Premio Alois Braga 2008 (Vol. 1)

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PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA Copyright © 2008 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opere www.isogninelcassetto.it per l’editing online no profit info: redazione@isogninelcassetto.it I edizione in e-book ISNC-003PAB: novembre 2008 Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito. Questo non significa però che è del tutto libero: il download è consentito tramite una licenza CREATIVE COMMONS che completa il diritto d’autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire e riutilizzare l’opera (totalmente o in parte) a patto di citare sempre e comunque il nome dell’autore originario, l’indirizzo del sito originario e di non utilizzarla per scopi commerciali.


Gli autori finalisti Racconto 1° classificato THOMAS SERGNESE Racconto 2° classificato GIANLUCA BELLASSAI Racconto 3° classificato FRANCESCO TROCCOLI Racconti selezionati Luciano Carini Leonardo Colombi Darko Gianni Fassina Alessandro Mascia Matteo Oliviero Stefano Santarsiere

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright © 2006 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opere Copyright © 2006 www.isogninelcassetto.it Editing on line no profit info: redazione@isogninelcassetto.it I edizione in e-book, dicembre 2006 Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito con un semplice click del mouse. Questo non significa che è però del tutto libero: il download è consentito tramite una licenza “Creative Commons” che completa il diritto d'autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire e riutilizzare l’opera a patto di citare sempre il nome dell'autore originario, l'indirizzo del sito originario (www.isogninelcassetto.it) e di non utilizzarla per scopi commerciali.


Racconto selezionato

Storia di un bimbo e di una volta [ THOMAS SERGNESE ]

C’

era una volta, una Volta. La stessa Volta che c’era nelle storie, e anche

stavolta, c’era. E ogni bimbo si dimenticava di ricordare che senza quella Volta la storia non ci sarebbe mai stata. Ma un giorno qualcuno si dimenticò persino di scriverla per andare di fretta, per premura di narrare la vicenda, reputando la Volta, una parola inetta. Quel giorno i bimbi prima di andare a dormire ascoltarono le gesta di principi e le bimbe ammirarono la bellezza delle giovani vergini; ma nessuno si arrabbiò per la mancanza della triste e sconsolata Volta, che sedeva mesta tra una storia e l’altra, storie nelle quali era sempre presente, bella e giovane. Allora un bimbo giunse da lei, non era bello né dolce, non era neanche veramente un bimbo, era come la Volta: non voleva

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essere, ma solo solcare le bianche pagine con la sua presenza, far leggere ad altri bimbi le gesta di audaci guerrieri e di malinconici amori. “Perchè piangi Volta?” chiese lo scrittore, e lei: “Piango perchè non servo, C’era mi ha lasciata sola!” rispose. Dunque il bimbo le asciugò le lacrime e rise di gusto, quasi gli scoppiò la pancia. “Ma tu Volta esisti, sei tu che c’eri, e tu hai visto mondi di fantasia e hai cavalcato destrieri insieme a nobili fanciulli, hai amato Giulietta e sposato il Principe Azzurro, teso la mano a Wendy e impugnato la bacchetta di Merlino, tu sei la storia, e C’era chi è? Tu sei la mia Luce, tu sei ciò che non dà senso alle mie storie, che permette di sognare...”. E Volta singhiozzando: “C’era era la mia storia, C’era dava forma agli occhi di Merlino, C’era donava tepore alle guance di Giulietta, C’era era la fede che il Principe Azzurro portava, C’era era... e... C’era...”. Improvvisamente Volta comprese tutto. Il sorriso dello scrittore si faceva sempre più bello e solare, tanto che i suoi occhi, se fissati intensamente, le facevano notare quanto fosse

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bella e siderale e quanto i pianeti e le stelle impallidissero alla Luce della sua sostanza. “Che grande specchio” pensò “gli occhi della fantasia...”. D’un tratto Volta notò il sorriso dello scrittore e capì, come non aveva mai fatto prima d’ora, e chiuse finalmente gli occhi che si era disegnata per non vedere bene. Quella volta c’era una Volta, ma non c’era C’era. C’erano solo il bimbo e la Volta, ma non la brutta Materia che, sconfitta e sconsolata, si sfogò con C’era, che solo e malato, lasciava il mondo della Realtà che lo aveva imprigionato, allo scopo di ridurre in limitata copia umana il Cosmo. C’era moriva sulla Terra per trovare finalmente riposo. Scampato al terribile abisso della razionalità, volava verso il mondo dell’irrealtà nel quale Volta era la regina e re era Verità. Lo scrittore salutò con i suoi grandi occhi da bimbo e il cuore pieno di felicità, osservando Volta e Verità sorridere trionfanti sul firmamento. Il bimbo si sedette su di un grande prato e immaginò mille altre storie, quelle storie che cadono dal Cielo, quelle imprese fatte di latte di stelle e polvere di Irrealtà...

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Apri il suo libricino, sfilò la penna dalla tasca e scrisse il suo esordio: “C’era una Volta. Ed era felice”.

2008 THOMAS SERGNESE thomas_sergnese@hotmail.it

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Racconto selezionato

La scalata [ GIANLUCA BELLASSAI ]

«A

llora siamo d’accordo?» L’uomo dagli occhi azzurri continua a fissarmi con

quell’aria di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. Sono seduto su una sedia scomoda e sto vendendo la mia ultima proprietà. Ci sono stati dei momenti in cui sono stato uno dei più importanti immobiliaristi del nostro Paese. I giornali avevano cominciato a parlare di me e le belle donne dello show-biz si strappavano i capelli per un mio invito a cena. La scalata di Padovan era diventata famosa in tutta Europa. Sull’Economist mi avevano perfino dedicato mezza paginetta. Dentro di me, ero certo che prima o poi sarei finito, col mio bel faccione grassottello, dritto-dritto in copertina.

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Quando cominciai, tempo addietro, ero partito con un monolocale e un bilocale. Poi mi entusiasmai nella compravendita d’immobili. Ricordo ancora il mio primo affare: vendetti una delle due casette e ne comprai un’altra, grande il triplo, ma situata in uno dei quartieri fetidi della città. Fortuna volle, che nel giro di poco, il comune fece un piano di riqualificazione della zona e la mia proprietà assunse un valore spropositato. Misi in saccoccia qualcosa come duecentomila euro di guadagno. E allora, più o meno con la stessa logica, comprai un altro appartamento, poi un altro ancora, e ancora, e ancora. Fino ad accumularne un buon numero. Comprai anche un alberghetto a Milano. E quello rendeva da paura, ve l’assicuro. Mi feci pure un socio, la dottoressa Morante, perché da solo non ce la facevo più a stare dietro a tutto quanto. Socio di minoranza s’intende. Mi divertivo a fare quel lavoro. Non facevo niente tutto il giorno, eccetto qualche telefonata qua e là. Bisognava solo saperci fare, e avere fiuto, e io ne avevo eccome. Poi le cose presero una piega imprevista. Mi chiamò la banca e mi fece notare un’irregolarità nel pagamento del mio ultimo acquisto. Giuro che ero assolutamente in buona fede, non

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era mia intenzione combinare quella minchiata. Uno come me non si sarebbe infangato per una miseria tale. Fatto sta, che da quel giorno in poi, le fiamme gialle presero a starmi alle costole. Ricordo ancora quel controllo a sorpresa che segnò l’inizio della fine. Frugarono in tutte le mie scartoffie. “Falso in bilancio” dichiararono alla fine. E mi sbatterono in prigione. Tuttora sono certo che la colpa fu solo ed unicamente della dottoressa Morante, tant’è, che con un colpo di coda, prelevò la sua quota e se ne scappò via chissà in quale angolo sperduto del pianeta. Quando uscii di galera avevo i conti a puttane, avvocati da pagare, denuncie e reclami a non finire. E allora cominciai a vendere, vendere, vendere. E vidi apparire, come bestie sulle carogne, i maledetti Avvoltoi. Sono furbi gli Avvoltoi: non fanno un’offerta quando sei messo male, te la fanno quando sei proprio nella merda. E allora ti offrono degli spiccioli per immobili che valgono una fortuna. E tu devi acconsentire per forza al loro gioco, perché hai un fracco di debiti a breve scadenza. Un po’come quando Cecchi Gori fece fallire la Fiorentina e fu costretto a vendere Batistuta per due lire.

