IT’S NOT A PHASE,MOM
the self explained issue n.1
curated by martina regoli
It’s not a Phase , Mom __________________ quarta di copertina
“It’s not a phase, mom” è un fanzine, un confessionale, uno spazio bianco, un diario che mensilmente offrirà la possibilità ad un designer emergente di raccontarsi e analizzare il proprio operato modificando queste pagine a sua immagine e somiglianza, facendo immergere il lettore nel proprio universo estetico, attraverso l’uso di immagini, disegni e racconti. “It’s not a phase, mom” è lo spazio che avremmo sempre desiderato da adolescenti, il diario dove scrivere tutto quello che sentivamo di essere, un posto dove piangere e arrabbiarci o sognare, messo sotto chiave in modo che la mamma non lo venisse a sapere.
È uno spazio molto personale, uno sfogo che questa volta vuole essere condiviso anziché nascosto. “The self explained issue” è il primo numero della serie, questa volta a cura di Martina Regoli, che ha iniziato il suo percorso nella moda all’istituto tecnico nel 2009 per poi proseguire con la laurea triennale presso lo IUAV a Venezia. In questo numero affronta il rapporto con la fase progettuale, esamina la sua final collection e ci racconta la sua storia e di come la plastica e le galline possano fare parte della sua visione della moda.
Regoli Martina Cognome e Nome_________________________ Corso di Laurea________________________ Design della moda Sessione di Laurea_____________________ 2016-2017 It’s not a phase, mom Titolo tesi____________________________ Relatore_______________________________ Monti Gabriele Abstract in italiano “It’s not a phase, mom” è il titolo della mia ultima collezione universitaria, ma anche quello della tesi che ne deriva. Si presenta come un fanzine autoprodotto che mensilmente ha lo scopo di analizzare il percorso, il metodo progettuale e l’operato di un designer (che in questo numero sono io), attraverso l’esposizione di tutti i fattori che hanno contribuito a creare in seguito una propria visione della moda. “It’s not a phase, mom” diventa quindi una autobiografia, un’auto-analisi che mette in luce quelle esperienze e sensazioni che oltre al percorso universitario hanno portato alla creazione dell’omonima collezione, oltre che fissare dei punti fermi nella mia concezione estetica. Si parlerà della mia infanzia tra giocattoli e galline, l’adolescenza alla scoperta del rock e delle più recenti influenze che mi hanno portato a sintetizzare il mio lavoro in tre parole: punk, plastic e fake. Per i nostalgici, amanti di biografie e pare mentali.
English translation “It’s not a phase, mom” is the title of my final collection, but also the name of my graduation project. It comes in the form of self-published fanzine that every month will analyze the journey, the design method and the works of a designer (which in this case is me), through the exposure of all the factors that contributed to the creation of a personal view of fashion. “It’s not a phase, mom” is also an autobiography, an introspective analysis that wants to highlight all the experiences and sensations that added to the university course led me to the realization of the homonym collection, besides fixing the key concepts of my aesthetic conception. You’ll read about my childhood among toys and hens, my teenage- hood discovering the power of rock music and my latest influences that brought me to synthesize my works in three key words: punk, plastic and fake. For the nostalgics, lovers of biographies and paranoia. 3
I N D I C E
Introduzione inizio delle paranoie/ le aspettative pagina 5 Capitolo uno prima l’uovo o la gallina? pagina 6 Capitolo due residui inconsci pagina 8 Capitolo tre rompere il guscio pagina 16 Capitolo quattro life in plastic is fantastic (?) pagina 23 Capitolo cinque offese utili pagina 30 Capitolo seiseisei it’s not a phase, mom pagina 36
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corso di studi: la collezione finale. Non c’è nulla di più liberatorio di avere il totale controllo del tuo lavoro. Finalmente nessuna restrizione. Sei libero. “Chi meglio di te sa cosa vuoi fare?” Tre settimane dopo hai: cambiato il concept della collezione almeno una decina di volte, il salotto è diventato il tuo studio, ma anche dove dormi e forse pure il bagno ha residui di riviste e disegni appesi alle pareti, la cucina è un atelier e tu sei in pigiama seduto in giardino, mentre con un pennarello in una mano e il blocco di carta nell’altra guardi le macchine passare e speri in un segno divino che ti faccia smettere di ripensare in loop alle solite cose.
Intro
____________________ inizio delle paranoie/ le aspettative
Quando sei uno studente di design della moda passi gran parte della tua vita universitaria a fantasticare, tra una cucitura e un cartamodello, a quell’evento che finalmente ti darà la possibilità di mostrare il tuo punto di vista in conclusione al tuo per-
“Mi rappresenta? È questo il messaggio che voglio dare? Lo sto trasmettendo adeguatamente? Posso fare di meglio? Lo hanno già fatto un capo simile? E se in realtà non stessi facendo niente di interessante e nuovo? Probabilmente è così, mi deve importare? E se aggiungo questo e tolgo quello? E se, già che ci sono, lo elimino dalla collezione? E se riparto da zero?” Magari non è stato così per tutti, ma per me sì.
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Capitolo uno
_______________________ prima l’ uovo o la gallina?
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Forse fino alla fine il significato che avrei voluto dare alla collezione non mi è stato chiaro. In un incessante flusso di domande, riflessioni sul tema e cambiamenti alla fine ho buttato giù più parole che disegni. Tuttavia, nonostante questo processo un po’ paranoico, quasi un flusso di coscienza, questo metodo poco accademico mi ha portato a delle scelte molto istintive. Tra i tanti capi d’abbigliamento che ho disegnato e le loro evoluzioni, alla fine ho prediletto quei disegni venuti di getto e senza troppi ripensamenti, a volte abbozzati su un pezzo di cartamodello o un tovagliolo del ristorante. Più che un metodo consolidato è stato simile a come quando vai in
pizzeria e sul menù ci sono tantissime opzioni, ma alla fine sei così indeciso che ordini la solita pizza. Non penso sia stata una mancanza di ricerca nel progetto, piuttosto un sollievo nel riaffermare qualcosa di familiare e collaudato. Sicuramente questa continua ricerca del capo perfetto, quello che esaudisse tutte le mie richieste progettuali per poi essere scartato subito dopo non è stata inutile, anzi è stata una sorta di viaggio rivelatore che mi ha portato inconsciamente a fare delle scelte rispetto ad altre, seppur eliminando talvolta idee più articolate o interessanti, che tuttavia per me non avevano quel valore che stavo cercando e quindi prive di significato. In questo modo sono riuscita ad analizzare i motivi che mi hanno portato a prediligere certe idee rispetto ad altre, delineando in questo modo i fondamenti sui quali si basa la mia idea di estetica e che, ho scoperto successivamente, fossero già parte di un percorso iniziato molto prima dell’università e che ha trovato le sue risposte, chiudendo un po’ il cerchio, nella realizzazione di quest’ultima collezione. Posso quindi dire che quest’ultima è stato il puro frutto delle mie esperienze di vita, quelle più segnanti come quelle legate alla mia infanzia, ma anche avvenimenti più recenti e talvolta meno importanti o effimeri. Fin
qui nessuna vera novità, dopotutto quale stilista non attinge dalla propria storia? Ciò che fa la differenza è l’unicità del proprio trascorso e la capacità di saperlo tradurre. Il mio intento sarà quindi quello di restituire un significato più elaborato alla mia collezione finale attraverso il racconto di tutte quelle scene della mia vita che mi caratterizzano come designer e come persona, spaziando dai cartoni animati alle mie band preferite, dalle mie avventure in campagna ai role models della mia adolescenza.
