Storia breve della maschera-schede informative

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LA MASCHERA E LA NASCITA DELLA DRAMMATURGIA La Maschera, già dalla Preistoria, ha per l’uomo lo stesso valore di sempre: il potere “magico” di mutare chi la indossa in un altro essere. In particolare, la maschera animale o vegetale (o tutto il travestimento), in momenti importanti nella vita del gruppo, facilitava la comunicazione dell’uomo preistorico con le forze della Natura, poiché tramite la Maschera egli annullava sé stesso per diventare un elemento della Natura al fine di armonizzare pienamente con essa e conoscerne i segreti. In questo modo, chi indossava la Maschera, trasformandosi in stambecco, toro o uccello, entrava in contatto con l’ambiente naturale per modificarlo e assicurare così protezione e approvvigionamento al gruppo cui apparteneva. Egli, rinunciando a sé stesso e diventando “altro”, riusciva a comunicare con gli spiriti dell’Universo, ma anche con quelli che assistevano al rituale, i quali, di riflesso, così come nelle rappresentazioni teatrali, partecipavano alla sua esperienza trascendente. Ad indossare la Maschera era, come sempre, una persona con precise caratteristiche, che per il suo ruolo di tramite con le forze dell’Universo diventava per la comunità una figura “sacra”. Si tratta dello “sciamano” (il termine deriva dalla lingua tungusa della Siberia) o del “sacerdote”, figura che viene rispettata e temuta, poiché testimone di un mondo spirituale, oscuro e incomprensibile all’uomo comune. Fanno parte dell’attività sciamanistica anche la musica e la danza, per cui cerimonie cultuali in cui la presenza di maschere si associa a musica e danza possono essere considerate delle vere e proprie rappresentazioni sceniche. Cerimonie sacre con maschere teriomorfe che si svolgevano in inverno o in primavera, secondo la sequenza stagionale della vegetazione, stanno infatti all’origine di feste particolarmente sentite nell’antica Grecia come le Antesterie, le Lenee e le Dionisie, direttamente legate all’origine del teatro antico. Queste cerimonie mascherate avranno sempre nella storia dell’uomo lo stesso intento “magico” di propiziarsi forze della Natura prima, divinità poi, al fine di assicurare il bene della comunità in occasione di momenti speciali, particolarmente importanti nella vita di essa, quali l’avvicendarsi delle stagioni o solstizi nelle comunità agricole – in quanto legati alla morte e alla rinascita della natura –, o guerre ed epidemie in periodo storico.







SATIRI E SILENI I Satiri, nella mitologia greca, erano divinità minori che personificavano la fertilità e la forza vitale della Natura. Abitavano nei boschi e nei monti e avevano attributi caprini. Erano cioè degli esseri ibridi raffigurati come uomini barbuti, spesso itifallici, con corna, coda e zampe di capra. Si possono quindi considerare come i diretti discendenti degli esseri ibridi preistorici, e come questi hanno la stessa forza vitale del mondo vegetale e animale. I Satiri erano visti come demoni sensuali e maliziosi, amanti del vino, delle donne e delle Ninfe, ma ostili spesso agli uomini a cui a volte assalivano gli armenti o giocavano qualche brutto scherzo. Amavano la danza e la musica e venivano spesso raffigurati nell’atto di eseguire passi di qualche danza o di suonare l’aulòs¹, con il quale riuscivano ad incantare. L’aulòs è associato proprio al satiro Marsia il quale raccolse lo strumento dopo che la dea Atena, che lo aveva creato, lo gettò via perché suonandolo le gonfiava le gote, deformando la sua bellezza. Marsia esercitandosi arrivò a suonarlo con una maestria tale che osò sfidare il dio Apollo. La musica e la danza hanno, come la Maschera, un potere “magico”: attraverso esse l’uomo riesce ad entrare in sintonia con la Natura. I Sileni, così come i Satiri, erano divinità agresti che però simboleggiavano più l’acqua corrente che irriga e feconda, e quindi il loro culto era strettamente connesso alle sorgenti e ai fiumi. Erano rappresentati come esseri ibridi con coda e orecchie di cavallo. Satiri e Sileni, come forze fecondatrici della Natura, facevano parte del seguito di Dioniso, che era per i Greci la divinità ctonia² più importante, perché rappresentava la linfa vitale del mondo vegetale, quindi il potere


rigenerante della Natura. Egli perciò riassumeva in sé tutta la vita vegetale della Natura nelle sue molteplici manifestazioni.Feste orgiastiche in onore di Dioniso, durante le quali si portava in processione il “fallo” (simbolo del dio che indicava appunto il suo potere rigenerante), e nelle quali i partecipanti indossavano maschere di Satiri e Sileni, stanno all’origine del teatro greco in cui trovò piena espressione la forza del culto di Dioniso. Satiri e Sileni non persero mai il loro aspetto ferino nemmeno quando, in seguito, vennero raffigurati con tratti più umanizzati e ingentiliti.