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Devo ammettere che ho avuto una probabilità di riscatto ad un certo punto. Una piccola botta di culo. Un lontano parente che tira le cuoia e mi lascia una piccola eredità. Non molto a dire il vero, però poteva essere una buona chance per ripartire. Ma era chiaro che ormai la dea bendata non stesse più dalla mia parte. Li investo immediatamente, mi ributto a capofitto nell’unica cosa che sono stato capace di fare nella mia vita: acquisto un piccolo rudere. Tempo due giorni e qualche bastardo di creditore gli dà fuoco, l’assicurazione non crede alla mia versione dei fatti e finisco di nuovo dentro. Sconto la pena, ed eccomi qua, da dove abbiamo cominciato. Eccomi qua dinanzi all’Avvoltoio dagli occhi azzurri. Si aggiusta i capelli con la mano destra e poi mi fa” «È sempre un piacere fare affari con lei, ingegner Padovan» È finito. È tutto finito. Non ho più niente di niente… «Maaaaa! Abbiamo perso di nuovo!» Chissà se la mamma mi ha sentito con quel casino che fa il forno acceso. «Su, vai a lavarti le mani che mi sa che è pronto» dice lui.

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Quell’avvoltoio di mio padre ci ha fregati un’altra volta. È sempre stato il migliore a Monopoli. Prendo il mio funghetto segnaposto, gli do un bacetto e lo rassicuro: “Dai che la prossima volta lo battiamo, promesso. Io, te e lo zio Antonio. Lui sì che è forte, non come quella schiappa della mamma”.

2008 GIANLUCA BELLASSAI gianluca.bellassai@gmail.com

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Racconto selezionato

Per amore [ FRANCESCO TROCCOLI ]

N

on avrei mai pensato che sarei stato felice di entrare in una Chiesa. Eppure quel giorno lo ero, e molto. Sono

sempre stato un ateo impenitente, e se fosse stato per me Helene non avrebbe dovuto sposarsi in Chiesa. Fosse stato per me Helene non avrebbe dovuto sposarsi affatto. Ma non era da me che poteva dipendere quella scelta. Lasciando da parte il mio pensiero sull’argomento, devo riconoscere che fu proprio una bella giornata. Una splendida giornata di sole nel cuore delle alpi, lassù, a milleduecento metri; era lì che si trovava la piccola cappella degli alpini che lei aveva voluto. Gli invitati mormoravano che lui aveva accettato con gioia tutte le scelte che lei aveva fatto riguardo quella giornata. Non ho alcuna difficoltà a capirlo. Anch’io al posto suo l’avrei

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lasciata fare. Helene è sempre stata così. Persino quando era in difficoltà enormi; difficoltà che spero che ora lei non ricordi neppure nei suoi peggiori incubi. Voleva sempre decidere in prima persona; non lasciava mai che qualcun altro lo facesse al posto suo, nemmeno se era convinta che fosse per il suo bene. L’avevo conosciuta molti anni prima. Era difficile dire esattamente quanti, e lo è tuttora. L’avevo amata, e forse quel giorno la amavo ancora. Ma chi voglio prendere in giro… la amo ancora oggi. L’aria era ferma, il sole era caldo, e l’odore dell’erba fresca e dei fiori dei monti mi stordiva, tanto era forte. Sono abituato all’odore acre del solfuro, a quello pungente dell’ipoclorito, a quello dolce del permanganato, io; per me il puzzo del gas dei becchi buntsen usati per scaldare le provette è stato un compagno di gioventù. Sono sempre stato un animale da laboratorio, e per fortuna, dico oggi; poi a lei questa mia vocazione era sempre piaciuta, tutto sommato. L’altro topo da laboratorio, mi chiamava sempre.

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Tutt’intorno, il vociare diffuso dei pochi invitati si confondeva con il ronzio delle vespe; a tratti, le campane del vicino pascolo delle vacche facevano il solo rumore che interrompeva quella monotona, dolce e soporifera sinfonia. Avrei potuto addormentarmi sereno, disteso sul prato fiorito. Ma quella giornata, per il Dio di Helene, non l’avrei mai persa per nulla al mondo. La cerimonia era già finita, in realtà; c’era stato anche il lancio del riso, e lei ora stava girando fra gli invitati, per i saluti, gli auguri, i sorrisi. La vidi camminare. La vidi correre. La vidi persino saltellare come una bimba verso il vecchio zio che tanto amava, da sempre. Quando mi vide, feci in tempo a strofinarmi e asciugare le lacrime sotto i provvidenziali occhiali scuri. Si avvicinò a me, titubante, indecisa. Continuava a fissarmi, e conoscendola sapevo benissimo quanto si stava sforzando di ricordare, per arrivare da me con un nome e un saluto pronti fra le labbra. Per un attimo pensai che mi avesse riconosciuto. Sarò sincero, lo sperai. In

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fondo non ci sarebbe stato nulla di male. Naturalmente non fu così. - Buongiorno. - dissi io per primo per rompere il ghiaccio. Aveva i capelli corti, come se in quella nuova vita avesse deciso di trasformare anche il suo aspetto. Era ancora più bella di come la ricordavo, e non poteva che essere così. - Buongiorno… - ricambiò. - Io sono Jean. Jean Blisset. Avevo mentito, ma solo in parte. Non so perché, ma non ce la feci a presentarmi con il mio vero nome. Quel giorno non potevo permettermi di essere me stesso. Altrimenti avrei rischiato di provarci gusto, e avrei potuto rovinare tutto. - Allora lei è… - Sono il fratello di Antoine. - E dov’è lui? Antoine… è qui? - Purtroppo Antoine non è potuto essere presente. Si trova all’estero per un appuntamento di lavoro. Non poteva mancare;

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mi ha mandato personalmente, per farsi perdonare. Sorrise. - Antoine non ha proprio nulla da farsi perdonare da me. Mai. - So che è stato molto importante nella sua vita. - Antoine me l’ha salvata, la vita. Avevo solo quattro anni. Se quel giorno lui non fosse stato lì a prendermi e strapparmi via all’improvviso, io sarei stata investita da quel pirata. E ora sarei morta. No, non saresti morta, piccola mia. Sarebbe stato peggio, molto peggio. - Sa - aggiunse - è il ricordo più lontano che ho dentro di me. Il primo ricordo, forse, dalla mia nascita. Sento ancora le sue braccia calde che mi stringevano. Lui è il mio eroe. L’unico vero eroe della mia vita. Arrossì. - Sono venti anni che non lo vedo - aggiunse - Lei gli somiglia tanto, sa?

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Sentivo che la piccola che avevo salvato quel giorno si era davvero innamorata. Non poteva che essere così. Peccato che in quella vita io avessi trentaquattro anni più di lei. Ora aveva un uomo. Era giusto, era bello così. Lui era uno a posto. E io fui ancora più pieno di lei, dei miei ricordi, dei nostri momenti infiniti a guardare le stelle sui monti. Io avevo faticato ad adattarmi, all’inizio. Avevo faticato immensamente. Ero arrivato laggiù solo un paio di giorni prima dell’incidente, appena in tempo per iniziare il viaggio con cui raggiunsi il posto preciso, per intervenire all’ora giusta. L’avevo vista sulla curva, all’alba, e mi ero lanciato verso di lei. Sapevo chi guidava quell’auto. Ma questa volta non sarebbe stato importante che lo prendessero. Mi bastava che lei si fosse salvata. Helene non sarebbe finita su una maledetta pietosa sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per inciso, non mi avrebbe nemmeno mai conosciuto, non ci saremmo mai innamorati, non avremmo vissuto insieme. E, ora

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lo so per certo, io non avrei mai conosciuto il mio compagno di stanza all’università, Didier, il mio complice in questa pazzia; il topo da laboratorio, come lo chiamava lei, l’amico comune che ci aveva fatti incontrare. La lasciai il giorno prima della partenza. Pensavo che così sarebbe stato più facile, anche per lei. Facemmo l’amore quella sera, e poi le lasciai un biglietto; le spiegavo quanto l’amavo, ma anche che era finita. Diedi la colpa ai miei studi, alla mia carriera all’università. Era l’unico modo in cui potevo farlo; non avrei mai potuto dirle dove andavo, né perché. Mi avrebbe considerato pazzo, o peggio ancora, mi avrebbe creduto e sarebbe forse anche riuscita a fermarmi. No, l’unica maniera fu lasciarla, con amore, ma senza dubbi. Sperai che avrebbe tentato di odiarmi, e temetti che non ci sarebbe mai riuscita. Si stava alzando il vento. La voce di Helene, lassù in montagna, mi risvegliò da questo turbinare di ricordi.