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Capitolo due _______________ residui inconsci
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Molto spesso ti limiti ad essere ciò che sei senza riflettere troppo del come sei diventato così. Sai che assomigli ai tuoi genitori perché sei il mix del loro patrimonio genetico, per certi versi tu sei loro e nessuno dei due. Inevitabilmente vedi cosa ti accomuna a loro sia esteticamente che caratterialmente. Forse ti hanno raccontato qualche aneddoto sulla loro gioventù, forse non ti hanno raccontato abbastanza, magari non li conoscerai mai così bene. In questo senso io sono figlia degli anni ’90, non li ho vissuti, ci sono nata nel mezzo, ma solo ora capisco quanto io sia un loro prodotto, inavvertitamente. Gli anni ’90 sono stati per me un’ incubatrice, che con l’effetto di una pubblicità subliminale mi hanno plasmato inconsciamente. Sento il senso di disagio di quella decade, ne avverto l’estetica, prediligo la sua musica: tutto il mio mondo sembra chiarirsi comparato a quella decade. E a sua volta questo periodo si giustifica con i gusti e le scelte delle decadi precedenti. Quindi guardo al futuro pensando ai problemi del presente, filtrandoli attraverso il gusto che mi ha lasciato il passato. Di quello che è stato il periodo della mia infanzia negli anni ’90 non ho ricordi come il grunge, i concerti dei Nirvana o le Spice Girls e neppure della cultura rave. Il mio principale
impiego era giocare con la Barbie, convincere mia madre a comprarmi quelle scarpe con platform per ragazzine stilose che vedono nelle pubblicità o cercare di guardare di nascosto “Xena la principessa guerriera”, che a me sembrava l’emblema della donna forte e senza paura, ma che non era vista allo stesso modo dalla mia famiglia che di conseguenza l’aveva censurata. Ripensandoci guardavo cose ben peggiori di quel programma. Passavo le giornate a guardare Cartoon Network e adoravo programmi come Cow and Chicken, Scooby Doo e le Powerpuff Girls (quindi una mucca e un pollo che mangiavano sederi di maiale mentre un generale dalle braccia di würstel li comandava, ragazzi che in un trip di acidi smascheravano fantasmi e tre ragazzine che a suon di calci, pugni e femminismo ripristinavano l’ordine in città) o giocavo a Tomb Raider. Nel libro “Fashion, Desire and Anxiety” la scrittrice Rebecca Arnold definisce la protagonista del gioco, Lara Croft, come “the continued fascination for violence with stylish, eroticised face” e trovo che questa frase incarni perfettamente il tipo di persona che vorrei vestire attualmente. Sono sempre stata più attratta dai personaggi tosti e che di solito avevano un mi feriva, ruolo marginale. Per esempio, se giocavamo a far finta di essere le 9
Powerpuff Girls tutte volevano essere la leader dai capelli rossi e il vestito rosa, o la superchicca bionda e dolce dal vestitino azzurro, ma io volevo essere quella vestita di verde, con il caschetto nero e lo sguardo truce. Volevo così tanto essere quella tosta e sarcastica che in terza elementare proposi alle mie amichette di “fare le bulle”, senza neppure saper bene cosa significasse, inutile dire che mi risero in faccia. Poi decisi che per essere più tosta di loro avrei dovuto iniziare a suonare, ma non il violino o la chitarra, che erano “troppo da femminucce”. Decisi di suonare la batteria, che all’età di 10 anni mi sembrava una scelta davvero anticonformista e inusuale. Allo stesso tempo però facevo danza, che era una cosa decisamente da bambina. Più tardi mollai la classica per passare alla danza contemporanea, che era decisamente meno “tutù e frivolezze” e più “dramma e collant neri”. Grazie al mio interesse nel cercare di essere diversa dagli altri è normale che non avessi molti amici. I bambini non apprezzano mai troppo chi è diverso da loro e se sei una mela marcia o non indossi le scarpe con i glitters probabilmente non ti vogliono neppure fare salire sullo scivolo. Ovviamente la cosa mi feriva, e li invidiavo, ma poi mio padre mi ricordava sempre di “non guardare gli altri, usare la testa e seguire 10
la mia strada: sii originale”, motto al quale tengo tuttora.
I miei genitori
lavoravano nel campo della serigrafia. All’inizio l’azienda era un piccolo insieme di locali al primo piano in un edificio in centro al piccolo paese nebbioso dove abito. Quando ero piccola ci andavo spesso. Dopo una rampa di scale spoglie, si entrava in quella che sembrava una piccola hall dove ad attenderti c’era una serie di mobili da studio in plastica e metallo grigio, dei poster di quadri di Dalì, che mi hanno sempre un po’ spaventata e una piccola rampa di scalini ricoperti di plastica rossa a bolle. Mi piacevano un sacco, ma non avevano nessuna destinazione. Dall’ingresso si passava in un’altra sala piena di computer e aggeggi tecnologici, sempre di plastica grigia, per poi arrivare a un’altra stanza che ricordo buia, illuminata solo da luci led fastidiose e piena di tavoli sui quali poggiavano strane pinze metalliche, tubi, arnesi e barattoli di gelatine colorate. Era meglio se non stavo lì, era pieno di cose taglienti, pesanti e nocive, ma a me piaceva tantissimo. Giravo là dentro armata di un righello metallico (che usavo come spada) alla ricerca di pennarelli strani, pellicole trasparenti, nastro adesivo rosso o per guardare il tessuto che andava a ricoprire i telai metallici per la serigrafia.
Una delle mie parti preferite era quando i miei genitori dovevano pulire i telai sporchi di colore: li mettevano in una sorta di vasca dove poi con un forte getto d’acqua lavavano via i residui. La cosa entusiasmante stava nel vedere la parete retrostante, che con il tempo aveva preso delle sfumature color petrolio creando un disegno astratto e vagamente inquietante, decisamente tossico. Se penso all’odore di casa o a quello dei miei genitori direi solvente, caffè e cavi elettrici. Se fossero un rumore sarebbero quello stridulo e lamentoso che fa la spatola quando si spalma il colore gelatinoso per eseguire la stampa. Ricordo che ogni volta che i miei genitori venivano a prendermi all’asilo avevano sempre
un odore artificiale, come se fossero stati imballati nella plastica, ma non come Laura Palmer, più come dei giocattoli nuovi. Mia mamma aveva sempre dei pezzi di nastro adesivo incollati alla maglia, sua madre invece aveva sempre dei fili o degli spilli.
