Premio Alois Braga 2009

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PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA Copyright © 2009 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opere www.isogninelcassetto.it per l’editing online no profit info: redazione@isogninelcassetto.it I edizione in e-book ISNC-004PAB: dicembre 2009 Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito. Questo non significa però che è del tutto libero: il download è consentito tramite una licenza CREATIVE COMMONS che completa il diritto d’autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire e riutilizzare l’opera (totalmente o in parte) a patto di citare sempre e comunque il nome dell’autore originario, l’indirizzo del sito originario e di non utilizzarla per scopi commerciali.


Gli autori finalisti Racconto 1° classificato FEDERICA MACCIONI Racconto 2° classificato PAOLA CARROZZO Racconto 3° classificato ANTONIO GRANCI Racconti selezionati Paolo Brandi Domenico De Ferraro Donatella Franceschi Antonio Scarpone

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

RACCONTO I CLASSIFICATO

L’ultimo re di Atene [Federica Maccioni]

“N

onno! Nonno!” Leocrito lo tirava per l'orlo del chitone. “Nonno! Ti sei addormentato!” Alcibiade si stiracchiò sullo scranno, sedette più comodo e scompigliò i lunghi capelli neri del nipotino. “È colpa di questo bel camino”, sbadigliò. Tese le mani verso la fiamma. “Piove”, annuì il piccolo. Lo guardò sporgendo le labbra. “Non si può giocare, là fuori. Posso stare un po' qui con te?” “Certo! Non devi mica chiedermelo”. “È che...” “Che...?” “Bé, vedi, volevano venire anche Tessalo e Pandaro”. “Va bene, che vengano!” “Ecco, vedi...” “Che cosa?” “Era per sentire la storia di Codro”. “Ancora? Me l'avrete fatta raccontare almeno duemila volte!” rise Alcibiade, e tutte le rughe del suo vecchio volto risero con lui. “Nonno! Ti prego! La racconti così bene...” Il vecchio sospirò, fingendo esasperazione. A quanto pareva, non si stancavano proprio mai di quella storia. “Va bene, vai a chiamare i tuoi amici”.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Leocrito batté le manine, felice, e si tese a baciarlo sulla guancia. “Grazie, nonnino!” Poco dopo i tre bambini erano seduti a terra e guardavano in viso il vecchio, con occhi pieni d'attesa. “Non è che vorreste sentirne un'altra?” chiese lui. “No. Codro!” esclamò il più piccolo dei tre, Tessalo. “Codro! Codro!” “Sì, sì. Codro, va bene, va bene”. Il nonno si sporse per attizzare la fiamma, aggiunse un piccolo ceppo, si mise comodo e cominciò a narrare. “Dovete sapere che molto tempo fa scoppiò una guerra fra la nostra città e la città di Sparta”. I bambini lo guardavano fisso. “Ero molto giovane, allora. Partii per la guerra con molti ragazzi della mia età. Marciammo per diversi giorni, attraverso le pianure e le montagne, incontro ai temibili guerrieri spartani. Si diceva di loro che non chiedessero mai quanti fossero i nemici, ma solo dove si trovassero...” L'uomo si era presentato molto presto alla scalinata del tempio, prima che sorgesse il sole. Trascinava una capra legata con una cordicella. L'omphalos, il tempio di Apollo. L'ombelico del mondo. Era la prima volta che veniva a Delfi, e aveva il cuore oppresso. Era la guerra; veniva per questo. Le trattative non erano servite, e nemmeno i tentativi per trovare accordi. Atene e Sparta erano in guerra. I generali andavano radunando le truppe. Soldati marciavano per tutta l'Attica e il Peloponneso, diretti ad Atene o a Sparta: le alleanze erano ormai definite. I pensieri del giovane erano cupi.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Conosceva le forze a disposizione della propria città, e conosceva la determinazione e la fama del nemico. Guerrieri imbattibili, nutriti del culto di Ares da prima di vedere la luce, ma che si decidevano alla battaglia solo dopo lunga ponderazione. Questo li rendeva ancor più decisi. Atene non avrebbe resistito. Atene. Filosofi e mercanti, sole e voci nei mercati all'alba. Atene, respiro sospeso. Una gemma d'ambra l'Acropoli nel cielo dei tramonti estivi, un silenzioso incantesimo di colori rosati. Gabbiani dalle ali distese e rondini in picchiata. Strade, piazze echeggianti di corse e risate di bambini. Finestre aperte quando l'aria rovente del giorno cede nel crepuscolo alla brezza del mare. Atene; candido lampo sul blu dell'Egeo. Atene, bella come una sposa. Atene, vibrante come un volo di aironi. Ne avrebbero fatto macerie. Avrebbero deportato le donne, ucciso i bambini, massacrato i vecchi. Sapeva cos'era il sacco di una città. Non poteva permettere che accadesse. E cosa ne avrebbero fatto di lei? Non poteva pensare a lei schiava. Non tollerava il pensiero del suo terrore, del suo dolore, del suo smarrimento. Avrebbe voluto circondarla di tenerezza, non vedere mai lacrime sulle sue guance. Il sole sorse in un cielo di nuvole dorate, ed egli fece la sua preghiera di saluto al dio come ogni giorno. I sacerdoti lo invitarono a entrare, una volta officiati i riti del mattino. Il più giovane trasse a sé la capra recalcitrante, la portò sull'altare, la consegnò al più vecchio e la lama si prese la sua vita belante.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Il sangue schizzò fin sul volto dell'uomo. Gli aruspici aprirono il ventre dell'animale, ne tolsero il fegato e lo consultarono. L'uomo guardava senza quasi respirare. Andava per le lunghe, ma ciò che era venuto a chiedere meritava bene un poco di attesa. Infine l'anziano sacerdote si avvicinò e chinò il capo in segno affermativo. L'incontro con la veggente avrebbe avuto buon esito, questo era scritto nei visceri della capra. Gli fece cenno di seguirlo, lo precedette nella cella sotterranea, e lo lasciò solo con la sposa di Apollo. La donna lo fissò. “Cosa domandi al dio, Codro, re di Atene?” Codro trasse un profondo respiro. La guardò in viso. “Chi vincerà la guerra?” “Nonno! Racconta la battaglia!” “Ma come? Ho appena iniziato. Volete già la battaglia?” “La marcia la sappiamo già, e anche l'accampamento”. “Se è per questo, sapete anche la battaglia, e tutto il resto”. “Sì, ma vogliamo la battaglia lo stesso!” “Non siete leali! Una storia, o si racconta tutta o non si racconta”. “La battaglia! La battaglia!” I bambini avevano gli occhi accesi per l'eccitazione. “Lasciate almeno che dica che prima di quella battaglia ve ne erano state diverse altre”. “Ma lo sappiamo!” la vocina di Leocrito era impaziente. “Sappiamo anche che i vostri eserciti vincevano a turno”. Alcibiade rise. “Che modo di esprimersi! Non lo decidevamo mica prima. Vi era stata una tregua”. “Sì, lo so”, esclamò di nuovo il nipotino. “I morti da tutte e due le parti erano tanti che i tre re si misero d'accordo per una tregua”. “Perché i re erano tre?” Tessalo, il più piccino, era perplesso.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Suo fratello Pandaro lo guardò con commiserazione, scuotendo il capo. “Quante volte te lo devo ripetere? Erano Codro e i due diarchi spartani”, lasciò cadere dall'alto. “Sparta aveva due re, in ricordo dei primi, che erano due gemelli discendenti di Eracle”. Tacque, fiero dalla propria spiegazione, e Alcibiade nascose un sorriso. “Dovevamo preparare le pire per i funerali”, riprese poi. “Non potevamo lasciare i morti insepolti. I cani li stavano facendo a pezzi: non sarebbero mai riusciti a scendere al regno di Ade, in questo modo. Non avrebbero mai trovato pace. Per diversi giorni non combattemmo. Da entrambi gli accampamenti si levarono le spire dense di fumo e i lamenti degli amici dei defunti”. Chinò il capo. Il volto e i radi capelli si accesero di riflessi rossastri alla luce del fuoco. “Quanti amici persi, in quelle battaglie, bambini! Quante volte dovetti battermi per difendere il corpo di un fratello!” I piccoli ora tacevano. Avrebbero voluto sentire della battaglia, ma il vecchio sembrava assorto nei suoi pensieri. “Nonno...” mormorò Leocrito. “Sì, hai ragione”, si riscosse Alcibiade. Aurora dalle dita di croco sorgeva oltre il contorno dei monti all'orizzonte. Il re Codro non aveva dormito, quella notte. In piedi, sulla soglia della tenda, guardava il sole. Fece la sua preghiera di saluto al dio. Febo Apollo. Il responso era stato chiaro, e ogni volta che il sole si levava pareva interrogarlo, da quel giorno. Scosse il capo e voltò le spalle al fiume d'oro che inondava il cielo. Non era ancora il momento. Non ancora.