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- Si sente bene? - mi domandò. - Certo. Mai stato meglio di oggi, mi creda. E’ stato davvero bello conoscerla. Chiacchierando, avevamo passeggiato per alcune centinaia di metri verso valle. Eravamo lontani dagli sguardi degli altri e mi salutò con un bacio sulle labbra. Rimasi sorpreso, ma da parte sua fu un atto spontaneo e naturale; per me invece fu travolgente, quasi come un altro balzo nel tempo. - Porti il mio bacio ad Antoine - sussurrò. Poi, senza guardarla, mi girai e iniziai a scendere. Annegai nelle lacrime. Ora, mi rimane l’unica parte divertente di tutta questa assurda storia. Chissà se Didier mi crederà, quando domani gli dirò che il suo esperimento è riuscito. Mi riconoscerà, così invecchiato? Penserà ch’io sia un impostore? Chiamerà la polizia? Non sarà facile convincerlo che la sua macchina assurda ha funzionato. Chissà se anche in questa vita Didier sta provando a

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realizzare il suo sogno; chissà se sta cercando qualcuno da spedire indietro nel tempo, come ha fatto con me. Un pazzo, che pur sapendo che non c’è ritorno, si offra volontario. Magari, per amore.

2008 FRANCESCO TROCCOLI francesco.troccoli@fastwebnet.it

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Racconto selezionato

Nepenthes [ LUCIANO CARINI ]

T

utta colpa di quell'opprimente senso di solitudine. O del calendario che scandiva impietosamente quanto

mancava al mio trentottesimo compleanno. Da passare sola, ancora una volta. Oppure no – siamo onesti! – tutta colpa mia, del mio carattere volitivo, del mio eccesso di amore per la vita. Soprattutto per le incognite che la vita cela. Della mia incapacità di creare un vero legame, un legame, come sento spesso dire, stabile. Forse la colpa stava in tutto ciò... e anche in un bicchiere di troppo. Eppure io non avevo fatto nulla più che le solite cose. Il solito appuntamento con le amiche dell'ufficio – quelle come me, non sposate – il solito giro dei bar alla moda, i soliti aperitivi

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alcolici con cui darsi la carica – per cosa poi? – il solito tirare fino a tarda notte come ventenni alla scoperta del mondo. False ventenni alla scoperta di un mondo ormai già bello e scoperto. Nei suoi lati affascinanti. Nei suoi lati deludenti. Però... però, se l'atmosfera è quella giusta, se accade quel qualcosa di misterioso, se io mi sento al centro... il mio pessimismo di fondo fa in fretta a sotterrarsi ancora più giù e sparire. E quella sera tutte e tre le combinazioni si realizzarono. Occhi. Occhi che mi fissavano. Come non mi accadeva da tempo. Non gli occhi vogliosi di chi vuol trasmette tutto il suo testosterone. Non gli occhi indecisi di chi non sa scegliere la donna con cui provarci. Occhi intensi che parlavano una lingua dimenticata. Romantica, avvolgente, vellutata. Mi sentivo osservata, per questo mi accorsi di chi sedeva in fondo al bancone. Oh mio Dio! esclamai dentro di me. Mi. Sentivo. Osservata! La cosa più bella che può capitare a una donna. Soprattutto se sta passando un momento – lungo – di grande insicurezza.

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Non ne feci parola, c'era tutto da vantarsene e nulla da scherzarci su. Le mie amiche ci avrebbero scherzato su. Mi alzai e raggiunsi la porta del bagno, esattamente a fianco dello sconosciuto. E mi tremarono le gambe. Bello. Di una bellezza strana, non certo virile, più simile a uno di quegli efebi modelli da passerelle di gran lusso. Quei bellocci né carne né pesce, li avevo sempre definiti. Ma quel ragazzo era proprio bello e, se non era né carne né pesce, beh... potevo diventare vegetariana io. Giovane. Troppo giovane. Avanti, dillo! Abbi coraggio! Troppo giovane per una stagionata come te! Va bene, non sono una tardona, ma al suo confronto, rapportando i miei prossimi trentotto anni ai suoi... diciotto?... venti?... c'era una intera adolescenza di mezzo. E le mie gambe, belle, ben fatte, accuratamente avvolte in costose autoreggenti, tremavano. Per il suo sguardo profondo, ogni istante più profondo. Per la paura che mi rivolgesse parola. Mi rassettai davanti allo specchio, urinai per togliermi di dentro il frastuono degli alcoli, e uscii. E fu come andare a sbattere contro un muro a centottanta all'ora. Era sempre lì, mi fissava, in profondità, ancor più di prima se mai fosse stato

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possibile. Nella sua mano appariva un secondo bicchiere. Che mi porse. Mentre mi chiedeva se volevo sedermi di fianco a lui. Ma non erano parole sfrontate, approcci maschi ma ben poco galanti che ormai ero costretta a sentire e rifiutare non così spesso come avrei desiderato. Erano sussurri di dolcezza e remissione. Gesti decisi ma mozziconi di parole insicure. E quello sguardo che non accennava a calare di intensità. Così bevvi il primo cocktail, salutando ogni tanto le amiche con la mano e godendo segretamente delle loro risate sguaiate. Ascoltando lunghi silenzi e facendomi accarezzare da quello sguardo infinito. Poi ne bevvi un altro, perché i silenzi erano troppi e io non riuscivo a sopportarli. Ero inibita dal guardarlo. I suoi occhi sempre presenti mi costringevano ad abbassare i miei. Sentivo il suo profumo, osservavo quelle mani da pianista, con lunghe dita affusolate. E quando alzavo lo sguardo per rispondere a una sua rara domanda, incrociavo quegli occhi neri fissi su di me. Infine ne bevvi un terzo e un quarto e... ...E mi ritrovai in quella camera. Ricordavo solo di essere cascata all'interno dei suoi occhi e di aver rispettato il suo silenzio chiudendogli la bocca con la mia. Per poi riaprirgliela

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quel tanto che bastava a far scivolare dentro la lingua. Ricordavo di avergli chiesto io stessa di portarmi "ovunque". Non ricordavo come ci fossimo arrivati. Per tutto il tempo gli avevo succhiato il lobo dell'orecchio e accarezzato il collo con la lingua. E lui aveva taciuto tutto il tempo, tranne quando diceva il mio nome e sospirava di eccitazione. E io sospiravo di eccitazione assieme a lui. Eravamo lì, in un "nonsodove" ordinato e pulito e molto chic. Adesso volevo guardarlo bene, adesso mi sentivo più tigre che gatta, volevo essere certa che tutta quella bellezza era lì per me. Per me! Lo fissavo e dentro di me continuavo a ripetere "né carne né pesce, speriamo uova". Ero alticcia e imputai a quello la sua ritrosia nell'abbracciarmi col corpo e non più con lo sguardo. Cercai di darmi un contegno, gli snodai la cravatta, gli scompigliai il lungo ciuffo. Cominciai a slacciargli la camicia. Mentre lui niente. Stava fermo, titubante. La camicia volò oltre il letto. Anche il petto non era certo virile, pochi muscoli, anzi, una specie di seno appena accennato come fosse una ragazzina. Però era ancora tanto bello da farmi superare quel piccolo inconveniente. Tutto qui il motivo di tanta ritrosia? mi domandai.

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Per dimostrargli che non ero affatto turbata da ciò, glielo toccai, glielo baciai. E finalmente lui si mosse. Ricambiò le mie carezze con altre identiche, i miei baci con altri identici, mi spogliò e mi portò di fronte al grande specchio a figura intera. Mi vedevo mentre le sue mani lunghe mi toccavano ovunque. Lo vedevo mentre poco alla volta si toglieva i suoi indumenti. Finché non rimase nudo come me. Esattamente nudo come me... o forse sarebbe meglio dire nuda come me.

2008 LUCIANO CARINI zibalda@libero.it

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Racconto selezionato

Incidente di percorso [ LEONARDO COLOMBI ]

S

to correndo sulla spiaggia. A pieni polmoni respiro l’aria mattutina, l’odore di

salsedine e la sensazione di sabbia appena umida è così piacevole sotto ai piedi. L’acqua risplende invitante alla mia sinistra mentre una brezza leggera sembra tenere sospesi in volo macchie bianche di gabbiani in un cielo di un azzurro irreale e sconfinato. Corro a buona andatura: mi sento vivo, libero, leggero. Nessuna nuvola oscura il cielo dei miei occhi. Visiera sulla testa, pantaloncini corti, torso e piedi nudi. L’auricolare del mio lettore mp3 nelle orecchie e molte impronte sulla sabbia alle mie spalle: il mio passaggio. Mi sento felice, capace di raggiungere ogni meta. Il sole si tuffa e risplende attraverso l’acqua salata del mare che avanza e poi, timida, arretra sul bagnasciuga.

