AMARCAKDE
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gianlorenzo barollo Clubzahir.blogspot.com cristina de milato cristinademilato.blogspot.com direzione editoriale massimiliano zazzi
via galleria fanzago 19 24121 bergamo 035247984 EDITORE, fumetteria e scuola di fumetto
www.comixrevolution.com REDAZIONE@COMIXREVOLUTION.COM FACEBOOK: COMIXREVOLUTION stampa a cura di: stamperia edcom bergamo - via
© 2012 gianlorenzo barollo © 2012 ComiXrevolution stampato in italia nell’ottobre 2012
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Gianlorenzo Barollo
AMARCADE RICORDI E FANTASIE DELLA PRIMA ETA’ DEL VIDEOGAME
TESTI DI GIANLORENZO BAROLLO ILLUSTRAZIONI DI CRISTINA DEMILATO UNA PRODUZIONE COMIXREVOLUTION E ASSOCIAZIONE A&F
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SOMMARIO .........................................................................................4 PRIMA VISIONE ............................................................................................7 YING,YANG E PONG .....................................................................................9 THE HARDER THEY COME: SPACE INVADERS ..............................................14 LA MINACCIA GIALLA: PAC MAN .................................................................21 IN UN GUSCIO DI NOCE: ASTEROIDS ..........................................................28 L’ENIGMA DELLA MENTE: QIX ...................................................................33 LA LUNA IN UNA STANZA: LUNAR LANDER..................................................38 LA GUERRA DI PIERO: GYRUSS ....................................................................41 DEDICATO AGLI “OTTOMANI”: DEFENDER .................................................45 IL SEGNO DI SAKNUSSEN: DIG DUG ...........................................................48 GASATO & SBIELLATO: SPRINT E GRAND PRIX .............................................51 TI PRENDO E TI PORTO VIA: GALAGA .........................................................54 L’UOMO E LA SCIMMIA: DONKEY KONG ....................................................59 L’ARCA-DELL’AMICIZIA: SCRAMBLE...........................................................64 3D REVOLUTION: ZAXXON ........................................................................68 UN DÌ VEDREMO: TIME PILOT ....................................................................72 LÀ IN MEZZO AL MAR: SEA WOLF ..............................................................77 TRE PER UNO: MOON CRESTA ....................................................................80 THE SFIGA RULES: Q*BERT ........................................................................83 L’ULTIMA GUERRA: MISSILE COMMAND ....................................................86 BALZELLON, BALZELLONI: FROGGER .........................................................90 MA LE GAMBE.... JUNGLE HUNT ................................................................93 YOU ARE IN THE ARMY NOW: BATTLE ZONE ..............................................96 ULTIMI CENTESIMI ...................................................................................100 ARCADE REWIND
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INTRODUZIONE
IL PERCOME E IL PERQUINDI L’adrenalina frizzante della sfida e il dolceamaro del ricordo sono i sapori di questo piccolo racconto, che si insinua nelle pieghe soffici della giovinezza a cento lire per riscoprire le lusinghe tentatrici dei videogiochi da bar. E’ l’epopea degli antichi arcade che hanno contaminato l’immaginario della prima generazione elettronica italiana, una breve stagione pennellata dalla freschezza del sense of wonder e dalle lusinghe di un mondo migliore, popolato di avventure virtuali, ma ricco di emozioni assolutamente reali. Benvenuti nel magico tour!