¹ Strumento musicale aerofono che viene di solito confuso con il flauto, ma che in realtà appartiene alla famiglia dell’oboe. Spesso è raffigurato nella forma a due tubi divergenti, e in questo modo viene chiamato diaulòs. ² Nella mitologica classica, “ctonio” (dal greco ktònios = “sotterraneo”) è l’attributo di divinità legate alla terra e celate nelle sue profondità il cui culto è quindi collegato con la vita terrestre e sotterranea. Per esempio, erano divinità ctonie le personificazioni di forze sismiche e vulcaniche.




MASCHERA DI GORGONE (GORGONÉION) Le Gorgoni erano mostri della mitologia greca, figlie di Forco e di Ceto, primordiali divinità che simboleggiavano gli elementi naturali marini con i pericoli nascosti nelle profondità. Erano tre sorelle: Steno, Euriale e Medusa, quest’ultima la Gorgone per antonomasia, unica mortale fra le tre e loro regina. Erano rappresentate come maschere ghignanti con zanne di cinghiale, lingua pendula, bulbi oculari fissi verso l’osservatore per mutarlo in pietra, serpenti e lucertole che sbucavano dalla testa e che si attorcigliavano intorno al volto. Il corpo – se c’è – ha ali d’ape. Anche nelle raffigurazioni più tarde, il corpo è sempre alato. Maschere femminili dall’aspetto spaventoso in cui zanne di cinghiale, lingua pendula o volto di civetta – tutti considerati simboli di morte – sono associati a serpenti, lucertole, api, uova o alberi – ritenuti invece simboli di potenziale rigenerazione – sono conosciute sin dalla preistoria. Rappresentano la “Dea”, principio vitale, nel suo doppio aspetto di Morte e di magica Dea della Rigenerazione. Del resto, anche nei miti greci il miele è attinente alla rigenerazione. L’antica Gorgone era, quindi, una Dea potente che racchiudeva in sé la morte – la forza cioè di distruggere –, ma allo stesso tempo la rinascita, secondo le leggi del ciclico rinnovamento. Per il potere rigenerativo, la maschera di Gorgone assunse in tutta l’antica Grecia carattere apotropaico, e veniva perciò raffigurato su scudi, mura urbane, costruzioni, frontoni di templi ecc… Bibliografia: Marija Gimbutas, Le dee viventi, Medusa, 2005, pp. 58-60, figg. 16a-b.




COMMEDIA DELL’ARTE La “Commedia dell’Arte”, nata in Italia nel XVI secolo e rimasta popolare fino alla metà del XVIII – anni della riforma goldoniana della commedia – era un genere teatrale in cui gli attori, che erano comici professionisti, recitavano con maschere e interpretavano “tipi” fissi. Il termine “Commedia dell’Arte”, piuttosto recente, vuole appunto sottolineare la professionalità degli attori, che facevano parte di vere e proprie compagnie teatrali con uno statuto e, poi, di Corporazioni di specializzazioni teatrali. La Commedia dell’Arte per alcune sue caratteristiche, anche per l’uso delle maschere, è stata messa in relazione con l’Atellana. Gli attori recitavano “a soggetto” su “canovacci” o “scenari”, nei quali erano brevemente descritte le indicazioni generali delle azioni o le relazioni tra i personaggi, a volte anche le motivazioni dell’azione, ma mai i dialoghi. Le parole, quindi, erano affidate alla fantasia e alla spontaneità dell’attore, il quale col tempo si specializzava in un unico ruolo, una “Maschera”, che veniva portata a livelli espressivi di assoluta perfezione. Quando si parla di Maschere, nella Commedia dell’Arte, si intende sia la maschera portata sul viso, sia tutto il costume, ma soprattutto quell’insieme di qualità caratteriali e forme espressive che costituiscono un “tipo” e che vengono impersonate da una figura