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Corro e non voglio fermarmi. Non lo so nemmeno da quanto sto correndo ma non voglio smettere. E’ una passione che mi anima, che mi possiede, e della quale non posso fare a meno. C’è la vita: la sento. In ogni movimento della mia corsa c’è tutto me stesso e l’impegno di chi sogna di vincere ogni gara e un giorno imprimere il suo nome negli annali dell’atletica leggera. Ce la farò, ce la posso fare: questo il mio credo. I Dire Straits mi accompagnano mentre procedo sulla spiaggia: ora è Sultans of Swing a suonare per me. Sorrido e continuo a correre mentre mi svuoto di ogni pensiero unicamente teso alla fisica esperienza che tanto mi fa sentire forte, vivo, presente nella storia di questo mondo moderno. Mi spingerò fino a dove le mie gambe allenate lo permetteranno. Delle barche all’orizzonte si muovono lontane dal mondo degli umani che, impudente, spunta subito al di là degli alberi e degli hotel al limite della spiaggia. Immobili ci osservano quasi a

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voler rammentare che questa sabbia e questo mare sono solo fugaci attimi di paradiso, una parentesi prima del ritorno al quotidiano. E se le cose stanno così a ben ragione vale la pena di godersela un poco finché dura questo sole e questo tempo di vacanza. Al contrario di me, alcune persone oziano godendosi la pace del mattino ed il sole che riscalda pelle e sabbia. Innamorati si coccolano al sole, bambini giocano e corrono e saltano mentre genitori e nonni parlano o leggono quotidiani e blande riviste di gossip. Io invece continuo e non mi fermo. Sto correndo da parecchio oramai e non lo so verso dove dirigono le mie gambe, dove conduce questa spiaggia al confine tra terra e mare. Ma non importa: voglio solo correre e sfogare tutta l’energia che ho in corpo, sfinirmi per sentirmi vivo e forte. Pronto per le gare del mese prossimo. Vedrete, sarò sul podio! Ce la farò!

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Ma nonostante l’arroganza dei miei folli sogni di gloria non nascondo che inizio a stancarmi, a percepire il calore del giorno e soprattutto lo sforzo della corsa. Correre è tutto per me ma, ahimè, sono umano anch’io! Quindi mi fermo a riprender fiato presso una staccionata in legno che sorge a lato di un camminamento, unico collegamento tra spiaggia e città. Mi appoggio un poco, giusto il tempo di riposarmi per poi ricominciare a muovermi verso casa. Ho giusto il tempo di alcuni esercizi per i muscoli quando mi accorgo di una figura snella e sinuosa: si muove lungo il camminamento che dalla spiaggia si dirige al centro abitato. Mi viene incontro ancheggiando sensuale. E’ una ragazza, bella come la vita giunge sino a me. La pelle abbronzata, i capelli corvini e gli occhi profondi. Inclina appena il capo di lato mentre mi saluta. Mi osserva incuriosita accennando ad un sorriso che ricambio istintivamente ormai perso in balia di quella bellezza ultraterrena. “Ti piace davvero molto, vero?” mi chiede dolcemente.

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“Cosa?” chiedo di rimando, ancora col fiatone, confuso ed ignaro del significato di quella domanda. “Correre” spiega senza distogliere lo sguardo dai miei occhi inesorabilmente persi nella contemplazione della sua bellezza. Rispondo sorridendole: “Correre è tutta la mia vita!” Un sorriso nasce allora sul suo bel volto mentre con una mano sposta delicatamente una ciocca di capelli scivolata sulla fronte. Una luce complice negli occhi mentre le sorrido di rimando. Lentamente muove un passo verso di me… Finalmente l’ho trovata. Ed è allora una gioia indescrivibile, profumo di emozioni profonde, di esperienze preziose che mi fanno sentire vivo! Sono giorni intensi, sentimenti che mi scuotono, brandelli di me che cambiano fondendosi con lei. Tendo una mano ad accarezzarla, ma tutto sbiadisce e si perde mentre giunge il buio.

***

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Il risveglio nel presente. Apro gli occhi. Nuovamente quel soffitto. Lo stesso insipido soffitto che da qualche giorno continuo a ritrovare al mio risveglio. Bianco. Anonimo. Privo di qualsiasi sostegno a cui appendere i miei sogni e le mie emozioni, le mie speranze desolate. L’aria condizionata è già in funzione per mantenere nella stanza una temperatura ideale. Per il corpo ovviamente, perché il mio animo ancora non ha pace. Dalla finestra velata da tende chiare penetrano temerari raggi di un sole di mezza mattinata. Fuori c’è la vita, un mondo ancora in movimento. Io invece, nonostante il prolungato riposo, mi sento ancora stanco, esausto… Porto il braccio sinistro sopra il viso, appoggiandolo sopra gli occhi. Con la destra invece la cerco. Invano. Non c’è più… ma ancora non lo accetto… non ci riesco…

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Soffoco le lacrime ed il mio dolore: stringo forte le palpebre quasi a voler assorbire quelle gocce d’acqua salata che dai miei occhi sgorgano tristemente. Una smorfia sul volto. Fa male dentro, una sofferenza atroce che mi dilania l’anima. Nessuno può capire… nessuno sa quanto dolore… Non c’è più: devo solo accettarlo… Me l’hanno già detto “ci vuole tempo” …ma io ancora non ci riesco… Non è facile, non lo capite? Non è facile per niente, dannazione! Stringo il lenzuolo bianco mentre la rabbia, puntuale come sempre, torna a visitarmi nel mio letto di dolore. Non mi serve. Arrabbiarmi non serve a nulla: lo so bene. Non si può tornare indietro, non si può cambiare ciò che è stato. Piango. Come ogni mattina piango perché non sarò mai più quello che ero… Devo solo accettarlo…

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Mai più… Non resta più nulla di quello che ero prima… In pezzi tutti i sogni miei… Tutto è cancellato… la mia vita… riazzerata all’improvviso… perduta come… Dannazione! Singhiozzi e pianto sommesso mentre con la mano stringo il vuoto laddove prima era la mia gamba destra. Ormai perduta, divorata dall’asfalto e dall’acciaio in quel tragico, stupido, incidente d’auto… Sul comodino una foto, il sorriso sul volto di un giovane innamorato con accanto una ragazza dalla pelle abbronzata, lunghi capelli corvini e profondi occhi scuri. Non c’è più. Portata via, per sempre, come la mia gamba sull’asfalto di quella strada di periferia. Piango. E’ colpa mia… E’ solo colpa mia…

2008 LEONARDO COLOMBI leonardo.colombi@gmail.com

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Racconto selezionato

Bagna cauda [ DARK0 ]

O

ggi è il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Oggi, quattro novembre, arriva un sacco di gente nel mio

piccolo paesino inutile, ma nessuno viene per farmi gli auguri. Nessuno. Tutti vengono solo per insaporirsi la bocca con l'aglio e le acciughe. Perché la bagna cauda si fa così: con le acciughe, l'aglio e l'olio e il quattro Novembre, nel mio piccolo paesino inutile, è il giorno della Sagra della bagna cauda. Come ogni anno vedo mia madre e mio padre euforici come i miei coetanei quando hanno trovato del fumo il sabato sera. Loro si sballano così: con le sagre paesane e in particolare con questa qui che, come tutte le sagre e le feste e le occasioni dove c'è un sacco di gente, io non sopporto. E peggio ancora è che non sopporto loro entusiasti. Cioè, cazzo, siete o non siete i miei genitori? Sono un'orfanella trovata sul sagrato di San Giovanni?

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No, vero? E allora, se siete i miei genitori, preoccupatevi per me: è il mio compleanno. Ve lo ricordate o no che sono nata oggi? Oppure avete attenzioni solo per il ristorante, per il barbera che dovrete servire agli ospiti astigiani e/o torinesi e per quella vostra disgustosa bagna cauda? Ma come si fa a definirlo piatto prelibato e imbastirci sopra addirittura una Sagra? Io lo odio questo mio piccolo paesino inutile. Due anni fa ho fatto lo strago all'orecchio sinistro, l'anno scorso il piercing alla lingua e l'anno prossimo compierò diciott'anni e me ne andrò, fosse anche solo qui vicino, ad Asti per esempio, va bene uguale. Prendo le mie cose e, addio. Non m'importa se c'è il ristorante già avviato. Se c'è bisogno di me, che mio fratello non può, che deve studiare, e tutte le menate del caso. Non voglio vivere qui e non ci voglio neanche morire. É un posto troppo stretto. Io ho bisogno di spazio. Ho bisogno di posti dove c'è tanto spazio intorno. Niente montagne. Niente vallate. Un posto in pianura. Ecco: Asti è in pianura? Non lo so. Ma se è in pianura, per me va bene.