Elvira, mia nonna, era una
sarta. Stavo da lei la gran parte del tempo e quando non cucinava o non doveva confezionare abiti, provava a insegnarmi a cucire, fare la maglia, ricamare. In realtà non ho mai imparato molto. Di solito andava così: lei mi spiegava cosa avrei dovuto fare, avviava il lavoro, io provavo a conti11
nuarlo, poi lei si spazientiva perché non lo facevo bene o perché sembravo svogliata e alla fine lo finiva da sola. Non provavo grande interesse nel ricamare a punto e croce un insieme di angioletti, non quando potevo andare nel suo studio e mettere in disordine l’armadio dei tessuti. Tiravo tutto fuori dai cassetti e mi arrotolavo le stoffe addosso o le spillavo sul manichino. Poi guardavo nella scarpiera alla ricerca di scarpe con il tacco, quelle di cui mia nonna era gelosissima. Cercavo sempre di provarmele di nascosto e certe volte mi cadde pure la scarpiera addosso. La cosa che amavo di mia nonna, oltre al suo profumo di briciole di pane e laboratorio sartoriale, era la sua capacità di arrabbiarsi sempre con i “ragazzacci” del parco. Aveva sempre qualcosa da ridire e di sicuro non se lo teneva per lei. La chiamavano maresciallo. Non penso le piacessero neppure dei manichini di un negozio un po’ alternativo che era vicino al parco: avevano la cresta o gli spikes e facevano linguacce mentre si atteggiavano arrogantemente nella posizione in cui li aveva messi la commessa. Ovviamente mi affascinavano tantissimo e quel tratto di strada lo facevamo sempre velocemente. Mia nonna mi portava spesso al parco e al negozio di giocattoli. In uno dei parchi c’era una voliera sempre 12
piena di canarini, era vicina a una fontanella. Ogni volta c’era sempre qualche bambino che li infastidiva, gli lanciava l’acqua , a volte dei sassi, ma una volta in particolare un bambino conficcò un rametto nella testa di uno degli uccellini, era giallo e pieno di sangue e non capivo il motivo di un gesto così violento e immotivato. Al negozio di giocattoli compravo sempre le scarpe per le mie bambole. Si trovavano in mezzo a tutte le altre cose rosa e da bambina, sul lato sinistro del negozio mentre a destra c’era il lato blu e verde, per i bambini, pieno di mostri, robot e macchine. Peccato ci fossero pure tutti i giocattoli di Star Wars, non lo trovavo giusto. Allora chiesi a mia nonna se le bambine potessero giocare ugualmente con i giochi dei bambini. Pensavo mi avrebbe detto che siamo due generi diversi, che non possiamo fare le stesse cose, che le bambine sono fini e delicate, invece mi disse che tutti i bambini possono usare qualsiasi gioco. Ero confusa, ma contenta della risposta.
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Elide, invece, era mia non- Dafne (a.k.a. Elisabetta), na “quella di campagna”. oltre ad essere una sorta di sorella Una volta faceva la magliaia, ma io l’ho sempre e solo vista preparare crostate, leggere Famiglia Cristiana o innaffiare il giardino. Ho passato pochissimo tempo con lei nella mia infanzia, benché abitasse nella porta accanto alla mia. Ero quasi intimorita da lei e dal suo gatto. Non capivo bene cosa dicesse a causa del dialetto e della dentiera, aveva sempre uno sguardo severo e al contrario della mia nonna “di città”, sempre vestita bene, con la permanente e le scarpe eleganti, lei non faceva troppa distinzione tra i vestiti per la campagna e quelli per uscire. Tranne quelli della domenica, quelli erano sacri. Se penso a lei, me la immagino con la gonna in pied de poule, le ciabatte, i collant color carne un po’ scesi, la camicia rossa in flanella e il cappellino da pesca azzurro a fiori hawaiani mentre trapianta l’insalata nell’orto. Era piena di cicatrici, come un soldato o un pirata. L’ho sempre definita ruspante, forse perché la associavo alle sue galline. Avevo paura anche di quelle. Avevo paura di un sacco di cose. Per fortuna mia cugina in questi casi era sempre al mio fianco.
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maggiore, era anche la mia mentore. Per me era super cool. Era come Joey di Dawson’s Creek, ma con la maglia degli Slipknot, la cintura piena di borchie e il basso elettrico in mano. Aveva quella tipica arroganza che gli adolescenti usano per rimarchiare le ovvietà che gli adulti dicono e il look alla Joan Jett. Frequentava il liceo artistico in città e di conseguenza tutto quello che faceva era molto più interessante delle solite cose noiose che capitano nei paesini di campagna, dove la novità è vista come qualcosa di negativo. Volevo ogni cosa che aveva: i capelli lunghi davanti alla faccia, ascoltare quello che ascoltava lei, fare quello che faceva lei e avere il suo atteggiamento. Ovviamente non me lo permettevano, ma comunque lei mi addestrava: mi istruiva sulle band, mi parlava di arte e mi insegnava a disegnare. Quando ci annoiavamo uscivamo a trovare mia nonna che era sempre nell’orto dietro casa. A volte la aiutavamo, ma non sempre erano lavoretti piacevoli, specialmente quando includevano le galline. A volte mentre cercavo mia nonna mi imbattevo nelle galline appese a testa in giù per le zampe, con il san-
gue che andava al cervello, gli occhi rossi, silenziose, ma appena mi avvicinavo iniziavano a dimenarsi e io scappavo. Spesso assistevo alla loro morte. Mia nonna sempre seria, lo sguardo di chi ha vissuto la guerra, senza un briciolo di compassione nel volto, per lei era normale. Io mi sentivo a disagio. Una volta la vidi con il suo grembiule di plastica marrone mentre spennava una gallina, ne fui cosĂŹ traumatizzata che corsi immediatamente da mia madre e le chiesi se poi la nonna avrebbe rimesso le piume al loro posto. Mi sembrava una cosa cosĂŹ violenta e nessuno sembrava minimamente preoccupato.