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Raggiunse gli strateghi, li radunò, dispose l'esercito, ciascun locago al proprio posto. La fanteria pesante degli opliti in prima linea, la fanteria leggera dei peltasti e gli incursori alle ali. Gli uomini marciarono nella pianura e nella luce tersa del primo mattino le armature scintillavano di lampi bronzei. Solo il loro passo cadenzato infrangeva il silenzio. Dinanzi a loro, le schiere lacedemoni, compatte; i mantelli rossi nel vento tiepido, le corazze luccicanti. La parola d'ordine percorse come un fremito le fila di Atene: “Codro re e Zeus salvatore”; poi, a un cenno del re, gli arcieri tesero le corde e scoccarono all'unisono. L'aria vibrò sorda, il cielo si oscurò di frecce, i peltasti corsero avanti: fulminei, colpirono e ripiegarono, per poi tornare all'assalto. Le ali del rigido schieramento nemico si scompigliarono come l'alto mare delle spighe quando si leva il vento. Allora, al grido degli strateghi, gli opliti intonarono il peana, calarono le lance da colpo dalle spalle e si gettarono all'attacco. Il muro degli scudi spartani si oppose allo slancio degli uomini in corsa con un cozzo duro, e la mischia si accese. “Vidi Thaddaios, l'amico d'infanzia, trafitto da una lancia. Mi gettai sul suo corpo levando alto lo scudo su di lui, e la mia spada allontanò il nemico. Per poco, però. Tornarono all'assalto. Gridai perché qualcuno venisse in soccorso. Ero solo contro dieci, non avrei potuto resistere a lungo. Qualcuno venne, e infine strappammo il corpo di Thaddaios alle loro mani”. I bambini trattenevano il respiro. “Lo portarono nelle retrovie. Fu allora che vidi cadere Anatolios. Una lancia lo colpì al volto, gli strappò la mascella, gettandola lontano.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

E Sosipstratos, dai lunghi capelli neri, ricevette un fendente di spada nel ventre, e cadde trascinando le proprie viscere nella polvere. E Diomedes, il figlio di Arethas, fu colpito al capo, dall'orecchio l'asta si conficcò nel cervello e la terra bevve il suo sangue nero. Theoktistos cadde combattendo per il corpo di Phanourios, e Amphilochios venne ucciso da un giavellotto in pieno petto. Le grida salivano fino al cielo. La terra era una fanghiglia scivolosa di sangue”. La guerra andava trascinandosi con alterne vicende senza un guizzo definitivo. Le battaglie e le tregue per raccogliere le salme si susseguivano, ma non c'erano vincitori. Il responso del dio era giunto alle orecchie del nemico e si era generata una situazione grottesca. I loro re evitavano con ogni cura lo scontro con lui. Non rispondevano alle sue provocazioni, si volgevano a prede meno infide. In questo modo, Atene aveva perduto molti dei migliori strateghi e il suo esercito era prossimo allo sbando. I terribili spartani proteggevano Codro. Punivano chi dei loro lo prendeva di mira. Gli ateniesi avrebbero finito per perdere la guerra, se questa assurdità fosse continuata ancora per molto. No, non poteva andare avanti così. “Resistevamo con la forza della disperazione, ma i nostri comandanti cadevano come gli alberi di una foresta, quando i taglialegna preparano i tronchi per costruire una flotta. Anche i soldati semplici erano ormai pochi e sbandati. Nelle prime file, Codro combatteva come una leonessa che difenda i suoi piccoli, ma succedeva qualcosa di strano. I nemici

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

evitavano di misurarsi con lui. Attorno a lui era come uno spazio vuoto, nessuno rispondeva alle sue provocazioni, tutti evitavano la sua lama. I soldati si trattenevano l'un l'altro, quando qualcuno di essi puntava la sua arma su Codro. Codro urlava, si gettava all'attacco, il muro di uomini si apriva, lo inghiottiva e poi, con delicatezza, lo sospingeva fuori, illeso. Il re di Atene era furibondo”. Ogni soldato perduto in quella guerra era confitto nel suo petto: ombre che risalivano pallide dall'Ade appena chiudeva gli occhi, per interrogarlo. Ma come può un uomo decidere di avviarsi verso le valli della nebbia? Timore e speranza si contendevano i suoi pensieri. “Se Atene cadrà, lei sarà fatta schiava”, si diceva ogni notte. Solo lui poteva impedirlo, e lo sapeva. Ma dove trovare la forza per strapparsi da lei? Lei, respiro dell'anima, sorriso nascosto dentro ogni gioia. Solo, nella sua tenda, le mani fra i capelli, Codro piangeva, ripeteva il nome della sua sposa. Le grida si arenavano silenziose sulla soglia delle labbra. Infinite stelle solcavano la notte, lampi d'eterno nel cuore. Graffiavano gli schermi del visibile, inondavano il petto di un respiro ignoto. Avevano il suo volto, il suo corpo di latte e di miele, i capelli d'ombra assente. I suoi occhi di spighe lontane conducevano un sogno sulle porte del nulla. Un ondeggiare dell'anima, un lento sgocciolare di lacrime e sangue, segreti singhiozzi e fremiti nascosti. Ma Febo Apollo attendeva al bivio della sua promessa. Era quasi tempo, ormai.

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“Il peso delle armi si era fatto immenso. Il sangue si mescolava alle lacrime, mentre la spada colpiva e gli scudi si levavano a difesa, ma era solo questione di giorni. Sparta avrebbe presto marciato sovrana sull'Ellade.” Codro aveva passato un'altra notte insonne. Aveva offerto sacrifici, interrogato gli indovini al seguito dell'esercito, e gli indovini avevano confermato la volontà del dio. Era tempo, dunque. I soldati erano demoralizzati, i campi devastati, e lui, Codro, re di Atene, era il solo ad avere il potere di fermare tutto questo. Aveva versato libagioni a Zeus, spandendo a terra, con il vino profumato, lacrime d'angoscia. Aveva inviato un araldo ad Atene, a portare un messaggio per il suo amore. E solo per lei ora piangeva, per lo strappo dell'addio. Quella notte fu il tempo del commiato dal mondo e dalla vita, dalla dolcezza e dalla gioia. La brezza cantava fra gli alberi; e Codro, immobile, gli occhi dilatati nel buio, rivide i giorni con la giovane moglie. I fianchi di lei sotto le mani. Mai più. Latte e rose la sua pelle di seta. Ombre di dolcezza i suoi occhi, eternità immense nel suo sguardo. Mai più. Mai più il vento fra i capelli e le risa, e le sue mani leggere. Mai più, ormai. E gli uomini, gli strateghi, i soldati, gli amici caduti e arsi sui roghi, “Ti aspettiamo, fratello”, gli cantarono per tutta la notte. E Codro piegò il capo in silenzio. Ora era tempo. “Mio re”. La voce dell'attendente lo riscosse. Fece un cenno affermativo e si levò.