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Ivana verrà con me. Me l'ha promesso. Le acciughe al verde e l'aglio fanno schifo anche a lei. Ogni anno durante tutta la settimana della Sagra, ce ne stiamo su da me su in soffitta dentro i sacchi a pelo e sotto il piumone. Parliamo. Parliamo, scriviamo e poi, a turno, ognuno legge quello che ha scritto l'altra ad alta voce.

C'è una luce strana oggi pomeriggio in soffitta e fa più freddo del solito. Io e Ivana stiamo vicinissime che sembriamo una cosa sola. E gliel'ho anche detto. Detto. Gliel'ho scritto e l'ha detto lei. Ad alta voce. Ha letto: “Quando ti sono vicina mi sento meglio. Quando ti sono lontana mi sento male. Quando lasceremo questo posto saremo una cosa sola.” Lei ha letto quello che avevo scritto io, ma è come se l'avesse detto anche lei. Io le ho chiesto di promettere. Di promettere che saremmo fuggite insieme l'anno prossimo.

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Lei si è avvicinata al mio orecchio e lentissimamente, in modo che nessuna parola potesse scappare da quella soffitta, mi ha detto: “te lo prometto, amore.” e poi mi ha dato un bacio sullo strago. Ha fatto così. Ha detto proprio così. Non mi aveva mai detto amore. Mai. Siamo state in silenzio per un po'. Un po' che sembrava non finire mai. Io volevo dire che…., ma lei mi ha anticipato: è uscita dal sacco a pelo e dicendomi: “Io vado, a domani.” è scesa dalla scaletta a pioli della mansarda ed è scomparsa. Io sono rimasta zitta a pensare a quella parola, amore, che lei mi aveva detto in quel modo, con quel tono. Intenso. Ho pensato a come quel mio bisogno di spazi aperti scompariva vicino a lei. Tutta quella voglia di fuga, quella voglia di stare all'aperto, quel desiderio di pianura, con Ivana a fianco, non c'era più. Si rimpiccioliva fino a sparire. Veniva risucchiato sotto questo tetto, dentro questa mansarda, in fondo ai nostri

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sacchi a pelo, nel buio di questo piumone e oggi, dopo quella parola, amore, mi implodeva dentro. Avevo come la sensazione che standole ancora vicina, avrei potuto rivedere la mia posizione riguardo la fuga dal mio piccolo paesino inutile. Avrei potuto, come dire, ripensare ad andarmene. Accontentarmi di quello che offriva. Arrivare perfino a smettere di odiarlo. La sua promessa aleggiava sopra di me come una forma di ricatto emotivo alla quale non riuscivo a sottrarmi e per la quale mi sentivo dannatamente legata a lei. Come imprigionata. E poi quella parola: amore amore amore che suggellava tutti i miei sospetti. Avevo paura di rivederla il giorno dopo. Non volevo che Ivana si avvicinasse ancora a me, non potevo permettere che i miei piani venissero stravolti da quella sensazione che ora dopo ora, si faceva largo ormai con insistenza dentro di me. Così non l'ho aspettata in mansarda: sono scesa per le strade del mio piccolo paesino inutile e mi sono messa a girare in mezzo agli stand, davanti la chiesa di San Giovanni, per le

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bancarelle, attraverso la gente, le voci e il forte odore di aglio e acciuga. Osservavo le persone che incrociavo, mi sorridevano, la calca mi spingeva in avanti e io mi lasciavo andare. Ero costretta nei movimenti, bloccata nello spazio, priva di ogni volontà ma soprattutto protagonista assoluta della Sagra della bagna cauda. Ero dentro tutto quello che non avrei mai pensato di essere. Dentro. O forse sarebbe meglio dire in fondo. Mi sono trovata vicino a un tavolino pieno di verze, cavoli, cipolle e gente che le intingeva in un unica grande ciotola di terracotta. Meccanicamente ho preso un pezzo di un cardo e l'ho infilato dentro la bagna cauda fino a scottarmi le dita, l'ho tirato su e ho preso a mangiarlo con voracità, sbrodolando olio bollente e pezzi di acciuga su tutto il tavolo. Poi ho sgomitato e mi sono fatta largo per uscire dalla calca. Stavo male. Avevo bisogno di spazio. Mi sono guardata intorno e ho visto Ivana. Ho visto Ivana in mezzo la gente. Ho visto Ivava alla Sagra della bagna cauda. Ho

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visto Ivana davanti a uno stand che intingeva una barbabietola dentro la ciotola di terracotta e poi la portava alla bocca. La stessa bocca che ieri mi aveva detto amore. La stessa bocca che adesso puzzerà di acciughe e aglio. La stessa bocca. Il pensiero mi ha fatto venir su da vomitare. E mentre vomitavo bagna cauda sul mio piccolo paesino inutile ho pensato al quattro novembre dell'anno prossimo, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Quando fuggirò via. Sola.

2008 DARK0 pensareadaltro@tiscali.it

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Racconto selezionato

Bigné [ GIANNI FASSINA ]

A

lle sette del mattino, puntuale come stabilito, la famigliona del dipendente pubblico Grassoni G. entrava

in autostrada diretta in una località di villeggiatura nota come "Cima Golosa ". La famigliona era composta dal padre, 150 chilogrammi, la madre 100, l'erede adolescente 80 ed un povero bastardino bianco e nero di nome Bigné con occhi talmente teneri e dolci, che i primi tre componenti, se lo avrebbero volentieri inzuppato in un caffellattone per colazione. Purtroppo, il suo destino era ben più tragico: essere abbandonato sull'autostrada, degna abitudine considerata in questi ultimi anni sport nazionale. Il “piccolo Euforbio“, il nome del bambinone, il cui acume era pari al suo peso, presto si era stancato di giocare con il

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cagnolino con grande soddisfazione di quest’ultimo, annoiato dai giochi troppo intelligenti ai quali doveva partecipare, era ritornato alla sua attività preferita: guardare la tv mangiando chili di nutella. Bigné l’avevano trovato l’autunno precedente, abbandonato da persone segretamente appassionate di pulizia, in un cassettone per la spazzatura differenziata, raffreddato e quasi morto di fame. Tutta la famiglia i primi tempi si era informata sugli usi e costumi dei cagnolini bastardi per far si che non gli mancasse nulla in special modo il cibo, ma alla fine col sopraggiungere dell’estate e del periodo di ferie, dopo una sofferta riunione, con saggia decisione, avevano stabilito di abbandonare il poverino. Giunti su di una piazzola deserta, mentre la donnona e il bambinone approfittavano della sosta per un piccolo spuntino con tre panini di salame a testa, l’omone scendeva dall’auto con il bastardino. Dopo aver giocato un po’ con lui, distrattolo un momento, risaliva sulla macchina abbandonando la bestiola al suo destino. Chi mai potrà descrivere lo sconforto, la tristezza che si disegnarono sul “volto” della povera bestiola? Chi potrà

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dipingere i suoi dolci occhi che parevano velati dal pianto nel veder l’auto allontanarsi? Giunti a pochi chilometri dalla località prescelta l’omone si rivolse alla donnona moglie: – Dammi la carta di credito che devo far benzina. La donnona, sudaticcia, cercava la carta nella sua capiente borsa. La carta non c’è… attimi di panico. – Come non c’è? – urlava l’omone – Sei sordo? – urlava la donnona – Pensavo che l’avessi tu. – E adesso? – Adesso si esce dall’autostrada, si ritorna a casa, si prende la carta e si riparte, cara la mia mogliettina! – Non vi è altra soluzione – concludeva trattenendo a stento l’ira. Il ritorno a casa fu un unico e lungo rinfacciarsi le responsabilità per aver dimenticato la carta. – Pensavo l’avessi prese tu – diceva la donnona – Ti ho chiesto un’ora fa se l’avevi e mi hai risposto di si – rispondeva l’omone.

