites, il Clavicembalo ben Temperato erano il suo principale materiale d’insegnamento. Ogni studente doveva realizzarsi una copia di tutto il Corpus, che usava per le lezioni e per studiare; Bach aveva una fantasia inesauribile e un senso profondo della bellezza e dell’equilibrio formale, perciò non deve meravigliare il fatto che, durante il lavoro giornaliero di insegnamento, gli venissero in mente piccole modifiche. Il risultato è che noi oggi abbiamo varie fonti, autorevoli perché tutte originate nella cerchia della famiglia e degli studenti di Bach, ciascuna caratterizzata da sue particolari varianti; la scelta tra l’una o l’altra spetta all’esecutore, e non è cosa facile! Un’enciclopedia della musica Se Bach è paragonabile a Dante, il Wohltemperirtes Clavier è allora equivalente alla Divina Commedia: è una Summa di tecnica strumentale, di stile, di espressività, di composizione, di estetica. Bach visse in un periodo di importanti trasformazioni nell’estetica e nel gusto musicale: uno degli obiettivi del Clavicembalo ben Temperato è quello di fornire un ca
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talogo il più possibile esaustivo delle forme musicali, sia riprendendo ed aggiornando forme antiche, sia misurandosi con le nuove tendenze formali. Un altro obiettivo era quello di dimostrare che lo stile contrappuntistico poteva essere espressivo, cantabile, e capace di comunicare i sentimenti. Così nei due libri sono rappresentate praticamente tutte le forme musicali e tutte le tecniche compositive, come si può vedere dalla seguente lista, non esaustiva (i numeri romani si riferiscono ai libri Primo o Secondo, quelli arabi alla coppia Preludio-Fuga; p = preludio; f = fuga): Preludio arpeggiato in stile liutistico (I, p1, p6; II, p3) Fantasia organistica (I, p7; II, p1, p11, p16) Versetto d’organo (I, f1; II, f2, f5) Ostinato (étude ante litteram, I, p2, p3, p5, p6, p10/2a parte, p11, p15) Toccata virtuosistica (I, p3, p21; II, p23) Ricercare mono o politematico (I, f4, f8, f22; II, f9, f23) Invenzione a due voci (I, p3, p13, p14, p20; II, p2, p8, p10, p20, p24) Sinfonia a tre voci (I, p18, p19, p23) Sonata a tre (I, p24); Trio (II, p4, p22) Aria, Arioso (I, p8, p16; II, p12, p14) Sinfonia orchestrale (II, p5, p17) Concerto italiano (I, f2; p17; II, f1, p6, f12, p15) Ouverture francese (I, f5; II, p13, f20) Siciliana (I, p4) Pastorale (I, p9; II, p7, p19) Allemanda francese (I, p12) Allemanda italiana (II, p2) Corrente italiana (II, f15) Bourrée (I, f3) Gavotta (II, f13) Passepied (I, f11; II, f24) Giga (I, f15, f19; II, f4, f10, f11) Canzona (II, f7) Sonata (II, p2, p5, p8, p9, p12, p13, p14, p15, p18, p21).
Questa lista è puramente orientativa; nessuno dei 96 pezzi del CbT può essere costretto entro schemi scolastici. Per esempio, tra i pezzi segnalati come Invenzioni a due voci qualcuno non rispetta in toto le caratteristiche di questa forma, e lo si potrebbe chiamare piuttosto Duetto; e quando parliamo di una fuga definendola Giga, Bourrée o Gavotta, segnaliamo la presenza dei moduli ritmici e di carattere tipici di quelle danze, mentre la divisione in due parti con ritornello è ovviamente assente. Ogni brano è diverse cose allo stesso tempo: il lettore avrà notato che nella lista precedente alcuni pezzi vengono menzionati due o tre volte. Per esempio, l’atmosfera generale della Fuga in fa minore II:12 è certamente quella del concerto all’italiana, ma il veloce contrappunto libero che pervade l’intero pezzo ha la levità di una Badinerie; richiama il terzo movimento dalla Sonata in si minore (BWV 1030) per flauto traversiere e tastiera. È molto interessante indagare come Bach prende formule e temi dei suoi predecessori e dà loro nuove forme e nuovi sviluppi; questo è particolarmente chiaro nel Pri
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mo Libro. Bach apprezzava grandemente l’opera di Frescobaldi, e sappiamo per certo che possedeva una copia manoscritta dei Fiori Musicali; è possibile che avesse altre raccolte del grande ferrarese. Così, il soggetto della Fuga I:12 in fa minore potrebbe essere un ripensamento del soggetto del Recercar Cromaticho [sic] post il Credo dai Fiori Musicali (Venezia 1635, es. 1). Il primo soggetto della Fuga I:4 in do diesis minore ha due antecedenti: il primo soggetto del Recercar Primo (da Recercari et Canzoni Franzese, Venezia 1615; es. 2), e il corale Nun komm der Heiden Heiland, versione tedesca dell’inno Veni Redemptor Gentium. David Ledbetter,5 tra gli altri, segnala ulteriori possibili relazioni tra alcuni temi di Bach e opere preesistenti: la fuga in mi minore I:10 con il Preludio in mi minore di Buxtehude (BuxWV142) e il Preludio in mi minore di Bruhns (es. 3; dall’inizio del Barocco il modo di Mi sembra essere regolarmente associato al cromatismo).
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DAVID LEDBETTER, Bach’s Well-Tempered Clavier, Yale University Press, New Haven and London, 2002, 2/2006, pp. 13-34.
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Interessante anche la comparazione che Ledbetter fa tra il Magnificat secundi toni di Johann Caspar Kerll la fuga in sol diesis minore (I:18, es. 4).
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Le somiglianze tra temi del CbT e temi della Ariadne Musica di Fischer, poi, sono numerose; ci limitiamo a segnalarne due (es. 5)
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Le nuove tendenze formali sono rappresentate per lo più nel Secondo Libro. Qui molti preludi seguono la nuova forma di Sonata, che è l’evoluzione settecentesca del movimento di danza bipartito. La sua caratteristica peculiare è la struttura tonalmente orientata organizzata intorno a due o più idee; non deve essere confusa con la formasonata del periodo classico. La struttura tonale è grosso modo la seguente: Tonica → Dominante :||: Dominante → digressione modulante → Tonica :|| La prima parte può terminare su un grado diverso dalla Dominante, per esempio sul relativo maggiore se il pezzo è in tonalità minore. La digressione include normalmente una cadenza alla sottodominante, che nei pezzi in tonalità minore può anche essere sostituita dalla relativa. Questo semplice schema, molto flessibile, permette al compositore di esprimersi con la più ampia libertà; Domenico Scarlatti se ne serve in gran parte delle sue Sonate, con i risultati che sappiamo. Esso si sviluppa intorno a due o più brevi ‘temi’ il cui contrasto spesso dipende più dalla posizione tonale che da un’intrinseca differenza di carattere. Bach, poi, tende all’integrazione più che alla giustapposizione, e sovente usa la stessa idea – ma trattata in maniera differente – nelle due diverse aree tonali. I preludi in mi maggiore del Primo Libro (I:9) e quello in re maggiore del Secondo (II:5) esemplificano una vecchia e una nuova variante di questa struttura formale. Entrambi possono essere divisi in tre sezioni principali (I:9: b. 1-8, 9-14, 15-24. II:5: 116, 17-40, 41-56); ciascuno di essi utilizza due ‘temi’ che di fatto provengono dallo stesso spunto tematico. A parte l’evidente differenza di lunghezza, che in II:5 comporta uno sviluppo più complesso, è anche interessante il diverso trattamento tonale
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riservato ai ‘temi’. In I:9 la ricapitolazione è una semplice trasposizione della prima parte alla sottodominante, per cui basta ‘lasciar andare’ la musica da sola perché il pezzo si chiuda nella tonalità principale (che viene comunque ribadita da una coda di una battuta e mezzo). In II:5 la ricapitolazione della prima parte è già nella tonalità principale, e questo richiede alcuni aggiustamenti perché entrambi i temi vi rimangano. La ricapitolazione non riprende necessariamente tutte le idee esposte nella prima parte. Il Preludio II:7 (mi bemolle maggiore) enuncia solo il tema d’apertura (b. 61), mentre il Preludio II:10 (mi minore) riprende tutto il secondo gruppo tematico (b. 81108, che sono la trasposizione di b. 25-48). Il Preludio II:9 (in mi maggiore) ha una struttura che diventerà la regola nella Sonata settecentesca: |: 1° tema (Tonica) → 2° tema (Dominante) :| |: 1° tema (Dominante) → digressione →2° tema (Tonica) :| Anche in questo caso la Dominante può essere sostituita da altri gradi. Domenico Scarlatti usa questa struttura in molte Sonate, tra le quali quasi tutti gli Essercizi. Come si vede, dalla citazione di forme musicali più arcaiche come il Ricercare, il Mottetto, il versetto organistico, fino alle più moderne versioni della Sonata galante, il Clavicembalo ben Temperato può veramente essere considerato un’Enciclopedia della musica. Gli strumenti Su quali strumenti a tastiera suonare questa musica? Attualmente si discute se il termine Clavier denotasse tutti gli strumenti cordofoni a tastiera (clavicembalo, spinetta, virginale, clavicordo, fortepiano) o si riferisse specificamente al clavicembalo (tesi sostenuta da D. Ledbetter).6 Comunque sia, tutti i vari strumenti a tastiera erano in uso nella pratica quotidiana di casa Bach. Dall’inventario degli strumenti redatto dopo la sua morte apprendiamo che in casa erano presenti vari strumenti ad arco, vari clavicembali, due Lautenwerke (clavicembali con corde di budello), due clavicordi con pedaliera7 e un ‘fournirte Clavecin’. Cosa avrà significato questo termine? Tradotto letteralmente è uno ‘strumento impiallacciato’ (il termine Clavecin ha lo stesso valore generico del tedesco Clavier), cioè con legno a vista, non laccato e non decorato. Molti clavicembali tedeschi hanno la cassa impiallacciata e non decorata, ma questo particolare strumento viene valutato 80 talleri, valore ben superiore a quello dei ‘normali’ Clavecins, che andavano intorno ai 20-25 talleri; è possibile dunque che fosse uno dei famosi fortepiani di Gottfried Silbermann, notoriamente così costosi da essere accessibili solo a Federico il Grande e a pochi aristocratici. La dinastia dei Silbermann vanta grandi costruttori di strumenti a tastiera; in particolare Gottfried (1683–1753) costruì, oltre a magnifici organi, clavicembali e clavi6
LEDBETTER 2002/22006, pp. 13-34. Ci saranno sicuramente stati vari piccoli clavicordi da studio; non vengono menzionati nell’inventario perché, essendo di poco valore, saranno stati divisi in precedenza tra i membri della famiglia. 7
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cordi, anche fortepiani, la cui meccanica è praticamente identica a quelle degli strumenti costruiti a Firenze da Bartolomeo Cristofori. Dresda e il suo teatro italiano erano vicini, e molti cantanti italiani avevano con sé fortepiani fiorentini (che ritenevano più adatti all’accompagnamento), perciò non è impossibile che Silbermann li abbia visti da vicino, o che addirittura ne abbia avuto uno in bottega. I primi esemplari non piacquero a Bach, che trovò la meccanica troppo pesante e gli acuti troppo deboli, e Silbermann lavorò per anni al superamento di questi inconvenienti. Secondo la testimonianza di Carl Philip Emanuel, Bach si dichiarò soddisfatto dai modelli più perfezionati;8 è noto che li suonò in occasione della sua famosa visita a Federico II di Prussia, e non è azzardato ipotizzare che ne possedesse egli stesso uno. Bach era legato a Silbermann da amicizia e stima reciproca (erano anche compari di battesimo di rispettivi figli) e da musicista curioso ed interessato alle novità ne frequentava assiduamente la bottega: in mancanza di una confessione autografa dobbiamo considerare altamente probabile la possibilità che anche lui avesse acquistato un bel fortepiano. È però giusto che il lettore sappia che egli conobbe questo strumento solo dopo il 1730; eseguirci sopra il Primo Libro è un delizioso anacronismo ma non certo un’eresia: sarebbe ridicolo supporre che Bach ci suonasse sopra solo composizioni scritte dopo averlo acquistato! Non è uno strumento semplice da maneggiare: C.Ph.E. Bach, nell’introduzione del suo Saggio sulla vera maniera di suonare strumenti a tastiera,9 afferma che «bisogna studiarne attentamente il tocco, che non è facile». Questo non spaventava certo i tastieristi dell’epoca, abituati alle sottigliezze e ai tranelli di un altro strumento: il clavicordo, vero antenato del pianoforte, perché la sua azione percuote la corda (a differenza del clavicembalo, che la pizzica). Il clavicordo ha una caratteristica preziosa e unica negli strumenti a tastiera: il dito rimane costantemente a contatto con la corda, perché questa viene percossa da una linguetta di ottone (la tangente) fissata direttamente sull’estremità posteriore del tasto. Oltre al controllo diretto sul suono, l’esecutore ha la possibilità di produrre il vibrato (in tedesco Bebung) sulle note lunghe, che si ottiene imprimendo al tasto ripetute pressioni verticali. È uno strumento utilissimo per lo studio, perché aiuta a raggiungere il pieno controllo delle cinque dita. Le corde di un buon clavicordo sono ben tese, e richiedono dita forti: il contatto diretto dito-tangente-corda ha per conseguenza che, se l’azione prensile del dito non è corretta, la tangente rompe il suono nel momento stesso in cui lo produce, segnalando ogni minima imprecisione di tocco. Ma la vera grandezza del clavicordo sta nella sua capacità di produrre infinite sfumature espressive. Al lettore parrà impossibile, ma una volta che l’orecchio si è adat8
Lo strumento originale ha un’estensione di 5 ottave (da fa grave a mi acuto) e due corde unisone per tasto. È inoltre munito di due leve, poste ai due lati del frontalino, che sollevano l’apparato smorzatore: è cioè possibile suonare intere sezioni senza smorzatori, col risultato che i suoni e le armonie si sovrappongono. Carl Philip Emanuel Bach, nella seconda parte del Versuch, afferma che questo effetto può essere molto gradevole nelle Fantasie improvvisate, avendo cura di restare abbastanza a lungo su ciascuna armonia affinché si ripulisca dalla risonanza della precedente. 9 C.PH.E. BACH, Versuch über die wahre Art, das Clavier zu spielen, Henning, Berlino 1753 (prima parte) e 1762 (seconda parte). Edizione moderna italiana: Saggio di metodo per la tastiera, a cura di Gabriella Gentili Verona, Curci, Milano 1973 e 1993.
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tato alle sue peculiari proporzioni foniche il suono diventa vivo e parlante. Risponde ai minimi cambi di pressione e di articolazione, e l’esecutore scopre che può arricchire ogni frase di tanti piccoli accenti e contrasti che ne esaltano i momenti più espressivi. La maggiore pressione su alcune note le fa suonare più forte ma anche un po’ crescenti (la corda, spinta dalla tangente, si tende un po’), e questo può essere molto utile per enfatizzare una nota alterata o dissonante. Nella polifonia è possibile dare diversa intensità alle voci, e la meccanica risponde benissimo all’agilità veloce e vicina. Infine il clavicembalo: bisogna certamente ridimensionare l’affermazione di Johann Nikolaus Forkel (primo biografo di Bach, che si basò principalmente sulla testimonianza dei figli), secondo il quale Johann Sebastian lo considerava uno strumento ‘senz’anima’ e preferiva in assoluto il clavicordo. È una posizione certamente influenzata dall’estetica Empfindsamer del tardo Settecento e dalla naturale tendenza a mitizzare la figura del Cantor; Bach era un musicista totale, profondo ed esigente, e non avrebbe dedicato tante grandi composizioni ad uno strumento che avesse considerato mediocre e limitato. Da esecutore ‘praticante’ dei vari cordofoni a tastiera posso assicurare che il clavicembalo è perfettamente adeguato alle esigenze espressive di questa grande musica; la polifonia è estremamente trasparente, la meccanica risponde a tutte le sottigliezze di articolazione, l’agilità veloce scorre con chiarezza e precisione. E il pianoforte moderno? Personalmente lo ritengo perfettamente accettabile se l’esecuzione è varia, ricca, espressiva, articolata, se insomma l’esecutore approfondisce seriamente il testo e lo rende con efficacia. Per essere in grado di fare questo bisogna conoscere e capire la lingua, cioè studiare per arrivare a una ‘prassi esecutiva storicamente informata’. Nessuno apprezzerebbe un attore che, non conoscendo bene l’italiano, recitasse Pirandello con vistosi errori di pronuncia, intonazione sbagliata e forte accento straniero; in musica, lo studio della prassi esecutiva relativa a una certa epoca ci permette di rispettare la grammatica e la ‘pronuncia’ di questa particolare ‘lingua’. Purtroppo l’approccio dei pianisti è troppo spesso viziato da una serie di tabù e di luoghi comuni. La tradizione interpretativa pianistica del Novecento ha erroneamente ritenuto che il repertorio settecentesco debba essere eseguito con distacco emotivo, senza espressività, senza alcuna elasticità agogica, con una tavolozza sonora ridotta; questo perché «bisogna imitare il clavicembalo, che è limitato, freddo, metallico, poco sonoro, inespressivo, inadatto al legato, alla cantabilità e all’espressione».10 Perciò grandi compositori del Settecento vengono costretti in questo angusto spazio; Bach è astratto, mistico, matematico, e viene risolto tutto nel “bel suono” e nella precisione e perfezione degli incastri polifonici; un ascolto prolungato richiede l’assunzione preventiva di una pinta di caffè forte… Scarlatti invece è leggero e superficiale: le sue 10
Attilio Brugnoli, a p. 29 della sua pur pregevolissima Dinamica Pianistica (Ricordi, Milano 1926), affermò che gli strumenti precedenti il pianoforte erano più che altro “ingegnosi balocchi”. Era ed è tuttora in nutrita compagnia: ho perso il conto delle volte che ho sentito fare queste affermazioni, anche da musicisti di fama mondiale. Se il clavicembalo fosse veramente l’inutile baracca che molti descrivono bisognerebbe chiedersi come mai i più importanti compositori si siano dedicati ad esso, e soprattutto perché bisogna imitarlo.
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più selvagge sonate scorrono via con algido nitore, suscitando la stessa pena delle tigri in gabbia travestite da clown e costrette a eseguire compiti idioti. Chi non si adegua a questi canoni viene tacciato di cattivo gusto e di improprietà stilistica. Il pianista che voglia affrontare l’interpretazione dell’opera di Bach (e della musica pre-romantica in generale) deve farsi coraggio e non avere paura di essere espressivo e ‘parlante’. Forse la vera difficoltà nell’eseguire il repertorio settecentesco sul pianoforte moderno è la gestione del suono. Il clavicembalo e il fortepiano, infatti, sono caratterizzati da un attacco brillante e da una relativa brevità di tenuta del suono. Questa peculiarità non è uno svantaggio, come potrebbe sembrare a prima vista, perché si integra perfettamente con l’estetica barocca e in generale settecentesca, che predilige i contrasti tra luci ed ombre, tra concavità e convessità, tra pieno e vuoto e, in musica, tra suono e silenzio. La declamazione musicale, fino a fine Settecento, si articola per brevissimi sintagmi, separati da una gamma infinita di articolazioni che va da un quasi impercettibile respiro allo staccato netto. La scrittura tastieristica dell’epoca raggruppa i suoni in modo da avere zone di maggiore o minore densità sonora, che corrispondono a sfumature dinamiche. Nell’evoluzione del pianoforte moderno si sono introdotte modifiche volte ad addolcire l’attacco e ad allungare il suono; inoltre ai nostri giorni i grandi accordatori intonano le tre corde unisone in modo che abbiano un lentissimo battimento, che si traduce in un ‘quasi-crescendo’ del singolo suono. La difficoltà di suonare questo repertorio sul moderno pianoforte consiste nel conciliare queste caratteristiche con la ‘pronuncia’ barocca e classica: non bisogna ‘incollare’ insieme tutti i suoni e, all’opposto, non bisogna suonare tutto staccato. Il pedale va usato poco, e in modo diverso da come lo si usa nel repertorio pienamente romantico (la pedalizzazione ‘sincopata’ non era usata dalla generazione precedente a Chopin e Liszt). La mano sinistra non dovrebbe suonare costantemente mezzopiano. E qui ci fermiamo, perché l’approfondimento della prassi esecutiva ‘storicamente informata’ esula dagli obiettivi di questo contributo.