ben definita, sempre lo stesso attore, in un modo più o meno immodificato e sempre, comunque, immediatamente riconoscibile. Lo spettatore doveva riconoscere al primo sguardo il personaggio, cioè la Maschera, e capire subito se si trattava di Arlecchino, Pulcinella, Pantalone ecc… I “tipi fissi” della Commedia dell’Arte erano quattro, costituiti da due “vecchi” e due “servi buffi”, detti anche “Zanni”. Il soggetto comico era costituito interamente dal “contrasto” tra i “tipi”, cioè i vecchi tra loro, o tra i due servi, oppure tra il vecchio padrone detto anche il “Magnifico” e lo Zanni. Il “contrasto” comico facente parte della tradizione dell’Atellana e diventato poi lo schema drammaturgico di fondo della Commedia latina di Plauto, venne ripreso nel Medioevo dai duetti comici facenti parti della tradizione giullaresca, e nello stesso tempo a livello colto dalla “scuola poetica siciliana”, nel cui ambito ebbero origine i Contrasti di Cielo d’Alcamo del XIII secolo. Il “contrasto”, quindi, era diffuso sia nelle piazze e nelle fiere che nei palazzi nobili e le corti. Oltre ai tipi fissi, vi erano altri ruoli di base, quali un “Capitano”, caricatura dell’ufficiale borioso ma pigro e vile, una o due servette (l’equivalente femminile degli Zanni ma meno buffe), due coppie di innamorati, qualche personaggio di contorno. I ruoli erano costanti ma con nomi e costumi diversi, secondo le Compagnie, i gusti del


pubblico, le capacità inventive degli autori, ma soprattutto le aree geografiche: le maschere infatti assumevano caratteristiche regionali, anche perché parlavano il dialetto del luogo di origine, creando così un nuovo rapporto con la realtà popolare. In scena, data la contemporanea presenza delle varie maschere, si creava il “contrasto” tra parlate diverse e, quindi, una confusione di dialetti che suscitava tra il pubblico un notevole effetto comico. La Commedia dell’Arte, del resto, nasce come forma di teatro popolare in risposta ad un potere dominante costituito dagli aristocratici e dalla Chiesa. Nasce infatti ad opera di attori provenienti dal popolo che nelle piazze, nei mercati e nelle strade si rivolgevano alla gente comune, mettendo pesantemente in ridicolo chi rappresentava il potere. La Commedia dell’Arte manterrà sempre, anche se con modi più ingentiliti, lo stesso tono satirico, per cui ad esempio chi rappresenta il potere militare e la guerra verrà messo in ridicolo (il Capitano), così come il padrone di casa che sfrutta e schiavizza i servi (Pantalone) o “l’uomo di scienze” (il Dottore) che viene preso in giro per le sue baggianate. La Commedia dell’Arte è detta anche “Commedia degli Zanni”, perché la forza trainante delle rappresentazioni era il “servo buffo”, come lo era stato nella Commedia latina di Plauto.


Agli inizi lo Zanni, sul cui nome sono state formulate diverse ipotesi, era fortemente legato alla terra e alla vita rurale e riassumeva diversi aspetti dell’anima popolare. Col tempo, la figura si scisse, assumendo ciascuna delle caratteristiche precise: il primo Zanni era il servo astuto e veloce, il secondo quello sciocco e lento. Il primo Zanni era agile, aveva la parlantina sciolta ed era facile all’ira tanto da diventare subito violento e manesco anche con le donne, da cui di solito era attratto e con le quali abitualmente cercava subito di accoppiarsi senza tanti preamboli. Era solito giocare brutti tiri al padrone e ai suoi interlocutori e aveva la predisposizione ad ordire intrighi. Il secondo Zanni appariva invece completamente ignorante e tardo anche nel movimento lemme e curvo verso il basso. Appariva sempre spassoso e divertente non solo al pubblico ma anche ai suoi interlocutori perché a causa della sua stoltezza riusciva sempre a creare equivoci col padrone e addirittura cercava di elevarsi al di sopra della sua figura, venendo però subito ammonito dall’interlocutore. Le sue caratteristiche principali consistevano nel lamentarsi in continuazione della sua situazione e delle varie circostanze, e in particolare essere sempre affamato e supplicante. Moltissime sono le figure di Zanni presenti nella Commedia dell’Arte, anche se i nomi più famosi restano sempre quelli di Arlecchino, Pulcinella e Brighella che sono diventati i simboli della Commedia stessa.