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Capitolo tre _______________ rompere il guscio
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Pomeriggio, salotto della nonna. Dopo una mattina alle scuole medie, stanca dei soliti cartoni sul 6, cambio sul canale degli adolescenti fighi: Mtv. Un uomo dai capelli lunghi e la bocca enorme flirta con una serie di donne in camicia da notte salutandole da una decappottabile mentre percorre lentamente la strada di un quartiere di belle case all’americana. I capelli cotonati, la tuta leopardata, la bandana in testa. Era Steven Tyler nel video di Ragdoll e io ero scioccata: mai nulla nella mia vita fino a quel momento aveva catturato cosÏ tanto la mia attenzione. Io vivevo ancora nel mio innoquo
mondo alla Sandy di Grease, con le mollette a farfallina nei capelli e l’ombretto rosa con i brillantini sugli occhi, fin quando questo tizio irrompe nella mia vita a dirmi “smettila di giocare con le bambole e inizia a guardare i ragazzi, quelli con i capelli lunghi, mi raccomando”. Da quel momento non solo iniziarono tutti i miei problemi di cotte per ragazzi che brandivano uno strumento musicale, ma capì che il rock era molto meglio di andare a catechismo, usare la bicicletta o giocare a nascondino e diventai una devota, inginocchiata davanti al televisore, che brama la proiezione di Dani California o un’angelica apparizione di Axl Rose. Patetico? Forse. Può andare peggio di così? Decisamente. Anni dopo, pomeriggio: avrei dovuto sparecchiare la tavola, lavare i piatti e mettermi a studiare, invece come solito ero stesa sul divano a guardare la televisione. Annoiata dai video commerciali pieni di sederi a ritmo latino e gruppi emo punk che di punk non avevano nulla, cambio su RockTv. Era l’anticristo, il nemico, il male. Già anni prima aveva cercato di dissuadermi, ma sopra un giornalino avevo letto che probabilmente si sarebbe impossessato della mia anima o mi avrebbe convinto a iniziare un
massacro a mano armata a scuola se solo lo avessi ascoltato. Invece quel giorno decisi di dargli una possibilità, guardai il video. Non vidi nulla di più di un ragazzo che cantava alla sua bella una canzone romantica e struggente. Lei con gli occhiali a cuore, un po’ come Dolores Haze. Tutto molto romantico se non fosse stato per la cascata di sangue e l’incidente stradale mortale che concludeva il video. Fui colpita dal fatto che per l’ennesima volta la gente si sbagliava, giudicava un libro dalla copertina o un uomo dal cerone bianco. Era affascinante vedere come le persone non vanno spesso oltre all’immagine, tuttavia ogni volta che io lo facevo scoprivo sempre qualcosa di importante e che mi avrebbe probabilmente appassionato. Non doveva essere quello cattivo? Iniziai a studiarne i testi delle canzoni, guardavo le interviste, cercavo articoli, blog, immagini, guardavo i video. Il messaggio mi era chiaro: non si trattava di sacrificare neonati, satanismo o inneggiare al suicidio, ma di mettere in faccia alla gente la verità dell’alienazione data dalle televisioni, l’assenza di compassione, il bigottismo e il fanatismo. “Cos’è davvero buono? E cosa davvero cattivo? Pensate con la vostra testa”. Tutto ciò mi aprì davvero la mente, tutto mi era molto più chiaro. Marilyn Manson era dalla mia parte. 17
Mi colpiva che avesse dedicato la sua vita, compreso il lato estetico a diventare il veicolo del suo messaggio. Volevano fosse il nemico e lui si atteggiava come tale, volevano essere scioccati e lui non li deludeva, gli ponevano domande difficili per metterlo alle strette, ma lui rispondeva con un’inaspettato e tagliente savoir-faire. Faceva il loro gioco e li metteva in ridicolo. Come per tutti gli adolescenti con l’ombretto nero sugli occhi bisognosi di avere un punto di riferimento, lui era il mio. Era una persona che aveva sempre cercato di integrarsi in una società che sembrava fatta con lo stampino a forma di “tipico college dei film americani”: le cheerleaders, i giocatori di football, i nerd, i gotici. Devi essere biondo, abbronzato e con il sorriso splendente per essere considerato o quantomeno non subire l’ira dei bulli. Ma tutto questo non faceva per lui, Brian non ci stava, non voleva fare parte del solito gioco, voleva smetterla di essere wormboy e diventare qualcosa di più, magari l’anticristo. Mi entusiasmava che non omologarsi potesse portare a un’elevazione tale; la diversità non era motivo di imbarazzo, anzi di considerazione. Questo mia ammirazione nei suoi confronti, il fatto che qualcuno di così fuori dal comune avesse successo con la propria personalità come arma e una buona 18
dose di intelligenza mi faceva sentire libera di scegliere chi essere. Solitamente quando qualcuno passa vicino a un istituto professionale verso la chiusura può notare uno stormo di cloni avviarsi verso la fermata dell’autobus. Non sono esattamente luoghi dove esprimere la
propria personalità, vi è perlopiù un costante e sotterraneo sentimento di disagio che ti porta a desiderare il paio di skinny jeans che hanno tutti, la felpa di una certa marca o le scarpe nike perché altrimenti sei out. In realtà magari nessuno viene a dirti direttamente che sei uno sfigato o che se indossi qualcosa di diverso
sei un esibizionista, ma fa parte del meccanismo: tu pensi che gli altri pensino questo di te. Si chiama adolescenza, avere un brufolo in faccia, farsi la coda ai capelli e pensare che siano orribili anche quando non lo sono, comprarsi il parka anche se non sai cos’è, perché scegliere qual-
avevo da bambina di essere una ragazza tosta che pensa con la sua testa. Ma il tempo delle Powerpuff Girl era ormai alle spalle. Ormai non passavo più i pomeriggi nell’azienda dei miei genitori a giocare con le bambole, invece sfogliavo i libri che tenevano in ufficio, specialmente quelli sulle pin-up, la raccolta di opere di Andy Warhol e Hundertwasser; libri che apro tutt’ora alla ricerca d’ispirazione. Mi incantavano gli outsiders, persone come Warhol e anche quella strana innocenza, quasi plastica, le pose finte delle foto di Bettie Page o l’iconicità in decomposizione di Marilyn Monroe. Adoravo le persone controcorrente e la maggior parte delle volte questi esseri leggendari si manifestavano sotto forma di rockstar, punk, scrittori e nei miei amici, seppur meno iconici.
La bassa. cosa di diverso ti farebbe notare e farsi notare è, come abbiamo già detto, da esibizionisti, ed esserlo ti fa sentire fuori luogo e inadatto. Ero stanca di questo meccanismo, volevo essere come Brian, senza però vestirmi come uno dei KISS , volevo solo fregarmene. Sentivo ancora quel desiderio che
In realtà eravamo un gruppo di semplici ragazzi di campagna. Non aspiravamo ad andare in discoteca a fare i fighetti, preferivamo piuttosto scoprire case abbandonate nel bel mezzo della campagna o accendere un falò in giardino, bere un paio di birre mentre qualcuno suonava la chitarra. Ogni sabato andavo nei piccoli locali della zona dove 19
le band dei miei amici si esibivano. Erano belle serate, molto semplici. Si conoscevano altri musicisti, si comprava un disco o una maglietta per sostenere il festival o il gruppo locale e, immancabilmente, si beveva una birra. La musica era il vertice della nostra adolescenza.Se non eravamo a qualche concerto, ci ritrovavamo per discutere di musica o sentire le prove di qualcuno. All’inizio i miei amici suovano prevalentemente pop/punk o hard rock, poi la situazione si evolse in generi sempre più precisi e interessanti dal post punk al math-rock, l’elettronica o il folk, il funky o il jazzcore. Ogni cambio di genere segnava un cambio di formazione della band e anche un cambio di interessi. Ogni genere ti faceva approfondire un attitudine e uno stile di vita, se così si può dire, e noi ne eravamo partecipi ma senza cambiare radicalmente le nostre personalità. Non facevo parte di una di queste band, tuttavia per me il fatto che quasi tutti i miei amici suonassero e si ritrovassero per questo motivo mi faceva sentire parte di una sorta di famiglia. Eravamo il tipico gruppo di amici che a 90 anni ritroveresti al solito bar del solito paesino mentre giocano a carte, se non fosse stato per il terremoto, che il bar ce lo ha poi distrutto. In realtà aveva distrutto tutte quelle poche cose che avevamo 20
per divertirci e che facevano parte dei nostri ricordi: la scuola elementare, la chiesa, le case abbandonate, il bar. All’improvviso eravamo senza un posto dove stare. Ci fu come una fuga verso il mare e passammo un’estate di disagio vivendo nelle tende in giardino, o in appartamenti lontani da casa. Fu dispersivo, caotico, ci prosciugò sia in banca che nello spirito, ma riscoprimmo, come se fossimo stati in un bel film, il senso di comunità e l’arrangiarsi con quello che rimane. Fu un’estate bellissima e strana, tuttavia nulla fu più come prima. Tornando a casa la nostra vita era incorniciata da macerie, ma la musica era sempre intatta e più forte di prima. Ho sempre ammirato come nella mia zona, la bassa, la musica abbia sempre avuto un ruolo rilevante a livello sociale. È un posto dove le idee fermentano, si nota un senso di coesione e sostegno tra tutti gli artisti ed è qualcosa che anche da spettatore e amico ti fa sentire coinvolto e ispirato. Crea una atmosfera speciale nel territorio, ti fa sentire orgoglioso.
