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Diario di una rivoluzione

di Mariachiara Marzari

In questa difficoltosa ripresa, i musei sono emersi come fari capaci di ritrovare le tracce identitarie del nostro Paese, custodi della sua bellezza e della sua storia. Certamente le Gallerie degli Uffizi e il suo direttore Eike Schmidt sono in prima linea in questa rivoluzione lenta ma inesorabile, oltre che naturalmente necessaria.

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Il nostro obiettivo sono tutti i pubblici possibili senz’altro, con particolare attenzione ad alcuni più di altri, in particolar modo i giovani. Puntare decisamente e intelligentemente su di loro, costruendo percorsi e progetti che li facciano protagonisti attivi delle nostre offerte espositive, è un’azione fondamentale per crescere non solo in termini quantitativi, di meri numeri, ma anche in termini di sano trasferimento generazionale del sapere.

Il Louvre aprirà a giorni e in generale i grandi musei del mondo hanno aperto in modo difforme, con visite limitate nel tempo e contingentate nei numeri: il lockdown pesa su tutti, con dati allarmanti in termini di entrate. L’Italia è ripartita ponendo la cultura e in particolare il suo patrimonio artistico come elemento prioritario della ripartenza anche per l’industria turistica, un segnale importante per restituire una normalità alla nazione. Tuttavia, l’occasione è propizia per poter riflettere su un nuovo possibile modo di fruire la cultura e in particolare i musei. Da questo punto di vista, da alcuni anni, sono certamente le Gallerie degli Uffizi e il suo direttore Eike Schmidt a dettare la linea di una rivoluzione lenta ma inesorabile oltre che naturalmente necessaria del nostro sistema museale, con una spinta propulsiva che investe tutti i suoi campi d’azione, dalla conservazione alla valorizzazione, dalla apertura di nuovi spazi e collaborazioni alla promozione, dalla comunicazione alla ricerca di sempre nuovi pubblici da intercettare in maniera differente, senza mai snaturare la vocazione fondamentale del museo. Per questo nuovo inizio non potevamo che fare il punto con lui, quindi.

L’impossibilità di visitare mostre e musei e parallelamente l’offerta virtuale (e a volte la stessa conservazione) hanno posto ancora una volta una domanda fondamentale attorno al concetto di fruibilità dell’opera d’arte. L’opera è il soggetto ma anche l’oggetto del mostrare, in quanto il nuovo protagonista è il pubblico, il singolo visitatore e la sua esperienza rispetto all’opera d’arte stessa. Qual è la sua opinione in merito?

Io credo che tutta la ‘quinta’ digitale, che abbiamo vissuto in questi ultimi venti, trent’anni anni e stiamo vivendo ora in maniera improvvisamente accelerata, rappresenti un oggettivo arricchimento per ciò che concerne la fruibilità delle opere d’arte, tuttavia è importantissimo oggi più che mai sottolineare come questa modalità non potrà mai sostituire la visione dal vivo delle opere per una varietà di ragioni, non solo di natura tecnologica, ma soprattutto di natura sociale, per la prassi e le condizioni stesse intrinseche nel concetto stesso di fruizione dell’arte. In altre parole, quando si visita una mostra online, che sia sul cellulare o sullo schermo di un computer o addirittura utilizzando un visore per la realtà virtuale, è fondamentale comprendere come le persone ne usufruiscono in maniera socialmente diversa, discontinua e con un alto deficit di attenzione dovuta proprio alla modalità stessa. È sufficiente, infatti, per esempio che suoni il telefono per interromperne la visione, cosa che in una visita reale non avviene. Online vi sono mille distrazioni: la gente passa dalla mostra virtuale alle notizie del telegiornale o ai nuovi post su Facebook, alla musica, tutto è contenuto in un flusso di informazioni digitali di cui l’offerta museale è solo una parte. Solo una percentuale minoritaria di visitatori seguono la visita virtuale dall’inizio alla fine, così come chi compra un libro, che sia in treno, che sia a casa, che sia sulla spiaggia, se lo legge dall’inizio alla fine, tranne ovviamente se decide deliberatamente di abbandonare la lettura riponendo il libro in uno scaffale o in borsa, mentre invece chi scarica un libro online quasi sicuramente salterà a destra e a sinistra, avanti e indietro tra le mille sollecitazioni che la rete orizzontalmente offre a flusso continuo. La visita museale reale spesso è un’esperienza sociale consumata con amici, familiari, spesso in compagnia insomma, pensiamo solo, su tutti, alle scolaresche, mentre tendenzialmente quella virtuale e digitale coinvolge il singolo visitatore, o meglio, utente, che usufruisce dei contenuti separati tra di loro. L’esperienza d’insieme nel contesto storico e architettonico del museo è completamente un’altra cosa e non sarà mai simulabile, perché le condizioni sociali e il contesto rimarranno sempre diversi anche se le ricognizioni digitali diventano ogni giorno più precise.