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Era tempo, sì, adesso. L'uomo si chinò ai suoi piedi, allacciando i lucidi schinieri con le fibbie d'argento. Codro tese le braccia e il giovane gli calzò sul petto la bella corazza, dalle incisioni in rilievo. Gli pose a tracolla la spada. Lo scudo possente gli mise all'avambraccio. L'elmo dalla criniera equina, terribile a vedersi, gli pose sul capo orgoglioso. E Codro, re di Atene, uscì e si volse in silenzio verso l'esercito schierato e disposto per la marcia, e rifulse alto e bello nel sole come un giovane dio. Prese posto alla testa degli uomini che marciarono ancora una volta nella vasta pianura. Anche questa battaglia si trascinava senza vinti né vincitori. Il re Codro non riusciva a sfondare le linee nemiche, per quanto facesse. La situazione dei giorni addietro si ripresentava come un incubo ricorrente. A un certo punto si ritirò dalla mischia, facendosi largo tra i combattenti. Lo perdemmo di vista, presi com'eravamo nel pieno della lotta. Il sole era ormai quasi giunto al tramonto, quando un incursore irruppe sullo schieramento spartano come lo sparviero su uno stormo di colombe, e per un attimo seminò lo smarrimento. La sua armatura di cuoio intarsiato, dipinto di rosso e d'oro, non avrebbe potuto resistere a lungo. Eppure quel soldato sembrava posseduto da Ares in persona. Urlava, la sua spada era ovunque. Trafiggeva i nemici senza quasi sforzo, il suo giavellotto era già stato divelto dai corpi degli uccisi e scagliato più volte. Il suo impeto era inarrestabile; ci

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gettammo al suo fianco, combattemmo accanto a lui. Ci aveva ridato coraggio. Non avemmo il tempo di chiederci chi fosse. Forse qualcuno sopraggiunto allora dalle retrovie, ma non importava. Quello che contava era che avesse riacceso la nostra speranza, riattizzato il nostro ardore. Ma i nemici si riebbero presto dalla sorpresa. Una lancia scagliata con forza lo colpì, la punta fuoriuscì dalle scapole. L'uomo cadde. Il tempo si fermò per lo spazio di un respiro, poi la lotta sul suo corpo si accese furiosa. Infine qualcuno riuscì a sottrarlo agli spartani e a portarlo al campo. Ma ormai noi tutti avevamo ripreso vigore; ci gettammo, con le spade levate alte, sui lacedemoni che presero a sbandarsi. Avevamo la forza devastante di una valanga che trascina nella sua rovina tutto ciò che incontra sul cammino. Il terribile esercito spartano, che nessuno aveva mai sconfitto, fu battuto quel giorno. I due re di Sparta vennero al campo ateniese a trattare la resa”. Quando i diarchi, i discendenti orgogliosi e belli di Eracle, giunsero al campo ateniese per trattare le condizioni di pace, lo trovarono in lutto nonostante la vittoria giunta quando ormai tutto sembrava perduto. Si stava officiando un rito funebre. La fila di uomini passava accanto al defunto, e ciascuno gettava una ciocca di capelli sulla pira pronta per il rogo. Doveva trattarsi di un uomo importante, se veniva seguito il rito canonico nonostante la battaglia si fosse appena conclusa. Si

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sarebbero aspettati di vedere scene simili l'indomani, o forse addirittura più in là. Si avvicinarono per vedere in viso il morto e compresero. Sulla catasta di legna era un giovane dai lunghi capelli neri composti sulle spalle e sul petto; pareva dormire sereno, sul volto gli aleggiava un sorriso. L'ampio squarcio che gli apriva il torace era stato ripulito e richiuso con fasce candide intrise di unguento. Accanto, erano le sue armi. Una spada, una lancia, un elmo. E un'armatura leggera, da incursore, di cuoio intarsiato e dipinto a disegni scarlatti e dorati. Non appena il fuoco si apprese alla pira irrorata del vino offerto a Zeus, si levò, nell'aria immobile e sospesa, il lamento per la morte di Codro, l'ultimo re di Atene. La voce di Alcibiade si spense. Il fuoco crepitò. “Nonno”, sussurrò Leocrito dopo molto tempo. “Voi soldati sapevate quel che la sacerdotessa aveva predetto?” “Tutti sapevamo”, mormorò il vecchio. Passò altro tempo; i piccoli seguivano la danza guizzante della fiamma. Poi Pandaro guardò l'uomo in viso, ripetendo la domanda di rito. “Cosa aveva detto?” I bambini chiusero gli occhi, mentre Alcibiade scandiva le parole già note: “Che Atene avrebbe vinto se il suo re fosse morto in battaglia”. FINE

-© FEDERICA MACCIONI [federica.maccioni@gmail.com] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore

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RACCONTO II CLASSIFICATO

Quel di più… [Paola Carrozzo]

D

avanti ad un quadro, mi capitava di fermare la mia realtà per farne muovere un’altra, più interiore. In quegli attimi di contemplazione di realtà dipinte da toccare con l’animo, sentivo che vi era qualcosa che mancava nella mia vita. Questo mio atteggiamento, m’indusse a cercare quel di più non solo in me, ma in ogni cosa che mi era attorno. Fino ad allora, avevo avuto l’impressione che la mia realtà era stata recintata dal mondo esterno con dentro il suo spazio/tempo, in confini netti tra ciò che esiste e ciò che non si conosce. Per liberarmi da questa sensazione negativa e per dar sfogo al mio ego intrappolato nel passato, decisi di dedicarmi alla pittura. Dopo svariati tentativi e di tele pasticciate, pensai di chiedere al mio amico Alberto di aiutarmi in questo mio intento. Alberto è un pittore eclettico ed innovatore, che incarna in sé lo spirito di libertà individuale, che enfatizza l’essenza genuina e sfaccettata dell’universo. È anche un bravo violinista. - Per oggi, ho da proporti qualcosa... - mi disse Alberto, mostrandosi entusiasta per la sua idea. - Io suonerò il violino e tu ti lascerai guidare dalla mia sinfonia. Dipingerai ciò che ti verrà in mente. Vanno bene anche, dei particolari ricavati da quadri di pittori famosi, come ad esempio L’Urlo di Munch, se vuoi esprimere il tuo bisogno di urlare, o le stelle di Vang Gogh, se ti senti romantica... Fai

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un po’ tu. Se vuoi dare un’occhiata ad uno di questi cataloghi... - e me ne indicò alcuni che io ignorai. Riflettei per un attimo sul soggetto da riprodurre e mi balenò in mente un celebre dipinto, Persistenza della memoria, di Salvador Dalì. Il credere che potevano esistere altri modi di interpretare la realtà, totalmente differenti dal nostro abituale concetto di vedere tutto ciò che ci circonda, mi entusiasmava e m’incuriosiva. Apriva un varco di luce nella mia mente! Nel frattempo, Alberto, iniziò a suonare. Muoveva con tale maestria ed eleganza l’archetto, che sembrava volesse cavalcare quelle vibrazioni per raggiungere un preciso scopo. La sua melodia sembrava risvegliasse in me la memoria nascosta Ci fu un attimo in cui sentii il mio cuore battere forte in petto. Finii di dipingere prima che terminasse l’esecuzione del brano musicale. Così aspettai. - Puoi dirmi che cosa hai rappresentato? - Mi esortò Alberto, con tono gentile e senza commentare il mio disegno. - Ho riprodotto alcuni particolari di un quadro famoso, come tu mi avevi chiesto. - Bene, Elvira. Hai interpretato la realtà così come la stai vivendo! Mi guardò attentamente per vedere la mia reazione. Sembrava che fosse capace di leggere nella mia mente, infatti, prontamente ribattei: - Oh no! Non è come credi tu. - Poi gli spiegai il motivo della mia scelta: - Sin da piccola, ero rimasta affascinata da un dipinto che avevo visto per caso sfogliando un libro d’arte. Mi riferisco ad uno dei più rinomati quadri di Salvador Dalì, Persistenza della memoria. Gli orologi molli, da lui interpretati in qualche modo, mi avevano lasciato qualcosa su cui indagare e scoprire quale altra realtà si potesse nascondere dentro ogni oggetto. Ricordo ancora le parole che avevo letto su quella pagina, che tutte le forme avevano una componente dura e una morbida, che tutte potevano mutare d’aspetto, ed essere viste da un’altra dimensione: gli