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Capitolo quattro ________
Life in plastic is fantastic (?)
‘I love Los Angeles. I love Hollywood. They’re so beautiful. Everything’s plastic, but I love plastic. I want to be plastic” A. Warhol Lo so, lo so, vi starete probabilmente domandando perché io vi stia raccontando di case abbandonate, amici e birre quando si dovrebbe parlare di moda. Tutto ciò può non sembrare rilevante, tuttavia penso che ci siano delle strette connessioni tra le esperienze della mia vita, un accumulo di sensazioni diverse che poi si manifestano sotto forma di gusto personale e quindi anche nel mio modo di pensare la moda, ma anche vederla come una questione più importante della sola creazione di vestiti e più come lo sviluppo di un’idea con una sua etica. Infatti la questione etica iniziò a presentarsi l’anno seguente ai fatti che vi stavo raccontando, mi colpì come uno schiaffo in faccia una mattina di maggio nella quale mi svegliai e
illogicamente sentivo che sarei dovuta diventare vegetariana. Sinceramente, ancora non me lo spiego, non so perché ad un tratto decisi che era la cosa migliore, ma aveva senso e lo ha tuttora. Era come se fossi stata cieca fino a quel giorno e ad un tratto riuscivo a vedere quanta violenza, spreco, degrado ci fosse nel sistema consumistico. Era ed è un sistema sbagliato, malsano, costruito sull’arricchimento a discapito di tutto quello che di bello abbiamo nel mondo: la cultura, le tradizioni, la natura, i diritti umani e non solo. Non mi ero mai resa conto di quanto cambiare dieta potesse influire su tutto il resto e di quanto in realtà il sistema moda sia strettamente collegato a quello dell’allevamento e dell’agricoltura. Quindi per la prima volta dovetti affrontare la questione moda vs. etica. Era difficile. Dovevo abbattere la vecchia me per iniziare a creare solo capi organici in lino tinti naturalmente e cuciti a mano? Dovevo essere ipocrita e fregarmene continuando a usare pellami, plastica e stampe inquinanti? Non scegliere la prima strada, quella forse più estremista, ma giusta, era egoismo; scegliere la seconda era continuare a essere ciechi, ma fedeli a se stessi. Anche pensare che la pelle fosse peggiore di quella finta lo era, non sapevo come bilanciare i miei vecchi interes23
vi. C’era una parte giusta e una sbagliata in entrambi i sistemi. Inoltre, benché cercassi di informarmi il più possibile su quali materiali fossero più coerenti con i miei gusti e la mia voglia di non distruggere il pianeta, era comunque difficile reperire certi tessuti particolari o anche solamente avere più informazioni su cosa stessi comprando data la disinformazione dei negozio “specializzati”, che al massimo sapevano decifrare, con l’aiuto di un accendino, la composizione e non sempre la tipologia di un tessuto. Non mi arresi nella mia ricerca di una stabilità tra il mio gusto personale e quello che penso sia un bene generale, tuttavia rinviai il mio giudizio. Mi lasciai il 24
tempo di capire, studiare e provare diverse cose, ma sempre puntando un occhio all’altra direzione. Come studente e quindi come privato, spesso vorresti fare delle cose, ma per ragioni che possono essere la mancanza di soldi o la reperibilità di certi materiali nella zona dove si abita, può essere difficile realizzare esattamente quello che si vuole. Tuttavia l’università può essere un luogo perfetto per sperimentare con le proprie risorse, quasi come chiudersi nel proprio embrione creativo, sviluppare se stessi e lasciare per un momento certe questioni da parte. In questo modo mi sono confrontata anche con materiali che non avrei pensato di usare, come i pellami, ed
è stato utile per conoscerne le caratteristiche e le tecniche di lavorazione poiché solo avendo questo tipo di conoscenza si può in seguito cercare qualcosa che vada a sostituire certi materiali o addirittura progettarne di nuovi e più funzionali. Dopo aver letto “Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo” di William McDonough e Michael Braungart ho capito che non basta impegnarsi a sostituire, riciclare, poiché in realtà è solamente un rimandare la morte di un oggetto confinandolo sotto terra. La morale del libro potrebbe essere “meno Male non è meglio” in quanto l’intento non è di progettare qualcosa in modo che semplicemente adempia al suo compito primario in quanto oggetto, ma di fare qualcosa che sia un buon prodotto a 360°, che rispetti in tutte le sue fasi (dalla produzione, l’estrazione dei materiali, l’utilizzo e infine la sua morte ) i termini di ecosostenibilità senza nuocere a nessun essere vivente e non, basti pensare alla morte del suolo. Pensate a una bottiglietta di plastica: il suo scopo primario è quello di contenere un liquido, avere una certa resistenza, essere maneggevole e non contaminarne il contenuto. Se pensiamo brevemente a quale materiale possa essere adatto a queste richieste, la plastica ci appare come la soluzio-
ne migliore date le sue caratteristiche. Nelle nostre mani può durare 5 minuti o forse una settimana, se ci impegnano a riutilizzarla, poi viene buttata e può essere riciclata con un processo decisamente inquinante o venire sepolta per i prossimi 100 anni inquinando comunque. Ormai per noi è la norma pensare di poter progettare oggetti a breve termine, trovando le soluzioni più facili e a buon mercato, tuttavia sono anche quelle soluzioni poco meditate e su larga scala che ci stanno portando alla rovina. Penso di essere diventata, specialmente dal punto di vista progettuale, ancora più incontentabile dopo aver letto questo libro. La moda per me è sempre stata un’azione fluida, una risposta breve dettata dal mio istinto, ma ora non può più bastarmi: non sono qui sul pianeta per distruggerlo. Cos’è più importante: creare una gonna dal taglio e dai volumi interessanti o fare la stessa cosa impegnandosi anche a fare in modo che sia sostenibile per l’uomo e per l’ambiente? Ormai per me la progettazione con lo scopo del bello è superabile se alla base non c’è anche l’impegno nel rendere le cose migliori per tutti, il che per me è un concetto bellissimo, quanto anche uno scoglio massiccio da dover superare, tuttavia necessario e al quale 25