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INTERVENTI ____________________________________________________________________
Sara Salsano MUSICA E LINGUAGGIO. PROSPETTIVE EDUCATIVE (PER L’INFANZIA E NON SOLO)
Premessa La musica, al pari delle lingue, è una delle più antiche forme di espressione umana. Alcune interessanti teorie dell’evoluzione ci dicono che tutti gli uomini di ogni epoca hanno prodotto musica e che essa, inizialmente, era un mezzo rudimentale per comunicare attraverso i suoni le emozioni-base. Si pensa perciò che da questa primitiva forma musicale si siano poi successivamente evolute le lingue in generale e la capacità dell’uomo di servirsene per comunicare. Da quel momento, anche se la musica e il linguaggio hanno intrapreso strade in gran parte diverse, entrambe hanno giocoforza mantenuto un legame inscindibile con le esigenze biologiche e quindi evolutive, sociali e affettive dell’uomo. Data l’origine comune, è facile allora spiegarsi perché la musica sia istintivamente ritenuta un linguaggio. La si pensa in particolar modo il più delle volte come un canale espressivo privilegiato della nostra sfera emotiva, cedendo spesso all’illusione che essa oltrepassi di conseguenza i confini socioculturali e divenendo così una “lingua” comune a ogni uomo di ogni epoca e di ogni paese. Naturalmente questa erronea prospettiva non tiene conto delle differenze fondamentali che la separano dalle lingue, né delle connotazioni profondamente diverse che la musica assume nelle più svariate culture ed epoche. I sistemi musicali variano infatti in base alle diverse zone geografiche e ai periodi storici, e le più svariate culture di appartenenza filtrano una stessa sequenza di suoni, restituendo di volta in volta agli ascoltatori un “significato” mutevole. Le lingue, riferendosi a delle entità che sono esterne ai suoni prodotti per indicarle, possono essere tradotte, mentre alla musica è negata questa possibilità dato che in essa la forma e il significato coincidono. Le lingue possono poi esprimere concetti relativi a un tempo passato, presente o futuro, al contrario la musica si sviluppa e vive solo ed esclusivamente nel presente. La musica, quindi, non è paragonabile al linguaggio se non in senso puramente metaforico. Eppure, nonostante ciò, essa rimane senza dubbio un affascinante e permeante strumento di comunicazione tra gli uomini. Sarà forse che, a prescindere da ogni coordinata spazio-temporale e in qualità di espressione dell’uomo, essa racchiude in sé tutto quanto è umano. Dalle sfumature emotive al rigore matematico, dall’aspetto ludico alla disciplina, ogni singolo elemento musicale ri167
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specchia la nostra natura. Ecco che allora, anche se in modo non necessariamente univoco, la musica si ripresenta nuovamente ai nostri occhi come un potente strumento comunicativo. La musica come strumento educativo Il riconoscimento delle potenzialità della musica fin qui accennate, negli ultimi decenni ha condotto a numerosi studi, sperimentazioni e ricerche in ambito educativo, col fine di mostrare in che modo questa forma artistica e prima ancora espressiva influenzi profondamente la crescita dell’individuo. Fin da prima della nascita, infatti, entriamo a contatto con un enorme bagaglio di fenomeni sonori che condizioneranno in maniera determinante la nostra persona: dalle voci che accompagnano la nostra nascita al battito cardiaco, dai canti per l’infanzia al patrimonio musicale della nostra cultura di appartenenza, dai suoni ai rumori che danno forma all’ambiente acustico in cui siamo immersi, gli infiniti elementi musicali permeano la nostra esistenza e influenzano impercettibilmente ma in maniera determinante la nostra identità e la nostra percezione del mondo. Ecco allora che l’attenzione agli aspetti musicali delle nostre vite, che sono come detto così fortemente connessi al nostro patrimonio biologico, risulta fondamentale in ambito educativo. Prima ancora di insegnare ai bambini a suonare uno strumento, è infatti indispensabile immergerli in un ambiente che stimoli correttamente la loro capacità di ascolto, di discernimento dei fenomeni sonori della quotidianità e dei significati che essi assumono, di riconoscimento degli elementi musicali e del loro uso per fini comunicativi esattamente come avviene per il linguaggio. Accade, infatti, che ciascun bambino, fin dalla nascita, entri a contatto con un’abbondante quantità di stimoli linguistici di ogni tipo e così, per immersione, impara a comprenderli e a servirsene a sua volta; questo avviene perciò molto tempo prima di andare a scuola e di iniziare a studiare sistematicamente la propria lingua madre. Ma in quanti casi una simile attenzione da parte degli adulti verso i bambini riguarda anche, ad esempio, il ritmo, i suoni o il movimento a essi connesso? La musica e le lingue, pur nelle loro differenze prima accennate, condividono moltissime caratteristiche come ad esempio l’uso del canale fono-articolatorio, gli accenti, il ritmo, l’intensità e l’altezza dei suoni. Educare i bambini fin dai primi mesi di vita a conoscere e a distinguere simili elementi risulta perciò fondamentale non solo dal punto di vista musicale, ma anche linguistico ed espressivo in genere. La maggior parte dei significati che comunichiamo non dipende infatti dalle parole, ma dalla “musica” e dagli atteggiamenti fisici che le accompagnano. In ambito educativo, alla musica e agli elementi di cui essa si compone va allora riconosciuto un basilare contributo per lo sviluppo del linguaggio, e quindi per la possibilità che ciascun individuo può avere di entrare concretamente e profondamente in contatto con il mondo esterno e con gli altri.
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MUSICA E LINGUAGGIO
Apprendimento musicale e linguistico: un progetto di integrazione La musica e le lingue, nei primi anni di vita, ci pongono grossomodo di fronte alle stesse fasi di apprendimento. Si passa cioè da un primo momento in cui il bambino, per immersione, assorbe le innumerevoli possibilità sonore della propria lingua e della propria cultura musicale di appartenenza, fino ai primi incerti tentativi di sperimentazione per pura imitazione. Questa fase, supportata dal feedback e dal rinforzo delle figure di riferimento, dal punto di vista linguistico conduce gradualmente all’uso consapevole dei suoni per fini comunicativi. La vera differenza tra apprendimento musicale e linguistico, ossia la grande mancanza del nostro sistema culturale, risiede allora proprio nella scarsezza, se non assenza, di supporto “musicale” consapevole in questo passaggio: se un bambino di pochi mesi di vita viene cioè continuamente stimolato a pronunciare in maniera corretta determinate parole e ad associarle agli oggetti che esse indicano, molto raramente accade lo stesso con tutta una serie di pattern ritmici, melodici, armonici e di caratteristiche timbriche. O almeno, è alquanto insolito che ciò avvenga in una prospettiva musicale, piuttosto che linguistica. È infatti istintivo per ognuno, ad esempio, modificare i parametri musicali quando ci si rivolge a bambini che ancora non hanno imparato a parlare: il ritmo verbale rallenta, l’intensità vocale aumenta o si riduce in base alle specifiche reazioni dei neonati, i timbri variano maggiormente per rafforzare il senso di quanto si sta dicendo. Con i nostri interlocutori non-verbali parliamo, cioè, attraverso la musica, mediante uno specifico linguaggio definito Infant Directed Speech, presente in ogni cultura di ogni epoca e le cui caratteristiche sono quindi, con ogni probabilità, parte integrante del nostro patrimonio genetico. Date queste premesse circa la forte interconnessione tra musica e linguaggio, si fa strada allora la possibilità di servirsi consapevolmente degli elementi musicali per educare i bambini all’esistenza, al riconoscimento, all’apprendimento e all’uso delle lingue straniere. Anche se la ricerca in questo ambito è ancora molto scarna, non mancano le fruttuose sperimentazioni sul campo, specialmente all’estero. Si tratta di progetti in cui, riprendendo le fasi di apprendimento di musica e linguaggio e basandosi sulle esigenze specifiche delle diverse fasi di sviluppo dei bambini, vengono strutturate delle attività in cui la musica è un consapevole strumento di trasmissione delle diverse caratteristiche linguistiche. La possibilità di ideare un “contesto” narrativo e ludico grazie alla musica, in tali progetti, mette i bambini in condizione di comprendere il significato di quanto viene cantato o ritmato in lingua straniera senza la mediazione della propria lingua materna. L’innato piacere per la musica, ancora, fa sì che i bambini possano sperimentare liberamente sequenze di suoni diversi da quelli della propria lingua materna senza percepire alcun tipo di pressione o frustrazione. Infine, se la musica va a influenzare la nostra memoria a lungo termine, servirsene per l’apprendimento linguistico risulta importante anche sotto questo aspetto. Le osservazioni sul campo mostrano in maniera chiara l’efficacia di un simile approccio per l’apprendimento linguistico. Tuttavia, ancora poche sono le ricerche svolte secondo questa prospettiva per via del loro carattere multidisciplinare: il
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gruppo di persone coinvolte dovrebbe infatti da un lato conoscere a fondo la musica e gli elementi di cui si compone, dall’altro, parallelamente, la lingua straniera oggetto di insegnamento; occorre poi una conoscenza approfondita di tutto quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, motorio, sociale dei bambini nei primi mesi e nei primi anni di vita, per poter modellare gli stimoli linguistici e musicali in base alle loro esigenze. L’interesse verso questo ambito risulta però sempre più urgente: sia la musica che le lingue, infatti, sono portatrici di numerosi e complessi bagagli socioculturali, che possono così essere trasmessi e condivisi per educare i bambini all’integrazione, che è tale solo se si conosce e riconosce il valore di quanto di umano tali forme espressive comunicano. Ecco allora che in una fase culturale così precaria come quella che stiamo vivendo, approcci multidisciplinari che riguardino l’apprendimento linguistico e musicale possono fare la differenza per quanto riguarda l’educazione globale dell’individuo. C’è bisogno allora del lavoro degli esperti dei vari ambiti di riferimento che, ancor prima di condurre i bambini a una performance musicale o linguistica, possono guidarli a diventare innanzitutto individui aperti a quanto di inestimabile ogni cultura può offrirci.
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Antonio Grande DIVENTARE MUSICISTA. A PROPOSITO DI UNA INDAGINE SOCIOLOGICA SUI CONSERVATORI DI MUSICA IN ITALIA1 Mi preparai all’incontro [con il Maestro Vitale] con l’intenzione di fare bella figura. Al Saggio, a Bari, avevo preparato il Carnevale di Vienna di Schumann e lo suonai nel corso della prima lezione, nella sua casa di via Mergellina davanti a un panorama mozzafiato. Eseguii il pezzo con impeto e la speranza di impressionarlo. Lui non mi disse nulla, non mi fece i complimenti. Credette subito nelle mie doti. Però mi mise, come suol dirsi a pane e acqua […]. Passavo ore e ore al pianoforte, i miei familiari mi avranno odiato per quei martellamenti continui, monotoni. A quel tempo non pensavo affatto di diventare un direttore d’orchestra. Imparavo il pianoforte, la musica, e imparavo, dal Maestro, cos’era una frase musicale, la fedeltà al testo.
Questa testimonianza di Riccardo Muti a proposito dei suoi esordi pianistici napoletani – riportata nel bel libro della sociologa Clementina Casula – sintetizza cosa significasse ancora alla metà del secolo passato studiare musica accademicamente: comprendere il repertorio occidentale colto, scritto; rievocarlo, ridargli vita e attualità tramite lo strumento eletto. Le note imprigionate, custodite dal foglio pentagrammato, grazie appunto alla mediazione dell’esecutore/interprete ritornano a cantare e a vibrare, ripetendo ogni volta il miracolo di Lazzaro. Un metodo razionale e ordinato di lavoro, un apprendimento obbediente e un passaggio di testimone da maestro ad allievo, ha consentito a quest’arte prodigiosa di attraversare i secoli. Lo studio di uno strumento affiancato da quello della Composizione, della Direzione d’Orchestra, della Storia della musica permette poi di accedere ai saperi musicali ‘alti’ e concettuali, ormai affrancati, del tutto o quasi dal faticoso gesto psicomotorio. Questo collaudato percorso formativo, regolamentato dal Regio Decreto n. 1945 dell’11 dicembre del 1930, recava la seguente intestazione: “Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale ed approvazione dei nuovi programmi di esame”. A firma di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, nella fase ancora ascendente dell’Era fascista, si riordinava – non senza dissidi e divergenze anche sostanziali tra i redattori del testo – la legislazione in materia2 con due finalità: formare da un lato compositori, direttori d’orchestra e solisti virtuosi di stampo tardoromantico, masse orchestrali e corali dall’altro. Il Fascismo era soprattutto interessato alla musica come strumento di propaganda e di formazione sociale, all’organizzazione gerarchizzata delle maestranze d’orchestra, di coro e di banda, ma in ossequio al principio d’autarchia, favoriva anche la nascita di nuove musiche italiane: bisognava essere autosufficienti in tutto e dimostrarlo al mondo. Il titolo culturale d’accesso richiesto era la promozione alla quinta elementare, ma era1
Il presente intervento è stato stimolato dalla lettura di CLEMENTINA CASULA, Diventare musicista. Indagine sociologica sui Conservatori di musica in Italia, Mantova, Universitas Studiorum S.r.l.Casa Editrice, 2018, pp. 345. 2 I principali riferimenti preesistenti, normativi del settore erano il R.D. del 2 marzo 1899, la L. 734/1912, il Decreto luogotenenziale n.1852 del 5 maggio 1918. 171
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no ammessi anche allievi più piccoli, per meriti speciali. Va precisato che all’epoca il superamento della quarta classe elementare già consentiva l’iscrizione alla prima ginnasiale, mentre frequentava la quinta elementare soltanto chi non intendeva poi proseguire gli studi. Pertanto l’iscrizione al Conservatorio veniva considerata comunque una formazione secondaria, per quanto atipica. Con l’istituzione della scuola media unificata obbligatoria nel 1962, la licenza media divenne il nuovo titolo d’accesso richiesto. Molti istituti vennero perciò dotati di una sezione di scuola media annessa al fine di consentire la doppia scolarità nello stesso sito. È chiaro dunque come il requisito dell’approccio precoce fosse basilare, in ossequio al vecchio, ma mai superato principio secondo il quale per ben apprendere uno strumento bisogna iniziare a praticarlo correttamente prima che si sviluppi l’anatomia adulta, in modo che il fisico, evolvendosi, possa conformarsi a quelle specifiche necessità motorie. Il Regio Decreto prevedeva quindici Scuole di materia principale, graduate secondo un criterio d’importanza e di durata degli studi, che vedeva al primo posto la Composizione (corso decennale) e agli ultimi il Corno, la Tromba e il Trombone (corsi esaennali). Rispetto alla durata l’unica vistosa “precedenza in deroga” era accordata al diploma di Canto ramo cantanti, ossia per solisti e non didatti, che pur avendo durata quinquennale si collocava al terzo posto della ristretta lista. Le Scuole rilasciavano, a studi ultimati, il relativo diploma preceduto dagli esami di compimento inferiore e medio (nei corsi decennali) nonché dalle licenze delle poche, ma fondamentali materie complementari; si completava così il percorso didattico dei futuri professionisti della musica.3 Dal punto di vista del corpo docente si creava dunque una significativa e nemmeno implicita gerarchia tra i titolari delle Scuole e quelli dei Corsi complementari; l’insegnamento del Canto prevedeva inoltre la figura non docente del maestro collaboratore al pianoforte, così come nei teatri lirici.4 Tale impalcatura didattica si è retta per settant’anni, con alcune integrazioni e ampliamenti,5 fino alla Riforma dei Conservatori introdotta dalla Legge cornice n. 508 del 1999 che delegava al Ministero competente la successiva emanazione di regolamenti attuativi. Proprio il ricorso a una regolamentazione secondaria, osserva la Casula, ha reso di fatto l’autonomia dei Conservatori parziale e manipolabile dal Ministero attraverso circolari e altre fonti normative subordinate, a differenza di quanto accade per il comparto universitario, dove ogni modifica sostanziale richiede un intervento legislativo ad hoc. 3
I diplomi antecedenti al 1930, ad esempio in Pianoforte, avevano una durata di nove anni e prevedevano due soli esami di compimento al settimo e nono anno: la licenza di grado normale (che costituiva già un titolo finito spendibile ad esempio per insegnare privatamente) e il diploma di concertista. Dopo il 1930 solo il programma di Arpa conservò il precedente impianto didattico e di durata. 4 I pianisti accompagnatori nelle classi di Canto solo oggi si stanno avviando a concludere la loro annosa battaglia per il riconoscimento dello status di docente di prima fascia, al pari di tutti gli altri. 5 Tra le più significative integrazioni ricordiamo la stabilizzazione dei diplomi Saxofono, Chitarra, Strumenti a percussione e Clavicembalo (corso triennale per i diplomati in Organo o Pianoforte), inoltre la creazione ex novo della composita disciplina di Didattica della Musica per la formazione degli insegnanti di Educazione musicale nella Scuola media e negli Istituti magistrali, il diploma in Jazz, in prevalente prospettiva storico/compositiva.
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Dopo l’approvazione definitiva della L. 508, avvenuta il 2 dicembre del 1999, pare in maniera rocambolesca,6 si è verificata per diversi anni la coesistenza o, meglio, la coabitazione del previgente ordinamento in via di estinzione e del nuovo percorso di studi ancora agli albori e in via di regolamentazione. Attualmente si può dire che il vecchio ordinamento è quasi scomparso, mentre il nuovo rimane non ancora del tutto disciplinato, ma solo in alcuni aspetti. La seppur parziale autonomia riconosciuta, ha consentito la nascita di programmi di studio afferenti a culture musicali di tradizione non accademica e basate poco o punto sulla scrittura musicale convenzionale: il jazz, il pop, il rock, la musica etnica e così via. Altre grandi novità riguardano l’avvio di corsi di Tecnico di registrazione, di Management musicale, di Diritto e legislazione dello spettacolo, il maggior spazio dedicato alle nuove tecnologie, alla musica elettronica e a quella di animazione. Come giustamente osserva la Casula si è passati da una visione monoculturale dell’insegnamento musicale ad una multiculturale; importanti ambiti artistici che in passato innalzavano con orgoglio il vessillo dell’irriverenza alla cultura ufficiale, della provenienza on the road e non libresca, esibiscono oggi nel salotto buono una certificazione accademica, con tanto di timbro e cornice! Bob Dylan che non è andato a Stoccolma a ritirare il premio Nobel non fa più tendenza, anzi molti ragazzi non sanno nemmeno chi sia stato, ma nei corsi pop magari suonano e cantano le sue canzoni. L’autrice si sofferma a lungo sulla sofferta gestazione di questa legge di riforma e del suo articolato, impervio iter nelle commissioni parlamentari: del ridimensionamento proposto dai sindacati confederati, del determinante ruolo dell’Unams, maggiore sindacato di categoria capeggiato dalla professoressa Dora Liguori (chiamata, a suo stesso dire, a una ‘guerra santa’), del difficile rapporto con il mondo universitario, della nascita dell’Afam, della necessità di uniformare i vetusti, ma spesso più complessi percorsi di studio italiani al contesto comparato della Comunità europea. Ulteriore novità è l’uguale durata di tutti i percorsi di studio, che partono però da un livello intermedio e si articolano in un triennio e in un biennio, così come in quasi tutta Europa;7 il titolo culturale di accesso è la scuola media superiore. Sono stati aboliti i limiti massimi di età per l’ammissione come pure gli esami per candidati privatisti. Le tradizionali votazioni in decimi sono oggi equiparate a quelle universitarie in trentesimi, mentre i diplomi accademici si rilasciano in centodecimi.8 L’art. 2 quarto comma della L 508 incorona i Conservatori quale “sede primaria di alta formazione, di specializzazione e di ricerca” nonché come enti di “correlata attività di produzione 6
Si riporta testualmente la nota 101 a pag. 136 del volume: “lo stesso senatore Asciutti raccontò del blitz da lui orchestrato mettendo in votazione il disegno di legge quando uno dei senatori, che in Commissione aveva manifestato parere contrario, si allontanò dall’aula per recarsi in bagno” (Roselli 2015: 61 – 60). 7 In Spagna ad esempio il percorso si articola in quattro anni più uno. 8 Il passaggio al nuovo sistema valutativo degli esami ha comportato un sensibile innalzamento generale dei voti: prima raggiungere l’otto o il nove era già un successo, mentre oggi un ventiquattro è quasi un distintivo d’ignominia. Il sistema a crediti formativi, nonostante la correzione della media ponderata, consente di tesaurizzare le buone votazioni acquisite in materie collaterali a discapito della centralità valutativa della disciplina caratterizzante.
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artistica”. Nel volume di Clementina Casula con grafici e tabelle viene chiaramente evidenziato quanto i Conservatori siano numericamente aumentati – dall’unità d’Italia al 1999 – da sei a circa ottanta, generando con la riforma una sovrabbondanza di alta formazione a discapito della didattica di base:9 infatti oltre la metà della popolazione scolastica precedente si concentrava nei corsi inferiori (più di ventimila iscritti in tutt’Italia) oggi scomparsi. Gli allievi principianti possono ora iniziare la formazione privatamente, oppure verticalizzando gli studi nelle scuole medie ad indirizzo musicale e poi nei licei musicali,10 oppure accedendo ai corsi propedeutici istituiti in diversi (ma non in tutti)11 Conservatori italiani. Insomma mentre prima, avendo la fortuna di incontrare un bravo docente, si potevano compiere tutti gli studi in maniera unitaria e conseguenziale secondo una metodica di bottega artigiana, oggi l’allievo ammesso al Triennio in Conservatorio ha spesso già sperimentato più didattiche che non sempre concorrono alla solidità della sua formazione di base, difficilmente recuperabile in seguito.12 A dispetto della descritta scomparsa dei corsi inferiori di studio tradizionale, la popolazione complessiva degli iscritti negli istituti musicali post riforma è però cresciuta, proprio per merito dei nuovi ambiti disciplinari che hanno apportato variegate e più vaste platee di utenza. Sono inoltre sensibilmente aumentate le ore dedicate ai pur necessari saperi collaterali (corsi di informatica musicale, lingua straniera, consapevolezza corporea, metodologia dell’insegnamento, trattati e metodi, ear training e così via) per cui uno studente di oggi è sicuramente dotato di una mag-
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I Sindacati confederati, nelle commissioni parlamentari antecedenti alla L 508 proponevano la secondarizzazione della maggior parte dei Conservatori esistenti e la creazione di pochi istituti superiori di alta specializzazione con docenti di chiara fama. 10 Le scuole medie ad indirizzo musicale e i più recenti licei coreutici e musicali si inquadrano in un sistema di orientamento e di “educazione diffusa” che consente un avvicinamento significativo agli studi musicali, ma che possono poi rimanere a livello di mera conoscenza perché il titolo finale ben consente di diversificare il prosieguo delle scelte in tutt’altro ambito lavorativo: l’allievo diplomando del liceo musicale non ha ancora formalmente deciso il suo futuro e potrebbe accedere a qualsiasi facoltà universitaria, a concorsi pubblici o occupazioni di ogni genere. Il carattere diffuso e informativo della musica è avvalorato anche dal fatto che fino al quarto anno, ossia fino a quasi diciott’anni, l’allievo pratica due strumenti, per cui lo studio non può essere veramente mirato e approfondito come richiederebbe un apprendimento professionalizzante. Non tutti i dirigenti scolastici dei licei musicali sono favorevoli, inoltre, al tutoraggio negli esami di ammissione e di verifica da parte del conservatorio territorialmente viciniore, quale istituzione di livello terziario. 11 Diversi Conservatori, soprattutto se non a corto di iscritti, hanno rinunciato ad attivare i corsi propedeutici, a maggior conforto della nuova levatura universitaria della formazione offerta. 12 Si pone oggi un avvertito problema di identità didattica per molti allievi che magari hanno iniziato da piccolissimi a studiare uno strumento con un familiare o un amico, poi hanno avuto un (o più) professore alle SMIM, un altro (o più) professore al liceo musicale, ed infine un ultimo che li ha preparati all’ammissione in Conservatorio. Questa situazione in apparenza paradossale di “condominio didattico” è piuttosto comune e crea non pochi problemi nel discente e nel docente: entrambi devono con cautela dipanare questa aggrovigliata matassa di tecniche strumentali, di sentimenti di affezione a precedenti insegnanti, di estetiche e di confuse visioni strumentali confliggenti, per poter proficuamente interagire.