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orologi molli non sono altro che Camembert paranoico-critico... tenero, stravagante e solitario... del tempo e dello spazio. - Bene, ottima memoria, - lui mi disse con un mezzo sorriso. - Oltre che essere un’intenditrice d’arte, noto che sai tutto sul formaggio Camembert... - Niente affatto! Non l’ho mai degustato! Conosco solo alcune sue caratteristiche. Per esempio, che è un formaggio a pasta molle, e con crosta fiorita di colore bianco. - Così, hai passato la tua vita ad osservare gli orologi molli di Dalì, ispirati al formaggio Camembert, senza averne mai assaporato la sua duplice consistenza? Allora, non puoi nemmeno immaginare cosa vuol dire sentire in bocca la squisitezza di quel tipico formaggio, denso e allo stesso tempo cremoso, una vera gioia culinaria! Se vuoi davvero scoprire cosa Dalì intendeva con paranoico-critico, tenero, stravagante, solitario, del tempo e dello spazio... devi assolutamente assaggiarlo! La prossima volta lo comprerò e lo assaggeremo insieme. - Sì, certo, è un pensiero gentile da parte tua, - lo interruppi. - Solo che a me non piacciono molto i formaggi, alcuni, per me, sono davvero nauseanti, e poi... - Duri o molli che importa! Purché facciano l’ora esatta, - disse lui con un pizzico d’ironia. Mi sforzai di sorridergli. Lui si accorse del mio umore fiacco. - Ti sento un po’ giù, oggi! Che cosa ti è successo, Elvira? - Questa mattina, ho avuto una breve discussione con mia madre. risposi d’un fiato. - Ad un tratto, mi sono sentita senza nessuna consistenza! Ogni parola che le dicevo sembrava non avere nessun peso su di lei. Forse, per questo, ho pensato a quel dipinto. Mi sento come uno di quegli orologi afflosciati! Alberto prima mi guardò. Dopo un po’ mi disse: - Ricordo quando ci siamo incontrati la prima volta in quella Galleria d’Arte. Avevi un’aria afflitta, come ora!

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

- Sì, quel giorno ero triste. Ricordo che fissavo la tua bocca sottile deformarsi mentre commentavi a voce alta il tuo dipinto che avevo tanto criticato. - Vede questi tagli sulla tela? - mi dicesti - Non sono solo semplici squarci fatti senza alcun senso per impressionare chi li guarda, ma... queste fenditure, cara signorina, sono come delle fughe temporali, delle soglie per accedere ad una consapevolezza più espansa della realtà, quella che si nasconde dietro ad ogni cosa! Non avrei mai immaginato che l’uomo che era al mio fianco, poteva essere l’autore di quei rivelatori tagli che allora, non avevano per me, nessun significato. - All’inizio, mi ero chiesto che cosa ti attirava in quella mia opera per spingerti a restare lì, piantata davanti a quel quadro per più di un quarto d’ora! Mi chiedevo che cosa ti avevo trasmesso. - Signorina che cosa le piace di questo dipinto?- Ti avevo domandato con tono gentile. E tu mi avevi risposto: - Questi tagli, sinceramente, non mi dicono nulla. Chissà che cosa spinge un pittore a compiere un simile gesto? Mi chiedevo se fosse stato un suo attimo di follia. - Allora ti spiegai il mio pensiero, e quel nulla cominciò ad avere una sua consistenza, una sua profondità. Il Nulla diventava il Tempo e lo Spazio da attraversare con gli occhi della mente. A quel punto, ho avuto l’impressione che stavi afferrando il concetto. Così t’incalzai: - Lei crede realmente in tutto quello che vede intorno a sé? - Tu mi guardavi in silenzio, con quei tuoi stupendi occhini blu, immersi nel profondo del tuo intimo. - Ricordo, infatti, che quel suo starmi addosso con lo spazio temporale mi aveva fatto riflettere molto. Mi aveva, infine, spinto ad elaborare un pensiero tutto mio. Così ti risposi: - A volte basta poco per scoprire che c’è in noi un ‘di più’ che va oltre a ciò che crediamo di

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

essere. Ed è quel di più che, probabilmente, fa la differenza tra una realtà ed un'altra. - Elvira, se ti ponessi, ora, la stessa domanda di allora, cosa mi risponderesti? - Beh... che dipende sempre da quel ‘di più’! E’ un dono che alberga in ognuno di noi, e che, se smosso, permetterebbe d’essere più flessibili ed elastici, rispetto alla staticità di ciò che è normale. Dall’espressione di Alberto, mi accorsi che era la risposta che lui s’attendeva. Mi stava sorridendo annuendo. - Elvira, devi quindi cercare di smuovere quel ‘di più’… Senza preavvertirmi, mi sollevò il mento con due dita, in modo delicato, e me lo tenne fermo in quella posizione. Poi cominciò a disegnare qualcosa sulla mia guancia destra. Pensai a Dalì, all’Urlo di Munch… ad altri pittori, a quel di più posseduto da ognuno di loro che arricchiva la loro realtà rendendola più modellabile. Avevo intuito che quel di più era anche in Alberto. E lo lasciai fare. Ad un tratto, avvicinò il suo viso al mio. Incrociai da vicino i suoi occhi, che esaltati dal colore nero della matita, sembravano accesi. Erano di un intenso colore verde. Lui accennò un sorriso, ed io, imbarazzata, abbassai lo sguardo. Il profumo del suo dopobarba era strano, ma buono. Iniziai a sentire caldo. Dopo un po’, avvicinò le sue labbra al mio orecchio, sfiorandomelo. Ebbi un sussulto e trattenni il fiato. Con voce tranquilla, Alberto mi bisbigliò: - Non essere così tesa, rilassati! Allora respirai profondamente, mentre lui continuava la sua opera. Quando Alberto finì di dipingere, sospirai con sollievo. Guardò con aria disinvolta ciò che aveva disegnato, e non contento, premette leggermente il suo pollice sulla mia pelle per sfumare il colore. Incrociai di nuovo il suo sguardo vivido. Guardai Alberto con occhi interrogativi. - Che cosa c’è?

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- Niente, - risposi. - Ti senti poco bene? - Mi chiese Alberto scrollandomi leggermente le spalle. Aveva un tono di voce preoccupato. - Sì, sì... ora sto bene, grazie. Mi sentivo stralunata. Rimasi lì, seduta immobile. Continuavo ad affliggermi per la paura che il mio spazio/temporale, da un giorno all’altro, sarebbe stato di nuovo recintato. Mi sentivo come un blocco di pietra, una scultura dove in ogni piega c’era l’ombra della mia paura causata dalla mia estrema sensibilità. Ero persa in quei pensieri, quando Alberto mi richiamò alla realtà: - Elvira, prendi. - Disse sottovoce, porgendomi uno specchio dalla forma ovale. Ebbi un sussulto quando vidi la mia immagine riflessa deformarsi. Ad ogni minimo movimento, il mio volto tendeva a protendersi verso il basso. Sorrisi divertita. Mi sembrava di essere intrappolata in una deformazione temporale infinita dove ogni cosa era instabile. Provai a guardare gli oggetti dietro le mie spalle. - Che cosa vedi? - Una realtà distorta, direi molle! - Brava! Anche se... mi riferivo al disegno che ho disegnato sulla guancia, Elvira! Distolsi lo sguardo dalla mia immagine, lo guardai e iniziai a ridere. Poi, mi spiegò che quello specchio ovale, che lui stesso aveva comprato al mercatino di oggetti antichi, lo aveva aiutato a guardarsi in modo diverso. - A me, ora non serve più, tienilo tu! Vedo che ti mette di buon umore! Sorrisi, e lo ringraziai. Impugnò l’archetto, si concesse un attimo di concentrazione, e riprese a suonare.