non sono purtroppo ancora riuscita ad arrivare. Specialmente nella mia ultima collezione universitaria, dove la parola plastificazione è un stata un concetto chiave. Da un lato la plastica è un materiale che mi affascina, mi attrae e le sue diverse consistenze e forme mi suscitano diversi ricordi e precise sensazioni, dall’altro lato è una sorta di nemico. È come una torta per un diabetico. La plastica non è solo un materiale è un concetto, è storia moderna, una dichiarazione di intenti e per molti anche un modo di vivere. Chiariamoci, con plastica comprendo tutte le voci che potreste trovare sul dizionario: può essere PVC o gomma, ma anche ciò che riguarda il modellare. Perché mi interessi deve avere certe caratteristiche che, come già detto, penso possano essere collegate emozionalmente a delle sensazioni della mia infanzia come l’odore della gelatina e i coloranti della serigrafia o i giocattoli, specialmente quelli che riproducono oggetti del mondo degli adulti e rifatti però a misura di bambino (cucine finte, set per diventare una principessa, macchine, pistole) che creano un piccolo finto mondo colorato e semplice, spesso kitsch. Tuttavia mi interessa anche il ruolo di cambiamento sociale che i materiali plastici hanno effettuato nella storia della moda. Dapprima erano utili 26
contro le intemperie o addirittura considerati salubri e igienici, finché non diventarono uno dei più comuni elementi fetish conosciuti. Gomma, latex e PVC iniziarono in seguito a salire sulle passerelle: prima sotto forma di abiti d’avanguardia per la ragazza dello spazio e tempo dopo come elementi estremamente sensuali e provocatori presi dal BDSM, traendo ispirazione dalle proposte che la subcultura punk aveva sdoganato nelle strade. La plastica, kinky o giocosa che sia, gioca un ruolo fondamentale nella creazione degli scenari dove ambientare le storie che ispirano i miei progetti sulla moda. Solitamente si rifanno ad ambientazioni sospese e futuristiche, spesso al limite dell’apocalittico, dove i personaggi-muse vivono in una condizione di attesa. Sono mondi statici, ossessivi, anestetizzati e distrutti dall’uomo, dove i protagonisti cercano una via di fuga. Per essere più precisi, provate a immaginare se il fotografo Miles Aldridge avesse diretto Blade Runner, il tutto miscelato con qualche film in cui compare Rose McGowan, come Jawbreaker o The Doom Generation. La plastica associata ad un luogo ha per me lo stesso effetto di indossare un esoscheletro rigido, costrittivo e non proprio piacevole, ma dove in realtà ti senti protetto e al sicuro. Un amara consolazione: è
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scomodo, ma sono protetto. In realtà è sono un modo per rifugiarsi dal mondo esterno ed estraniarsi. Ed è a questo punto dove che i miei scenari della moda in realtà non sono più fantasie dettate da stimoli esterni o vecchie sensazioni, ma diventano un riflesso della mia realtà, del mio subconscio e il progetto inizia a diventare auto-analisi e terapia, uno sfogo, una manifestazione dei miei sentimenti.
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Capitolo cinque ________ offese utili
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Non mi ero mai sentita così bene, così capace di potere realizzare ciò che volevo, qualsiasi cosa fosse, ma una nuova energia mi scorreva dalla testa ai piedi. Ero felice, stanca, ma felice. Sveglia presto, prepararsi, lavora, lavora, lavora, (se puoi) mangia, esplora, vai al pub, conosci gente, torna a casa tardi e ripeti. Londra mi aveva dato una nuova prospettiva, una nuova energia e avevo tutta l’intenzione di usarla al meglio per concludere l’ultima parte del mio percorso di studi. Era il mio parco giochi personale. Poi però tornai alla realtà. Fine dei giochi. Appena scesi dall’aereo e rividi la solita nebbia, la campagna spoglia, sentivo che quell’energia se
ne era andata. Ero come una versione dai capelli viola di Alice nel suo Paese delle Meraviglie, incantata e confusa da quel mondo magico e perfetto che aveva lasciato alle spalle per tornare alla realtà. Era come se avessi aperto gli occhi dopo un bel sogno lucido per finire in un incubo. Inutile dire che ero decisamente triste, affranta. L’unica cosa che mi dava forza era il pensiero che sarei tornata là il prima possibile. Mi sbagliavo. La positività, la gentilezza e quello spirito speranzoso e curioso dei londinesi, che tanto mi aveva insegnato in così poco tempo, aveva lasciato il posto agli sguardi dall’alto in basso, l’ansia e la rassegnazione dei soliti italiani, me compresa. Le stesse caratteristiche che in Inghilterra erano motivo di complimento nei miei confronti ora erano solo aspri giudizi sul mio conto. “Ma l’hai vista quella?!” Passai tutto l’inverno a fantasticare sulla mia collezione finale, ma quando arrivò il momento di presentare la bozza del progetto mesi dopo, tutto quello a cui avevo pensato era improvvisamente diventato orribile, non all’altezza, patetico, stupido, già visto. Decisi di ripartire. Non volevo semplicemente un tema da sviluppare, una palette di colori armonici e studiati per esserlo, non volevo sembrasse qualcosa studiato per la vendita. Volevo che semplice-
mente tutto il processo partisse dalle mie necessità. Presi tutte le immagini che avevo sul computer e feci un moodboard. Lo chiamai “Ossessioni”. Bettie Page, opere di Warhol, foto brutte della mia faccia, copertine di punkzines, Marilyn Manson, oggetti di plastica, Iggy Pop, colori acidi e violenti, foto di negozi di Londra, Johnny Rotten. Era un riassunto del mio piccolo mondo, dall’infanzia alle più recenti influenze. Le parole chiave erano: punk, fake, plastic. Ora avevo dei riferimenti, ma non sapevo ancora che direzione seguire.