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Avanti cosi per due ore buone, finché giunsero alla propria abitazione. Ci volle una buona mezzora, fra urla, insulti, rinfacciamenti, trovarla, ma alla fine uscì fuori di sotto una rivista “100 ricette per dimagrire presto senza soffrire troppo“. Ripresero l’autostrada allo stesso casello. L’omone aveva deciso che la spesa in più sostenuta per l’autostrada sarebbe stata recuperata su qualche acquisto annullato. Non specificando quale, madre e figlio si guardavano in cagnesco sospettosi. Era quasi mezzogiorno. L’appetito cominciava a pizzicare lo stomaco dei tre. Mancavano pochi chilometri al punto dove era stato abbandonato il povero Bigné. L’omone ricordava che poco prima della piazzola vi era un autogrill. Vi giunsero in breve tempo. Antipasto di salumi vari, tagliatelle al ragù, bistecca alla milanese, patate fritte per contorno, frutta un gelatone, tutto

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innaffiato, tranne il bambinone che beveva solo coca cola, da un buon mezzo litro di rosso. Ripresero il viaggio soddisfatti. Giunti alla famosa piazzola, all’improvviso sbucò il povero bastardino che corse verso l’auto dei vecchi padroni, forse riconoscendola e immaginando che fossero tornati a riprenderlo. L’omone mezzo assonnato per digestione lenta, se lo trovò davanti all’ultimo momento. Istintivamente sterzò per non investire la bestiola, ma la manovra fu fatale. L’auto senza controllo invase la corsia opposta centrando una seicento con a bordo due anziani coniugi. L’impatto tremendo non lasciò scampo a nessuno. I soccorritori e la polizia giunta sul luogo constatarono la morte di cinque persone. Sulla piazzola due cani, il bastardino ed un altro, quasi certamente appartenuto agli anziani coniugi, giocavano allegramente. © 2008 GIANNI FASSINA g.fassina1952@libero.it

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Racconto finalista

Contratto in tre atti [ ALESSANDRO MASCIA ]

Atto I: la telefonata

A

rnoldo Di Leo era accovacciato sul vaso ghiacciato del gabinetto quando trillò il telefono. Aveva atteso per

un'ora tonda quella chiamata. L’aveva aspettata trepidante, percorrendo a scatti il salone, perché il bisogno premeva. Avanti e indietro, dalla libreria alla credenza, dal tavolo al buffet. Veloce, a falcate brevi, infreddolito, le chiappe tese, il bisogno che premeva, premeva. E il telefono non squillava, mentre l'ora tutta si compieva. Dunque l'arresa. Guadagnò la soglia del gabinetto, rapido, a balzi. Calare le brache e sedersi: un tutt'uno. Primo trillo. Cavoli! Secondo trillo. Carta bidet salvietta. Terzo trillo. Cavoli Cavoli Cavoli! Calzoni e mutande su in blocco.

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Quarto trillo. Si precipitò a gambe levate verso l'apparecchio. Pant Pant Pant... – Pronto? Quando si dice giusto in tempo. La signorina stava per riattaccare. Figurarsi, con scribacchini in erba non si perde tempo. Ma la fiondata cozza cozza lungo il corridoio aggiustò le cose. – Pronto, sono la signorina Baldini della Aemme edizioni. – Oh! Sì Sì Sì, certo, è lei signorina Baldini… perdoni il fiatone… felice di sentirla. – C’e da mettere una firma sul… – La firma! – la interruppe Di Leo – Certo, arrivo subito subito subito. – C'è tempo. – C'è tempo?! – Gliel'ho appena detto. – Ehm...occhei, io però, se non firmo non dormo! – Come crede, sa dove siamo? – Sicuro, ho visto la mappa su internet, voi voi voi vi trovate nella piazza affianco all'Antica Merceria.

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– Bene a presto. – Arrivederci signorina, arrivederci... a tra pochissimo, il tempo di un niente e sarò da lei. C'era da aspettarselo – pensò indignato Di Leo – uno va al bagno e squilla il telefono. C'era da aspettarselo, poi con una telefonata così importante. – Uno ha ventiquattrore per andare al gabinetto, NO – borbottò indignato

– dico NO, proprio quando ti sta per

cambiare la vita ti ti ti... mah... lasciamo stare. Un bel contratto da scrittore meritava un bel vestito da scrittore. Vabbé prima del vestito la barba andava rasata ché un viso sbarbato è pur sempre meglio di uno irsuto, ispido e trasandato. La barba. Fischiettando nevrotico Di Leo imboccò la strada del bagno. Insaponata e taglio. Taglio e tagliò per davvero, incidendo il derma. Un rivoletto di sangue si fece spazio nel niveo della schiuma nuvolosa, solcandola. Cavoli! E chi poteva fermarlo. Sangue rosso rosso che il lavandino pareva uno scannatoio. Tentò di tamponare, carta igienica a rotoloni, bambagia qui e là a contenere lo scempio. Il vestito occhei non

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era un problema, camicia pantalone e mocassini. Camicia bianca e pantalone nero. – No no no! – strepitò Di Leo esecrando la scelta – Così conciato vado al bar a servire cappuccini. Meglio quella azzurra. Camicia azzurra e calzoni scuri. Ahh!! Da bigliettaio dell’ATM. Bah... metterò la camicia a righe. Vuoi mettere l'eleganza delle righe?

Atto II: l'intermezzo

L

e scale, Di Leo scese giù per le scale, tac tac tac. Rullo di tacchi lungo le scale. Con un paio di

mocassini che se non ci si bada, a guizzare come una saponetta sul marmo è un momento. Fretta fretta fretta. Due piani a velocità folle, vorticando tornò tornò alla tromba delle scale. Si spalancò la porta della gattara. Pettegole di quella razza se ne sono viste poche. Gattara bizzacca, mangia pane e notizie, pane e intrighi.

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– Signore, stia attento che non ci arriva all'Antica Merceria a quel modo. Stooop. Di Leo le si inchiodò davanti rorido di sudore. – A quel modo?... Quale modo? – Non corra, voglio dire. Dove va così di fretta? Eh? Dove va? – Ma signora... signora mia... – Di Leo tartagliò qualcosa, abbozzò un saluto e via tornò tornò alle scale, alla tromba delle scale. All'ultima rampa, quello del primo piano, Enzo, detto Patata, sessant'anni, quaranta passati al bar dietro l’angolo. Tutto intabarrato il beone da guinnes. Caracollava verso casa armeggiando con un mazzo di chiavi tintinnanti. Il tramestio dei mocassini in corsa, di Arnoldo Di Leo, era un vero fracasso. Patata scollò la faccia dalle chiavi per tentare di addossare gli occhi verso il discesista che stava per travolgerlo. Ma quegli occhi andavano per conto loro. Patata sollevò l'indice forse per iniziare un discorso o per calamitare lo sguardo su un punto fisso. Di Leo lo eluse prima che quello si risolvesse a emettere suono. E corse corse corse. Corse lungo l'androne.

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– Ma la macchina dov'è? – si domandò Di Leo amnesico – Dov'è quel trabiccolo che se oggi non parte ne vedrà delle belle. Un momento per la memoria. – Dunque. Ieri. Ieri. Dunque. Sono stato al market. Poi basta. Ho parcheggiato. Cavoli! L'ho abbandonata vicino al mare. Rigagnoli di sudore si insinuarono nell'alveo di alcune rughe precoci di Arnoldo Di Leo, valicando i confini delle labbra e offrendosi all'assaggio della lingua. Salata, brodaglia salata, grondante. Seduto sulla soglia di casa, il figlio dei vicini. Lardoso. Tutto intento a molestarsi la pianta del piede per estrarne una spina di riccio. Di Leo rovistò dentro la tasca a cercare un fazzoletto. Cacciò fuori un cencio di stoffa aggrumata. Il fazzoletto, in quella tasca da mesi. Lo sbrogliò, un disegnino qua e là, e tamponò fronte, viso, naso, bocca. Riprese a marciare spedito facendo schioccare i mocassini sul basolo, rapido rapido rapido. La macchina era tramortita dallo sforzo del giorno prima. Il viaggio al market l'aveva sfiancata. La canicola è canicola per

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tutti, anche per le macchine. Ghiò ghiò ghiò. Il vecchio ferro fece le bizze. Oooh! Cavoli! Vaticinio azzeccato. – Me la sono tirata la sfiga. – disse Di Leo stizzito – Me la sono proprio voluta tirare. Girò la chiave con l'ira che avvampava riscaldando tutti i circuiti meccanolettrici e ghiò ghiò ghiò ghiò vrooam vrooam. Accelerò a un milione di giri e i pistoni riempirono la testata di mazzolate. Dunque partì alla volta dell'editore. – Editore?! – Ululò Di Leo rinfrancato – Editore! Sto arrivando editore, arrivooo.