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giore cultura generale, ma a causa della frequenza obbligatoria,13 ha meno tempo da dedicare alla materia principale che ambirebbe a padroneggiare: non riesce cioè a dedicarsi a quei fondamentali e monotoni martellamenti che ricorda Riccardo Muti. Tutto sta nel capire se, ad esempio, i trattati e metodi sia più importante saperli illustrare verbalmente o sperimentarli allo strumento. È ormai quasi del tutto tramontata l’epopea ottocentesca dell’artista classico, divo e virtuoso; probabilmente un giovane allievo di oggi aspira più a partecipare a un talent show di successo, a ricevere migliaia di like nelle comunità virtuali, che a esibirsi da solista in un grande teatro di tradizione. Si tratta perciò di una ‘rivoluzione copernicana’ davvero difficile da verbalizzare e perimetrare, un cambio di passo che vede oggi gli studi musicali in mezzo a un difficile guado, dove si son perse di vista le ben conosciute identità del passato, ma non si scorgono ancora le sponde dell’approdo. Va anche aggiunto che la maggior parte dei docenti in servizio proviene come formazione da quel mondo estinto ed è anche giuridicamente collocata in un ruolo ad esaurimento: quasi tutti i titolari odierni, poiché appartengono in prevalenza alla quarta decade di servizio, nell’arco di un decennio saranno collocati a riposo. Per correttezza d’informazione va anche rilevato che il piccolo comparto del personale docente dei Conservatori (poco più di settemila unità) si sia spesso avvantaggiato in senso corporativo della sua atipicità: le istituzioni di alta cultura – contemplate nell’art. 33 della nostra Costituzione – pur essendo collocate nominalmente nel segmento terziario e apicale degli Studi, godono di una ambigua contrattazione di lavoro decentrata, quasi un atto di volontaria giurisdizione tra le parti sociali e il Ministero, che consente al personale docente di assommare alle già tante vantaggiose prerogative, anche alcuni benefici di legge propri della tanto aborrita scuola secondaria, ma liberamente reinterpretati, riveduti e corretti.14 Con il progressivo pensionamento di tutto il personale reclutato con l’ultimo grande Concorso per titoli ed esami indetto nel 1990 e non prospettandosene al momento un altro, è difficile ipotizzare come verranno assunti i professori del futuro; scrive in merito la Casula «l’accesso alle docenze in Conservatorio, ma soprattutto la successiva stabilizzazione, segue logiche non facilmente prevedibili, legate ai personalismi localistici nell’affido delle supplenze, al meccanismo ondivago delle graduatorie/sanatorie […], ai vincoli posti all’organico assegnato in dotazione a ciascun Istitu13
La frequenza obbligatoria minima per sostenere gli esami si attesta tra il 70 e l’80% delle ore di ciascun modulo didattico. Spesso i ragazzi sono frastornati dalla sovrapposizione dei corsi e non hanno il tempo di metabolizzare ciò che apprendono a lezione. 14 Valga per tutti la regolamentazione della mobilità del personale docente. Vengono valutati i soli titoli fissi: di studio, l’anzianità di servizio nella disciplina e nella sede di appartenenza, i punteggi per figli minori a carico, l’avvicinamento al coniuge o ai figli legittimi, naturali o adottivi (ma dal 2002 non più ai genitori, che altrettanto dei figli sono parenti di primo grado, tutelati in tutto il comparto Scuola), secondo uno schema d’automatismo, di lavoro dipendente fungibile che non prevede alcuna valutazione meritocratica di specificità del profilo professionale dell’aspirante e/o di gradimento da parte della sede di destinazione, così come invece avviene nell’Università. Inoltre la legge 104/92 in materia di precedenze e permessi per invalidità civile personale e del congiunto trova solo parziale applicazione: si arriva al paradosso che una normativa regolamentare subordinata deroghi alla legge ordinaria, cogente erga omnes. Anche il termine ultimo di collocamento a riposo obbligatorio dei docenti è fissato oggi a 67 anni, come nella Scuola.
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to» (p. 262). Sotto questo aspetto possiamo ben dire che vecchio e nuovo si tendono la mano in barba a qualunque spirito riformatore. Verosimilmente ci sarà un primato indiscusso della domanda sull’offerta formativa e la nomina di molti docenti a contratto per moduli didattici orari, ossia non più assunti a tempo indeterminato. Proprio perché privi di un’autonomia sostanziale, i Conservatori non sono in grado di attuare una propria politica culturale, restando esposti alla legge di mercato di una utenza, nei grandi numeri, sempre meno qualificata: da ente formatore si trasforma sempre più in ente certificatore e chi è seriamente indirizzato alla professione musicale, se non trova nel pubblico le risposte che cerca, è costretto a rivolgersi altrove, a costose istituzioni private italiane o estere. L’indagine sociologica Diventare Musicista di Clementina Casula è condotta da una studiosa che appare molto ben addentrata nelle tematiche trattate, tanto da lasciar supporre che sia in qualche modo in contatto con questo mondo; lo studio di settore si basa sulla banca-dati Afam/Miur, in rari casi su dati Istat (statistiche sull’istruzione), ma soprattutto su un questionario redatto dalla stessa autrice e sottoposto a vari musicisti e a tutta la classe docente dei Conservatori e Istituti musicali pareggiati italiani, che però vi ha risposto solo in parte, o per motivi personali o per non esserne mai venuta a conoscenza. È ipotizzabile infatti che taluni direttori abbiano snobbato o preferito non divulgare un questionario di cui non si conoscevano a fondo (o forse non si coglievano o si temevano) le finalità. Tali interviste qualitative hanno per l’autrice una valenza conoscitiva e non valutativa del fenomeno studiato e dell’habitus degli interpellati. Interessanti anche le testimonianze di ex studenti che poi hanno abbandonato gli studi o li hanno conclusi, ma si sono dedicati ad altro. Le domande poste non sono mai casuali e riguardano le tante implicazioni collegate allo studio professionale della musica, a partire dagli esordi alle collocazioni lavorative provvisorie e definitive, alla realizzazione cioè delle aspettative artistiche. L’indagine è sempre condotta «riservando una particolare attenzione all’analisi di genere» uomo/donna, cercando di cogliere l’idealtipo che ogni intervistato ha posto a comparazione del suo vissuto reale, ma anche considerando le provenienze da territori rurali o urbani, le classi sociali di appartenenza, la rendita di capitale culturale familiare e l’accoglimento della musica come scelta di vita, la solitudine giovanile derivante dall’etica di un lavoro quotidiano così individuale e orientato, le vocazioni tardive, i disagi della doppia scolarità liceale/conservatoriale, i rapporti con l’insegnante, fino ad arrivare alle delicatissime tematiche degli abusi morali e fisici, delle molestie sessuali. Molto interessante anche il profilo storico (che forse avrebbe trovato miglior collocazione a inizio libro) tracciato a partire dagli antichi istituti caritatevoli di Napoli e Venezia, passando per l’innovazione laica e non assistenziale del Conservatorio nazionale di Parigi del 1795, per arrivare ai primi sei regi conservatori dell’Italia sabauda.15 Questa parte storica è trattata nel terzo capitolo dal titolo Definire il campo ed è 15
Il primo Conservatorio ad essere statalizzato nel 1861 fu quello di Milano, seguito da Napoli nel 1862. Indubbiamente il Conservatorio di Napoli vantava all’epoca una tradizione musicale ben più antica e illustre, ma il debito dei Savoia nei confronti di Giuseppe Verdi, alfiere musicale dell’Italia unita, fece sì che l’istituzione milanese venisse prescelta come scuola di riferimento e modello per
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sicuramente interessante anche per un più vasto pubblico di lettori, mentre il secondo Misurare il campo ha più un taglio statistico e scientifico per addetti ai lavori. Nel quarto si riportano stralci di molte delle interviste del questionario di cui sopra. Nell’ultimo breve capitolo infine si traggono delle conclusioni, che in buona sostanza condividiamo e integriamo con alcune nostre considerazioni: sicuramente questa riforma è partita per rivitalizzare a costo zero (e se possibile riducendo gli organici di diritto) un universo culturale e didattico piuttosto datato che necessitava di un adeguamento alla contemporaneità, ma ha raggiunto solo in parte i suoi obbiettivi. Forse negli anni pre-riforma buona parte degli insegnanti di ambito tradizionale, soprattutto se strumentisti a fine carriera, non ne avvertiva nemmeno appieno l’esigenza, se non per un egoistico riscatto personale di status e/o l’aspettativa di un sensibile miglioramento stipendiale derivante dalla promessa equiparazione universitaria. Detta equiparazione si è veramente realizzata solo per il significativo aumento delle tasse d’iscrizione degli allievi, che in passato pagavano esigue cifre. Il principale vulnus pedagogico16 sta proprio nel fatto di aver intrapreso l’opera dal tetto e non dalle fondamenta della casa, trascurando e affidando un po’ alla buona sorte la formazione dei piccoli allievi esordienti. «Infatti, vista la mancanza di un solido curriculo di formazione musicale nella scuola dell’obbligo, il nuovo sistema di istruzione musicale nazionale assumeva una inconsueta forma “a piramide rovesciata” (Ligios 2016), all’opposto dei tipici modelli di specializzazione formativa» (p. 141). Viceversa gli insegnanti di materie teoriche e culturali, per lo più avulse dalla manualità strumentale, desideravano maggiormente un rinnovamento e una espansione del loro raggio d’azione. Un dato innegabile e altamente positivo per tutti, allievi, docenti, personale amministrativo, è la possibilità di aderire oggi ai programmi europei Erasmus di frequenza/docenza/confronto con omologhe istituzioni estere per periodi più o meno lunghi. Tra gli intervistati nel questionario della Casula il 51% esprime sulla Riforma una valutazione positiva, il 45% negativa e solo il 4% è neutrale. le altre cinque che seguirono: appunto Napoli 1862, Palermo 1876, Parma 1888, Roma 1919 e Firenze 1923. Inspiegabilmente si trascurò Venezia che pur vantava una antichissima tradizione per i suoi Ospitali simili agli istituti partenopei “dove l’indigenza trova, in verità, una risorsa preziosa e la prospettiva di uno stato onesto: ma la classe media prova una certa ripugnanza ad attingervi la propria istruzione” (Pierre 1900: 140). 16 Un’altra seria carenza non didattica, ma burocratica della Riforma, è stata quella di non aver preventivamente riqualificato e ampliato gli organici del personale tecnico – amministrativo: a fronte di una mole di esami notevolmente aumentati per numero e frequenza, della redazione di articolatissimi piani di studio, di bandi pubblici per la selezione di docenti esterni a contratto, di attività di produzione artistica, di piccole gare d’appalto, di gestione di fondi europei per attività Erasmus, di creazione e conduzione di siti web ufficiali, si è sopperito alla meno peggio. Il Ministero in nome dell’autonomia e dell’atipicità ha di fatto consentito, se non favorito, un laisser faire dei singoli Istituti che ha fin qui portato alla produzione di atti amministrativi più di una volta lacunosi o illegittimi, da cui reclami gerarchici e/o giurisdizionali. Di fronte a tali gravami si è spesso reagito, per contro, con un ricorso alquanto disinvolto all’annullamento in autotutela di provvedimenti adottati, e alle prime nubi prontamente ritirati, con conseguente immobilismo gestionale. Sarebbe auspicabile che il Ministero diffondesse per le varie attività specifici fac-simile di atti di verificata correttezza e conformità, vincolanti, almeno come schema formale, per tutte le istituzioni.
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Certamente le discipline strumentali, che richiedono un precoce processo di interiorizzazione psicomotoria non si giovano di queste innovazioni, ma ciò varrebbe tanto per la musica, quanto per la danza o lo sport agonistico: non si decide a diciott’anni di diventare ballerino o calciatore17… tantomeno violinista! A quell’età già si è o modesti o grandi artisti di palcoscenico, i giochi son fatti. Viceversa le discipline musicologiche, compositive, musicoterapiche, imprenditoriali dello spettacolo e in generale gran parte degli ambiti musicali definiti extracolti risultano più compatibili con questo modello organizzativo che propone «un reclutamento aperto a tutte le età, una formazione tardiva a carattere generalista, distribuita in un insieme di unità didattiche funzionali allo sviluppo di competenze trasversali, erogate su base standardizzata» (p. 333). Insomma si è persa una identità secolare che, ripetiamo, andava attualizzata ma non dismessa, imitando le metodiche di una Università, che tuttavia nei fatti si è dimostrata altamente respingente, a tutela di recinti culturali ritenuti di sua esclusiva pertinenza. Temiamo che la frattura di giudizio riportata in questo libro, lungi dal ricomporsi, alla lunga possa portare a una più netta e più corretta separazione di ambiti e forse anche di luoghi fisici di apprendimento di saperi altrettanto importanti, ma strutturalmente diversi. A vent’anni dalla riforma si può tentare un primo sommario bilancio: non vorremmo presentare la situazione attuale in maniera troppo catastrofica, ma certo sarebbe già tempo di correggere un po’ la rotta per evitare pericolose derive. La lettura di DIVENTARE MUSICISTA non è di immediato approccio, ma ci appare altamente consigliata a tutti gli operatori del settore, a genitori inesperti di questo microcosmo che abbiano figli iscritti in Conservatorio, ai simpatizzanti; è una occasione di riflessione e di autocoscienza anche per chi è immerso quotidianamente in queste problematiche e forse proprio perciò non riesce appieno a sistematizzarle e a ben decodificarle. Naturalmente la passione della musica è una urgenza talmente forte in chi la prova che prescinde da ogni tentativo di razionalizzazione, ma avere un po’ di consapevolezza della realtà nella quale si è calati, saper collocare le tessere di un mosaico, sicuramente aiuta a migliorare la relazione con sé stessi e gli altri. L’arte non è mai soltanto un lavoro, ma una ipersensibilità multiforme, un’astrazione dalla quale ogni operatore è chiamato continuamente a entrare e a uscire, un torrente in piena che ciascuno deve nel migliore dei modi governare e canalizzare.
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Si riporta testualmente il parere in merito espresso da un Direttore di ISSM intervistato (Es. IV.164, p. 278): “[C]i sono molte analogie anche con lo sport [nella formazione musicale], perché anche nello sport c’è questo problema: se uno vuole imparare a nuotare per andare ad Ostia e non affogare quando fa il bagno è una cosa; se invece vuole andare alle Olimpiadi a fare i cento metri stile libero, deve cominciare da quando ha sette, otto anni con tre, quattro ore al giorno di vasca…”.
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Massimo Signorini FILIPPO GRAGNANI, IL MANDOLINISTA “RITROVATO” DOPO 200 ANNI Filippo Gragnani iniziò il suo percorso di studio di musica, in Toscana a Livorno tra fine Settecento ed inizio Ottocento, in un ambiente famigliare in cui l’arte della liuteria e della musica era già una passione che si tramandava di generazione in generazione. In particolar modo è da menzionare il padre, Antonio1 che realizzava strumenti, di rara bellezza estetica e d’importante qualità sonora, contraddistinti da un’etichetta in cellulosa riportante la scritta Antonio Gragnani fecit in Liburni anno 17.., (incollata nella tavola interna) e da un marchio a fuoco sul bordo riportante le iniziali A. G., ed un parente stretto di nome Giovanni Battista, nativo di Livorno, egregio suonatore di violoncello che sorprendeva per la facilità con cui eseguiva i passi i più difficili, non meno che per il bellissimo suono che sapeva cavare dal suo strumento. Giovanni Battista2 fece parte della Cappella musicale di Corte Corte dei Principi Regnanti di Toscana3 (fondata da Cosimo I nel 1539) e fu maestro del Granduca Ferdinando III4 intorno al 18205 ovvero dopo la Restaurazione. Filippo Gragnani nacque il 3 settembre 1768: Filippo figlio di Antonio del fu Onorato Gragnani di Livorno e di / donna Mᵃ Cecilia del fu Giuseppe Bianchi di dᵒ luogo sua mog.ᵉ / nacque alle 8 della sera preced.ᵉ fu batt.ᵒ da me D. Giusep/ pe Fellini… fu comp. Pietro di… del fu Gius.ᵉ Bartolini di Livorno.6
Filippo iniziò il suo percorso di studio di musica sacra, contrappunto, organo e violino con Giulio Maria Lucchesi,7 professore e compositore pisano, che a sua volta studiò violino con Giuseppe Moriani8 e Pietro Nardini9 e contrappunto con Ranieri
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G. ROSSI ROGNONI, Galleria dell’Accademia-Collezione del Conservatorio Luigi Cherubini Gli Strumenti ad arco e gli archetti, Livorno, Sillabe, pp. 39,90-92, 247.296. 2 C. GERVASONI, Nuova Teoria di Musica ricavata dall’odierna pratica, Parma, Stamperia Blanchon, 1812, p. 158 3 V. GAI, Gli strumenti musicali della corte medicea e il Museo del Conservatorio L. Cherubini di Firenze, Firenze, Licosa, 1969, pp. 33-40 4 Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, (Firenze, 6 maggio 1769 – Firenze, 18 giugno 1824), è stato Granduca di Toscana dal 1790 al 1801 e dal 1814 al 1824, Granduca di Salisburgo dal 1803 al 1805 (col nome di Ferdinando I) e Granduca di Würzburg dal 1805 al 1814 (col nome di Ferdinando I). 5 G. MONTANARI, Per una storia documentaria degli strumenti ad arco di provenienza granducale conservati al Museo del Conservatorio L. Cherubini, Livorno, Sillabe, 1999, pp. 48-49. 6 Registro dei battesimi e delle nascite dal 1767 al 1770 della Cattedrale di Livorno, n. 38, 4 sett. 1768, p. 159, Archivio Diocesano di Livorno. 7 F. DE BONI, Biografia degli artisti ovvero della vita e delle opere, degli scultori, degli intagliatori, dei tipografi e dei musici di ogni Nazione che fiorirono dai tempi più remoti sino ai nostri giorni, Seconda Edizione, Venezia presso Andrea Santini e Figlio, Venezia, Librai editori, 1852. p. 586. 8 Giuseppe Moriani nacque a Livorno il 16 agosto del 1752. Fu un buon direttore di orchestra, eccellente violinista quartettista e pianista accompagnatore. I suoi primi maestri furono i livornesi 179
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Checchi.10 Il Lucchesi dimorò qualche anno a Vienna ed entrò ai servigi dell’arcivescovo di Salisburgo, componendo duetti per violino e sonate per pianoforte; nel 1799 tornò in Italia e poco dopo cessò di vivere. Attraverso la consultazione delle seguenti fonti (sotto a seguire) custodite presso la Biblioteca Labronica “F. D. Guerrazzi” di Livorno, si può confermare che dal 1794 al 1797 Filippo Gragnani fu attivo come insegnante di mandolino nella città di Livorno, in via San Giovanni 168 (la via maestra), e fu confinante, nella suddetta via al civico 170, con Ranieri Cecchi maestro di cembalo e canto: a) Almanacco di Livorno Anno I per l’anno 1793, presso Giuseppe Zecchini e Comp., sotto le Logge, (andato perso) b) Almanacco di Livorno Anno II per l’anno 1794, presso Giuseppe Zecchini e Comp., sotto le Logge, p. 186 c) Almanacco di Livorno Anno III per l’anno 1795, p.176 presso Giuseppe Zecchini e Comp., sotto le Logge, p. 176 d) Almanacco di Livorno Anno IV per l’anno bisestile 1796, presso la Società Tipografica in Via S. Francesco, p. 136. e) Almanacco di Livorno Anno V per l’anno 1797, presso la Società Tipografica in Via S. Francesco, p. 123 Un’altra curiosità, che si scorge dall’Almanacco di Livorno per gli anni dal 1794 al 1797, è la presenza di un altro insegnante di mandolino e violino, il maestro Luigi Zaffremond (di cui non si ha alcuna notizia). La presenza di due insegnanti di mandolino, in una città di circa 44.000 abitanti, sta ad indicare quanto fosse diffusa la pratica di questo strumento, nella città toscana. In quel tempo Livorno11 era la seconda città della Toscana, e nel resto del mondo famosa quanto Firenze. Non a caso costituiva una tappa obbligatoria del Grand Tour che i Giuseppe Cambini e Pietro Nardini. Studiò armonia con C.M. Clari e fu direttore dell’Orchestra nei Teatri di Livorno. GERVASONI, Nuova Teoria di Musica cit., pp. 115, 191. 9 Pietro Nardini (Livorno, 12 aprile 1722 – Firenze, 7 maggio 1793), violinista tra i più celebrati del secondo Settecento, fu esponente di spicco della antica tradizione italiana e, in particolare, della scuola «Tartiniana», la cui identità stilistica risiedeva nel cantabile, nella ornamentazione espressiva tipica degli Adagio, e nel magistrale virtuosismo tecnico; una scuola che il violinista livornese continuò a Firenze e che formò eccellenti strumentisti. Iniziò lo studio del violino da giovanissimo: è probabile che nella città natale ebbe modo di esibirsi nella cappella musicale della Collegiata, diretta tra il 1722 e il 1752 da Filippo Maria Toci, e non è da escludere che i primi fondamenti di violino e composizione gli siano stati impartiti da didatti attivi a Livorno, come i violinisti Antonio Del Bravo, Francesco Galeotti e Francesco Puccini o l’organista di S. Giovanni Battista, Leonardo Cini., ibid., pp. 1-13. 10 Ranieri Checchi, maestro di Cappella, nato a Pisa nel 1749, si stabilì a Livorno e divenne socio ordinario della sezione musicale della Società di Scienze, Lettere ed Arti a Livorno (di cui era segretario perpetuo il suo studente di composizione Giovanni Paolo Schulthesius, nato il 14 settembre 1748 a Feccheim bei Neustadt e morto il 18 aprile 1816 a Livorno). Checchi compì la sua carriera musicale sotto la direzione del celebre maestro della cattedrale Orazio Mei. 11 O. FALLACI, Un cappello pieno di ciliegie, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 158-160.