Punk Ho sempre pensato che il punk fos-
se una cazzata, ma mi incuriosiva. Gente pompata che non sa suonare, ma è cool perché sono controcorrente, con le creste blu e il chiodo di pelle. Mi sbagliavo, davvero tanto. Una vita a sentire i soliti stereotipi come “i sex pistols fanno schifo, non sanno neppure suonare, erano solo un fenomeno da baraccone, per questo sono famosi” e mi ero riempita la testa di concetti preconfezionati. Malgrado la mia attrazione per il movimento punk non avevo mai compreso quanto potesse essere in realtà importante per comprendermi. Non ho mai avuto l’intenzione di etichettarmi, nemmeno da adole31
scente, di fare parte di una subcultura come gli emo, i goth o anche i dark poiché ho sempre pensato che fosse per delle persone che hanno bisogno di regole e di sentirsi appartenenti a qualcosa. Tuttavia, se togliamo lo stereotipo del “senza una vera personalità” il punk non è solo un modo di vestirsi o un atteggiamento, se per questo non è neppure morto diventando mainstream, è solamente invecchiato come un buon vino tramutandosi in messaggio che per me è: libertà. Prendetene e mangiatene tutti, in pratica. Iniziai a capire che il punk fosse qualcosa di simbolicamente importante nella mia vita a Londra, dove tra i colletti bianchi e il costante odore di cibo nelle strade, riesci ancora a percepire una qualche vibrazione, un’energia particolare, un menefreghismo benefico che ti permette di liberarti da certi meccanismi mentali, andando in giro ad occhi aperti come per cercare un segno archeologico della subcultura. Inoltre conobbi Bruno, cantante punk del gruppo The Rejects, band di fine anni ’70. Mi sentivo come i bambini che allo zoo vedono un vero Panda in via di estinzione. Mi presentai: “Are you the infamous Bruno Wizard? Peter told me about you”. Mi baciò sulle guance, e mi chiese chi ero e cosa volevo fare nella vita, risposi che dovevo finire gli 32
studi, ma che il mio sogno nascosto era fare una band e lui rispose che avrei potuto fare qualsiasi cosa, che neppure lui era bravo a suonare ma che il suo strumento erano le parole. Dopo quell’incontro ci tenemmo in contatto e mi raccontò in prima persona la sua vita tra Londra e il Chelsea Motel, del perché diventò punk, della sua infanzia, dell’eroina, e di come a distanza di tempo era tornato alla musica dopo un periodo come senza tetto. Così iniziai le mie ricerche per eliminare gli stereotipi che avevo in mente sulla subcultura punk. Finché non mi ritrovai per le mani l’autobiografia di Johnny Rotten, personaggio che avevo sempre sminuito, il cantante dei Sex Pistols, quelli esibizionisti. Fu una rivelazione, posso ora considerarlo come una sorta di Messia. Indipendente, furbo, tagliente, faceva della libertà il suo punto di forza. Una persona onesta, specialmente con se stessa. Non ha mai avuto un chiodo di pelle, ha buttato tutti i suoi vestiti da “punk”, non si è mai tagliato la pelle o infilato una spilla da balia nella guancia. Era puramente se stesso. Per la collezione finale ovviamente molta dell’ispirazione scaturì anche da questo libro e dalle ricerche collegate a questo movimento e ai suoi protagonisti: Nina Hagen tra le prime, Iggy Pop (precursore del punk), Poly Styrene, The Slits, 33
Richard Hell e i protagonisti della scena newyorkese e quelli, come Siouxie Sioux, di quella londinese. Rebecca Arnold definisce lo stile dei punk come “ a desire for intensity, a sense of frustation, and the use of clothes as a prime form of personal and political expression. […] This desire for intensity and immediacy spoke of disgust”. In queste parole ho rivisto esattamente quello che avrei voluto comunicare e come avrei voluto farlo all’interno della collezione. Dopotutto le prime parole che scrissi come concept furono: “Il fallimento è l’elemento che concatena tutte le fasi della mia vita”. Negativo? Sì, forse, ma come si fa a trovare una soluzione se non si ha un problema? Perché ci si vuole migliorare se non pensiamo di essere i peggiori? Come si fa una collezione senza stimoli? Io volevo che la collezione fosse un urlo, quello che non potevo fare con la musica, quello che gli espressionisti avevano fatto con la pittura, uno schiaffo visuale e aggressivo come una pubblicità subliminale, una denuncia, un fastidio per gli occhi come una luce puntata nel volto. “Perchè non inserisci un chiodo di pelle, visto che tu hai il punk come parola chiave della collezione?” Perché non è punk. Perché non è vero. Perché non dice nulla di 34
personale, ma solo “guarda come sembra punk”.
Plastic & Fake Benché io abbia già parlato della
mia ossessione per la plastica, qui parlerò esplicitamente del significato che ha assunto nella collezione. Benché Rebecca Arnold definisca il PVC e la gomma come materiali “no longer viewed as deviant or perverse” e benché io li veda più accomunabili all’idea di giocattolo e come una sorta di condizione mentale tradotta in immobilità e senso di costrizione sociale coperto da un perbenismo superficiale lucido e colorato, innocuo come una caramella gommosa, trovo che in realtà questo materiale non sia ancora accettato nel suo complesso come qualcosa di normale e scaturisce ancora perplessità ai più. Viene probabilmente percepito come grossolano, non elegante e volgare, scomodo. Per questo trovo fosse adatto allo scopo di trasmettere quelle emozioni violente e contrastanti tra il disagio e la felicità forzata della collezione. Dapprima immaginai che i personaggi fossero come dei burattini, delle principesse appese a fili elastici, intrappolati in un esoscheletro che evidenziasse i loro punti deboli. Da subito non avevo notato
come questo in realtà fosse uno sfogo a tutte quelle critiche e offese che mi erano state fatte nella vita: “Perchè sei rigida”, “Perchè non sorridi?”, “Perchè sei arrabbiata?”. Et voilà, ecco una collezione basata su rigidità, scontento e rabbia repressa. Penso che la collezione si spieghi
ne (non intenzionale) cadendo così nel grottesco. Diventa un immagine quasi disturbante, un avvertimento. Fake, falso, contraffatto, va spesso a coincidere quando si parla di plastica e scenari. Come per una pistola giocattolo, il significato reale si nasconde sotto la falsificazione che rende innocuo l’oggetto. Questo principio lo applico ai miei lavori. La plastica rende inermi e innocue le cose che creo. Anche il tessuto in realtà non è pvc, ma diversi tipi di tela di cotone plastificati successivamente. La falsificazione inoltre sto anche nella semplificazione, stereotipizzazione di un oggetto. Deve essere funzionale, avere il minor numero di pezzi ed essere percepito come semplice. Benché ami l’eccesso, talvolta il trash, e nel periodo post-Londra fossi attratta dai lavori di Vivienne Westwood e degli studenti della CSM, che mi stavano indirizzando verso capi più strutturati, sovrapposizioni e agglomerati di tessuto drappeggiato spesso basati su capi storici, lasciai perdere tutto per concentrarmi sulla semplificazione degli abiti per renderli più facilmente riconoscibili, come una pubblicità. Pochi elementi, forti, riconoscibili.
bene se paragonata a un giocattolo che possiedo da quando sono piccola, un aeroplano di plastica viola e blu con a bordo Topolino, decapitato. Topolino è un icona culturale, è pop e kitsch, vive nel suo mondo di divertenti sventure e mantiene il Se vuoi fingere di essere forte e agsorriso pure dopo una decapitazio- gressivo penso non ci sia nulla di
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meglio che evidenziare le spalle, come i giocatori di football americano o come insegna il power dressing negli anni ’80, ma anche evidenziare i fianchi e il seno rende questi elementi visibilmente femminili e sensuali in un elemento prorompente e celebrativo. Un’ulteriore semplificazione sta nell’appiattimento degli abiti, che vuole ricordare la facilità del vestire una bambola di carta o i cartelloni pubblicitari dei sandwich-man. La scelta dei colori è stata importante poichè dovevano essere pochi e accattivanti. Dovevano fungere da trasmettitori di un messaggio in modo che gli abiti potessero sembrare un manifesto, ma allo stesso tempo come presi dal mondo dei giocattoli o dei cartelli stradali. A parte il giallo e il nero, colori che insieme trasmettono forza, energia, ma anche pericolo, ho scelto l’associazione tra rosso e verde. Sono entrambi colori brillanti e ricchi di significati comuni: il rosso è associato alla passione, all’amore e alla sensualità; il verde alla natura, la calma e la freschezza. Tuttavia la combinazione di entrambe, come nella sigla di Twin Peaks, vengono avvertite in maniera differente, ricordando un semaforo e quindi una situazione di pericolo. Creano un contrasto contraddittorio (vai/fermati, libero/occupato, buono/cattivo) e sono fasti36
diosi, quasi irritanti insieme, spesso definiti un “abbinamento di cattivo gusto”. Forse tuttavia li ho scelti inconsciamente dopo aver visto una serie di film dove l’uso delle luci comprendeva spesso quelle verdi e rosse: The doom generation, Natural Born killer, persino in Antichrist Von Trier scrive il titolo dell’opera su una superficie verde marcia con quello che sembra una gesso rosso, come a simboleggiare che qualcosa di terribile stava per accadere.