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Mi sentii far parte del suo universo multiplo, fatto di diverse consistenze. FINE

-© PAOLA CARROZZO [paolacarrozzo@hotmail.com] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO III CLASSIFICATO

Il mare di un giorno [Antonio Granci]

S

to guardando una foto che ho ritrovato per caso. Un mare calmo e specchiante, una spiaggia deserta, un orizzonte di scogli. E una piuma, lasciata forse da un gabbiano. Posso accostare un ricordo a quest’immagine stampata. E’ la foto dei miei vent’anni. E’ la foto dei miei giorni con Federica. Federica e io eravamo compagni di corso all’università. Stessa facoltà, medicina. Stessa voglia di curare e guarire il mondo. C’eravamo conosciuti sui banchi delle lezioni di chimica, quando ancora ci appariva lontano il momento in cui avremmo potuto indossare il camice e auscultare, visitare, fare diagnosi, come medici veri. Nessuno dei due amava quelle formule fredde e severe, anche se le consideravamo un passaggio obbligato per quello che sarebbe arrivato poi. Dopo le prime occasioni, in cui c’eravamo trovati per caso a fianco a fianco, avevamo preso l’abitudine di scegliere sempre due posti vicini. Il primo che arrivava occupava il posto anche per l’altro. Poi ci vedevamo in biblioteca a parlare sommessamente dietro una montagna di libri, e tra discorsi di solfati e permanganati s’inserivano i nostri sogni. Federica aveva il sole negli occhi.

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Una complicità crescente ci avvolse, come una nevicata attesa, quando si è bambini, per uscire a scherzare e divertirsi. Finché un giorno, a bordo del mio scooter sgangherato, decidemmo di andare al mare. Era una splendida giornata di maggio. La spiaggia deserta ci ospitò seducente e discreta, e ci sedemmo sulla sabbia, il vento su di noi come una carezza leggera. Poi iniziammo a correre, senza un motivo, senza una meta, come una fuga dal mondo, da noi stessi, come anime distaccate e sole che si ritrovavano dopo il buio della separazione. L’amore nacque dalla nudità dei nostri corpi e dei desideri, che ci regalarono minuti d’incoscienza e follia, tra il timore di scoprirsi e di essere scoperti. Ci rivestimmo in fretta e corremmo ancora, fino ad incontrare un piccolo chiosco vicino alla strada. Prendemmo qualcosa. Federica scelse un chinotto e io feci altrettanto, pur non potendolo proprio soffrire. Non ho mai sopportato il sapore caramellato e stucchevole di questa bevanda. Ma quel giorno non volevo fare assolutamente nulla di diverso da quello che faceva Federica. Era il mio modo di farle capire che di lei mi piaceva tutto. Proprio tutto. Tornammo a casa. Dopo pochi giorni i corsi universitari s’interruppero per le vacanze. Federica tornò dai suoi, in una città del nord di cui io dimenticai presto il nome. Nel successivo anno accademico non la ritrovai. Seppi da alcuni nostri colleghi di corso che si era trasferita all’università di una città diversa dalla nostra. Non la rividi più. Un giorno tornai nel luogo dove avevamo trascorso i nostri momenti più felici. La spiaggia era ancora deserta e io scattai una foto. Quella che adesso sto tenendo fra le mie mani. Un modo in più per ricordarmi di Federica.

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Rettangoli di carta sono le fotografie, che ci restituiscono i ricordi, per un attimo li afferrano e li sottraggono alla devastazione della nostra mente, al tempo che passa inquieto, al nostro vivere che è ogni giorno morire e rinascere. Dovunque sei, Federica, possa raggiungerti il mio grazie per avermi donato un frammento della tua vita e la struggente, indelebile nostalgia del nostro mare di un giorno. FINE

-© ANTONIO GRANCI [antonio.granci@tele2.it] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO SELEZIONATO

Capelli [Paolo Brandi]

“T

alvolta, quando guardo il cielo attraverso le grate della mia cella, mi capita di pensare a mia moglie e ai suoi capelli neri, lisci, foltissimi. Quando la notai tra i banchi dell’università li portava lunghi quasi fino al sedere. Dopo il matrimonio, invece, decise di tagliarli. Una signora non può portare i capelli lunghi, diceva sempre. E dopo il matrimonio lei aveva deciso di diventare una signora. E’ una pianificatrice, mia moglie. I suoi programmi non falliscono mai, senza bisogno di alcuno sforzo. E’ un talento naturale. Gli anni del nostro matrimonio sono stati scanditi dai suoi obiettivi. Cerimonia in una chiesa di campagna, appartamento vicino al centro, due figli, un maschio e una femmina. Tutto nei tempi e nei modi che lei aveva immaginato per sé stessa fin dall’adolescenza. La nostra vita scorreva liscia, non troppo lontana dalla felicità. E questo avveniva grazie ad un meccanismo oliato e perfetto come quello che permette alle lancette di un orologio di ruotare una addosso all’altra. Questo ingranaggio, che non prevedeva alcun tipo di deviazione da ciò che lei aveva deciso per entrambi, determinava anche tutte le scelte che riguardavano me. I miei vestiti, la macchina, il lavoro. Era lei a scegliere tutto. Non che mi desse fastidio, per carità. Io sono uno morbido, lei me lo diceva sempre.

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Mi bastava affondare le mani tra i suoi capelli, così meravigliosamente forti e rassicuranti, per dare un senso ad ognuna delle mie giornate da attore non protagonista. Guardare nei giorni d’autunno il vento che tentava senza successo di scompigliarli, di deviare la traiettoria che il pettine aveva disegnato per loro, era estremamente confortante per uno morbido come me. Già. Perché sono convinto che la natura delle persone sia nascosta nei loro capelli. Sulla testa delle persone riesco a leggere quello che il loro cuore e il loro sguardo stentano a confessare. Questo credo di averlo imparato da bambino, quando mi capitava spesso di andare al cinema. Mio nonno mi portava ogni domenica pomeriggio al cineforum della parrocchia. Spesso proiettavano dei film in cui i Cow Boy si sparavano con gli Indiani. Mio nonno ne era avidissimo perché amava John Wayne, probabilmente per quel sorriso scaltro da pedagogo sanguinario. A me i western piacevano un po’ meno dato che non ho mai amato né i conflitti né la loro rappresentazione. Quindi, ad ogni visione, dopo qualche minuto di sparatorie e assalti alla diligenza iniziavo a sentirmi male. Usciamo, usciamo, dicevo a mio nonno. Dai, dai che ora che ne ammazza un altro ti senti subito meglio, rispondeva lui. Solo una volta decisero di proiettare un film che non raccontasse del West. Era perché da poco era arrivato in parrocchia un prete comunista. O almeno così disse mio nonno quando, a metà della proiezione, si allontanò bestemmiando dalla sala. Il film si chiamava Hair e per la prima volta i personaggi, invece di spararsi, cantavano e ballavano in mezzo ai prati senza un vero motivo. Diversamente da mio nonno, nel guardare i capelli disordinati e lunghissimi dei