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FILIPPO GRAGNANI, IL MANDOLINISTA “RITROVATO” DOPO 200 ANNI viaggiatori stranieri facevano in Italia e nel suo nome esistevano varie traduzioni: prerogativa riservata solo alle metropoli e alle capitali: Leghorn in inglese, Livourne in francese, Liorna in spagnolo. Era anche uno dei porti più noti d’Europa e più frequentati del Mediterraneo, il secondo dopo Marsiglia, e il centro cosmopolita nel quale si potesse abitare. Per popolarla e svilupparne il porto che rimpiazzava quello di Pisa, mangiato dal mare, nel 1590 Ferdinando de’ Medici aveva infatti emesso una legge che assicurava ai residenti privilegi assai insoliti: esonero dalle tasse, alloggio gratuito e corredato d’un magazzino e o d’un negozio ai pescatori e ai marinai con famiglia, annullamento dei debiti inferiori a 500 scudi, condono delle condanne penali subite in patria e all’estero purchè non derivassero da reati connessi all’eresia e alla lesa maestà o al conio di moneta falsa. Risultato nel giro di pochi anni Livorno s’era riempita di fiorentini, lucchesi, genovesi, napoletani, pisani, veneziani, siciliani, ebrei fuggiti o espulsi dalla Spagna e dal Portogallo. Nel giro di pochi decenni s’era riempita anche di inglesi, francesi, tedeschi, svizzeri, olandesi, scandinavi, russi, persiani, greci, armeni, il porto s’era sviluppato più di quel che Ferdinando I avesse ardito sperare e da quasi due secoli offriva uno spettacolo unico al mondo.
È molto probabile che Filippo Gragnani imparò a sua volta il mandolino da Giulio Maria Lucchesi, il suo primo insegnante di musica o da Giovanni Francesco Giuliani,12 anch’egli livornese (violinista, allievo di Pietro Nardini, arpista, direttore d’orchestra, compositore e maestro di Ferdinando Giorgetti,13 capo della moderna scuola toscana). Tra le composizioni del Giuliani spiccano alcune composizioni per mandolino:14 a) Sei quartetti per due mandolini viola e liuto, b) Sei quartetti per due mandolini, flauto e viola, c) Sei quartetti per due mandolini, flauto e violoncello, d) Sei quartetti per mandolino, violino, violoncello o viola e liuto, o due mandolini e archi e) Tre raccolte di duetti per due mandolini. Anche se la pratica del mandolino e la composizione della sua musica furono un fenomeno prettamente italiano, il repertorio per mandolino e violino si diffuse nell’area culturale dell’impero austro-ungarico. Si veda per esempio la presenza di musiche del boemo Van Hall15 e di Emanuele Barbella16 nel Museo di Praga e dei sei Quartetti del livornese Francesco Giuliani a 12
Giovanni Francesco, Giuliani (Livorno, 1760 – Firenze, 1820), nato a Livorno nel 1760, studiò violino a Firenze col grande Nardini, di cui divenne uno degli allievi più illustri, e contrappunto con Bartolomeo Felici. Tutta la carriera di Giuliani si svolse in Firenze dove, giovanissimo, ottenne il posto di primo violino presso il Teatro Nuovo e dove fu direttore d’orchestra del Teatro degli Intrepidi, dal 1783 al 1798. Alcune composizioni autografe, si conservano nel Fondo musicale Venturi della Biblioteca Comunale di Montecatini Terme. 13 Ferdinando Giorgetti (Firenze, 23 giugno 1796 – Firenze, 23 marzo 1867) fu compositore, violinista, didatta e pubblicista fiorentino. Enfant prodige, a cinque anni cominciò a studiare violino con Giovanni Francesco Giuliani, in un percorso che durò 9 anni, mentre nulla si sa della sua formazione da compositore che probabilmente avvenne da autodidatta. Le cronache a lui coeve lo dànno insegnante privato di violino del piccolo Carlo II di Borbone-Parma (1799-1883), ma non forniscono date precise a riguardo. Le opinioni di Giorgetti ispirarono molto le idee di Abramo Basevi (Livorno, 29 novembre 1818 – Firenze, 25 novembre 1885) compositore e critico musicale livornese, uno dei protagonisti della vita musicale fiorentina. 14 E. VELARDE, L’arte del Mandolino, Santiago, Panama, 2015, p. 6. 15 Jan Křtitel Vaňhal, conosciuto anche come Johann Baptist Vanhal (Nechanice, 12 maggio 1739 – Vienna, 20 agosto 1813), è stato un compositore e virtuoso violinista boemo.
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Graz. Ad inizio Ottocento Filippo cominciò ad alternare la pratica del mandolino a quella della chitarra innamorandosi sempre più di questo straordinario strumento. La sua passione lo portò ad intraprendere un rapporto didattico con il maestro napoletano Ferdinando Carulli, raggiungendo in pochi anni un alto livello tecnico, interpretativo e compositivo. L’amore per la chitarra e per la musica strumentale lo portò a lasciare l’Italia, dopo aver pubblicato con Monzino17 e Ricordi18 di Milano e ad intraprendere esperienze concertistiche, compositive, didattiche in Francia ed in Germania, pubblicando, opere per chitarra sola ed ensembles cameristiche, con le più importanti case editrici europee del momento: Carli,19 Gombart,20 Naderman,21 Meissonier,22 Lélu23 ed Heckel24. Le ricerche su Filippo Gragnani si sono imbattute anche sulla consultazione del RISM (The Répertoire International des Sources Musicales), in cui compaiono molte composizioni per mandolino assegnate a Filippo Gragnani e custodite presso la Biblioteca Franjevački samostan Male braće knjižnica di Dubrovnik in Croazia ed altri esemplari di quest’opera a stampa presso il Národní Muzeum di Praga, nella Repubblica Ceca.
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Emanuele Barbella (Napoli, 14 aprile 1718 – Napoli, 1º gennaio 1777) è stato un compositore, virtuoso violinista, mandolinista e insegnante napoletano. 17 L’attuale Gruppo Monzino affonda le sue radici nel lontano 1750 quando Antonio Monzino, il primo di una lunga dinastia, costituisce a Milano, in Contrada della Dogana all’Insegna della Sirena, un laboratorio di strumenti musicali. Da allora, la Famiglia Monzino continua ad operare nel mercato della musica e a dimostrare grande flessibilità nell’accogliere le sfide derivanti dal mercato. 18 Fondata nel 1808 da Giovanni Ricordi, un editore milanese che apprese le tecniche della editoria musicale a Lipsia, la casa editrice iniziò una stretta collaborazione con il Teatro alla Scala già dal 1814, quando Giovanni fu incaricato di copiare tutti i materiali d’orchestra e di canto utilizzati dal teatro milanese. Nel 1825 Ricordi acquista l’intero archivio musicale del teatro, la cui proprietà è la base di partenza della sua attività imprenditoriale come fornitore delle compagnie d’opera di tutto il mondo. 19 L’Editore parigino Carli fu attivo tra la fine del XVIII sec. e la metà del XIX sec. nella Boulevard Montmartre n.14 a Parigi, pubblicò una notevole mole di composizioni (circa 400 numeri d’opera) che ricoprivano ogni genere musicale, tra cui anche quello chitarristico in cui emergevano Ferdinando Carulli e Filippo Gragnani. 20 Johann Carl Gombart (1752-1816) fu attivo sia come flautista che editore, pubblicò una varietà di opere di epoca classica dal 1794 al 1836. Oltre a compositori famosi come Joseph e Michael Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Carl Maria von Weber, il catalogo rappresentava compositori come Franz Christoph Neubauer, Johannes Amon, Adalbert Gyrowetz, Johann Abraham Sixt e Joseph von Eybler e Filippo Gragnani. 21 François Joseph Naderman (Parigi, 1781 – Parigi, 1835). Fu un bravo arpista, compositore, costruttore di arpe e titolare della casa editrice omonima Naderman, fu uno dei primi editori a credere nelle pubblicazioni di Filippo Gragnani. 22 Jean Antoine Meissonier (Marsiglia, 1783 à Marseille – Saint-Germain-en-Laye,1857) è stato un editore, chitarrista e compositore francese. 23 Jean-Baptiste-Pierre Lélu (1768-1850) fu compositore, editore musicale, costruttore di arpe e negoziante di strumenti musicali. 24 Heckel Karl Ferdinand (Vienna, 12 gennaio 1800 – Mannheim, 9 aprile 1870) fu proprietario di una casa editrice musicale e di una fabbrica di pianoforti a Mannheim in Germania.
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FILIPPO GRAGNANI, IL MANDOLINISTA “RITROVATO” DOPO 200 ANNI
Chi scrive può ipotizzare con ragionevolezza che I tre divertimenti,25 non siano altro che i Tre notturni op. 5 composti da Ferdinando Carulli26 per violino e chitarra, e che la dicitura Tre Notturni | à Chitarra, e Mandolino | del Sigr Gragnani, stia semplicemente a confermare che fossero copie appartenute a Filippo Gragnani, per uso sia concertistico che didattico, dato che fu professore di mandolino. Le composizioni in questione, risalgono al 1809, e furono pubblicati dall’editore viennese Tranquillo Mollo.27 Carulli tra il 1797 ed il 1801 si stabilì a Livorno, ove il 15 giugno del 1801 nacque il figlio Gustavo, dall’unione con la francese Marie-Josephine Boyer. In questi anni probabilmente conobbe Filippo Gragnani a cui dedicò il Gran solo varié op. X «À son Ami / Filippo Gragnani» e l’Op. XLVI. Mentre il Gragnani gli dedicò la sua prima opera «Trois Duos […] son Ami […]». Per quanto concerne le altre composizioni per due mandolini (Allegro in C major, Rondos in C major, Minore in C minor, Allegro in Eb major, Instrumental pieces in D major, Minuets in C major, Cantabile in C major, Instrumental pieces in C major, Andante in A major, Rondos in A major, Largo in F major, Allegro in F major) presenti nel RISM ed attribuite a Filippo Gragnani, si può ipotizzare con ragionevolezza che le composizioni non furono da lui composte bensì opere di opere di mandolinisticompositori del XVIII sec. quali Giovan Francesco Giuliani28 e Gabriele Leone.29 Rimane comunque il dubbio per cui l’autore del manoscritto, ovvero un tale L. Leggi P., nonostante il nome leggibile in calce al frontespizio, decise di assegnare a Filippo Gragnani la paternità delle opere in questione. Il chitarrista e compositore livornese Filippo Gragnani morì il 28 luglio del 1820 a Livorno. Nel Registro dei Morti della Parrocchia di S. Martino di Salviano di Livorno (dal 1809 al 1874), a pagina 25
Tre divertimenti op. 5 di F. Carulli: 1° Divertimento in Re maggiore (Andantino /Rondeau, Allegro), 2° Divertimento in Sol maggiore (Andante /Rondeau, Moderato e 3° Divertimento in Do maggiore (Larghetto /Rondeau, Allegro). 26 Ferdinando Carulli (Napoli, 9 febbraio 1770 – Parigi, 17 febbraio 1841), chitarrista e compositore napoletano, iniziò gli studi musicali con un sacerdote e il suo primo strumento fu il violoncello, che però abbandonò ben presto a favore della chitarra, a cui si dedicò intensamente per tutta la vita. Nell’aprile 1808 si trasferì a Parigi, ove visse con grande operosità sino al 17 febbraio 1841. 27 Mollo Tranquillo (Bellinzona, 1767-1837) si trasferì in giovane età a Vienna, probabilmente prestando servizio come incisore nella casa editrice Artaria & Co. Da dipendente della ditta, nel 1793 ne divenne socio. Nel 1798, causa dissidi interni e pure in seguito agli avvenimenti della guerra, la ditta Artaria si sciolse ed ogni socio ebbe una parte delle opere in magazzino. Così si arrivò alla fondazione della casa editrice Tranquillo Mollo & Co, diventata, qualche anno dopo, del solo Mollo. 28 Già citato. Si veda nota 8. 29 Gabriele Leone (Napoli c. 1735 – Napoli c. 1790), musicista napoletano, visse a Parigi dal 1760 al 1785 circa. Fu un virtuoso di violino e mandolino, scrisse importanti metodi per mandolino e composizioni per violino e mandolino. Fu uno dei più importanti insegnanti di mandolino in Europa. Tra le sue pubblicazioni: 1768, Paris, Méthode raisonnée pour passer du Violon à la Mandoline - 1767, Paris, 6 Sonates pour mandoline et basse continue, Livre 1 opus 1, 1770 - Paris and Lyon, Six sonates de mandoline et basse marquées des signes suivant la nouvelle méthode opus 2, 1772, Paris, [6] Duo pour deux violons qui peuvent se jouer sur la mandoline et sur le par-dessus.
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80 ed in data 29 luglio 1820, è riportato il seguente atto di sepoltura: Filippo30 del fu Antonio Gragnani e della fu / Anna Mᵃ Bianchi di an. 59 morì ieri alle ore 7 del matt.o munito dei SS. Sacr.i e della raccomandazione dell’anima / oggi fu associato a q.ta Chiesa, e sepolto in q.to Cimitero.
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Archivio Diocesano di Livorno, Registro dei morti della parrocchia di S. Martino di Salviano, Livorno, 29 ott. 1820, p. 80.
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Diletta Picariello LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2019 L’anno 2019 è stato per il Conservatorio Domenico Cimarosa ricco di eventi musicali e didattici che hanno non solo gratificato i tanti appassionati della musica, ma fatto conoscere ancor di più le eccellenze del Conservatorio nel campo della didattica, dell’arte e della cultura musicale. Eventi, rassegne, convegni, master e dibattiti sono stati gli elementi che hanno arricchito giorno dopo giorno il programma annuale del Conservatorio. Un Conservatorio che sempre più si posiziona nei migliori posti delle classifiche fra tutte le istituzioni di alta cultura musicale, che funziona e che ha voglia di crescere sempre più. Una Istituzione che vanta la preparazione e la professionalità di docenti e allievi e che raccoglie l’entusiasmo del pubblico, di enti ed associazioni locali e provinciali che scelgono il Conservatorio Domenico Cimarosa per la presentazione di progetti e opere di beneficenza. Ed inoltre l’anno 2019 ha visto l’affermarsi sempre più della Young Sinfonietta, un laboratorio didattico rivolto a ragazzi e ragazze dagli 11 ai 18 anni, un insieme di giovani con la voglia di suonare, di apprendere, di arricchirsi con la musica e di fare della musica un giorno la loro attività. Ancora una volta la casa della musica di Avellino, ovvero il Conservatorio Domenico Cimarosa, con il suo auditorium, moderno e polifunzionale, intitolato a Vincenzo Vitale e con la sua varia offerta didattica ha mantenuto standard alti anche per il 2019 con tutto il meglio della sua produzione musicale, didattica e culturale. RASSEGNE Musica Maestri Una nuova rassegna organizzata dal Cimarosa in sinergia e collaborazione con gli altri Conservatori della Campania. Tre serate, tre concerti, tre orchestre per un unico grande viaggio in musica lungo tre secoli, declinato attraverso le note di Mozart, Čajkovskij, Gulda, Weill e Bernstein. La convinzione che le grandi Istituzioni musicali della Campania debbano stabilire un costante dialogo tra di loro al fine di promuovere le eccellenze musicali del territorio e valorizzare i talenti dei giovani alunni dei prestigiosi Conservatori della regione, è stata la spinta di questa rassegna che ha visto esibirsi sul palco dell’auditorium Vincenzo Vitale le Orchestre del “San Pietro a Majella” di Napoli e del “Nicola Sala” di Benevento, oltre all’Orchestra del Cimarosa. Parole di musica V edizione Un progetto, giunto alla sua V edizione, aperto a tutta la città. Parole di musica, novità editoriali nel mondo musicale e musicologico, è un ciclo di otto incontri con autori che, introdotti dai docenti del Conservatorio, discutono con loro e con il pubblico sui temi trattati nei propri libri. Un progetto ideato dal Dipartimento di Musico185
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logia istituito presso il Conservatorio Cimarosa di Avellino e con il coordinamento scientifico del professor Antonio Caroccia. La scelta di pubblicazioni letterarie di generi diversi proposta dai docenti del Conservatorio, non solo mira a far conoscere al grande pubblico le ultime novità nel mondo dell’editoria musicale e musicologica nazionale, ma rispecchia anche la volontà di presentare la musica nelle sue diverse declinazioni con l’obiettivo di perseguire l’opera di avvicinamento che da anni il Conservatorio Domenico Cimarosa promuove nei confronti degli operatori culturali del territorio e, anche, del grande pubblico di lettori irpini. Settimana della Musica da Camera VIII edizione La Settimana della Musica da Camera, giunta alla sua ottava edizione, anche per il 2019 ha consolidato la sua formula itinerante con l’obiettivo di portare, in diverse zone della città, la grande musica targata Cimarosa. Sono quattro le giornate di questa edizione dedicata all’ampio repertorio cameristico europeo. Tre esibizioni nei quartieri più significativi della città di Avellino e un concerto finale nell’Auditorium di piazza Castello con 62 tra i migliori strumentisti allievi del Conservatorio Cimarosa. Il progetto cameristico è curato dalla Scuola di Musica da Camera del Cimarosa insieme con le Classi dei professori Pierfrancesco Borrelli, Antonello Cannavale, Simonetta Tancredi, Antonio Bossone e Massimo Testa, che è anche il coordinatore generale della rassegna. Da sempre con la Settimana della Musica da Camera il Conservatorio cerca di rendere accessibili a tutti le attività e i progetti musicali ed offre inoltre ai suoi alunni una ribalta importante e non convenzionale che, anno dopo anno, si arricchisce sempre più di qualità e riscontri positivi. Note di Primavera II edizione Dopo il successo dello scorso anno, anche per il 2019 il Conservatorio sceglie di fiorire musicalmente nel periodo primaverile con la II edizione di Note di Primavera. Una rassegna di dieci concerti scanditi attraverso le melodie di Bach, Vivaldi, Haendel, Mozart, Beethoven, passando per composizioni di Čajkovskij e Gershwin. Ed ancora la messa in scena del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare con le musiche di Felix Mendelssohn Bartholdy, fino ai grandi interpreti dello Swing e dei classici della tradizione napoletana. Un modo per festeggiare la Primavera nel segno della musica che è in grado di riunire un pubblico sempre più vasto grazie anche al sapiente lavoro di programmazione, ricerca e didattica dei docenti e degli allievi che offrono concerti di grande fascino e suggestione. Classica in jeans Vol. III In un continuum dal 2018, anche per questo nuovo anno la musica classica decide di rimettere i jeans per diciotto appuntamenti e per una rassegna che spazia tra le note dei più importanti compositori della storia della musica da Beethoven a Mozart, da Chopin a Verdi, da Brahms a Ravel, passando per Bellini, Donizetti, Rossini, Masca
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gni e Puccini, per approdare a Piazzolla, Cage e Stockhausen. I giovani e talentuosi allievi che, insieme ai loro docenti, sono la verve e l’energia del Conservatorio Domenico Cimarosa, creano questa rassegna incentrata sulle note dei più grandi maestri della musica classica di ogni tempo facendo indossare loro una veste moderna con l’uso degli strumenti a fiato o delle percusioni, delle tastiere o ancora con le suggestive note di un pianoforte e una chitarra. Interferenze Torna anche nel 2019 il progetto Interferenze, un viaggio attraverso la musica elettronica e quella dei nuovi linguaggi. Il progetto/studio, curato dai maestri Alba Battista e GianVincezo Cresta, è quest’anno interamente dedicato a Sebastian Rivas, compositore e artista sonoro tra i più importanti della scena internazionale, al violoncellista Francesco Dillon e al fisarmonicista Massimo Signorini. Interferenze conferma la vivacità culturale del Cimarosa, la voglia di scoprire e applicare alla musica sia le nuove tecnologie che i nuovi linguaggi. Insomma un laboratorio di innovazione, un’occasione di confronto e di crescita per gli studenti del Conservatorio che hanno la possibilità di confrontarsi con compositori e artisti di fama internazionale. Il Cimento dell’armonia e dell’invenzione XIII edizione Una delle più longeve rassegne del Cimarosa è il Cimento dell’armonia e dell’invenzione, giunta alla sua XIII edizione. Quattro concerti dedicati alla musica antica sulle note di Vivaldi, Telemann, Bach, Händel, Monteverdi e Pergolesi. La rassegna, che si inserisce nell’ambito delle attività messe in campo dal Dipartimento di Musica antica del Conservatorio Cimarosa di Avellino, ha per quest’anno una location d’eccezione: la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di corso Umberto I ad Avellino, un luogo simbolo del centro storico della città. All’Ombra del Castello XI edizione È una delle rassegne più amate del Cimarosa, quella estiva che di fatto chiude il ciclo di eventi e concerti del Conservatorio. Sono quattro i concerti di questa XI edizione, dedicati a Thelonious Monk, uno dei più grandi pianisti della storia del Jazz; alle più belle colonne sonore del cinema eseguite dalla Young Sinfonietta; al piano solo di Sebastian Beltramini e alla lirica di Wolfgang Amadeus Mozart con l’Orchestra del Conservatorio di Avellino diretta da Massimo Testa. Con All’ombra del castello il Conservatorio offre musica di qualità anche nei mesi estivi, sempre con l’obiettivo di valorizzare le produzioni musicali eseguite da allievi e docenti del Cimarosa.