MASCHERA DI ARLECCHINO, ZANNI DELLA COMMEDIA DELL’ARTE Arlecchino è una maschera di Zanni che nasce a metà del Cinquecento con l’attore bergamasco Alberto Naselli (o più probabilmente Alberto Gavazzi). È un secondo Zanni, cioè un servo sciocco, come si intuisce già dal fatto che nasce nella parte bassa di Bergamo, la quale, stando alle credenze popolari, produceva solo sciocchi e pigri, contrariamente alla parte alta che era considerata sede degli spiriti più arguti. Arlecchino rappresenta il tipico popolano, e parla in origine con il linguaggio di facchino bergamasco. Gli attori che interpretavano la “Maschera”, poiché il bergamasco era difficile da comprendere in altre parti d’Italia, avevano l’abilità di storpiarlo per adattarlo al dialetto del paese in cui recitavano, introducendo anche parole tipiche di questo, con un effetto comico irresistibile. Agli attori della Commedia dell’Arte piaceva giocare con i dialetti, un po’ per fare ridere, un po’ per mantenere così il contatto con la realtà popolare. La Commedia dell’Arte è, infatti, una forma di teatro popolare, che attraverso i “tipi” mantiene l’eccezionale vitalità delle esperienze popolari. Arlecchino è sciocco ma ha a volte sprazzi di estrema lucidità, per cui il personaggio risulta un misto di ignoranza, ingenuità, stoltezza, ma anche arguzia e grazia. È il servo fedele ma pigro, credulone, affamato, costantemente innamorato e sempre in difficoltà per colpa sua o del suo padrone. Le losanghe multicolori del suo noto abito pare che in origine fossero delle toppe che indicavano la sua povertà dovuta anche all’avarizia del suo padrone. Se si caccia in qualche impiccio, però, una volta smascherato, riesce sempre a cavarsela con successo. Arlecchino è anche estremamente abile nel saltare, danzare e fare capriole. L’agilità è insomma la caratteristica predominante della “Maschera”, tanto che gli attori che la impersonavano dovevano essere quasi degli atleti.


Per questa sua caratteristica, poiché ricorda la gestualità dei “mimi”, o per la spatola, che era l’arma prediletta dai comici antichi, Arlecchino si collega a figure del teatro antico che hanno le loro origini nel mito e nelle tradizioni popolari. Già lo stesso nome, come del resto altri suoi aspetti, lo avvicinano agli Herlequins della tradizione popolare francese, cioè ai diavoli-buffoni delle rappresentazioni medievali. Degli Herlequins Arlecchino conserva nell’aspetto la maschera grottesca e nera con il caratteristico bozzo rosso in fronte, reminiscenza di antiche corna, e il costume colorato come quello dei buffoni francesi che impersonavano i diavoli. Nel carattere invece Arlecchino conserva di quei diavoli il linguaggio scurrile, licenzioso, indecente e gli atteggiamenti irriverenti, anche se col tempo il personaggio venne sempre più ingentilito. Contribuì all’iconografia del personaggio anche Alichino, il diavolo-buffone della Divina Commedia, per cui la figura di Arlecchino ha continuato a conservare nel tempo un carattere enigmatico.


MASCHERA DI PULCINELLA, ZANNI DELLA COMMEDIA DELL’ARTE Pulcinella rappresenta la maschera meridionale di Zanni. Creata ufficialmente a Napoli dall’attore Silvio Fiorillo (La Lucilla costante con le ridicole disfide e prodezze di Pulcinella) nella seconda metà del Cinquecento, ha comunque origini molto più antiche. Originariamente era vestito tutto rigorosamente di bianco con un costume che, oltre al colore, richiamava quello di Maccus, il mimus albus (“mimo bianco”) dell’Atellana: un camiciotto stretto in vita su larghi pantaloni che gli cadevano fino a terra coprendogli quasi completamente le scarpe, una spatola – arma preferita dei comici antichi –, un cappello bicorno probabilmente reminiscenza di ancestrali demoni cornuti. La maschera, poi, col naso a becco, lo stesso nome e gli atteggiamenti che ricordano quelli dei volatili, o ancora la voce a chioccia ottenuta per mezzo della pivetta¹, com’era in uso tra gli attori greci e romani e tra i giullari, fanno di Pulcinella un essere ibrido, metà umano e metà pulcino, gallo o gallina, mettendolo in relazione con la maschera di Kikirrus dell’Atellana e, quindi, con antichi demoni ornitomorfi legati al mondo rurale. La simbologia di Pulcinella quale elemento vitale è legata all’uovo, già di per sé principio di vita, e si esprime soprattutto quando viene raffigurato incinto o partoriente, sia nella forma umana che in quella di gallina, che cova tante uova dalle quali escono tanti Pulcinellini. Pulcinella, quindi, è vita, ma è anche morte, perché negli spettacoli di burattini uccide tutti coloro che incontra e gioca con i loro cadaveri. Il bianco del suo vestito e il nero della sua maschera, del resto, sono entrambi colori di morte. Pulcinella, però, dopo la morte, risorge, perché è un personaggio che ha origine da demoni legati alla sequenza stagionale della Natura e a rituali che inscenavano la nascita, la morte e la rinascita della vegetazione. Come Maccus, lo stupido canzonato dell’Atellana, Pulcinella è un servo sciocco, credulone, goffo nel camminare, sempre affamato e alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, in continuo movimento, sempre pronto a tramare qualche imbroglio o a fare dispetti, litigioso, sempre pronto a bastonare. A volte, però, mostra un aspetto diverso, e diventa arguto, furbo, simpatico, con un gran cuore, amante della poesia e della musica.