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personaggi di Hair fendere l’aria al ritmo della musica psichedelica, io rimasi incantato. Provai per la seconda volta la stessa estasi quando, più di qualche anno dopo, incontrai Teresa nella sala d’attesa del mio dentista. Sulla testa di Teresa Dio aveva posato la chioma più riccia e selvaggia che avessi mai visto. Dei capelli così dovevano per forza avere a che fare con l’amore, pensai. Infatti, nemmeno mezz’ora dopo averla incontrata, toccai con mano la sua intimità direttamente nel bagno dello studio del galeotto odontoiatra. Lei non esitò a cedere alle mie avances, perché dire di sì era la cosa che le riusciva meglio. Anzi, a dire il vero, era il motivo per cui stava al mondo. Nelle settimane successive ci incontrammo sempre più spesso e, dopo qualche mese di rapporti clandestini, decidemmo di andare a vivere insieme nel suo disordinatissimo superattico vicino al Grande Raccordo Anulare. Quando dissi a mia moglie che volevo andarmene da casa, lei non sprecò neanche una lacrima. Nei suoi programmi, ovviamente, era contemplato anche il divorzio. Mi lasciò andare e si risposò qualche anno dopo con il suo avvocato. I mesi di vita con Teresa furono una continua riscoperta dei bisogni sopiti del corpo. Il cibo, il sesso, l’esercizio fisico. Dopo poche settimane mi sentivo ringiovanito di dieci anni. I suoi capelli, così vigorosi e maleducati, davano una non troppo vaga idea del disordine che Teresa spargeva per il mondo, senza curarsi troppo di rimettere in ordine le situazioni irreversibilmente scompigliate dal suo passaggio. Per Teresa l’unica cosa importante era un’esistenza piena. E oltre alla sua, con il volume sproporzionato della sua testa riccia, riuscì a riempire anche la mia. Accanto a lei la vita andava gustata a sorsi piccoli come un distillato. Perché trangugiarla tutta d’un fiato avrebbe soltanto bruciato lo stomaco negando ogni possibilità di riconoscere i sapori.

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Ma, come tutti gli incantesimi, il legame tra me e Teresa si spezzò all’improvviso. Un giorno, quando tornai a casa dall’ufficio, la trovai nel nostro letto insieme ad un altro uomo. Quando li vidi non dissi niente, lasciai andar via lui mentre lei si rivestiva. Conoscendo Teresa avrei dovuto sapere che il suo talento naturale nel dire di sì, prima o poi, si sarebbe manifestato con qualcun altro. Tuttavia vederla mentre baciava un altro uomo era come aver visto la mia stessa vita separarsi da me e diventare di qualcun altro. Fu uno strazio che nemmeno un tipo morbido come me riuscì a sopportare. Qualche ora dopo la polizia trovò Teresa stesa in un lago di sangue. Qualcuno aveva bucato il suo corpo quindici volte con un coltello da cucina e la aveva lasciata morire sul pavimento di casa. Mi raccontarono poi che le macchie di sangue non andarono più via. Anche nella morte aveva deciso di lasciare una traccia indelebile. I carabinieri mi trovarono nel cuore notte a qualche isolato di distanza. Ero in stato confusionale. In una mano avevo ancora il coltello sporco, sulla testa, invece, avevo tutti i capelli di Teresa. Infatti, dopo averla uccisa, decisi di portare con me la parte migliore di lei e, come facevano gli indiani cattivi nei film western che amava tanto mio nonno, tolsi lo scalpo al corpo inanimato di quella ragazza che, senza pensarci troppo, aveva soffiato la sua vita nella mia. Il suo cadavere, ora, è freddo e pelato dentro una bara di legno interrata da qualche parte a Prima Porta. Il giudice, dopo un processo del tutto privo di colpi di scena, mi mandò a vivere qui dentro. Oramai sono più di tre anni che passo le giornate giocando a Tresette coi miei compagni di cella.

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Quando ripenso a tutti i capelli che si sono intrecciati durante la mia vita, non posso fare a meno di passarmi un mano sulla testa. Perché, negli anni in cui questa storia si è articolata, sono diventato completamente calvo. Non ve l’avevo detto?” FINE

-© PAOLO BRANDI [1imaginary_boy@libero.it] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO SELEZIONATO

L’acchiappasogni [Domenico De Ferraro]

Q

uando ho voglia di sognare ad occhi aperti salgo sulla cima di uno dei sette colli, da lì posso ammirare tutta la città che

s’apre sconfinata senza mai fermarsi all’orizzonte. Strade strette che si alternano ad ampie strade percorse da signori eleganti e colti con indosso calde pellicce; seduti nelle loro belle macchine puoi trovare di tutto, bottiglie di liquori, sigari cubani, televisore e computer. Le lussuose macchine passano per strade sporche e deserte, percorse a piedi da gente di ogni nazione, indaffarata nelle sue cose, c’è chi insegue una sua idea, qualcun’altro un pensiero felice, un altro ancora un profumo sottile che esce da un forno di dolci che t’afferra alla gola e ti trascina con esso fino al negozio. In un vicolo oscuro che sembra non aver mai fine, ci vive un signore che fa uno strano mestiere, l’acchiappasogni.

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Ogni giorno va in giro per la città cercando di catturare con il suo retino un sogno felice, ma spesso ne trova alcuni assai brutti, incubi orrendi che qualcuno ha gettato fuori dalla sua vita e non ne vuol più sapere; li abbandona per strada tra la folla, spesso sulla fermata di qualche autobus, e poi scappa via. Di brutti incubi Gino l’acchiappasogni, a ogni ora, ne trova parecchi; quotidianamente li porta fuori città, nella zona dei castelli, per seppellirli in una buca profonda mille metri, sotto una grande quercia, chiusi in un barattolo di vetro ben sigillato. Mentre i sogni felici, poiché di quelli c’è ne sono pochi in giro, quando ne prende uno lo porta a chi ha desiderato tanto averlo, vendendolo spesso a un buon prezzo. Gino aveva una zia mezza fattucchiera, che da piccolo gli aveva insegnato molte cose sulla magia; come saper fare filtri, incantesimi, o leggere nel palmo della mano, acciuffare sogni, ovviamente, e saperli imprigionare nei barattoli di vetro. Quando sua zia morì, all’età di centocinquant’anni, lui ebbe in eredità il suo cagnolino parlante, che ha però un grave difetto, quello d’essere un gran chiacchierone e di non saper smettere di parlare: quando inizia lo fa per ore intere, sa tutto di tutti, conosce ogni difetto, ogni pregio di ogni singolo abitante della città.

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A causa di ciò, Gino non ama molto portarlo con sé, per non fare qualche brutta figuraccia con chi, incontrandolo per strada, senta parlare il suo cane dei fatti altrui. Gino ha un sogno: sposarsi, avere una compagna; ma il sogno più grande è quello di diventare padre d’una prole numerosa. Un giorno, riesce a catturare un sogno d’amore, dalle parti di San Giovanni Laterano; forse, pensa, scappato dal cuore di qualche turista o pellegrino di passaggio per la città eterna.

Così dopo tante

peripezie, e con l’aiuto del suo cagnolino parlante, riesce a trovare la fanciulla di quel sogno: abita in una casa modesta, verso Porta Portese, insieme alla madre, e fa la commessa. È molto bella e quando Gino la vede se ne innamora subito. Per giorni interi la segue, diventa la sua ombra, e quando ha il coraggio di dichiararle il suo amore è ormai troppo tardi: lei si è già fidanzata con Romoletto, il figlio del macellaio, e gli si è promessa sposa per la fine di quell’anno. Amareggiato, rassegnato per quell’amore non condiviso, Gino sente una pugnalata nel petto che gli trafigge il cuore; corre come un disperato verso la grande quercia, cercando d’afferrare quel suo brutto incubo per imprigionarlo in un barattolo di vetro e gettarlo nella

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lugubre fossa, ma vi cade dentro precipitando fino al centro della terra; lascia così per sempre questa terrena esistenza. Ora rimasto solo senza il padrone, il cagnolino lo va narrando a ognuno che incontra mentre prende la metro; ma pochi gli credono e qualcuno lo prende pure in giro.