Capitolo seiseisei ________ it's not a phase, mom
Il primo vestito che mi venne in mente ricordava forse più una cimice, anche se in realtà volevo fosse come i vestiti delle principesse che disegnano i bambini, sterotipato, con lo scollo a cuore e i fianchi barocchi. Ci misi delle bretelle di elastico in modo che il vestito potesse stare largo ma comunque sospeso, quasi come il vestito stesse sostenendo la persona che lo indossa, come un burattino tirato su dai fili. L’ultimo vestito non era neppure stato abbozzato, ma arrivò nella mia testa così semplicemente che dopo tutti gli sforzi nel cercare un ultimo grandioso pezzo per concludere la collezione, decisi che era quello giusto. Avete presente l’ultima scena del film Carrie lo sguardo di satana, ripresa anche in Jawbreaker, dove a un prom una ragazza nel suo bel vestito da ballo viene ricoperta di sangue? Ecco. Tagliai un altro abito da principessa, questa volta argento, come uno specchio per vedere chi siamo davvero, uno scafandro metallico, ma questa volta più grande, piatto. Ci stampai delle scritte rosse colanti come il sangue, con le critiche che mi avevano fatto male, per ricordarlo agli altri. Un’abito umiliante: “I am a meaningless attention seeker, an arrogant loser, what did you expect?”
Decisi che la collezione si sarebbe chiamata “It’s not a phase , mom” come quella tipica frase che i ragazzini adolescenti dicono ai genitori per dimostrargli quanto il loro stile o la loro personalità sia qualcosa di autentico, anche se spesso non lo è, ed è davvero solo una fase. Volevo un titolo lagnoso, adolescenziale, che incarnasse una persona che si sente speciale a discapito del resto e spera di esserlo per sempre nonostante le critiche e le umiliazioni. Una persona che si veste in maniera aggressiva, un combattente fragile dentro, che ha bisogno di una forza esterna, una corrazza. Anche nello shooting volevo che venisse fuori una certa fragilità e tristezza nonostante i colori brillanti e lo styling che puntava all’aggressivo. Quindi si pensò di ambientare i modelli in diversi contesti provinciali (nella cameretta, al supermercato, in strada) dove il loro look andasse a creare un contrasto con l’ambiente realistico e che quindi li mettesse in evidenza come degli intrusi. I modelli quindi erano persone che crescendo avevano mantenuto il loro motto ( “non è una fase, mamma!) e si erano adeguati al loro contesto sociale sebbene in cuor loro ne desiderassero uno adatto a loro. 37
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Bibliografia
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Editore srl, 1997
Rebecca Arnold, Fashion, desire and anxiety, I.b.Tauris, 2001 Michael Braungart, William McDonough, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blue edizioni, 2003
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Azienda dei miei genitori, riprese originali: https://www.youtube.com/watch?v=LiBVxBbFZBo
Sitografia Videografia
Analisi sul rosso e verde, Twin Harald Hellmann, Nina Sch- Peaks: midt, Pin-ups, Cologne ,TA- http://www.dugpa.com/forum/viewtopic.php?t=3473 SCHEN, 2002 Terry Jones, Vivienne Westwo- http://welcometotwinpeaks.com/discuss/twin-peaod, TASCHEN, 2012 ks-part-12/the-importanRobert Klanten, Adeline Mol- ce-of-colours-symbolism/ lard, Matthias Hübner, Behind the Zines. Self-publishing Cultu- Analisi di “The doom generation”: re, Prestel Pub, 2003 http://thoughtsonstuff.blogJohnny Lydon, Keith Zim- spot.it/2006/03/doom-genemerman, Rotten: No Irish, No ration.html Blacks, No Dogs, London, ArImmagini cana, 1994
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Marilyn Manson, Neil Strauss, Long hard road out oh hell, Foto d’archivio, collage e illustrazioni, rielaborazioni persoSperling and Kupfer, 2003 nali a cura di Martina Regoli; le Gianni Mercurio, Daniela Mo- foto di personaggi famosi prese rena, The Andy Warhol Show, quà e là tempo fa su tumblr.com e youtube.com Milano, SKIRA, 2004 Valerie Steel, Fetish, Meltemi 44
UNIVERSITÀ IUAV DI VENEZIA DICHIARAZIONE DI CONSULTABILITA’ O NON CONSULTABILITA’ DELLA TESI (da inserire come ultima pagina della tesi/elaborato finale)
Martina Regoli 282116 Il/La sottoscritto/a ………………………………………….matr. n. ...……………. Il/La sottoscritto/a ………………………………………….matr. n. ...……………. Il/La sottoscritto/a ………………………………………….matr. n. ...…………….
Design della Moda laureando/a/i - diplomando/a/i in ………………………………………………... III 2016-2017 sessione ………………………… dell’a.a. …………….…………. DICHIARA/DICHIARANO
che la sua/loro tesi dal titolo: “It’s not phase, mom” …………………………………………………………………………………………. ………………………………………………………………………………………….
X è consultabile da subito
potrà essere consultata a partire dal giorno ………………….. non è consultabile (barrare la casella della opzione prescelta)
09-03-18 data …………………..
firma ……………………… firma ……………………… firma ………………………
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In conclusione vorrei ringraziare: attention seeker she’s a slut arrogant fake why don’t you smile? you’re so rigid
me stessa, per essere da sempre l’ostacolo maggiore della mia vita; i miei genitori, per avermi sopportata e sostenuta fino ad ora; mia sorella, che non fa parte della tesi, ma della mia vita; Simone, Maria Andreea , Matteo V. e Matteo C. per essere sempre stati il terzo occhio che mi controllava e un aiuto; Elide, per essere stata un osso duro e un rifugi, mi manchi; Elisabetta, per essere stata una delle influenze maggiori nella mia vita; Il mio relatore, Gabriele Monti, per l’aiuto datomi e per avermi definito “suora laica sotto effetto di acidi”, l’ho apprezzato molto; IUAV per essere stata una sfida e un’opportunità; a tutti i miei amici, a Patrizia, a Jil, alla mia girl gang dell’università (Martina, Ylenia, Camilla), i miei ex coinquilini (Ilaria, Matteo, Katia); alla gang dello shooting, ovvero Chiara Rigato per le splendide foto, Giulia Pastorelli e Michelangelo Cestari per le pose. Grazie 46