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I concerti di settembre Dopo la pausa estiva l’attività concertistica del Conservatorio Domenico Cimarosa riprende con i concerti dedicati alla musica barocca con l’Orchestra del Cimarosa diretta dal maestro Giuseppe Camerlingo e gli omaggi ai grandi compositori della musica da camera. Si inserisce nei concerti di settembre anche la mini rassegna Intrecci barocchi dedicata alla musica barocca e declinata attraverso le note di Antonio Vivaldi e Alessandro Scarlatti. L’auditorium Vincenzo Vitale, la Chiesa di San Martino a Monteforte Irpino e Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli sono i luoghi dove musica e pubblico, qualità e cultura si incontrano. Ricco e variegato è il repertorio della rassegna settembrina: c’è il concerto per oboe, archi e continuo in do maggiore, RV 452 di Vivaldi, il concerto per 2 violoncelli, archi e continuo in sol minore, RV 531 sempre di Vivaldi, le tre arie dalla Griselda di Scarlatti. E poi ancora Vivaldi con il Concerto n.10 op. 3 per 4 violini, archi e continuo in si minore, RV 580 e il Mottetto per soprano archi e continuo in do minore, RV 626. È aperto a tutti quanti Per il quinto anno consecutivo la musica targata Conservatorio Cimarosa di Avellino è protagonista della rassegna organizzata in sinergia con Intesa Sanpaolo È aperto a tutti quanti, un momento di grande intrattenimento musicale, durante la pausa pranzo, nella prestigiosa location del salone delle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano di via Toledo a Napoli. L’iniziativa, nata dalla collaborazione dei Conservatori della Campania, vede giovani talenti, musicisti e cantanti, esibirsi al fianco di artisti di successo che già da tempo sono all’attenzione della critica. Il repertorio è vario: dalla musica classica a quella contemporanea, dalla musica da camera al jazz. La rassegna è il frutto di un costante lavoro, svolto dal maestro Maurizio Maggiore, coordinatore della kermesse per il Conservatorio di Avellino, che mira a valorizzare sempre più le attività e i progetti di qualità del Cimarosa. Con i concerti di Palazzo Zevallos si rinnova, inoltre, una proficua sinergia con il gruppo Intesa Sanpaolo e con la città di Napoli che offrono la possibilità di regalare ai giovani allievi una ribalta prestigiosa come quella del salone delle Gallerie d’Italia. I concerti di ottobre Nel mese di ottobre si conclude l’anno accademico 2018/2019 del conservatorio di musica Domenico Cimarosa e lo si fa con venticinque concerti, suddivisi in cinque mini rassegne: Classica in jeans, Contaminazioni Jazz, il Cimarosa Suona Bene, la Storiografia Musicale e la Cimarosa Young Sinfonietta. Il conservatorio ha deciso di produrre quasi un concerto al giorno per dare spazio alla cultura e alla qualità, non solo valorizzando i giovani talenti del Cimarosa, ma anche ospitando artisti e docenti di grande spessore umano e professionale. Ci sono anche appuntamenti unici nel loro genere, come Terra mia, un viaggio nella canzone napoletana, con il Coro degli Allievi Cimarosa Folk, e Scarpetta in Musical, uno spettacolo in costume, con un alle
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stimento d’eccellenza e la partecipazione degli allievi della classe di Arte Scenica Deborah, con musiche originali e direzione del maestro Pericle Odierna. Ed inoltre concerti nella chiesa madre della città, il Duomo di Avellino, con l’Orchestra del Conservatorio e un mini tour negli Istituti scolastici con lo scopo di avvicinare i ragazzi alla musica e alla pratica orchestrale. Contaminazioni jazz VIII edizione Per l’ottavo anno il Conservatorio Domenico Cimarosa ospita il grande jazz con la mini rassegna Contaminazioni Jazz. La nuova edizione è la conferma di come il Cimarosa sia attento e sensibile ai linguaggi musicali contemporanei e ai grandi interpreti del panorama jazzistico nazionale ed internazionale. In questa ottava edizione sono Maria Pia De Vito, una delle più raffinate ed emozionanti vocalist contemporanee, Aldo Farias, chitarrista e compositore che ha collaborato con Stefano Bollani e Fabrizio Bosso, Mario Nappi, uno tra i migliori pianisti italiani della scena contemporanea, ad interfacciarsi e discutere con i giovani allievi del Cimarosa. Cimarosa Cori Festival È questo il nome della nuova rassegna organizzata dal Conservatorio Domenico Cimarosa e dedicata alle migliori corali della Campania. Alla sua prima edizione, il festival dà spazio e lustro al prestigioso coro degli Hirpini Cantores, alla Corale Duomo, al Coro Gesualdo e al Coro Voci Bianche InCanto. Un viaggio tra la canzone napoletana contemporanea e le note di Giuseppe Verdi è la proposta degli Hirpini Cantores diretti dal Maestro Carmine D’Ambola, che ha collaborato come organista e pianista per più di un decennio con il Coro di Montevergine oltre ad aver curato, per dieci anni, la direzione artistica della Rassegna Corale Maria e lo Spirito Santo nella Basilica di Montevergine. La Corale Duomo, diretta dal Maestro Carmine Santaniello, offre al pubblico brani di Bach, Mozart ed una elaborazione proprio del direttore del coro di Fratello sole, sorella luna di Riz Ortolani. Nata nel 1980, la Corale ha svolto e svolge un’intensa attività concertistica nelle principali celebrazioni liturgiche della Cattedrale di Avellino. Il Coro Voci Bianche InCanto diretto dal Maestro Dario Del Giudice è un progetto educativo di Istituto rivolto agli allievi delle scuole primarie di età compresa tra i 6 e 10 anni e vanta una attività concertistica e di partecipazione a concorsi internazionali. I piccoli coristi in occasione del Natale cantano brani natalizi da Tu scendi dalle stelle ad Hallelujah (Cohen), passando per Bianco Natale e Adeste fideles. E dedicato alle feste natalizie è anche il concerto del Coro Gesualdo, diretto dal Maestro Cinzia Camillo con la partecipazione del Maestro Luis di Gennaro. Cantate Domino è, non solo il titolo del loro concerto, ma anche un canto di gioia e ringraziamento per tutto ciò che rappresenta la vita.
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Gran concerti di Natale Anche per il 2019 il Cimarosa ha voluto una rassegna dedicata al Natale. La Cimarosa Young Sinfonietta, diretta dal Maestro Massimo Testa ha omaggiato le festività natalizie con due concerti: uno a Chiusano San Domenico e un altro nella Chiesa Santa Maria Assunta a Bagnoli Irpino. E poi a Napoli, a Palazzo Zevallos Stigliano, nella rassegna È aperto a tutti quanti, si è tenuto il concerto natalizio Gospel, Spirituals e Carols, con musiche della tradizione natalizia afro-americana e inglese con le voci di Marina Bruno e Gabriella Di Capua, il pianoforte di Giuseppe Di Capua, il basso elettrico di Simone Vita e la batteria di Giovanni Nardiello. Una mini orchestra per esprimere il sentimento religioso attraverso la tradizione della musica gospel e spiritual, retaggio di una cultura, quella afro-americana, da sempre foriera di capolavori artistici indimenticabili per intensità e capacità di coinvolgere il pubblico, con l’esecuzione di brani come God rest you merry gentleman, Swing low, Amazing grace, His eye is on the sparrow, Nobody knows. EVENTI SPECIALI Il Conservatorio Cimarosa esprime da sempre un particolare riguardo agli eventi speciali dedicati a persone e artisti che si sono distinti attraverso la musica e che nella musica hanno lasciato un segno inconfondibile della loro presenza. Quest’anno si è omaggiato Michele Santaniello, giovane pianista irpino e vincitore della terza edizione del programma Rai «Prodigi». «La sua straordinarietà sta nella capacità di fondere lo spirito ritmico con quello lirico e il tutto è condito da un virtuosismo tecnico fuori dal comune. Potentissimo e delicatissimo allo stesso tempo. Un prodigio naturale», queste sono state le parole che il maestro Peppe Vessicchio ha utilizzato per valorizzare il giovane irpino che sul palco dell’auditorium Vincenzo Vitale ha portato “La musica è vita” un viaggio nella musica classica, da Mozart a Chopin, da Khachaturian a Piazzolla, Galliano, Morricone e Piovani con l’accompagnamento di un clarinettista d’eccezione, il padre Massimo. Ampio risalto è stato dato in questo 2019 ai giovani direttori d’orchestra con “La direzione illuminata”, un’esperienza di musica e un primo approccio con una professione di grande fascino e responsabilità come quella di direttore d’orchestra. William Antonio Taurasi e Giovanni Marco Di Lena, allievi della Classe di Direzione d’orchestra, sono stati i due ragazzi che hanno avuto, in questo progetto, la responsabilità non solo di dirigere dei musicisti ma anche di approcciarsi all’arte dei suoni nella maniera più completa e formativa possibile. A 30 anni dalla sua scomparsa, il Conservatorio Domenico Cimarosa ha reso omaggio a Luigi Fricchione, talentuoso musicista avellinese scomparso tragicamente nel 1989 a soli 24 anni. «Concerto per un amico – In ricordo di Luigi Fricchione», è il titolo del tributo all’estro e alla genialità in musica di Luigi Fricchione, diplomatosi in chitarra proprio al Cimarosa e perfezionatosi a Biella alla corte di Angelo Gilardino, una delle più importanti personalità nel mondo della chitarra internazionale.
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I convegni del Cimarosa I convegni speciali e le giornate di studio sono uno dei capisaldi dell’attività del Conservatorio Cimarosa. “Dal segno alla forma, rapporti ed implicazioni” è stata una giornata di studi che ha aperto le porte a studiosi e relatori provenienti da prestigiose Istituzioni e Università italiane ed europee. Una giornata di incontri e confronti immaginata e curata dal professore Antonio Caroccia e dal maestro Gianvincenzo Cresta che ha visto le illustri presenze di Luca Cossettini dell’Università degli Studi di Udine, di Frédérique Malaval dell’Università Paul Valèry di Montpellier, di Massimiliano Locanto dell’Università degli Studi di Salerno e di Ingrid Pustijanac dell’Università degli Studi di Pavia. Riflettere sul segno vuol dire riflettere sulla forma così come non è possibile pensare alla forma senza che essa si manifesti in segni. Per questo le interazioni tra forma e segno sono molteplici e diverse, tanto più nell’era della multimedialità dove gli input semiologici si mostrano nei diversi linguaggi, sovrapponendosi e stratificandosi. La giornata di studi si è poi conclusa con un concerto curato dai maestri Massimo Aluzzi, Alba Francesca Battista, Pietro Pompei e Gianluca Saveri che hanno eseguito brani di Stockhausen, Jodlowski, Cangelosi e Saveri con l’assistenza tecnica audio degli studenti della Scuola di Musica elettronica del Cimarosa. “La storiografia musicale meridionale nei secoli XVIII-XX”, questo è il titolo di un altro prestigioso convegno internazionale di studi tenutosi presso il Cimarosa. Questo incontro mira a ricostruire la trasmissione e la cultura storiografica musicale in ambito meridionale nei secoli XVIII-XX, attraverso la metodologia e i fermenti artistici, politici, culturali, ideologici, letterari che orientarono la moderna storiografia musicale. In particolare, i mezzi e gli strumenti a disposizione degli storiografi musicali meridionali. Il convegno è stato reso possibile grazie al lavoro del comitato scientifico composto da Antonio Caroccia, Gerardo Bianco, Toni Iermano, Paola Besutti, Paolo Emilio Carapezza e Agostino Ziino e ha ospitato illustri relatori provenienti da prestigiose Università italiane e straniere, tra questi: Toni Iermano (Università di Cassino), Vincenzo Lombardi (Archivio di Stato di Campobasso), Maria Antonietta Cancellaro (Conservatorio di Matera), Roberto Mileddu (Università di Cagliari), Myriam Quaquero (Conservatorio di Cagliari), Rossella Gaglione (Università di Napoli), Marta Columbro (Conservatorio di Napoli), Paola De Simone (Conservatorio di Potenza), Lucio Tufano (Università di Palermo), Marina Marino (Conservatorio di Avellino), Francesca Seller (Conservatorio di Salerno), Paola Besutti (Università di Teramo), Anna Maria Ioannoni Fiore (Conservatorio di Pescara), Alessandro Giovannucci (Università di Chieti), Maica Tassone (Istituto superiore di studi musicali di Teramo), Alessandro Mastropietro (Università di Catania), Patrizia Balestra (Conservatorio di Foggia), Lorenzo Mattei (Università di Bari), Maria Grazia Melucci (Conservatorio di Bari), Sarah Iacono (Conservatorio di Lecce), Lorenzo Fico (Istituto superiore di studi musicali di Taranto), Paolo Emilio Carapezza (Università di Palermo), Consuelo Giglio (Conservatorio di Trapani), Carlo Fiore (Conservatorio di Palermo) e Maria Rosa De Luca (Università di Catania).
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Le Scritture IV edizione Il 2019 vede la conclusione della quarta edizione de Le Scritture, un progetto del Conservatorio Domenico Cimarosa che propone incontri con compositori, interpreti e musicologi con una duplice finalità: da una parte l’ampliamento dell’offerta formativa in coerenza con i temi didattici affrontati durante il percorso di studi di Composizione, dall’altra la sperimentazione “sul campo” delle tecniche compositive ed esecutive più innovative per concorrere alla formazione di un giudizio critico sul fare Musica al giorno d’oggi. Nell’edizione che si è appena conclusa, i docenti Maria Pia Sepe e Vincenzo Gualtieri, hanno affrontato tematiche come il Tempo in Musica ed il Trasferimento di esperienze attraverso gli “strumenti del suono” avendo come punti di riferimento due fra i più importanti compositori del ‘900: György Ligeti e Steve Reich. Il progetto Le Scritture, durante gli anni, si è avvalso della collaborazione dei compositori Solbiati, Piersanti, Di Scipio, Ceccarelli, e degli interpreti D’Orazio, Antongirolami, Longobardi, Rullo. Nella quarta edizione sono stati ospiti del Conservatorio Cimarosa il compositore Giorgio Battistelli, al quale è stato dedicato un concerto monografico eseguito dall’Ensemble Ars Ludi e da Pietro Pompei, il fisarmonicista Corrado Rojac, il percussionista Francesco Manna, l’esperta di Musica applicata alle immagini Caterina Calderoni, la musicologa Ingrid Pustianac ed infine il poeta, scrittore e regista italiano Franco Arminio. Il Cimarosa e la città L’anno 2019 vede consolidarsi il rapporto tra il Cimarosa e la diocesi di Avellino ospitando una serie di appuntamenti dal titolo Note per l’anima. Un’iniziativa nata da un progetto di collaborazione, una sorta di “sonata a quattro mani”: musica dal vivo e meditazione alternati, impastati, armonizzati dalla musica di allievi e docenti del Conservatorio per ricercare quell’oasi dove cultura e fede comunicano e si danno la mano. Nella corsa folle dove siamo lanciati ogni giorno dove conta solo ciò che è utile, immediatamente fruibile e da consumare in fretta, Note per l’anima si pone in controcorrente come sosta salutare tesa a far ritrovare sé stessi nell’utilità dell’inutile. Inoltre le porte del Conservatorio si aprono per il 2019 ancora di più alla città e alle associazioni che vi operano in essa; ricca è stata l’attività di patrocini tra conservatorio, scuole, enti e associazioni che scelgono il palco dell’auditorium Vincenzo Vitale per proporre opere, concerti, omaggi alla musica e all’arte.
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ELENCO DELLE ATTIVITÀ SVOLTE DAL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2019 a cura di Diletta Picariello
30 gennaio Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
31 gennaio Note per l’anima: paesaggi notturni Il conservatorio e la diocesi.
12 febbraio Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
16 febbraio La musica è vita Omaggio a Michele Santaniello
23 febbraio Musica maestri Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino 26 febbraio Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
28 febbraio Note per l’anima: il bel canto Il conservatorio e la diocesi. 2 marzo Musica maestri Conservatorio Nicola Sala di Benevento 5 marzo Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
Parole di musica, approfondimento letterario su La Bibbia all’opera. Drammi sacri in Italia dal tardo Settecento al Nabucco, Roma, NeoClassica, 2018 (Nuove impressioni). Con l’autore Franco Piperno ne parla la docente del conservatorio Cimarosa Marina Marino. Aula Bruno Mazzotta. Note per l’anima un momento di spiritualità e meditazione, un progetto innovativo ed emozionale, ideato dal Vescovo Arturo Aiello e sostenuto dal Conservatorio Cimarosa. Le parole del Vescovo accompagnate in musica dall’Orchestra giovanile del «Cimarosa» diretta dal maestro Simone Basso. Auditorium Vincenzo Vitale. Parole di musica, approfondimento letterario su Le stagioni di Niccolò Jommelli, a cura di Maria Ida Biggi, Francesco Cotticelli, Iskrena Yordanova, Napoli, Turchini edizioni, 2018 (Turchini saggi). Con il curatore Paologiovanni Maione ne parlano Renata Maione e Rossella Gaglione. Aula Bruno Mazzotta. Un evento dedicato al giovane talento Michele Santaniello che a soli 16 anni è già dotato di una straordinaria tecnica e musicalità, caratteristiche che lo hanno portato ad essere considerato una vera promessa del panorama pianistico italiano. Auditorium Vincenzo Vitale. Missa brevis in re minore di Mozart e Concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskii eseguite dall’Orchestra e dal Coro del Conservatorio Domenico Cimarosa diretti dal maestro Giuseppe Camerlingo. Auditorium Vincenzo Vitale. Parole di musica, approfondimento letterario su Filologia, Teatro, Spettacolo. Dai Greci alla contemporaneità, a cura di Francesco Cotticelli e Roberto Puggioni, Milano, Franco Angeli, 2018 (Metodi e prospettive). Con Francesco Cotticelli ne parla Fiorella Taglialatela. Aula Bruno Mazzotta. Con “Il bel canto” il conservatorio ospita nuovamente le parole e le riflessioni del vescovo Arturo Aiello e la musica di Offenbach, Mozart, Tosti, Stradella, Pergolesi, Verdi e Rossini. Auditorium Vincenzo Vitale. Concerto per Violoncello e Orchestra e Little Threepenny Music sono le opere eseguite dai 20 musicisti dell’Orchestra di fiati del conservatorio Nicola Sala diretti dal maestro Gianluca Giganti. Auditorium Vincenzo Vitale. Parole di musica, approfondimento letterario su Il pianoforte, a cura di Ala Botti Caselli, Torino, EDT, 2018 (I manuali EDT/SIdM). Con la curatrice ne parlano Raffaella Palumbo e Domenico Prebenna, con la partecipazione di Francesco Pareti. Aula Bruno Mazzotta.
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8 marzo La direzione illuminata Giovani direttori d’orchestra
La direzione illuminata, concerto per giovani direttori d’orchestra studenti del Conservatorio Cimarosa e guidati del maestro Massimo Testa. Una grande opportunità in musica, sulle note di Schubert, Mozart e Beethoven. Auditorium Vincenzo Vitale. Una storia occidentale del XX secolo, un omaggio dell’Orchestra Ritmico- Sinfonica SpaM a Leonard Bernstein nel 101enisimo anniversario della sua nascita ddiretta dal maestro Mariano Patti con il coordinamento musicale di Marco Sannini. Auditorium Vincenzo Vitale. Parole di musica, approfondimento letterario su Lo studio dell’analisi musicale di Clemens Kühn, traduzione italiana a cura di Piervito Malusà, LIM, 2018 (Studi e Saggi, 8). Con il curatore italiano ne parla Gianvincenzo Cresta. Aula Bruno Mazzotta. Parole di musica, approfondimento letterario su L’opera italiana del Novecento di Piero Mioli, Bologna, Manzoni editore, 2018 (Cultura musicale). Con l’autore ne parla Maria Gabriella Della Sala. Aula Bruno Mazzotta. Settimana della musica da camera, musiche, sonate e variazioni di Filippo Gragnani, Franco Margola; allegri per violini e pianoforte di Shostakovic e Mozart. Chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo (Valle). Settimana della musica da camera, Gretchen am Spinnrade/Standchen di Schubert, Melodia sentimental di Lobos, Los cuatro muleros di Lorca. Musiche e melodie per fisamornica, oboe, soprano, pianoforte e chitarra. Chiesa San Francesco D’Assisi (Borgo Ferrovia). Settimana della musica da camera, Non t’amo più di Tosti, Sonata per violino e pianoforte di Kachaturian, Sonata n.3 in sol min per violino e pianoforte di Debbussy. Un repertorio per pianoforte, violino e la voce del soprano Su Juan. Teatro Chiesa di Sant’Alfonso Maria De’ Liguori (San Tommaso) Settimana della musica da camera, musiche di Johannes Brahms, Fikret Amirov, Ney Rpsauro, Maxime Pujol, Manuel Defalla per chitarra, flauto, clarinetto, pianoforte, marimba e la vode del mezzosoprano Hera Guglielmo. Auditorium Vincenzo Vitale.
16 marzo Musica maestri Conservatorio San Pietro A Majella di Napoli
20 marzo Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
2 aprile Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico 8 aprile Settimana della musica da camera VIII edizione Il conservatorio incontra la città 9 aprile Settimana della musica da camera VIII edizione Il conservatorio incontra la città 11 aprile Settimana della musica da camera VIII edizione Il conservatorio incontra la città
12 aprile Settimana della musica da camera VIII edizione Il conservatorio incontra la città
13 aprile Passio Christi Sacra rappresentazione per orchestra, voci e nastro magnetico, scritta dal maestro Giacomo Vitale 15 aprile Passio Christi Sacra rappresentazione per orchestra, voci e nastro magnetico, scritta dal maestro Giacomo Vitale 16 aprile Passio Christi Sacra rappresentazione per orchestra, voci e nastro magnetico, scritta dal maestro Giacomo Vitale 4 maggio Concerto per un amico Omaggio a Luigi Fricchione
Passio Christi, le musiche di dodici allievi compositori della classe del maestro Giacomo Vitale sono la colonna sonora delle tappe della Via Crucis, per un viaggio nelle memoria individuale e nel dolore del Cristo. Duomo di Avellino. Passio Christi, le musiche di dodici allievi compositori della classe del maestro Giacomo Vitale sono la colonna sonora delle tappe della Via Crucis, per un viaggio nelle memoria individuale e nel dolore del Cristo. Parrocchia di San Pietro Apostolo (Cicciano). Passio Christi, le musiche di dodici allievi compositori della classe del maestro Giacomo Vitale sono la colonna sonora delle tappe della Via Crucis, per un viaggio nelle memoria individuale e nel dolore del Cristo. Chiesa di Santa Caterina a Formiello, Napoli. Concerto per un amico, il Conservatorio Domenico Cimarosa rende omaggio a Luigi Fricchione, sulle note di Piazzolla con i maestri Giuseppe Scigliano (bandoneòn),
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LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2019
Lucio Matarazzo (chitarra) e con l’Orchestra di Archi del Cimarosa diretta dal maestro Massimo Testa. Auditorium Vincenzo Vitale.