FINE

-© DOMENICO DE FERRARO [ferny@tele2.it] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO SELEZIONATO

Letti di paglia [Donatella Franceschi]

G

irovago smarrito per labirintiche stradine contorte. Tutto ha il profumo della memoria perduta; un angolo, un piccolo sasso gettato in strada, un terrazzino dalla ringhiera arrugginita. Lei. La mia ringhiera. Mi ci ero aggrappato spesso un tempo. Di continuo. Ricordo che, inquieto e solo, la notte ero solito uscire in quel magro balconcino aggettante su questa stretta stradina, l’oscurità palpabile, e inginocchiato per terra mi stringevo a quelle sottili colonne come se fossero state le gonne di una madre, le sue braccia, come se ne avessi afferrata una mano e stretta contro il mio corpo. Cercavo, a quel tempo, la protezione di qualcosa, una grande mano che mi avvolgesse tutto e mi riparasse dal resto del mondo. Mi nascondesse a quegli sguardi penosi, a quelle parole troncate, agli occhi umidi e a volte beffardi. Ma mia madre non c’era, non c’era più; ecco perché quegli sguardi uggiosi, allora dovevo arrangiarmi e, tutto solo, avevo trovato lei. Le mani stringevano rabbiosamente e ancora oggi, se solo chiudo gli occhi e torno indietro a quei giorni lontani, posso chiaramente percepire quella sensazione di stravagante sicurezza e il metallo

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freddo sotto la mia morsa man mano accendersi e confortarmi come se fosse fatto di carne, come se avesse avuto delle braccia con cui cullarmi, delle labbra per confortarmi e delle orecchie per ascoltarmi e comprendermi. Rammento perfettamente di aver trascorso ore e ore a discorrere con la testa incastrata fra due sbarre, la fronte impregnata e le labbra impresse come a voler parlare e baciare insieme. Ricordo pure di aver pianto spesso, di aver parlato molto, io che non aprivo mai bocca se non a fatica, ma che cosa avessi mai confidato non ne ho memoria. Rammento soltanto la disperazione e il sollievo, il sollievo e ancora la disperazione; come una spaventosa marea quei due sentimenti giocavano nel mio cuore a prendere il sopravvento una volta l’uno e una volta l’altro. Ma ora finalmente l’aveva ritrovata, quella sua casta amante, e come un novello Romeo se ne stava immobile in quella stretta stradina con la testa levata a quel balcone vecchio, arrugginito, dimenticato. L’aveva trattata male quell’amante, quell’amica, quella madre che tante volte gli aveva portato sollievo, breve sollievo, ma balsamico. Aveva in qualche modo lenito le sue sofferenze quella cosa, quell’oggetto freddo, inanimato, senza carne o anima, qualcosa creato dalle mani dell’uomo, un oggetto utile quanto basta per affacciarsi senza cadere, una protezione, un limite, la sua salvezza; un tempo era stato tutto per lui, l’unico mondo possibile; al di là c’era il vuoto, la stretta stradina, la casa dirimpetto, lo sguardo della gente, le voci attutite; al di qua, all’interno della casa, c’era solo un lungo silenzio, la desolazione, un deserto arrido e pieno di vetri in frantumi, il corpo di un uomo disteso negli angoli più strani, il respiro pesante, il sonno sempre turbato da qualcosa.

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A volte perdeva conoscenza abbracciato a una bottiglia vuota e l’abbracciava come se fosse una donna, uno strano abbraccio, forse pensava a mia madre, questo non l’ho mai capito. Mio padre è sempre stato un uomo al limite, al limite della società, al limite delle proprie forze, anche mia madre era come lui; due della stessa razza, dicevano in paese, e aggiungevano sempre che niente di buono poteva venirne. E puntualmente la situazione era capitombolata; lei aveva piantato tutto e se n’era andata chi sa dove e lui aveva continuato ad ammazzarsi di alcool lentamente e diligentemente. Non provava piacere in nulla, neanche ad ubriacarsi. Era solo arrabbiato, furioso, nauseato dalla vita e poi, quando nacqui io, anche da me. Mi odiava, questo lo seppi da subito; dalla sua prima occhiata, dalla sua prima carezza che voleva invece essere una sberla ben piazzata. Avevo compreso subito che in quell’uomo nervoso e meschino non c’era spazio per nessun sentimento che potesse avvicinarsi all’amore. Forse solo mia madre. Forse nemmeno lei. Dopotutto lei era fuggita. Scappata lontano da quell’uomo pazzo e brutale e anche da me. Ma quando l’inevitabile era accaduto non avevo provato nulla, semplicemente ero corso alla mia ringhiera e l’avevo abbracciata come se potesse ricambiare le mie carezze, restituirmi il prestito d’amore che avevo infuso nel suo cuore di metallo e che sentivo rovente sotto le mie dita. Ricordo di aver pianto. Un pianto di sollievo.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

E ora sono di nuovo qui, davanti a questa vecchia casa dalle mura larghe, dall’aspetto a volte imponente, dalle stanze piccole, dall’odore di legna bruciata, dall’odore di alcol e troppo dolore. L’odore dell’odio, del risentimento, della rabbia, della volontà di un’autodistruzione precoce. L’odore della giovinezza velocemente incanutita, dell’egoismo, della violenza, della viltà meschina. Tengo tra le mani le chiavi, sono fredde, ci gioco freneticamente, con rabbia, mentre lentamente mi perdo nuovamente in quella casa che ora appare piccola e modesta, spogliata dei suoi abiti e dei suoi lustrini, denudata di ricchezza e bellezza. Un tempo ogni palpito, ogni lembo di questa casa mi era apparso come immenso e grandioso; mi perdevo in essa, mi lasciavo coccolare dalle sue bianche pareti, scivolavo sui gradini di queste stesse scale, mi nascondevo in ogni suo angolo, facevo amicizia con la polvere e la respiravo con avidità. Di quella casa di un tempo conoscevo ogni pertugio, ogni piccola buca oscura e sporca che potesse concedermi riparo dalle mani di mio padre, sempre lunghe, sempre nervose, sempre troppo veloci, sempre ovunque. Ora tutto appare diverso, estraneo, lontano e offuscato. Non riconosco nulla; io e questa casa, che tante volte mi ha dato rifugio, non ci riconosciamo più. Ovunque c’è il suo odore acre e dolciastro; tabacco, alcool e vomito mischiati assieme, questo è l’odore di mio padre. Ora è così questa casa che è divenuta col tempo sua, completamente, totalmente, in ogni più piccola fibra. Questa casa, non mia, non più, ora mi respinge come lui, e come lui mi scaccia via come una mosca fastidiosa che si vuole rabbiosamente spalmare sotto la propria mano. Ora è morto, però.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Finalmente. L’alcool l’ha ucciso, lentamente, ormai perduto nel suo silenzioso livore. Odiava il mondo. Odiava me. E, in fondo in fondo, odiava pure se stesso. Lentamente si è ucciso, si è liquefatto nella rabbia, nella meschinità, nell’orgoglio, nella miseria. All’inizio volevo tenerla questa casa. Morto lui, potevo alla fine tornare. Tornare in questa stretta strada. Tornare in quella stanza. Tornare per un momento ad aggrapparmi a quella ringhiera di metallo, a stringere la mano ad una cara e vecchia amica. Mi trovo qui adesso, esattamente dove volevo essere, e queste stanze invece non trasudano che odio, come se la sua anima malvagia si fosse frammentata e dispersa nell’aria ed albergasse ovunque, in ogni angolo buio, in ogni scalino, in ogni porta, in ogni maniglia; ad ogni mio passo sento come una barriera invisibile e determinata, una volontà indistruttibile che mi vuole solo battere e annientare. Sono grande ora, sono io il più forte questa volta e non mi lascerò schiacciare. Lentamente salgo gli scalini; scricchiolano come calpestassi le sue ossa. E’ quasi piacevole. Rido e qualcosa si accende in questo silenzio ostile, ma subito si spegne nel dubbio. Ossa o legno marcio. Preferisco le ossa ma il dubbio rimane. Percorro un piccolo corridoio su cui si affacciano tre stanze; il bagno, la stanza di mio padre e infine la mia.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Quella stanza. La porta è spalancata, entro. Guardo e torno bambino. Torno a quel pigiama a righe bianche e blu, torno all’alcool, alle botte, al dolore, al sollievo, alle grida, alle parole, agli sguardi. Tutto precipita, io precipito e intanto il passato, i ricordi mi rincorrono per sventrarmi e per rendermi brandelli, per divorarmi e lasciarmi pelle e ossa, per non farmi più uscire da questa stanza. Il letto, le sedie, un tavolo, il grande armadio con specchio in un angolo, il piccolo comodino traballante; tutto imbiancato, ammuffito e perduto. Avanzo, i passi scricchiolano. Un passo dopo l’altro mi avvicino a quel grande armadio e lo apro; solo la curiosità di scoprire che cosa contiene; forse nulla, forse tutto. Infatti una zaffata marcia e pungente mi colpisce all’istante costringendomi a indietreggiare mentre spalanco l’anta per permettermi di guardare; ed eccolo lì appeso a una stampella solo soletto in mezzo al vuoto, ricade molle e tarlato come la pelle di un serpente. Il mio vecchio pigiama a righe; le righe di un prigioniero; solo questo è rimasto, solo questo mio padre ha conservato, un falso simulacro corrotto dal tempo, invecchiato, abbruttito, immortale, solitario, senza parola, infantile. Sembra qualcosa finito prima del tempo. Richiudo l’anta e mi osservo involontariamente in quel grande specchio; l’immagine è scura e distorta. Sono forse io? Non più un bambino. Qualcos’altro, non so cosa. Non mio padre, non mia madre.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Qualcosa di migliore. Qualcosa di peggiore. Non loro. Altro. Ma che cosa? Questo ancora non lo so. Non voglio ancora scoprirlo. Poi la guardo, mi avvicino, apro la portafinestra e torno nuovamente bambino. Lentamente mi piego a terra e ancora una volta, l’ultima, accosto le mani a quelle mani amiche, a quelle braccia. Ancora stringo, ancora assaporo quel sentimento di strano sollievo. Un sollievo che spazza tutto il resto. Un sollievo che cancella il mondo al di là e al di qua di quelle fredde sbarre calde, tenere, affrante. Rimango così ancora per un po’. Oggi sono tornato. Oggi finalmente per poco voglio dimenticare il mondo. Chiudere la luce, attendere al buio; trascorrere la notte abbracciato a una madre, a un’amica, a un’amante. Solo una notte; nell’unico angolo, fra queste mura, che non mi respinge, non mi odia, l’unico angolo che mi protegge, mi abbraccia, mi accoglie, mi dona un sorriso. Domani partirò. Domani lascerò questa casa. Le ossa e i frammenti di un’anima violenta e intrisa d’odio. Domani mi lascerò tutto questo alle spalle. Per sempre. Lo scaccerò nella polvere. Per sempre.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