Atto III: dall'editore

U

n parcheggio, un porco parcheggio. Macché, a momenti nemmeno in doppia fila si trovava spazio.

D'un tratto si accese un lampeggiante arancione. – Sì sì sì! – esortò Di Leo esaltato – Dai bello che andiamo a firmare. Oggi mettiamo una bella firmetta al primo contratto da scrittore. Che ne sai tu di libri?! Su su su! Non attardarti che il

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tempo stringe. Starai tornando dall'Upim o da qualche altra gabbia di matti. Eh... io la conosco la gente come te: scialaquatore! Dai... bravo! Ecco, bravo! Occhei. Grazie grazie grazie. Vedi che alla fine la sfiga te la scrolli. Basta saper aspettare quei cinque minuti che lei ti succhia un po'. Tu in silenzio, zitto zitto, devi fingere che nemmeno ti si è attaccata. Zitto, buono, indifferente. E lei così com'è arrivata prende i piedi e se ne va. Di Leo scese dall'auto e si specchiò sul finestrino. Fece per stirare il cravattino nero e aprì un varco di sopra, tra nodo e colletto. Come rimedio strozzò il nodo provocando l’allungamento della fettuccia dietro la cravatta. Maledetta fettuccia, se la infilò nei pantaloni e via via via a mettere la firma sul contratto. L'editore si trovava al primo piano di un palazzotto adiacente all'Antica Merceria e tutt'e due gli stabili si affacciavano su una piazza intitolata a chissacchì. Pigiò il campanello e con un clic si schiuse il portone. Di Leo tirò su i calzoni e versò giù la giacca. Dunque dunque dunque. Al pianerottolo tutto era accogliente. La chenzia avvizzita ma bellissima, le pareti scrostate ma familiari, il neon lampeggiava

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una luce stanca, ora sì ora no, ora sì ora no. Flash di intesa, amiccamenti, quasi a dire vai vai vai... è il tuo momento! – Buongiorno, credo di aver parlato con lei stamattina. Sa, per la firma... – Mi ricorda il suo nome? – Di Leo. Arnoldo Di Leo. – Vediamo. Da Campo, Damiani, Dassi, Dedalo, Del Prete, Densi, Dicoli, Di Leo. Ecco la sua pratica Signor Di Leo. Deve mettere una firma per il trattamento dei dati. Con la testa che gli ronzava in un tripudio di scariche eccitanti non era mica facile firmare. Bisognerebbe andare da un editore a firmare un contratto – pensò Di Leo – per capire quanto non sia facile acciuffare una penna e vergare il proprio nome. Ad ogni modo estrasse una raffinata stilografica e vergò il nomecognome. – Grazie Signor Di Leo. A giorni saprà anche l'esito della commissione che sta valutando il suo romanzo. – Ah... il mio romanzo... la commissione che... valutando. Eh sì perché ancora...

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– Signor Di Leo la chiamerò io stessa appena avrò il responso dalla commissione. Ora mi deve perdonare. Arnoldo Di Leo uscì dall'ufficio e come colpito da barbagli di sole cocente si guardò intorno confuso. Una brutta chenzia ingiallita davanti a una parete dall'orribile pittura divelta. Tutto apparve per com'era. Avvilente. Perfino quel neon che nessuno aveva ancora aggiustato.

2008 ALESSANDRO MASCIA alessandromascia@hotmail.it

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Racconto selezionato

Racconto d’altri luoghi, d’altri tempi [ MATTEO OLIVIERO ]

Q

uanto sono basse le case di campagna, quel tetto spiovente sembra piegato contro una forza superiore. Chi ci vive

deve sembrare così piccolo, piccolo come il mondo può apparire. I panni stesi alla finestra, come sono liberi nel vento. Volteggiano come bandiere della vita e profumano di pulito come l’aria e il sole che respirano. C’è un’auto che passa sulla strada lontana. Solleva la polvere dalla strada grigia come il fumo. Ha un colore diverso dalla natura che la circonda, un colore stonato che la rende inutile come l’errore simbolo d’arte in un dipinto. Com’è sincero il sorriso di quella ragazza che ride e guarda me. Stesa all’ombra con un libro tra le mani. Si mantiene il vestito che il vento cerca di alzarle fino alla vita. Ha i capelli

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biondi e mossi come l’erba che volge tutta da un lato. Le sorrido e alzo una mano per salutarla, lei fa lo stesso e questa volta sono io a sorriderle. Le mando un bacio da lontano che parte con lo schiocco della dita fino ai suoi occhi e alla sua bocca. Lei ride coprendosi il volto con il libro. Continuo a pedalare. Ed ecco la musica che viene dagli alberi. Saluto quel giovane seduto che imbraccia la chitarra. La mano sventola sulle corde così lieve come le note che ne fuoriescono. Accanto a lui c’è una rosa. Mi avvicino e gli faccio cenno indicandogli l’albero dov’era la ragazza col vestito al vento. Mi sorride anche lui e raccoglie la rosa, la sua chitarra e va verso l’amore. Continuo a pedalare accanto ai bambini festosi. Giocano con una palla di pezza senza capire il senso della loro corsa. I bambini sono felici quando corrono, sorridono. Non si stancano, non si sforzano, sorridono fino alla sera quando dormono prima ancora di sapere cosa succederà e chi vivrà felice e contento per sempre.

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Le donne curve nei campi sollevano la testa e mi scrutano mentre scartano la frutta più genuina, quella che darà l’odore alla cucina. La salita è così ripida che sento la stanchezza nelle gambe. Accosto la bici e mi fermo a bere alla fontanella. L’acqua non cade dall’alto come in tutte le fontane, ma viene dal basso. Bevo sempre tanto a questo tipo di fontane. L’acqua ha una temperatura che sento fin nel cuore mentre scende. Riprendo la bici e continuo a pedalare per le strade del paese in cui sono giunto. Parte della frutta raccolta dalle donne è stipata nelle ceste di vimini in vendita al mercato. Mi avvicino e prendo una mela così rossa da sembrare una decorazione, una moneta dalla tasca e mille sapori in quel morso. Con le mani il bottegaio getta l’acqua sul pesce. Deve essere freschissimo, appena pescato. Sul porto girano ancora stormi di gabbiani, la barca ha attraccato da poco. Le donne entrano ed escono dalla chiesa, si dicono qualcosa e poi un saluto prima di continuare la loro strada. Tra poco suonerà la campana, quella che annuncia le dodici. Dodici rintocchi indietro nel tempo.

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Un giovane attende in strada che la madre vada via per la spesa e la messa. Una ragazza dietro l’angolo attende il segnale dalla finestra. Via libera… sorrido mentre sale le scale di corsa. Tra le stradine strette in discesa arrivo alla stazione. Chi va via, chi arriva, chi bacia il proprio amore, chi legge nell’attesa, chi cammina accanto ai binari, chi saluta con un abbraccio, chi con una stretta di mano. E quando passa il treno poi. Sembra enorme come una montagna. Non posso non guardare un treno che passa. Rocce scoscese sul mare mi fanno dondolare sulla bici. E’ infinito e di una miriade di colori e sfumature quel mare. I corpi immersi mi sembrano così piccoli dall’alto. Riesco anch’io a sentire la loro freschezza, il benessere di nuotare tra le onde. Di sentirsi avvolgere dalla spuma che scivola dagli scogli ad ogni onda. Più avanti c’è una coppia giovane, si tengono la mano e guardano il mare. Lui ha una macchina fotografica al collo, lei occhiali da sole e un cappello la cui tesa svolazza nel vento fino a… un soffio lo porta via verso il mare. Il fragore delle loro risate

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e un bacio. Mi chiedono di fargli una foto mentre si abbracciano come radici nella terra. Dietro hanno solo il mare e il cielo, così lontani eppure così simili e legati, proprio come un uomo e una donna. Chissà da dove vengono… chissà se gli piace il paese. Sembrano felici di aver vissuto tutto questo. Forse era da tempo che volevano vederlo. Forse era da tempo che anch’io volevo viverlo. E così posso farlo ogni volta che posso. Come una favola senza morale, come tutti i sogni senza incubi, come un ricordo senza nulla da dimenticare… come il racconto che ho vissuto.