6 maggio Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico 7 maggio Note di primavera La scuola pianistica polacca 8 maggio Note di primavera Kaléidos
11 maggio Classica in jeans Il flauto, il pianoforte e la viola
15 maggio Note di primavera Classici d’autore
18 maggio Note di primavera Classici talenti
20 maggio Note di primavera Omaggio a George Gershwin 21 maggio Parole di musica 2019 Novità editoriali nel mondo musicale e musicologico
21 maggio Classica in jeans Da Beethoven a Scriabin 22 maggio Note di primavera Swing e Soda, The Caponi Brothers
Parole di musica, approfondimento letterario sull’opera di Fiamma Nicolodi, Novecento in musica. Protagonisti, correnti, opere. I primi cinquant’anni, Milano, il Saggiatore, 2018. Con l’autrice ne parla Antonio Caroccia. Aula Bruno Mazzotta. La scuola pianistica polacca, il progetto Erasmus con l’Accademia di musica di Lodz e al pianoforte Katarzyna Kling. Auditorium Vincenzo Vitale. Kaléidos, un caleidoscopio di emozioni in musica e voce. Musiche di Barbieri, Mina, Concato, De Crescenzo, Sting, Tosca, Giorgia, De Andrè, Bublé, Baglioni, Malika Ayane eseguite da Marina Bruno (voce), Giuseppe Di Capua (pianoforte), Tommaso Scannapieco (basso elettrico), Peppe La Pusata (batteria), Angelo Sodano (chitarra elettrica), Gianfranco Campagnoli (tromba) e Armando Rizzo (accordéon cromatico). Auditorium Vincenzo Vitale. Il flauto, il pianoforte e la viola, dalle turquerie del ‘700 agli anni 40 del ‘900. Musiche W.A. Mozart, M. Ravel, J. Brahms, C. Saint-Saens, F. Poulenc eseguire dal solista Lorenzo Masucci, dal violista Giulia Romano, dalla flautista Anna Taiani e dalle pianiste Elisabetta Furio e Chiara Passaro. Auditorium Vincenzo Vitale. Classici d’autore, esecuzione di opere classiche come Concerto in re min.op.9 n.2 di Albinoni, Il Pastor fido" Sonata n.6 di Vivaldi, Sonata in sol min. di Bach eseguite dal sassofononista Nicola Cassese e dalla pianista Simonetta Tancredi. Aula Bruno Mazzotta. Classici talenti, Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra in la maggiore op. 33 di Čajkovskij e Sinfonia n. 5 in do minore op. 67 di Beethoven eseguite Orchestra del Conservatorio Cimarosa diretta dal maestro Giuseppe Camerlingo. Auditroium Vincenzo Vitale. Omaggio a George Gershwin, Summertime, The man I love, I got rhythm, Un Americano a Parigi, Rapsodia in blu. Al piano Lucio Grimaldi. Auditorium Vincenzo Vitale. Parole di musica, approfondimento letterario sull’opera di Francesco Canessa, C’eravamo tanto odiate (Callas e Tebaldi, eterne rivali), Capri, Edizioni La Conchiglia, 2018. Con l’autore ne parla Tiziana Grande. Aula Bruno Mazzotta. Da Beethoven a Scriabin, musiche di Beethoven e Scriabin eseguite al pianoforte da Mario Carbone. Auditorium Vincenzo Vitale. Swing e Soda, The Caponi Brothers, presentazione del disco “Swing & Soda” ed un omaggio allo swing italiano di Buscaglione, Carosone, Arigliano, Conte, Capossela con Domenico Tammaro (voce), Giuseppe Di Capua (pianoforte), Gianfranco Campagnoli (tromba), Tommaso Scannapieco (contrabbasso), Vincenzo Bernardo (batteria). Auditorium Vincenzo Vitale.
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23 maggio Note di primavera La giovanile incontra l’Europa 24 maggio Dal segno alla forma: rapporti ed implicazioni Convegno 24 maggio Dal segno alla forma: rapporti ed implicazioni Concerto finale 28 maggio Classica in jeans Il concerto d’Europa 29 maggio Note di primavera Sogno di una notte di mezza estate 5 giugno Note di primavera Phartenoplay
6 giugno Classica in jeans Le voci e l’orchestra di fiati 10-11-12 giugno Interferenze
13 giugno Classica in jeans La chitarra e i suoi compositori 14 giugno Classica in jeans La chitarra 15 giugno Note di primavera Controcanto, la vocalità nel XXI secolo 18 giugno Cimarosa Young Sinfonietta Concerto finale
19 giugno Classica in jeans La fisarmonica in concerto
La giovanile incontra l’Europa, concerto del progetto Erasmus su musiche di Mozart, Sevgi, Tarman dell’Orchestra Giovanile del conservatorio Cimarosa diretti per l’occasione da Süleyman Tarman. Auditorium Vincenzo Vitale. Dal segno alla forma, giornata di incontri e confronti immaginata e curata dal professore Antonio Caroccia e dal maestro Gianvincenzo Cresta. Aula Bruno Mazzotta. Dal segno alla forma, concerto finale della giornata di studi curato dai maestri della classe di musica elettronica del Cimarosa. Auditorium Vincenzo Vitale. Il concerto d’Europa, musiche Bach, Mozart, Schubert, Scarlatti, eseguite con clavicembalo e fortepiano dai solisti Adriana Petillo, Isabella Maurizio, Hanbyeol Lee, Michele Costanzo, Sossio Capasso. Auditorium Vincenzo Vitale. Sogno di una notte di mezza estate, messa in scena dell’opera di William Shakesperare. Cura dei testi di Enzo Salomone, pianoforte a quattro mani a cure di Maria Libera Cerchia e Antonello Cannavale. Auditroium Vincenzo Vitale. Phartenoplay, i grandi classici napoletani rivisitati in chiave jazz dalla voce di Marina Bruno, il pianoforte di Giuseppe Di Capua, il basso elettrico di Tommaso Scannapieco, la batteria di Claudio Romano, la tromba di Gianfranco Campagnoli e il sax di Daniele Sepe. Auditorium Vincenzo Vitale. Le voci e l’orchestra di fiati, l’orchestra di fiati del conservatorio Cimarosa, diretta dal maestro Marcello Martella e la voce recitante di Antonella Forino per la messa in scena di Pierino e il lupo di Prokofieff. Auditorium Vincenzo Vitale. Interferenze, un progetto di elettronica e di nuovi linguaggi musicali curato dai maestri Alba Battista e GianVincezo Cresta e dedicato a Sebastian Rivas, compositore e artista, al violoncellista Francesco Dillon e al fisarmonicista Massimo Signorini. Auditorium Vincenzo Vitale. La chitarra e i suoi compositori, allievi e docenti del conservatorio cimarosa interpretano il linguaggio universale delle musiche di Paganini, Lobos, Bach. Auditorium Vincenzo Vitale. La chitarra, Giovanni Masi, Cristina Galietto alla chitarra interpretano musiche di Castelnuovo-Tedesco, Scarlatti, Paganini, Rossini. Auditorium Vincenzo Vitale. Controcanto, l’ensemble corale del Conservatorio Cimarosa, in collaborazione con la Classe di Composizione del maestro Maria Pia Sepe e diretti da Virgilio Agresti interpretano le opere “Stabat Mater”, “Innocentes” e “Medusa”. Auditorium Vincenzo Vitale. Cimarosa Young Sinfonietta, concerto finale del laboratorio orchestrale per ragazzi del Cimarosa diretti dal maestro Massimo Testa. Uno spettacolo sinfonico sulle grandi note delle colonne sonore scritte per il Cinema e le melodie del repertorio classico. Auditorium Vincenzo Vitale. La fisarmonica in concerto, trascrizioni per duo fisarmonica e pianoforte dalle musiche originali di Piazzolla, Battiston e Bach. Auditorium Vincenzo Vitale.
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20 giugno Classica in jeans Messa di gloria Omaggio a Pietro Mascagni 24 giugno Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Tornami a vagheggiar 26 giugno Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Signori e signore, il traversiere 26 giugno Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Poi mi parea volar 28 giugno Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Concerti e altre bizzarrie alla napolitana 1 luglio Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Concerti, arie e suite 3 luglio All’ombra del castello Così fa Mozart - Sarabanda mozartiana tra gioco e realtà per voci recitanti, solisti e orchestra. 4 luglio All’ombra del castello Monk’s Mood 8 luglio All’ombra del castello Dall’Argentina alla Russia
13 luglio All’ombra del castello Immaginando… il futuro – Fantasia giovanile di Mezza estate 12-13-14 settembre Intrecci barocchi
Settembre/dicembre Musica a pranzo a Palazzo Zevallos Stigliano E’ aperto a tutti quanti 20 settembre Classica in jeans La musica da camera Gli Strumenti ad Archi e il Pianoforte 27 settembre Classica in jeans
Messa di gloria, un omaggio a Mascagni eseguito dal Coro del conservatorio Cimarosa accompagnato al pianoforte dal maestro Concetta Varricchio e diretti dal maestro Virgilio Agresti. Auditorium Vincenzo Vitale. Tornami a vagheggiar, l’ensemble strumentale ArchiFiati del Cimarosa esegue musiche di Bach, Vivaldi e Handel accompagnati dal soprano Valentina Fortunato. Chiesa Santa Maria di Costantinopoli (Avellino). Signori e signore: il traversiere, incontro con il maestro Elisa Cozzini e con l’introduzione storica a cura del professor Antonio Caroccia. Aula 6 conservatorio Domenico Cimarosa. Poi mi parea volar, Villanelle, fantasie, canzonette, madrigali del XVI e XVII secolo eseguite dall’ensemble Madrigalistico del Cimarosa. Chiesa Santa Maria di Costantinopoli (Avellino). Concerti e altre bizzarrie alla napolitana, l’ensemble di strumenti storici del Dipartimento di Musica Antica del Cimarosa, diretto dal maestro Pierifrancesco Borrelli, esegue musiche di Sarri, Pergolesi, Cecere. Chiesa Santa Maria di Costantinopoli (Avellino). Concerti, arie e suite, l’ensemble del Laboratorio di Musica Antica del Cimarosa a cura dei maestri Vincenzo Corrado, Pierfrancesco Borrelli, Enrico Baiano esegue musiche di Telemann, Bach. Chiesa Santa Maria di Costantinopoli (Avellino). Così fa Mozart, arie, concertati e cori tratti dalle opere di Mozart, messe in forma di spettacolo scenico con testi e recitazione aggiuntivi. Auditorium Vincenzo Vitale. Monk’s Mood, concerto tributo dedicato alla musica del pianista e compositore statunitense Thelonious Monk con gli studenti del Dipartimento di Musica jazz. Auditorium Vincenzo Vitale. Dall’Argentina alla Russia, il piano solo di Sebastian Beltramini e le musiche di Carlos Guastavino “Bailecito” e “Tierra linda”, la “Sonata op.22 n°1” di Alberto Ginastera, e i “Quadri da un’esposizione” di Modest Musorgskij. Auditorium Vincenzo Vitale. Immaginando il futuro – Fantasia giovanile di Mezza estate, concerto della Cimarosa Young Sinfonietta sulle musiche di Bach, Morricone, Piovani e diretti dai maestri Massimo Testa e Veaceslav Quadrini Ceaicovschi. Auditorium Vincenzo Vitale. Intrecci barocchi, appuntamenti con la musica barocca, portata in scena dall’Orchestra del Cimarosa diretta dal maestro Giuseppe Camerlingo. Auditrium Vincenzo Vitale/Chiesa di San Martino (Monteforte)/Palazzo Zevallos (Napoli). Musica a pranzo a Palazzo Zevallos Stigliano rassegna di 25 concerti con protagonisti oltre 100 giovani talenti del Cimarosa e strumentisti e coristi di successo in un repertorio tra classico, contemporaneo, musica da camera e jazz. Salone Gallerie d’Italia Napoli. La musica da camera, musiche di Mozart, Beethoven, Schumann e Brahms eseguite dal violoncellista Luigi Iuliano, la violinista Emiliana Cannavale e i pianisti Angelo Gala e Elisabetta Furio. Auditotium Vincenzo Vitale. I compositori del passato, musiche di Mozart, Chopin, Brahms eseguite dai solisti Valeria Lonardo, Antonio
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I compositori del passato Dalla Sonata Classica alle Ballate e Rapsodie per Pianoforte. 3 ottobre Classica in jeans 88 tasti più 88 tasti 8 ottobre Classica in jeans Duetti, terzetti, quartetti e non solo 9 ottobre Classica in jeans Gli strumenti a percussione 10 ottobre Classica in jeans La percussione e l’organo digitale
11 ottobre Il Cimarosa suona bene Mozart insieme al pianoforte 12 ottobre Classica in jeans Il flauto traverso, la sua famiglia e le percussioni
14 ottobre Il Cimarosa suona bene 1880 - 1920, far musica in un periodo complesso 18 ottobre Il Cimarosa suona bene Concerto per Rafaela 19 ottobre Il Cimarosa suona bene Virtuosismi a confronto 21 ottobre Il Cimarosa suona bene Terra mia Un viaggio nella canzone napoletana 22 ottobre Il Cimarosa suona bene Un’orchestra a quattro mani 24 -25-26 ottobre La storiografia musicale meridionale nei secoli XVIIIXX
Coiana, Jole Barbarini, Antonio Biancaniello. Auditorium Vincenzo Vitale. 88 tasti più 88 tasti, quattro maestri per quattro pianoforti che in armonia eseguono musiche di Beethoven e Mendelssohn. Auditorium Vincenzo Vitale. Duetti, terzetti, quartetti e non solo, le voci di giovani allievi del conservatorio eseguono musiche di Donizetti e Mozart. Auditorium Vincenzo Vitale. Gli strumenti a percussione, i solisti alla marimba, allo xilofono, al vibrafono interpretano musiche di Xenakis, Battistelli, Bach, Tunner, Friedman. Auditorium Vincenzo Vitale. La percussione e l’organo digitale, gli ensemble orchestrali diretti dagli allievi della classe di Direzione d’Orchestra del maestro Massimo Testa, con la partecipazione della classe di Esercitazioni Orchestrali del maestro Giuseppe Camerlingo eseguono musiche di Cage, Battistelli, Stockhausen. Auditorium Vincenzo Vitale. Mozart insieme al pianoforte, i pianoforte a quattro mani di Maria Libera Cerchia e Antonio Coiana e di Antonello Cannavale e Angelo Gala omaggiano Mozart. Auditorium Vincenzo Vitale. Il flauto traverso, la sua famiglia e le percussioni, l’importanza e la bellezza dell’essere un insieme con le trascrizioni a cura del direttore dell’Orchestra di Flauti, maestro Salvatore Rella, di importanti brani operistici e di colonne sonore di famosi film Auditorium Vincenzo Vitale. 1880 - 1920, far musica in un periodo complesso, musiche Schoenberg, Saint Saens, Grieg, eseguite dal suo pianistico Lorenzo Fiscella e Cristina Iuliano. Auditorium Vincenzo Vitale. Concerto per Rafaela, in ricordo dell’artista e docente del Cimarosa. Un concerto voluto dal pianista e amico maestro Massimo Severino, con l’Orchestra diretta dal maestro Massimo Testa e le musiche di Schumann e Fauré. Auditorium Vincenzo Vitale. Virtuosismi a confronto, musiche di Rachmaninov, Brahms, Liszt, Bach eseguite dal maestro Marco Ciampi al pianoforte. Auditorium Vincenzo Vitale. Terra mia, un omaggio alla canzone napoletana dalle villanelle a Pino Daniele con Susanna Canessa (voce e chitarra), Monica Doglione (voce) Brunello Canessa (basso, voce e chitarra), Luca Guida (percussioni) e il Coro Allievi CimarosaFolk. Auditorium Vincenzo Vitale. Un’orchestra a quattro mani, Dora Dorti e Fausto Trucillo al pianoforte eseguono musiche di Mozart, Rossini, Saint Saens. Auditorium Vincenzo Vitale. La storiografia musicale meridionale nei secoli XVIIIXX, un convegno che si avvale del patrocinio della Regione Campania, del Comune di Avellino, della Società italiana di Musicologia, della Fondazione Istituto italiano per la Storia della Musica e dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. Il convegno mira a ricostruire la trasmissione e la cultura storiografica
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24 ottobre La storiografia musicale meridionale nei secoli XVIIIXX Concerto “La riscoperta della musica antica italiana”
31 ottobre Il Cimarosa suona bene Scarpetta in Musical
11 novembre Note per l’anima Rallentare
20 novembre Scarlatti contemporanea Gianluca Saveri 23 novembre In Memoriam 23 novembre 1980.
30 novembre Cimarosa Cori Festival Hirpini Cantores 30 novembre E’ aperto a tutti quanti La Serenata in mi maggiore per orchestra d’archi 3 dicembre Note per l’anima Attendere 6 dicembre Cimarosa Cori Festival Corale Duomo
musicale in ambito meridionale nei secoli XVIII-XX, attraverso la metodologia e i fermenti artistici, politici, culturali, ideologici, letterari che orientarono la moderna storiografia musicale. Aula Bruno Mazzotta. La riscoperta della musica antica italiana, concerto per la giornata di studi sulla storiografia musicale. L’orchestra del Conservatorio Domenico Cimarosa diretta da Giuseppe Camerlingo e con Salvatore Rella (flauto), Antonio Napolitano (clarinetto), Maurizio Severino (organo), Francesco Rapesta (clavicembalo) eseguono musiche antiche. Duomo di Avellino. Scarpetta in Musical, uno spettacolo ispirato ad una delle più famose commedie di Eduardo Scarpetta, riscritto in biricchina libertà da Giuseppe Sollazzo, coadiuvato dalle musiche di Pericle Odierna, suonate dal vivo da un sestetto di fiati. In scena, Giovanni Mauriello (nel ruolo di Felice Sciosciammocca), e con Giorgio Pinto, Ingrid Sansone, Michele Romeo. Sul palco anche gli attori dei laboratori del Beggar’s Theatre - Il Teatro dei mendicanti – e gli allievi della classe di Arte Scenica. Auditorium Vincenzo Vitale. Rallentare, concerto per pianoforte e flauto con il maestro Giuseppe Giulio Di Lorenzo (piano) e il maestro Mario Pio Ferrante (flauto). Come filo conduttore il dialogo con la musica che favorisce una riflessione sugli aspetti della vita quotidiana. Auditorium Vincenzo Vitale. Scarlatti contemporanea, la nuova rivoluzionaria rassegna dedicata dalla Associazione Alessandro Scarlatti ai nuovi linguaggi musicali e che vede protagonista il percussionista Gianluca Saveri. Auditorium Vincenzo Vitale. In Memoriam 23 novembre 1980, evento organizzato dal Lions Club e dall’Associazione zenit2000 o e Castelli d’Irpinia. L’occasione per celebrare ancora una volta, nella forma più sublime, una ricorrenza destinata a rimanere impressa per sempre nella memoria della cittadinanza irpina. Auditorium Vincenzo Vitale. Hirpini Cantores, con un concerto dal titolo “Verdi note… napoletane”. A dirigere la corale nata nel 1995, è il Maestro Carmine D’Ambola. Un viaggio tra la canzone napoletana contemporanea e le note di Giuseppe Verdi. Auditorium Vincenzo Vitale. La Serenata in mi maggiore per orchestra d’archi di Antonín Dvořák, eseguita dall’Orchestra Giovanile del Cimarosa con il soprano Maria Grazia Schiavo e diretta dal Maestro Claudio Ciampa. Palazzo Zevallos Napoli. Attendere, una una sorta di “sonata a quattro mani” tra musica e spirtualità con le parole del Vescovo Aiello accompagnate dal trio Big Eye. Auditorium Vincenzo Vitale. Corale duomo, un viaggio nella musica sacra, da Fratello Sole Sorella Luna, composta da Riz Ortolani per il film di Franco Zeffirelli del 1972 e portata in scena con una elaborazione di Carmine Santaniello, a Jesus bleibet meine Freude di Johann Sebastian Bach, fino al Magnificat di Domenico Cimarosa. Auditorium Vincenzo Vitale.
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10 dicembre Scarlatti Contemporanea Mario Caroli 12 dicembre Cimarosa Cori Festival Coro Incanto
21 dicembre Cimarosa Cori Festival Coro Gesualdo
22 dicembre Concerti di Natale Gospel, Spirituals e Carols
Scarlatti contemporanea, protagonista di questo secondo appuntamento è il flautista Mario Caroli, interprete molto amato dalla critica internazionale. Un programma che va da Ivan Fedele a Claude Debussy. Aula Bruno Mazzotta. Coro Incanto, Coro Voci Bianche del II Circolo Didattico di Avellino. Sessanta i piccoli cantori che, guidati dal Maestro Dario De Giudice, si esibiscono in un concerto natalizio cantando da “Tu scendi dalle stelle” a “Joy to the world”, passando per “Bianco Natale” e “Adeste fideles”. Auditorium Vincenzo Vitale. Coro Gesualdo, diretto dal Maestro Cinzia Camillo, con la partecipazione del Maestro Luis di Gennaro (pianoforte) ed il coordinamento artistico di Sergio D’Onofrio. Il Coro Gesualdo si esibisce nel concerto dal titolo “Cantate Domino”, il cui tema dominante è un canto di gioia e ringraziamento per tutto ciò che rappresenta la vita, dagli elementi fisici, come la luce, la terra, l’acqua. Auditorium Vincenzo Vitale. Gospel, Spirituals e Carols con musiche della tradizione natalizia afro- americana e inglese interpretate da Marina Bruno (voce), Giuseppe Di Capua (pianoforte), Gabriella Di Capua (voce), Simone Vita (basso elettrico) e Giovanni Nardiello (batteria). Palazzo Zevallos Napoli.