Anche lei. Per sempre. Ma adesso sono qui. Oggi sono con lei. Sono per lei. Sono in lei. Fra le sue braccia. Nella sua carne. Stringo con rabbia le sue mani. Le sussurro il mio addio. FINE

-© DONATELLA FRANCESCHI [Misha_d@libero.it] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

RACCONTO SELEZIONATO

Un arcobaleno di nome Africa [Antonio Scarpone]

“L

a fantasia dei ragazzi va sempre stimolata”, questo era il suo credo di professore. Intorno ad una problematica doveva far ruotare tutta una serie di informazioni che solo così si imprimevano nelle menti dei suoi studenti. I ragazzi andavano stimolati. E lui, ogni volta, trovava il modo più adatto. Era ancora l’inizio dell’anno scolastico, dell’anno in cui, finalmente, aveva ottenuto una supplenza annuale anche per una terza media. Il professor Paolo Mandia non aveva mai amato attenersi scrupolosamente agli ordinamenti ministeriali, nemmeno da studente, figurarsi ora che era lui il professore! E, difatti, cominciò il programma di geografia dall’Africa, un suo vecchio pallino scolastico, ma anche di vita. Non diede spiegazioni. Solo qualche accenno. Poi propose quello che definì scherzosamente un gioco. Quindi chiese sornione: “Ragazzi, cominciamo il programma di geografia dall’Africa e lo cominciamo un po’ come un gioco: chi vuol partecipare a questo gioco?”. I ragazzi, attoniti, non erano preparati a questo metodo scolastico, e inizialmente esitarono, si sentirono dei brusii, ma poi

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

prima uno, poi un altro, alla fine tutti avevano alzato la mano, allorché il professore urlò: “Bravi! Non c’è nulla di cui dovete preoccuparvi!”. - Diamo un colore all’Africa - continuò, - tu al primo banco: secondo te, di che colore possiamo dire che è l’Africa? - Nera, l’Africa è nera, perché gli abitanti sono neri - rispose prontamente Giovanni. - Bravo Giovanni; poi, chi vuol aggiungere un altro colore? Quale altro colore possiamo dare all’Africa? - Gialla, - aggiunse Filomena - giallo come il deserto del Sahara! - Brava Filomena; chi vuol continuare? - L’Africa è anche azzurra, perché è bagnata da tanti mari e da due oceani - notò Antonio, sbirciando verso la cartina del planisfero appesa alla parete. E così la lezione del primo giorno si protrasse senza che nessuno dei ragazzi si distraesse: tutti parteciparono attivamente e in maniera molto interessata. A un certo punto esclamò Francesco: “Professore, in Africa ci sono anche le foreste, soprattutto c’è la foresta dove sono ambientate le storie di Tarzan, quindi l’Africa è anche verde!”. - Certo, è anche verde; ed è proprio al verde che volevo condurvi - riprese il professore. - Chi sa dirmi di cosa il verde è il colore? - Della speranza - rispose prontamente Teresa, - il verde è il colore della speranza! - Giustissimo, - disse il professore, aggiungendo subito che l’Africa è verde come la speranza; sapete che, in base ai ritrovamenti degli archeologi, le prime civiltà si svilupparono in Africa, molti secoli prima degli Egiziani, e qui vigeva una sorta di governo democratico, ovvero di uguaglianza? E che una delle più importanti università del Mondo nell’età moderna era a Timbuctù? Tutti guardarono attoniti il professore, perché per loro l’Africa aveva sempre significato fame, arretratezza, miseria.

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

- E sapete, naturalmente, - aggiunse subito il professore - che in Africa hanno lavorato tanti Europei, sfruttando le risorse di quei Paesi e gli stessi abitanti? - Mio nonno ha lavorato in Africa! - prontamente attaccò Italia, lavorava in Libia, a Tripoli, mi pare. Il nonno di Italia, infatti, le aveva sempre narrato dei suoi anni trascorsi in Africa, in Libia, soprattutto, ma anche ad Addis Abeba: aveva lavorato in quelle che erano state colonie italiane. - Professore - aggiunse a sorpresa Armando - abbiamo nominato quasi tutti i colori dell’arcobaleno! - Benissimo, ottima annotazione: e chi sa dirmi, secondo la tradizione popolare, cosa c’è, che cosa si nasconde, alla fine dell’arcobaleno? - Un tesoro… - intervenne questa volta Vincenzo. - Giusto, un tesoro; quindi possiamo concludere la nostra lezione affermando che abbiamo creato l’arcobaleno dell’Africa; - esclamò quasi commosso il professore, che poi riprese - se il verde dà all’Africa la speranza, tutti gli altri colori le ridanno la dignità perduta, perduta per gli egoismi degli altri popoli! Ora dobbiamo rimboccarci tutti le maniche e darci da fare affinché ognuno superi i propri egoismi, per restituire all’Africa quello che gli è stato rubato. Ed è soprattutto su voi giovani che si ripongono, permettetemi il bisticcio di parole, le speranze di ridare speranza all’Africa. FINE

-© ANTONIO SCARPONE [scarpone@micso.net] Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore ed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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