È uno Zanni, come Arlecchino e tanti altri dell’Italia settentrionale, e quindi in origine rappresenta il “tipo” del popolano un po’ rozzo, ma appare più svagato e sereno, in una dimensione più lirica e filosofeggiante. Ha un carattere più “solare” e quando qualcosa gli va per il verso giusto esplode in una danza fatta di vivaci e rapidi saltelli, sberleffi e smorfie che seducono gli interlocutori e il pubblico. Odia i prepotenti e spesso si prende gioco di loro, rappresentando il “tipo” napoletano che riesce sempre con un sorriso ad uscire da situazioni complicate prendendosi gioco dei potenti pubblicamente, svelando tutti i retroscena. Pulcinella, con le sue sfaccettature, cioè con il suo “contrasto”, si conferma come quella figura a metà tra stupido-furbo, saggio-sciocco, demone-santo salvatore, uomo-donna, città-campagna che incarna il dualismo pagano-cristiano della cultura popolare napoletana. L’anima di Pulcinella è stata interpretata da attori famosi, ma una particolare simbiosi tra la “Maschera” e l’attore si realizzò con i Petito, famiglia di attori-autori napoletani, e in particolare con Antonio (Napoli 1822-1876), il quale è considerato il più illustre interprete e che, tra l’altro, aggiunse al costume bianco della “Maschera”, il maglione rosso che si intravede dal collo e dai polsi. La maschera di Pulcinella divenne così famosa che si diffuse anche all’estero, portata in giro dagli attori e dalle diverse compagnie, ed ebbe tanto successo che venne imitata, subendo ovviamente delle trasformazioni, anche nel costume, secondo i paesi in cui attecchì (per esempio “Pollichinelle” da cui “Punchinelle” in Francia; “Don Cristobal Punchinello” in Spagna; Punch in Inghilterra nel teatro dei burattini e delle marionette; Petruŝka in Russia).

¹ La pivetta è uno strumento d’osso o di metallo, simile al fischietto usato per il richiamo degli uccelli. Era usato da attori e burattinai per ottenere una caratteristica voce stridula.


LA DEA DISTRUTTRICE-RIGENERATRICE NEL FOLKLORE Nelle tradizioni dei vari Paesi troviamo figure che, come la Gorgone, rappresentano la “Dea Distruttrice-Rigeneratrice”. Sono figure femminili antropomorfe ma con caratteristiche di civetta, avvoltoio o cornacchia, tutti uccelli considerati simboli di morte poiché epifanie della dea di Morte e di Rigenerazione. Stridono o volano come uccelli, a volte cavalcano un bastone o un ceppo (simbolo di natura morta). Possono essere giovani alte e magre, con gambe ossute (nudi femminili rigidi e stilizzati indicano la Dea della Morte sin dalla Preistoria), oppure vecchie e brutte con capelli arruffati, denti aguzzi, naso ricurvo. Possono trasformarsi in molte forme (rana, rospo, tartaruga, porcospino, pesce ecc…), tutte perlopiù epifanie della Dea Distruttrice. Possiamo anche trovarle però associate a simboli come alberi, serpenti, ali o teste d’api, uova, bande di linee ondulate o zigzag, tutte espressioni della forza rigenerativa acquatica e vegetale. Queste figure, infatti, nonostante i diversi nomi (banshee, Morrigan, Frau Holle, Baba Yaga, Ragana o “strega”), discendono tutte dalla potente Dea che distrugge per il controllo del ciclico potere vitale, ma che fa germogliare di nuovo la vita. Hanno il comando sui cambiamenti atmosferici o il controllo sulla crescita di Luna, Sole e fuoco, oppure originano nuvole e venti tempestosi facendoli uscire da caverne ed abissi, oppure scatenano temporali, nebbie e bufere. Si associano per questo alla morte della natura in inverno, quando la potenza del Sole è più debole, i giorni sono corti e le notti lunghe. Per il potere rigenerativo, però, sono anche strettamente in relazione con tutte le feste collegate al solstizio d’inverno, cioè quel particolare momento dell’anno in cui il Sole raggiunge il punto di elevazione minima (con il giorno più corto e la notte più lunga), ma a partire dal quale i giorni iniziano ad essere più lunghi, la vita ricomincia e la natura si risveglia. Il Carnevale è una di queste feste. Bibliografia: Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, 1989, Venexia Edizioni, 2008, pp. 207-211.