2008 MATTEO OLIVIERO matteo_oliviero@libero.it

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Racconto selezionato

Teledipendenza [ STEFANO SANTARSIERE ]

S

fuggii al pomeriggio uggioso rintanandomi in casa del mio amico Massimo. Contemplava il caminetto; la fiamma che

guizzava tra le fascine accendeva un riflesso ondeggiante sulla sua faccia tetra. “Bè?” feci. “Ti è morto il gatto?” “Non ce l’ho il gatto,” mugugnò. “E se fosse morto sarei dispiaciuto, non preoccupato. Invece sono preoccupato.” “E perché sei preoccupato?” Mi rivolse uno sguardo obliquo, poi tornò a fissare il fuoco. “Sono tre giorni che Rocco si rifiuta di uscire di casa. Non capisco che cavolo gli è preso.” Si strinse nelle spalle e protese le mani verso il fuoco. “Sto cercando di ricordare se gli ho fatto qualcosa di male.”

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“Magari ha l’influenza.” “No, perché a scuola ci va. E’ solo che non vuole uscire con me.” Non era frequente vederlo così abbattuto, ma capivo la sua inquietudine. Rocco era il suo miglior compagno di avventure; con lui imbastiva le situazioni più assurde perché riusciva a farsi seguire in ogni strampalato progetto gli venisse in mente. Con me era molto più dura, e anche gli altri non erano sempre disposti ad assecondare le sue fantasie. Ma Rocco era il suo feticcio, il suo alter ego nelle scorrerie, negli esperimenti, nelle burle ai danni del mondo. Era insomma la mano da tenere mentre varcava la mitica soglia dell’età adulta. “Andiamo a casa sua,” proposi. “Vediamo che gli prende, così smetti di essere preoccupato e finalmente cominci a essere dispiaciuto.” “Sai che bel cambiamento,” borbottò sollevandosi dalla sedia.

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Al citofono rispose la madre di Rocco: appena sentì le nostre voci fece “Ah!” e aprì la porta. Ci venne incontro per le scale. “Meno male che siete venuti, speriamo che almeno voi lo fate ragionare quel disgraziato.” La casa era avvolta da un invitante profumo di cannella, molto appropriato per l’atmosfera autunnale e per l’umore di Massimo. “Sto cucinando delle mele al forno, se rimanete un po’ ve le faccio assaggiare” disse Maria sbrigativamente, e ci condusse in salotto. Massimo gettò un’occhiata verso la sala da pranzo da cui proveniva il rumore del televisore acceso; aveva intravisto Rocco seduto in poltrona. “Voi non avete idea!” esclamò la donna. “Passa giornate intere davanti alla televisione. Non si schioda nemmeno per mangiare! Solo per andare al bagno e per cambiare canale, perché il telecomando si è scassato. Se può, si alza una sola volta per fare le due cose insieme: va al bagno e al ritorno cambia canale.”

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Maria spiegò che ogni giorno, dopo la scuola, Rocco si piazzava in poltrona e iniziava la sua maratona televisiva: cominciava con i cartoni animati, Pollon Combinaguai e Holly & Benji, quindi i telefilm di metà pomeriggio e infine Happy Days; pausa cena con la Conquista del West su Telenorba, film in prima serata su Italia 1, horror in seconda serata su canale 5 il martedì oppure Colpo Grosso con Umberto Smaila sulla tv privata, il venerdì. E se ci scappava il filone a scuola, la maratona iniziava con i telefilm del mattino e includeva i programmi di cucina a mezzogiorno. “Fate qualcosa,” implorò Maria. “Sta diventando verde come una televisione spenta.” Ci precedè in sala da pranzo annunciando al figlio che eravamo lì a fargli visita. Rocco ci accolse con un sorriso stirato e senza staccare gli occhi dal televisore. “Che piacere uagliù! Benvenuti!” In effetti aveva una faccia terrea, come uno che stesse inconsapevolmente tirando le cuoia, ma mi sembrava anche un po’ più in carne.

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Esplosero delle pistolettate e una Ferrari sgommò a tutta saetta tra le palme di Miami Beach. Rocco saltò sulla poltrona “Marò! Stavolta se l’è vista proprio brutta!” “Si può sapere che hai?” disse Massimo. “Avanti, spegni la televisione e vieni fuori con noi. E’ una giornata bellissima.” Osservai la finestra. Da uggioso il pomeriggio si era trasformato in piovoso. Mi scoprii a pensare che non era Rocco quello ammattito. “Devo finire la puntata di Magnum P.I. Poi usciamo, state tranquilli. Intanto sedetevi. Mà, offri la tua limonata ai ragazzi.” Maria sospirò e aprì il frigorifero. Un tizio con una camicia a fiori e una coppia di doberman al seguito veniva incontro a Tom Selleck. Massimo fece una smorfia e si sistemò su una sedia di fianco alla poltrona di Rocco. “Dopo però usciamo. Non ho voglia di stare chiuso in casa.” “Ma certo!” Assicurò Rocco. “Ora zitto e guarda la televisione.”

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Maria ci servì dei bicchieroni di una limonata fatta in casa. Ne presi uno e mi sedetti anch’io. “Buona, eh?” Rocco mi strizzò un occhio appena assaggiai la bevanda. Era squisita e feci i complimenti alla madre. Massimo sorseggiava senza dire niente. Tutto in lui manifestava la sua impazienza di tagliare la corda; come stava seduto sulla punta della sedia picchiettando il piede sul pavimento; gli occhi che correvano di continuo verso la porta. Sui titoli di coda del telefilm si alzò di scatto. “Bene. Usciamo.” “Ehi mà!” gridò Rocco. “Sono pronte le mele al forno?” Maria rispose dalla cucina. “Le ho appena tirate fuori, ve le faccio assaggiare subito.” Massimo mi guardò terrorizzato. “E dai Rocco!” gemè. “Avevi promesso!” “Sì, sì, non ti preoccupare! Ma che fretta hai? La mamma si offende se non assaggi le mele!”

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Io posai il bicchiere vuoto sul tavolo e mi pulii con un tovagliolo di carta. Massimo scrollò le spalle, rassegnato. Maria apparve con un vassoio colmo di globi color bronzo che fumavano come minuscoli vulcani. Ci servì le mele su un piattino, mentre alla tv attaccava la sigla dei Chips e due poliziotti con occhialoni scuri e casco scorrazzavano in motocicletta per le vie di una metropoli americana. Infilai il cucchiaino nel foro in cima alla mela, ed estrassi la polpa attraverso una pozzetta di miele fuso. Fuori pioveva più forte. “Allora, che ne dite?” chiese Rocco. Stavolta anche Massimo approvò; Maria ci osservava orgogliosa. L’episodio dei Chips riguardava una falsa accusa di traffico di droga contro il fratello di uno dei protagonisti. Poncharello si stava prodigando per dimostrare la verità e scoprire il vero colpevole. Vidi che Massimo aveva finito la sua mela e guardava la tv con aria scontenta. Non insisteva più per uscire. Rocco mangiava lentamente, una cucchiaiata di polpa dopo l’altra, occhieggiando ora la tv, ora me e Massimo. La madre si presentò

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un paio di volte a recuperare i bicchieri vuoti e i gusci delle mele al forno. L’ultima volta chiese: “Ma non dovevate uscire?” Massimo allargò le braccia come a dire: e io che ci posso fare? All’ora di cena ringraziai Maria per la limonata e le mele (e anche per certi biscottini all’uovo che erano comparsi alla fine della puntata dei Chips, prima che attaccasse Happy Days) e me ne andai. Nei giorni seguenti il tempo peggiorò, si preparava un inverno lugubre. Se uscivo di casa mi ritrovavo ovunque in completa solitudine, per strada, al bar o al Circolo che fosse, a tremare di freddo e sentirmi più smagrito del solito. Così presi l’ombrello e mi recai a casa di Rocco. Maria mi accolse con la solita concitazione. “Vieni Stefano! Vediamo se almeno tu riesci farli ragionare.” Era comparsa una seconda poltrona accanto a quella di Rocco. Massimo stava finendo di sorbire la sua cioccolata calda. E in tv davano ‘L’incantevole Creamy’. 2008 STEFANO SANTARSIERE stefano@santarsiere.it

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PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA Copyright © 2008 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opere www.isogninelcassetto.it per l’editing online no profit info: redazione@isogninelcassetto.it I edizione in e-book ISNC-003PAB: novembre 2008 Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito. Questo non significa però che è del tutto libero: il download è consentito tramite una licenza CREATIVE COMMONS che completa il diritto d’autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire e riutilizzare l’opera (totalmente o in parte) a patto di citare sempre e comunque il nome dell’autore originario, l’indirizzo del sito originario e di non utilizzarla per scopi commerciali.


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