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LIBERTÀ DI PAROLA ____________________________________________________________________
Massimo Severino IL MANCATO DELITTO AL CONSERVATORIO. AD UN MUSICISTA MINORE Dov’è la memoria dei giorni che furon tuoi sulla terra, e intrecciarono gioia e dolore e furono per te l’universo’ Il fiume numerabile degli anni li ha dispersi; sei una parola in un indice.1
Avevo appena terminato la lettura del romanzo di Franco Pulcini, Delitto al Conservatorio,2 e le prime parole che mi sono venute in mente non me le ricordo più. Sono sicuro che durante questo scritto si riveleranno da sole. L’arzigogolato e divertente giallo, risolto con non poca fatica dal Commissario Abdul Calì alle prese con l’insolito scenario del Conservatorio, mette in luce vecchie nostre conoscenze sottaciute per mezzo secolo. Concorsi pianistici, istituzioni di riferimento, bambini, genitori e docenti arrivisti. Appare audace Pulcini rispetto agli addetti ai lavori, ma solo perché, in fondo, riesce a dar voce ai nostri pensieri più infimi e taciuti perché probabilmente non ci siamo mai resi conto della portata della cosa. Il delitto, seppure si consumi altrove, è figlio di un sistema ben assestato e definito che inizia dentro le mura dell’Istituzione. Franco Pulcini entra così nei meandri dei sottili rapporti tra docenti, allievi e genitori arrivisti, che potrebbero essere pronti ad uccidere pur di ottenere una possibile gloria, diretta o indiretta che sia. Ma chi sono gli attori in campo? Il genitore Costui altera, amplifica sin dai primi rudimenti le ambizioni del figlio, decretandone genio e talento sin dalla prima colazione di routine quotidiana. Pretende la consacrazione ufficiale di questa sua ipotesi (il figlio), pensiero ossessivo compulsivo attraverso il quale vuole realizzare i suoi sogni. Assodato ciò, si mette alla caccia dell’insegnante che, in vero, ha già trovato nella sua ardita immaginazione. Deve solo trovare l’uomo che risponda all’identikit già elaborato nella sua mente. 1
JOSE LUIS BORGES, Ad un poeta minore dell'antologia, in L’altro, lo stesso, Milano, Adelphi, 1964, 2.a edizione italiana 2002. 2 FRANCO PULCINI, Delitto al Conservatorio, Milano, Marcos y Marcos, 2019. 201
MASSIMO SEVERINO
Il docente del pargolo deve essere non famoso ma ritenuto ufficiosamente esperto e potente nei rapporti con le istituzioni concertistiche e concorsuali. Se poi è anche bravo nell’erudire i ragazzi ben venga, anche se non è la priorità. Se poi non possiede per niente questa dote opzionale, che si dia da fare per ottenerla, a costo di imporglielo. Nel suo immaginario, il maestro, deve rispondere sin dal primo contatto alle sue esigenze prima ancora di quelle del figlio-discente, anche se le prime diverranno anche quelle del ragazzo. Suo figlio, dico, SUO figlio, erede dell’imperatore dei sogni, DEVE far carriera, e a qualsiasi costo! Mette in campo tutte le sue risorse, umane ed economiche, ossia dalla prostituzione al mutuo nei casi più poveri, dal sacrificio di barche e proprietà nei casi più agiati. L’allievo-figlio Una volta ricevuto per inoculazione la molecola della conquista della ‘grandezza’, realizza immediatamente che il docente è un suo servitore, colui che dovrà essere a sua completa disposizione sia per gli orari di lezione, sia per i suoi progetti ancora astratti. Si mette subito all’opera non al pianoforte, ma su YouTube, ascoltando solo i grandi pianisti attuali. Innesca il suo personale ‘Progetto-Got-Talent’, decisamente più immediato e scimmiottabile rispetto alle noiose partiture e libri di teoria musicale. Spesso arriverà ad imparare brani a memoria solo dall’ascolto, copiando grossolanamente anche la presunta prassi esecutiva. Il suo punto di partenza (e non di arrivo) è Valentina Lisitsa, obiettivo minimo da raggiungere e superare largamente. Ascolta in loop solo opere trascendentali, dall’americanissimo Rach3 alle acrobazie circensi di Campanelle, Rapsodie e Mazeppe di Liszt; dai titanici Quinti di Beethoven ai tripli salti mortali a due tastiere delle Variazioni Goldberg. Il tutto come repertorio minimo di partenza mentre dovrebbe ancora realizzare la prima Sonatina di Clementi che, ovviamente, studia solo per accontentare l’ignaro docente; colui che non si è ancora reso conto del genio che ha davanti. Il docente Il rampante novizio, che non sa di essere sfiduciato in partenza nella sua autorità e possibile sapienza, non sempre realizza le pretese dei genitori al primo contatto, che spesso si rivela morbido e adulatore da parte del padrone dell’allievo in entrata. Addirittura gongola all’idea di avere un allievo ‘ben sostenuto’ dalla famiglia. Si infiamma, nutre il suo ego al solo pensiero dei risultati che il ragazzo potrà ottenere. Dunque inizia a formulare pensieri erotici del tipo “fa curriculum” alla stregua della Professoressa Stragiotti, l’ammaliante insegnante di pianoforte del Delitto. Intravede possibili scenari di gloria, mai ottenuta con le proprie mani, attraverso mani altrui.
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IL MANCATO DELITTO AL CONSERVATORIO
Il professore di pianoforte galleggerà sulla falsa riga del genitore, fino ad accoppiarsi con lo stesso di lì a poco, e per lo stesso motivo: realizzare sogni utilizzando un adolescente. Il leitmotiv che lega a doppio nodo i tre protagonisti è lo stesso: ognuno di loro desidera realizzare il suo sogno utilizzando gli altri due con una consapevolezza piuttosto fantasiosa. Anche se il sogno del bimbo non è proprio il suo... Franco Pulcini punta il suo faretto da commissario sul mondo mefistofelico dei concorsi pianistici per bambini, un mercato prolifico e redditizio che ha fatto sì la felicità o la dannazione degli attori succitati, ma anche quella di sponsor, direttori artistici che hanno abdicato allo studio dello strumento, albergatori convenzionati nonché insegnanti di provincia che hanno creato veri e propri feudi accessibili solo alla compagine di colleghi con lo stesso sogno: danaro e tardiva fama indiretta. Il concorso alla “Verdi” di Milano è solo la punta di un iceberg di esorbitante portata. Di un commercio di minorenni inconsapevoli con la benedizione di genitori che sarebbero capaci di uccidere, come nel caso del romanzo in questione, pur di avere un figlio tra gli eletti. Dettero ad altri gloria senza fine gli dèi, iscrizioni ed eserghi, monumenti e diligenti storici; di te sappiamo solo, oscuro amico, che una sera udisti l’usignuolo. Tra gli asfodeli dell’ombra, l’ombra tua vana penserà che gli dèi son stati avari.3
Le uniche eccezioni sono quegli adolescenti che rifiutano di sottostare al volere del genitore. Ma ciò accade solo in quei casi in cui al giovane appare in sogno o nell’etere la parola ‘felicità’. Vuoi perché ascoltata da un insegnante assennato, o perché qualche irriverente amico del genitore, in presenza del suo genio, gli chiede: “Ma vuoi che tuo figlio faccia ciò che TU desideri o che sia felice?” . In questi casi si aprono altri scenari: ragazzi che scappano via di casa, che si danno al gioco per protesta o che scaraventano un pianoforte fuori dalla finestra. Sicuramente il genitore gloria-dipendente addurrà sempre che quel figlio snaturato è una testa di cavolo. Ma qualcuno dovrà pur farlo questo lavoro di autoassoluzione. Eppure questo sistema ha una sua pur perversa e sottile relazione con l’orfanatrofio, primo Conservatorio a livello germinale. Luogo di talenti orfani di fatto, che si dedicano anima e corpo alla musica, e senza alcuna pretesa di gloria. Ai nostri giorni il Conservatorio è diventato orfano di anime ma ricco di corpi che si muovono all’impazzata. Il sistema clientelare resta intatto e fedele nei secoli ma non si occupa più di allievi talentuosi da formare, piuttosto di clienti il cui motto è “Pago dunque sono”.
3
BORGES, cit. 203
MASSIMO SEVERINO Ma i giorni sono una rete di comuni miserie, e c’è sorte migliore della cenere di cui è fatto l’oblio?4
Quella che una volta era considerata un’élite della musica colta, oggi è una realtà di media conoscenza, operatrice di ‘infarinature’ musicali più che di conoscenze specifiche. Con docenti infarinati che producono a loro volta futuri infarinati di musica. Il decadentismo inarrestabile in cui è entrato il Conservatorio lo si deve alla famosa, più per i danni che per i miglioramenti, Riforma 508 del ’99. Un Riforma che naviga verso l’appiattimento culturale, che si occupa di numeri tanto amati dalla fu Ministro dell’Istruzione Gelmini. Le aziende, ops, scusate il lapsus, le Università che funzionano sono quelle che hanno più clienti. Un via libera all’ingresso nei Conservatori a cani e porci, e con la complicità dei docenti, coscienti di dover battere cassa per non correre il rischio di essere trasferiti d’ufficio all’Inps o al Comune. Sotto la spada di Damocle del Ragionier Ministro, nasce l’azienda più prolifica degli anni 2000: il Diplomificio di Stato. Su altri gettarono gli dèi l’inesorabile luce della gloria, che guarda nell'intimo ed enumera ogni crepa, della gloria, che finisce col far avvizzire la rosa che venera; con te, fratello, furono pietosi.5
Ah, ecco le parole che mi sono venute in mente appena terminata la lettura di Delitto al Conservatorio: Eh si, bisognava ucciderlo per davvero il Conservatorio per assicurargli una rinascita, una possibilità di approdare alla consapevolezza, al senso di responsabilità davanti ad un patrimonio artistico da difendere ad ogni costo.
Degenerazione di una Riforma Chi sono i cosiddetti riformisti? Malati! Nostalgici della lussuria, tangueri di Borges retrocessi a ‘tangheri de’ noartri’. Personcine che mettono in piedi coreografiche scene di sangue e coltelli sul buon senso di appartenenza. Ma a chi o a che cosa è tutto da scoprire. Al grido di “vergogna”, i novantanovini inscenano una puntuale Radetzky March asburgica travestita da Inno della canaglia. Da Strauss a Della Giacoma con moto, gli ex potenti – poco ex e molto potenti, diventati intrasattamente patrioti ribelli – arieggiano su rime sbracate che olezzano di controriforma, più da esibire che da realizzare, contro la loro stessa amata riforma. Insomma, un malcelato stratagemma per far pas-
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Ibidem. Ibidem. 204
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sare per riformista chi quella riforma vuole stroncarla, e per controriformista chi brama il suo ritorno. Roba da italica gente. Nel novero delle disfunzioni, messe in atto con chirurgico ostruzionismo passivo, c’è quella della nuova mentalità imprenditoriale interna che tende fortemente ad un profilo a cottimo del lavoro già regolarmente pagato dallo Stato. Se la virtù è una degenerazione del vizio, l’autogestione è una degenerazione dell’autonomia, che anela ad una governance in proprio del posto di lavoro, che deve rispondere solo ed esclusivamente alle esigenze individuali e non collettive. Ne vien fuori un’istituzione messa al servizio del lavoratore, secondo i canoni clientelari di qualsiasi ordine e grado, e non viceversa. Lo stridìo di voci di corridoio esala speranze di cambiamento, o ritorno che dir si voglia, confidando in un nuovo-vecchio capo, qualcuno che ci tolga da questo ‘andazzo’ che combatte e costruisce quotidianamente per garantire ordine, equità e meritocrazia, per tornare all’Andazzo Supremo dell’abuso o omissione d’ufficio. Omissione o abuso, tranne che il normale esercizio delle proprie funzioni. Una delle poche cose che si fa a regola d’arte da queste parti e di questi tempi, è la creazione del malumore scientifico, il dissenso chirurgico. Il malessere come locomotiva elettorale che corre all’impazzata da un ufficio all’altro, da un’aula all’altra, visto che di tempo da perdere, i novantanovini, ne hanno a iosa. Nel film La Grande bellezza di Paolo Sorrentino, Jep Gambardella, guardando il trenino degli invitati alla sua festa di compleanno che schiamazzano senza posa, dice alla sua colf: Sono belli i trenini che facciamo alle feste, vero? Sono i più belli del mondo... perché non vanno da nessuna parte.
In questa ‘nessuna parte’ si annida il ghiotto territorio del Progetto o Progettone, uno dei punti di forza di talune istituzioni, convinte che una maggiore visibilità esterna possa amplificare la considerazione più della sostanza didattica interna. È un po’ come una squadra di calcio che si preoccupa del colore della divisa più che degli allenamenti quotidiani. I cosiddetti progetti musicali raramente hanno una finalità didattica, e mai rappresentano un reale contributo artistico per l’istituzione. Mai finalizzati alla visibilità dell’Istituzione, sono decisamente destinati al solo ricavo del proponente. Che chiede gloria, altrove mai ottenuta, all’interno delle mura amiche della propria istituzione, alla stregua di genitori e insegnanti da giallo pulciniano. Scegli una materia, che me la invento In questo voluto stato di cose si fa largo l’onda sciacalla dei mestieri spacciati per Alta Cultura che nulla hanno a che fare con la Mia arte scontrosa o mestiere di thomassiana6 memoria – ossia dell’arte che, data la sua universalità, può diventare arti6
DYLAN THOMAS, Nella mia arte scontrosa o mestiere. 205
MASSIMO SEVERINO
gianato rendendosi disponibile a qualsiasi linguaggio – ma esattamente il contrario. Ossia quei mestieri che possono essere acquisiti sul campo da tutti e che non richiedono lauree o studi specialistici di durata minima ventennale, e che hanno la pretesa di diventare ad ogni costo, come ‘logica’ conseguenza, Arte. Per quanto oggi il sistema Afam cerchi di far cassa in ogni modo e luogo attraverso seminari e lauree in L’usciere dal ’500 ad oggi o L’evoluzione del Triccheballacche nella musica colta, va effettivamente riconosciuta la non necessarietà di studi specialistici e filologici per taluni mestieri assimilabili con la sola buona volontà e l’esperienza sul campo. Ebbene, se questi mestieri è possibile portarli all’interno di un’istituzione rivendicandoli di propria pertinenza e conseguentemente utili alla causa collettiva artistica, allora tutti, ma proprio tutti, possono fare del proprio variegato curriculum vitae, acquisito on the road, disciplina di competenza e di interesse pubblico nonché patrimonio da sostenere. Forse sarebbe il caso di approdare ad una dichiarazione pubblica di ammissibilità o meno, alias declaratoria, con conseguente accertamento dell’effettiva utilità collettiva della proposta. In questi casi sarebbe obbligatoria la verifica dell’effettiva e imprescindibile coesistenza del requisito soggettivo con quello oggettivo per la costituzione delle pertinenze. Comunque la si voglia chiamare, l’Alta Formazione non è un mezzo né il territorio per l’esercizio volto ad un ricavo personale, sia in termini sociali che economici. Nell’estasi d’una sera che non sarà mai notte, tu odi la voce dell’usignuolo di Teocrito.7
L’insegnante e i suoi “clienti” Occorre ricordare che i requisiti di un buon insegnante consisterebbero in questo: in qualche modo, da qualche parte, egli ha fatto una scelta deliberata in cui non ha visto i propri interessi separati da quelli di qualcun altro. Perché, alla fine, insegnare e imparare sono la stessa cosa. Non puoi insegnare senza imparare e non puoi imparare senza insegnare. Nel novero degli insegnamenti spesso improvvisati, emerge la scarsa conoscenza di chi NON dovrebbe essere solo un contenitore che ne riempie altri ma un docente che, acquisite le dovute conoscenze, amplia le stesse attraverso la propria ricerca affinché non generi allievi che scimmiottino le sue eventuali glorie e i suoi fallimenti. Ciò genera una confusione tra gli addetti ai lavori, docenti e discenti, riguardo alle modalità in cui avviene l’insegnamento. Allora si finisce semplicisticamente per fraintendere che la cosiddetta conoscenza avviene attraverso questa modalità: si insegna in un’aula utilizzando le parole. Il maestro espone un’idea, gli studenti prendono appunti su carta, la memorizzano per l’esame finale e, se la ripetono bene, si ritiene che l’abbiano imparata. 7
BORGES, cit. 206
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In vero, l’insegnamento avverrebbe tramite l’energia che il docente emette con la qualità della sua conoscenza e del suo essere. In ogni istante egli insegna amore o paura. Non ci sono altre lezioni. Se si pensa ai maestri che hanno influenzato profondamente la vita di un discente, non sono le informazioni che hanno fornito a trasformarlo in un’eccellenza, ma la maniera in cui è stato trattato e come si sentiva in loro presenza. Dovremmo ritenere più che attuali le parole di J. Brahms rivolte a Joseph Widmann: Non è una strana mania, la nostra, sprecare la vita per un pugno di note? Disperarsi tutto il giorno per cesellare un ritmo, una melodia? Eppure è tutto quello che abbiamo, e non dobbiamo svendere il nostro tesoro più prezioso, per nessun motivo, mai.8
C’è da chiedersi da quale parte stia l’Afam? E da quale parte stiano i lavoratori a cottimo che imperversano nelle nostre aule, sacro tempio della conoscenza più intima della nostra bistrattata musica. Se l’Istituzione diventa l’accogliente territorio di improbabili idee-espedienti per battere cassa, decade il principio fondamentale della Ricerca cui sarebbe destinata, dandosi deliberatamente in pasto a quella politica dell’andate a laurà in bicicletta, ma rigorosamente dopo il prosecchino mattutino, che tanto piace a quella Lega dello slegamento italico dalle proprie radici. Ce li vedo i docenti Afam, tra qualche anno, a correre all’alba mentre generano nebbia da accaldamento alcolico. Immigranti stufette ambulanti sulle rive del Po nell’esercizio delle proprie scontrose funzioni.
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LUIGI GUARNIERI, Una strana storia d’amore, Milano, Rizzoli, 2010. 207
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«La nostra musica di chiesa è assai differente…». Mozart e la musica sacra italiana, a cura di Rosa Cafiero, Raffaele Mellace e Claudio Toscani, Roma, Società Editrice di Musicologia, 2018, 265 pp. Il volume – che raccoglie parzialmente gli atti del convegno tenutosi a Pavia nei giorni 9 e 10 ottobre 2015 – centra attraverso la citazione di una lettera mozartiana indirizzata a Padre Martini le sostanziali differenze fra la musica sacra alla quale era abituato il giovane salisburghese e quella praticata in Italia ai tempi delle sue permanenze nel nostro paese. Il primo saggio di Marco Bizzarini (La versione di Burney: modalità esecutive della musica sacra in Italia al tempo di Mozart) evidenzia le osservazioni del musicologo inglese, giunto come i Mozart padre e figlio in Italia nel 1770, sulle composizioni ascoltate e sulla prassi esecutiva sottolineando soprattutto le lunghe durate, i grandi organici, l’eterogeneità di messe e vespri scritte a più mani con stili e competenze diversi, la frequente presenza di brani strumentali all’interno delle liturgie. Attraverso uno spoglio dei cataloghi dei fondi musicali delle principali chiese in area veneta e dei materiali in uso Giovanni Polin (Le cappelle musicali in area veneta nella seconda metà del Settecento: appunti per uno studio comparativo di organici e prassi) ha potuto tracciare un quadro degli organici adoperati nelle liturgie dando anche alcuni riferimenti nelle tabelle poste in appendice. Un altro elemento dal quale Polin ha dedotto le sue considerazioni è l’apparato iconografico che ritrae i luoghi sacri negli anni dei viaggi italiani di Mozart: ciò che emerge dall’osservazione è l’abituale disposizione dei cori su due o più cantorie sopraelevate oggi non più presenti. Come nel precedente saggio anche in questo si osserva che i grandissimi organici erano riservati alle occasioni più solenni. Singolare inoltre la presenza di nomi di cantanti donne insieme agli uomini in un Dies irae per coro a 4 voci, orchestra e basso continuo di Ferdinando Bertoni la cui partitura è conservata presso l’Archivio Capitolare di Padova che pone diversi interrogativi tuttora aperti. Sergio Durante (L’oratorio mozartiano come specchio dei tempi), attraverso i tre componimenti mozartiani riconducibili alla forma dell’oratorio – il giovanile contributo a Die Schuldigkeit des ersten Gebots KV 35, La Betulia liberata e il Davidde penitente – fa le sue considerazioni sulla prassi esecutiva e sulle committenze di un genere che andava allontanandosi dal «contesto produttivo originario». Marco Mangani (La concezione dello spazio sonoro ai primordi del contrappunto mozartiano) prende in esame il percorso niente affatto rettilineo dalla modalità alla tonalità con le differenti concezioni teoriche – Mattheson, Heinichen – che ad inizio Settecento proclamarono la supremazia della tonalità armonica. Al di là della ricerca delle differenze nella pratica contrappuntistica nell’ambito luterano o cattolico Mangani sostiene la convenienza dell’analisi dei singoli casi: i tre canoni nel Kyrie KV 89/73k rispondono chiaramente alle regole armoniche, così come l’antifona Quaerite primum regnum Dei ‘corretta’ da Padre Martini. Il confronto fra una fuga di Mozart, 209
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il Cum sancto Spiritu dalla Messa KV 139/47a e una di Bach, l’Et in terra pax dalla Messa in si minore, permette infine di valutare i due differenti spazi sonori e la differente concezione formale che nel caso della giovanile fuga mozartiana appare chiaramente tripartita dove la tonalità è essa stessa principio formale. I più recenti metodi analitici, sostiene Marilena Laterza (Esercizi di forma e di stile: l’impatto dei viaggi in Italia sulle arie da chiesa di Mozart), permettono di considerare la musica sacra del Settecento sotto una nuova luce e grazie ad essi la studiosa prende in esame il repertorio sacro mozartiano precedente e contemporaneo ai viaggi italiani e due brani che servono a dimostrare da un lato «il grado di emancipazione di Mozart dai modelli salisburghesi e paterni, dall’altro la sua permeabilità a elementi stilistici specifici la cui matrice italiana – napoletana, nella fattispecie – sia accertabile e concretamente dimostrabile». Wolfgang Hochstein (Arienformen in Mozarts Kirchenmusik und ihre Vorbilder) dimostra come nella musica sacra del Settecento la forma dell’aria bipartita sia stata un modello così come quella tripartita nell’opera. Antecedenti a Mozart che ne fa ampio uso vi sono esempi di Alessandro Scarlatti e di tanti altri autori italiani, e non solo, successivi, compreso Leopold Mozart. La ragione starebbe, secondo Hochstein, nella tipologia del testo difficilmente riproducibile per metrica e per contenuto in una struttura col ‘da capo’. Questa ed altre soluzioni formali, preesistenti o meno, vengono riempite da Mozart di contenuti sempre nuovi. In alcune composizioni sacre su testi appositamente scritti come i mottetti o gli oratori, in corrispondenza di testi con una sola strofa Mozart adotta la forma dell’aria da chiesa bipartita, mentre in altri casi si serve della forma tripartita o di quella col mezzo da capo (A A’ B A’) mutuata da Hasse. Milada Jonášová (Il fenomeno delle contraffazioni mozartiane nella monarchia asburgica, con particolare riferimento all’area transalpina) ci porta in Boemia e alla diffusa pratica della parodia di arie d’opera, specialmente mozartiane, in arie sacre: studiando il repertorio della Cattedrale di San Vito a Praga la studiosa ha stabilito che oltre la metà di esso consiste in arie che provengono da opere. Ma una sorte simile era riservata anche ai pezzi d’insieme come il sestetto del Don Giovanni Solo in buio loco diventato un offertorio dal titolo Bone pastor pater vere Jesu. La ricerca si è estesa anche ad altre località della Boemia attestando cinquecento contrafcta. Manfred Hermann Schmid (L’italianità nella Messa in do minore KV 427 di Wolfgang Amadeus Mozart) ragiona innanzi tutto sulla committenza di tale Messa, probabilmente la Congregazione di Santa Cecilia di Vienna poi soppressa da Giuseppe II, e sulla successiva sua trasformazione nel Davide penitente scritto per l’erede di quella Congregazione, la nuova Tonkünstlersocietät. Ciò spiegherebbe l’impianto tipicamente italiano fatto di ampie forme apprese da Mozart specialmente a Bologna destinato ad impressionare un pubblico di addetti ai lavori che sarebbe stato presente alla sua esecuzione e che gli avrebbe fatto sperare in un’assunzione come musicista di chiesa. Schmid ipotizza infine che Mozart potrebbe aver ricevuto qualche influenza dalla Messa che Luigi Gatti aveva composto per un importante anniversario della diocesi di Salisburgo nel 1782.