“ABBALLU DI LI DIAVULI” (BALLO DEI DIAVOLI DI PRIZZI, PALERMO) Cerimonia rituale con maschere che si svolge ogni anno il giorno di Pasqua che richiama le rappresentazioni sacre medievali in cui convergono però ancestrali credenze legate al mondo agricolo. La cerimonia ha origine, infatti, da rituali che sin dalla Preistoria si svolgevano in inverno (solstizio) o in primavera (equinozio) secondo la sequenza stagionale della vegetazione. Sin dalla mattina del giorno di Pasqua “diavoli” scorrazzano per le strade facendo scherzi e trattenendo i passanti, che vengono rilasciati solo in cambio di un obolo (soldi o dolci), ricordando le tante “Cacce Selvagge” medievali, cioè le cavalcate di demoni e dannati a caccia di qualche vittima, che poteva essere animale ma anche umana. Il pomeriggio, in uno spazio scenico immutato (i Quattro Canti e i cinque sestieri del paese) si svolge una pantomima in cui due diavoli e la Morte tentano, con precise movenze ritmiche cadenzate da una musica ossessiva, di impedire l’incontro, nella piazza principale del paese, tra le statue del Cristo risorto e della Madonna. Ad essi si oppongono gli angeli che scortano le statue, creando un “contrasto”, antico schema drammaturgico, scandito da tamburi, al termine del quale i Diavoli e la Morte vengono sconfitti e Cristo risorto e la Madonna si possono finalmente incontrare (“u ’ncontru”). La cerimonia ha in sé i caratteri dei riti con maschere celebrati in occasione del solstizio d’inverno, legati alla morte della Natura in questo periodo (“Caccia Selvaggia”) e nello stesso tempo delle feste dell’equinozio di primavera, incentrate sul trionfo della vita e la rinascita della vegetazione, secondo l’eterna sequenza stagionale di morte e resurrezione della Natura. La Pasqua ha origine proprio da queste cerimonie ancestrali. Bibliografia: Corrado Catania, L’onore di Prizzi, da “Bell’Italia” n. 23, Marzo 1988, pp. 112-117, 127.


MASCHERA DI DIAVOLO DELL’”ABBALLU DI LI DIAVULI” DI PRIZZI Ampia maschera di ferro tinta in rosso, colore simbolico, con larga bocca da cui fuoriescono lingua pendula e denti grossi come zanne, grande naso e corna caprine trattenute da un vello di caprone che ricopre le spalle di chi la indossa, di colore bianco o nero, entrambi colori della morte e della rigenerazione. Il costume, di tela di lana, è di colore rosso come la maschera ed è completato da tranci di catene di ferro che i Diavoli battono sulla maschera per creare rumore e frastuono tra la folla, come nelle “Cacce selvagge” medievali. L’iconografia fa dei Diavoli di Prizzi delle figure ibride, cioè esseri con tratti umani e animali, che discendono dagli ibridi preistorici, noti attraverso le raffigurazioni rupestri, e che come questi hanno la stessa forza vitale che deriva dall’associazione con il mondo animale e vegetale, in piena armonia con le forze della Natura.

MASCHERA DI “MORTE” DELL’”ABBALLU DI LI DIAVULI” DI PRIZZI Maschera di cuoio di aspetto orrido con lunghe zanne come di cinghiale. Il costume, largo abito di tela di lana, è giallo ocra (“giallo morte di Pasqua”), colore che sin dalla Preistoria è associato dalla dea di Morte, perché richiama le ossa. Anche le zanne sono un attributo dell’antica dea Distruttrice, poiché il cinghiale è un simbolo di morte a lei associato. Il costume della Morte di Prizzi è completato da una specie di balestra con cui vengono presi di mira i passanti.


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