Dopo la fine del lockdown e la successiva riapertura dei luoghi di cultura, oltre alle dovute condizioni di accesso mutate, potrebbe essere necessario un ripensamento del sistema stesso che connota la vita di un museo. Dal suo punto di vista privilegiato, cosa deve rimanere fondamentale e cosa bisognerebbe cambiare o modificare di questo sistema? E come le necessarie modifiche di accessibilità e di fruizione possono essere una nuova sfida per i musei per elaborare nuove idee, nuovi progetti strutturali che, determinati da contingenze temporanee, potrebbero farsi funzioni permanenti?

Conosciamo tutti molto bene il dislivello che c’è tra pochi musei fin troppo affollati, vittime dell’over tourism e oggetto prevalentemente, quindi, di un turismo “mordi e fuggi”, e la maggior parte dei musei – quasi 5.000 – in tutta Italia che sono invece vuoti, dove per la maggior parte del tempo, anche quando sono aperti, non hanno quasi mai visitatori. Questo enorme dislivello va superato non con decreti draconiani difficilmente applicabili – è infatti impossibile far sì che la gente che vuole vedere gli Uffizi vada a vedere altro; non funziona così, i visitatori sarebbero frustrati dal fatto di non poter visitare ciò che desiderano – ma in maniera positiva, creando incentivi anche economici per allargare l’offerta. Ovviamente è un processo graduale, non si può attuare da un giorno all’altro, tuttavia ad esempio a Firenze abbiamo avuto un ottimo feedback e risultati soddisfacenti integrando Palazzo Pitti nei percorsi delle Gallerie degli Uffizi grazie a un biglietto cumulativo che ora include anche il Giardino di Boboli, il Museo Archeologico Nazionale e il Museo dell’Opificio delle Pietre Dure. È il biglietto museale in città che ha riscosso il più alto incremento in termini di vendite, proprio perché offre la possibilità di visitare cinque luoghi in altrettanti giorni comodamente, usufruendo della priorità di accesso. Questo è un modello che funziona e che, alla luce di questi risultati più che confortanti, non deve in nessun modo fermarsi qui. Nella medesima prospettiva è ora necessario pensare anche ai comuni limitrofi, allargando il turismo verso un territorio più vasto che vada oltre la sola visita ai monumenti più famosi. Tuttavia questa è solo la metà del percorso che bisogna compiere. L’altra metà è rafforzare il ruolo civico e identitario delle comunità, riscoprire la forza che esprimono le opere d’arte visitate nei luoghi d’origine o create da un artista che proviene da quel luogo o arrivate in quei luoghi per motivi storici. Questo elemento fondamentale connesso alla funzione della narrazione, al tema dell’identità, dell’appartenenza, è molto più importante della mera destinazione turistica del bene artistico. Alcuni musei avranno nei prossimi decenni una sempre maggiore rilevanza turistica, ma al contempo potrebbero assumere anche una fondamentale funzione civica e sociale, capaci di trasmettere e insegnare la propria storia agli abitanti di una città o anche più estesamente del Paese, facendosi testimonianza diretta della creatività, della storia e della bellezza del proprio territorio.

La sua idea degli Uffizi diffusi nel territorio, o meglio, della ricollocazione delle opere nel loro contesto originario. Quali le potenzialità di questo progetto e in che modalità sta pensando di realizzarlo?

Per ora la cosa più importante che stiamo facendo è una ricognizione precisa delle opere d’arte che giacciono nei nostri depositi, dalle quali vogliamo partire per inaugurare questo percorso. Sono opere che provengono dalle chiese e delle quali non è sempre chiara la ragione, il motivo per i quali sono state fatte arrivare nei nostri depositi. In alcuni casi è tutto ben documentato: furono evacuate momentaneamente per essere messe in salvo e salvaguardate da furti, guerre, alluvioni e poi, con il tempo, sono rimaste nei depositi dello Stato. Stiamo compiendo questa operazione nell’ottica di organizzare una grande mostra che possa portare alla luce il nostro ricchissimo patrimonio che giace da sempre nei depositi, opere che in alcuni casi non sono state viste da nessuno per oltre mezzo secolo, nemmeno dagli studiosi, e delle quali anche le chiese d’origine hanno perso la memoria. Se non si fa adesso questo lavoro di studio e ricognizione, il grande rischio che si corre è che tra trenta o quarant’anni potrebbe non esserci più la possibilità di ricollegare queste stesse opere al loro contesto originario. Ci sono poi altre opere di cui sappiamo già la provenienza, prese in prestito ma senza alcun accordo preciso, e per le quali riteniamo sia necessario sviluppare un piano e un progetto specifico per dove e come ricollocarle. Né l’uno né l’altro sono processi CONTINUA...

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