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Luigi Collarile (Reminiscenze milanesi nel Requiem in re minore KV 626 di Mozart?) scorge nel Tuba mirum del Requiem mozartiano alcune suggestioni provenienti dallo stesso testo musicato dal compositore lombardo Gian Andrea Fioroni: incipit melodico-ritmico del basso solista molto simile nei due autori e soprattutto l’utilizzo di una tromba dritta obbligata in Fioroni corrispondente al trombone obbligato in Mozart che i biografi del salisburghese avevano invece considerato una scelta originale che dava «einen graussenvollen Effekt». Ma al di là di questo ed altri punti di contatto Collarile fa un’accurata e lucida riflessione sul sensazionalismo di certa stampa recente che sostiene plagi non meglio verificati da parte di Mozart nei confronti di questo o quell’altro autore italiano contrapponendovi risposte valide e scientificamente provate. Alessandra Palidda (Exsultate, jubilate: musica sacra?) dopo avere elencato la vasta discografia che comprende nei più disparati contesti il celebre mottetto mozartiano ne contestualizza la composizione avvenuta durante l’ultimo viaggio italiano del giovane Mozart fra l’ottobre del 1772 e il marzo del 1773. L’accademia a Palazzo Melzi a Milano il 12 marzo 1771 era stata l’occasione per Mozart di presentarsi come compositore ormai maturo attraverso l’esecuzione di quattro sue arie per soprano su testi metastasiani e aprì la strada alla scrittura per il Teatro Ducale dove avrebbe fatto eseguire il Mitridate, Re di Ponto. Il soggiorno del 1773, l’anno del Lucio Silla, fu «come il momento di chiusura di una stagione formativa molto importante per Mozart, il quale in quel periodo si avviava alla costruzione di uno stile compositivo più personale e maturo». Oltre al teatro, suo principale obiettivo, Mozart non disdegnava altri ambienti e apprezzava molto la possibilità di comporre musica sacra che negli stati italiani era estremamente più libera rispetto alle rigide imposizioni di Salisburgo. L’Exsultate, jubilate, eseguito il 17 gennaio 1773 dal sopranista Venanzio Rauzzini nella chiesa di Sant’Antonio Abate dei Teatini, venne definito dallo stesso Mozart in una lettera alla sorella ‘mottetto’, termine quanto mai generico in quell’epoca: Palidda identifica solo altri tre brani così definiti dallo stesso Mozart nella sua produzione di cui uno per quattro voci con archi e organo, ma riscontra nella collocazione dopo il Credo, al momento dell’Offertorio, l’elemento comune pur riscontrandovi evidenti affinità con il genere operistico. Cecilia Malatesta (Krönungsmesse: considerazioni su alcune rimediazioni novecentesche) mette a confronto due celebri registrazioni della Messa dell’incoronazione, quella filologica dell’Academy of Ancient Music diretta da Christopher Hogwood per Oiseau-Lyre del 1993 e la registrazione video dell’esecuzione di Herbert von Karajan alla guida dei Wiener Philharmoniker nella Basilica di San Pietro a Roma il 29 giugno 1985 alla presenza del papa Giovanni Paolo II che contemporaneamente officiava la liturgia per la festa dei SS. Pietro e Paolo. I due differenti mezzi, il disco e il video, le due differenti finalità intendevano, pur se con idee e concezioni diversissime, riportare la musica di Mozart nel suo giusto contesto, quello della liturgia. Bianca De Mario (Mettere in scena Betulia liberata. Ibridazioni e mutazioni di un oratorio) introduce il suo saggio menzionando il caso delle due versioni della Betulia liberata di Mozart (1771) e di Jommelli (1743) eseguite durante il festival di Pente
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coste a Salisburgo nel 2010 la prima in forma scenica, la seconda in forma di concerto. L’allestimento scenico dell’oratorio di Mozart offre alla studiosa l’occasione per discutere di tale modalità esecutiva – ai tempi di Mozart e ai tempi odierni - per una forma sempre stata, fin dal suo primo apparire, ibrida e soggetta alle più svariate definizioni. Marina Marino AAVV., Le stagioni di Niccolò Jommelli, a cura di Maria Ida Biggi, Francesco Cotticelli, Paologiovanni Maione, Iskrena Yordanova, Napoli, Turchini, 2018, 1116 pp. Non è facile offrire un quadro completo di una personalità così complessa come quella di Niccolò Jommelli e della sua sconfinata produzione; per questo, il poderoso volume monografico promosso dalla Fondazione Pietà de’ Turchini, dall’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e dal Comune di Aversa, nato a scopo celebrativo in occasione del trecentesimo anniversario della nascita del musicista, risponde all’esigenza di creare un ritratto esaustivo, a tratti inedito, attraverso la collaborazione di più voci eterogenee ciascuna delle quali offre una prospettiva differente su Jommelli. Molti e diversificati sono, dunque, i punti di vista, gli strumenti di indagine, le conoscenze che rientrano in questo volume, il quale propone spunti di riflessione più che chiavi univoche di lettura. Numerosi sono gli autori che si sono occupati delle opere jommelliane, dalle giovanili a quelle della maturità, indagando il confronto con la tradizione e i rapporti complessi e fortunati con i mecenati, tra questi Antonella D’Ovidio che ha analizzato il ruolo del mecenatismo degli Stuart per l’inserimento nell’articolato sistema teatrale, le ragioni del successo a Roma, e lo stile personalissimo (con un’attenzione alla fattura orchestrale, alle sfumature psicologiche, all’articolazione dell’aria modellata sull’animo del protagonista); Roberto Scoccimarro che analizza il Don Chichibio (Roma, Teatro Valle 1741) e la capacità di Jommelli di inserirsi con un’impronta personale nel solco della tradizione comica di scuola napoletana già consolidata; Francesca Menchelli Buttini indaga la drammaturgia musicale come dialettica tra melodramma, prassi teatrale e generi letterari e, come anche Andrea Chegai, analizza la Merope (Venezia 1741-1742). Un lavoro sulla drammaturgia musicale è compiuto anche da Francesco Cotticelli che si concentra però sul periodo che va tra gli anni Sessanta e Settanta del XVIII secolo a Napoli. Marina Marino col suo intervento fa delle precisazioni sugli anni di apprendistato di Jommelli attraverso il confronto di documenti preziosi per la ricostruzione di un periodo fondamentale che è quello della sua formazione. Grazie a Giovanni Polin si comprende l’avventura veneziana alla luce della cultura musicale dell’epoca: Jommelli scelse accuratamente le sue attività lavorative e le sue mete, ma ebbe anche delle occasioni propizie che gli permisero di costruire il proprio successo grazie ad una rete di relazioni consolidate nei meccanismi sociali. Paologiovanni Maione compie un’analisi dell’Amore in maschera che sancisce il ritorno al Teatro dei Fiorentini nel 1748, tempio della ‘commedeja per musica’, e al genere comico col contratto con Pietro Trinchera e la collaborazione con Antonio Palomba:
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la commedia per musica diventa un banco di prova per Jommelli per l’importanza data alla gestione musicale e al dosaggio degli espedienti comici. Anthony Del Donna si cimenta nell’indagine sull’oratorio del 1749 commissionato dal cardinale York su libretto di Metastasio, la Passione di Gesù Cristo mentre Lorenzo Mattei si occupa delle opere serie analizzando in particolare le arie nei vari momenti del dramma. Rosy Candiani ha come oggetto di indagine la revisione della Semiramide (Madrid 1753) attuata per esigenze precise: il cast e le ragioni politiche, ovverosia, nello specifico, la celebrazione del duca di Wurttemberg. Paolo Sullo compie una disamina delle sinfonie attraverso due strumenti analitici, il testo di Robert Gjerdingen Music in the Galant Style (basato sulla teoria musicologica di stampo cognitivista) e The Art of Partimento di Giorgio Sanguinetti (che individua le regole alla base degli insegnamenti di composizione e improvvisazione nella scuola napoletana del ’700): il suo intervento ha come scopo quello di compiere una riflessione sull’apprendimento e la didattica nella tecnica compositiva nella scuola napoletana. Interessanti i lavori a quattro mani, quello di Giacomo Sances e Giacomo Sciommeri, o anche di Raffaella Passariello e Stefania Prisco, e di Rosa Cafiero e Giulia Giovani su Giuseppe Sigismondo e la collezione di musiche di Jommelli, nonché quello di Francesca Seller e Antonio Caroccia sulle collezioni private del Regno delle Due Sicilie, e ancora quello ad opera di Paola De Simone e Niccolò Maccavino i quali immettono il lettore immediatamente nella fucina di un’edizione critica, rilevando i vari passaggi filologici della Cerere placata, festa teatrale del 1772 in onore del battesimo dell’Infanta Maria Teresa Carolina di Borbone. Gli interventi di Bruno Forment, Lucio Tufano e Teresa Chirico fanno confluire nella lettura delle partiture jommelliane conoscenze in ambito letterario e di storia dell’arte. Altri, validissimi, interventi tra cui anche uno (di Michael Pauser) in tedesco e un altro (di Cristina Fernandes) in inglese chiudono il cerchio attorno alla figura di Jommelli: la dovizia di particolari, il lavoro meticoloso di ricerca, la riscoperta di documenti e la cura per i dettagli (dall’analisi delle partiture all’indagine sui dispositivi teatrali, fino al confronto con elementi dai più affini ai più lontani rispetto a quel contenitore complesso rappresentato dalla produzione jommelliana), nonché un’attenzione particolare (nota non scontata e non di poco conto) alla scrittura che rende sempre chiaro e fruibile il messaggio, che si riscontrano dietro a ciascun intervento fanno di questo volume, che non si limita ad un’operazione di recupero e di rivalutazione del musicista aversano, una tappa letteraria obbligata per tutti gli studiosi (e non solo di musicologia). Rossella Gaglione
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SARA SALSANO, Educare attraverso la musica. Approcci e strategie a scuola e in famiglia. Il ruolo della musica nella crescita dell’individuo, Varese, Zecchini Editore, 2019, 104 pp. Questo agile, ma esaustivo volume di Sara Salsano è un lavoro rivolto a tutti: docenti, educatori, genitori e semplici appassionati di musica. Il libro è ispirato, per stessa ammissione dell’autrice, al motto del pianista e direttore d’orchestra Daniel Baremboim, «educare i bambini non alla musica ma attraverso la musica» (p. 1), per concepire quindi quest’arte come una forma di espressione al pari del linguaggio. Scrive l’autrice: «ancor prima di insegnare ai bambini a suonare uno strumento, è necessario educarli attraverso la musica, perché questa possa essere per loro, oltre che un piacere, un’educazione alla vita nelle sue mille sfaccettature, un punto di riferimento quando si è smarriti». (p. 7) Sono cinque i capitoli che formano il corpo di questa pubblicazione: Il contesto musicale, Musica e linguaggio, Educazione globale attraverso la musica, La musica a scuola, La musica in famiglia; tutti davvero molto interessanti, densi di informazioni ma, allo stesso tempo, esposti con grande chiarezza e fluidità. Nel primo capitolo, Il contesto musicale, si affronta un argomento molto spesso sottovalutato nell’approccio sistematico allo studio della musica, ovvero quello di focalizzarsi sui fenomeni sonori che riempiono le nostre vite e che dovranno essere poi riconosciuti e classificati dai bambini ancor prima di imparare a cantare o a suonare uno strumento. Altro argomento toccato in questo primo capitolo è quello non meno importante della identità e della memoria musicale e di come rapportare questa innata funzione sociale della musica alle competenze e alle condotte musicali, vale a dire un «insieme di atti elementari coordinati da una finalità». (p. 20) Scorrendo il secondo capitolo, Musica e linguaggio, si entra ancora di più nel dettaglio delle varie fasi di apprendimento e assimilazione della musica da parte dei bambini che sin dai primi anni di vita sono attratti in modo spontaneo dal mondo dei suoni e in particolare dalla loro voce e dalla voce di chi gli sta intorno. Viene affrontato, inoltre, in maniera chiara il concetto di Music Learning Theory (Teoria dell’apprendimento musicale) sviluppato dal ricercatore americano E. E. Gordon che ha delineato i diversi step di apprendimento musicale dell’infante. Superate le premesse di ordine generale, dal terzo capitolo, Educazione globale attraverso la musica, ci si addentra nei vari modi in cui ci si può approcciare alla musica e su come essa possa intrecciarsi coi diversi ambiti disciplinari. L’approccio tradizionale alla musica prevede l’insegnamento di uno specifico strumento, partendo spesso da soggetti in tenera età, i quali con il duro e costante esercizio, riescono negli anni ad ottenere ottimi risultati. Questo però, spiega l’autrice, «nonostante gli evidenti pregi di tale approccio, nella pratica comune dell’educazione musicale esso può rappresentare uno svantaggio o perfino un limite insormontabile e frustrante per un’enorme schiera di bambini e ragazzi». (p. 45) Di notevole interesse il quarto capitolo intitolato La musica a scuola, che entra in maniera più tecnica e dettagliata nell’educazione musicale che oggi convive, in (qua
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si) tutti i contesti scolastici infantili con le altre discipline, confermando ancora di più il carattere, appunto, multidisciplinare dell’arte dei suoni. Come si inizia a insegnare musica sin dai primi anni d’età? La parola chiave è gioco nella sua accezione più pura. Nelle classi della scuola dell’infanzia, spiega la scrittrice, «i giochi musicali sono un ottimo veicolo per trasmettere una prima educazione estetica, se associati a brani di un certo valore artistico e relativi a generi e culture di diverso tipo». (p. 64) Sarebbe auspicabile che l’alfabetizzazione musicale riguardasse tutte le scuole di ogni ordine e grado in modo da affiancare alle conoscenze di base anche la possibilità di conoscere e suonare uno specifico strumento o partecipare ad attività di carattere corale e, perché no, laddove la scuola ne avesse la possibilità, avvalersi di figure esterne che potrebbero ulteriormente arricchire il percorso di crescita dell’individuo. Ovviamente, tutto quanto analizzato ed illustrato nei precedenti capitoli, non avrebbe ragion d’essere senza un fattivo aiuto ed interesse da parte delle famiglie: è proprio questo il focus del quinto ed ultimo capitolo intitolato La musica in famiglia. Condivisione della conoscenza e delle esperienze musicali anche in famiglia, pur rimanendo, nei primi anni di studio, nell’ambito del gioco. La forza di questa pubblicazione sta nella convinta e documentata promozione dell’educazione musicale dai primi anni sino ad arrivare ai livelli superiori, quelli di “alta formazione artistica e musicale”. Uno strumento, questo libro, che può rivelarsi una preziosa guida per chiunque voglia educare attraverso la musica. Domenico Prebenna VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Ravel, trad. it. Laura Lovisetti Fuà, Milano, Abscondita, 2018, 151 pp. In un mercato editoriale fatto sempre più di privazioni e rinunce, di assenze incolmabili, pubblicazioni mancate, scelte talvolta inspiegabili, tagli e marginalizzazioni, non è un caso se nel 2018, a distanza di soli cinque anni dalla versione curata dalla stessa traduttrice (Laura Lovisetti Fuà) presso i tipi di SE, sia uscito nuovamente in italiano, sempre per una casa editrice milanese (Abscondita), come cinquantunesimo volume della collezione “Aesthetica”, la monografia sui generis che Vladimir Jankélévitch aveva dedicato nel 1939 a Ravel. Sui generis, o meglio extra generis, è questo testo, come pure la personalità stessa dell’autore, la cui cospicua produzione teorica è sempre a cavaliere tra la Filosofia e la Musicologia. Si tratta, in questo caso specifico, di pagine dense e appassionate, cariche di pathos – quel pathos in fondo tipico di tutte le opere del filosofo francese –, che sono la testimonianza (una delle più forti, probabilmente) della grande conoscenza che aveva Jankélévitch della musica raveliana, come pure dei dispositivi tecnicocompositivi, delle strutture armoniche e melodiche, nonché del milieu culturale musicale nel quale si era formato Ravel e delle sue partiture. Il filosofo francese, infatti, offre al lettore un chiaro quadro della produzione raveliana, seguendo la parabola della sua crescita stilistica.
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Il primo capitolo è dedicato proprio all’analisi puntuale dell’evoluzione, non regolare e a tratti incostante, dello stile di Ravel: dopo aver individuato le coordinate che vanno a confluire nella sua formazione musicale (il pudore di Satie, la sobrietà di Fauré, la vezzosità di Massenet, la bizzarria di Chabrier, le curiosità compositive degli autori russi), l’autore indica, quasi fossero i tempi di una sonata, tre periodi nella sua produzione (pure indagata con meticolosità e cognizione di causa) e cioè quello dei primordi che va dal 1875 al 1905 (in cui si dedica, tra l’altro, alle tre opere per pianoforte e ad alcune opere vocali), il secondo, quello della maturità, che va dal 1905 al 1918 (dalla Sonatina al Tombeau de Couperin) e il terzo dal 1918 al 1937 (dai Concerti alle sue ultime composizioni). Il secondo capitolo, invece, è dedicato al ‘mestiere’ di Ravel, ed è qui che Jankélévitch inizia a qualificare la musica raveliana, a dare una caratterizzazione precisa allo stile e alla personalità del musicista, nella ricerca di motivazioni intrinseche alle scelte stilistiche e a quelle compositive. Tra passione sfrenata per l’artificio (inteso nel senso più vicino alla radice etimologica, e quindi non nella sua accezione negativa – o presunta tale –), il coraggio nel porsi degli obiettivi sempre più difficili da raggiungere, la ricerca continua in ambito strumentale, l’utilizzo ammaliatore e incantatore dei tecnicismi, la curiosità per le combinazioni inusitate: queste sono solo alcune delle caratteristiche virtù attribuite da Jankélévitch a Ravel. Il terzo capitolo, invece, Appassionato, si apre a suon di «l’arte non è altro che una deliziosa menzogna» (p. 109) e qui il musicologo delinea il ritratto raveliano tra maschere, esotismi, danza, sensualità e veemenza. Il compositore è associato, in più di un luogo testuale, per natura, per genio e per ‘regolata sregolatezza’, al principe degli scrittori e poeti raffinati Paul Valéry, proprio quel Valéry che fa del duro lavoro la sua unica illuminazione, che si piega alle convenzioni con tale maestria da risultare istintuale, prodigioso, spontaneo, che fa dell’arte un’operazione ‘artificiosa’ ma mai ‘artefatta’: se si potesse indicare con un solo aggettivo sostantivato la figura raveliana che ne vien fuori, questo sarebbe, senza dubbio, ‘l’artificioso’ poiché nelle pagine jankélévitchiane il compositore appare come colui che spinge l’impossibile oltre i suoi stessi limiti, colui che, attraverso la sua fervida e quasi demiurgica immaginazione, plasma la materia sonora secondo il suo proprio uso, facendo strumento di espressione persino quando programmaticamente decide di eluderne la natura intimamente espressiva. Il virtuosismo raveliano, sintomo di un’intelligenza acuta e di un’eccellente padronanza dei mezzi a disposizione, pur apparendo infatti talvolta contrario all’espressione dei sentimenti, e, perciò, volutamente anti-soggettivo, si riscopre per contrarium espressivo, appassionato, sentimentale, romantico: la razionalità vuole rivestire con l’ironia dialettica le emozioni, ma è proprio quando tenta di nasconderle che esse emergono in superficie in tutta la loro innocenza. Dal punto di vista compositivo, tutto questo si traduce nella continua arbitraria invenzione di difficoltà, divieti, pur nell’assoluto formalismo, unicamente per il gusto stesso di superarli e di mettersi alla prova; quella che il filosofo-musicologo definisce come ‘estetica della scommessa’ indica esattamente la capacità compositiva di inventare ostacoli, interdizioni, spogliare il proprio linguaggio creativo fino a ridurre le possibilità di costruzione, inventare ostacoli fittizi, fabbricare a proprio uso e consumo interdizioni gratuite e imperativi arbitrari, per vedere fin dove è in grado di ar
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RECENSIONI
rivare la propria arte: Ravel insomma «si avventurerà in ogni sorta di contorcimenti, di stridori, di sberleffi, per sperimentare sino in fondo di cosa sia capace il mistero dell’artista» (p. 68). Jankélévitch ci presenta un Ravel perfetto nello stile, nella forma, ma paradossale nei contenuti musicali, come se all’improvviso, quasi per magia, spuntasse, dietro agli artifici e alla perfezione, qualcosa di funambolico, di meraviglioso nella sua irrazionalità, come se si potesse scoprire una lacuna all’interno del sistema, così nascosta e profonda, da rendere quello stesso sistema razionale straordinariamente ‘umano’. Ravel è profondo proprio perché è superficiale come solo l’innocenza sa esserlo «poiché caratteristica dell’innocenza è d’essere profonda per il solo fatto che è, che esiste, e non perché sia allegoria o simbolo. […] Maurice Ravel rappresenta l’innocenza. La sua morte ha segnato la fine della nostra innocenza» (p. 150). Rossella Gaglione
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