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ARCADE REWIND
A
ttenzione, questa burrosa madeleine non si gusta col tè. Non siamo nel salotto buono e polveroso della zia e neppure in compagnia d’un ciarliero lupo di mare su un battello che si gode l’imbrunire cullato dalle placide correnti del Tamigi. L’arena dei nostri ricordi è costellata di frizzanti schermi tv, fregi illustrativi dai colori squillanti, è irta di cavi serpentini, pulsanti e manopole tentatrici. Siamo nell’Arcadia della prima generazione dell’intrattenimento elettronico, quella che in Italia fece da sottofondo allo spartiacque tra gli anni ‘70 della politica a mano armata e gli anni ‘80 dell’edonismo reaganiano. E i protagonisti siamo noi che negli angoli ombrosi dei bar di periferia ancora impregnati dall’odore di cicche e dalle litanie dei jukebox ci misuravamo con le prime febbri dell’era videoludica. L’amico Proust potrebbe insorgere reclamando la mancanza di stile ma non ne avrebbe le ragioni perché, a dispetto dell’armamentario di cavi e prese elettriche, ciò che conta adesso nel nostro modesto racconto è proprio il piccolo interruttore della memoria: una levetta che, naturalmente e in totale economia, è piazzata nella nostra testa. E allora per attivare il circuito della nostalgia potrebbe bastare un clangore metallico, una posata sfuggita di mano, a ricordare il suono di una moneta da cento lire infilata nel grembo di un colorato cassone. Un suono inconfondibile, subito seguito da un singulto o un gargarismo di ringraziamento: “glub”, “wargle”, “firulin”. Ossequi onomatopeici in videolingua che ci ringraziano per aver scelto la ditta. 6
Il compagno Conrad allora potrebbe obiettare che il racconto di un’avventura non può essere una fredda sequela di “zero” e “uno” e neppure ricomporsi sulla liscia superficie della tela catodica dimenticando lo spessore delle linee d’ombra. Seguendo un consiglio di tale portata davvero non basta spulciare cronologie e cronache per narrare la stagione degli Arcade, perché il senso autentico dell’avvento resta imprigionato nell’entusiasmo sognante di una generazione elettronica in erba, una generazione affascinata dal prodigio di un fittizio “dialogo” con intelligenze artificiali più che dalla spiegazione tecnica. Come giustificare l’esistenza di quei puntini gialli senza gambe che divoravano pillole energetiche? Da che galassia spuntavano le potenti astronavi sputapiselli? Domande secondarie poiché allora l’urgenza era dettata dal gioco. Dovevamo ribattere a suon di record e centinaia di monetine da cento alla sfida che ci veniva proposta da un ignoto villain, un distante avversario con un irritante sorriso stampato sulle labbra. Non avevamo anticorpi per le lusinghe dell’arrembante marketing, o meglio, per le allettanti sirene del “nuovo” che ammaliano la gioventù d’ogni epoca. Facciamo allora come il capitano Marlowe e, buttata l’ancora, lasciamoci pure carezzare dal fiume del tempo stappando in compagnia d’amici una preziosa bottiglia d’amarcord. Sul volto le cicatrici degli eventi, nel cuore briciole dell’entusiasmo che fu. Ma non sarà un racconto di tenebra. Anzi il cammino ci condurrà in una foresta di luci e colori tali da gareggiare con i neon che tappezzano i boulevard di Las Vegas. Questa storia infatti, per dirla con Rod Serling, apre una porta ai confini della realtà per affacciarsi sullo sterminato panorama della realtà virtuale, una dimensione che oggi non corre più su un binario parallelo, ma entra ed esce dalle nostre vite, ne fa parte a pieno titolo. 7
E a volte sa diventare la sede dei nostri interessi primari. Negli anni ‘70 del secolo scorso fa le magie di internet e della comunicazione senza confini erano di là da venire, le possibilità di svago e interazione offerte da Second life, Command & conquer e dai Sims erano a pannaggio della fantasia di pochi visionari scrittori di fantascienza (ricordiamo i muri tridimensionali di Fahrenheit 451 immaginati da Ray Bradbury o le scatole empatiche di Philip K. Dick). Eppure schivando perfidi missili e balordi fantasmini, noi imberbi videogiocatori intuivamo un mondo nuovo, un mondo che forse i produttori di ”armadietti mangiasoldi” non capivano ancora, un mondo tutto da inventare, ben oltre la lapidaria scritta “Game Over”.
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PRIMA VISIONE
I
n principio erano i ritrovi da cui stare lontani, raduni per aspiranti alcolisti, dove dietro coltri di fumo imperavano i bestemmiatori della briscola. Erano circoli politicizzati, metterci il naso significava sottoscrivere una muta adesione ideologica. Poteva essere il ritrovo dei socialisti, ma tranquilli, nulla a che vedere con wonderboys craxiani del garofano rampante. Nella polverosa provincia della Bassa, la “Milano da bere” era un distante miraggio e il Circolino, al massimo, si pavoneggiava di un tavolo da biliardo verde fiammante più che dei punti percentuali dell’”onda lunga”. Poteva essere il baretto dell’oratorio vigilato da suore armate di sguardi affilatissimi e leste nel sottrarti il resto monetario delle sudate rotelle di liquirizia a beneficio di qualche ignota missione africana. Oppure un locale disimpegnato ma leggermente a la page, dove gli sfattoni del paese ordinavano bianchini appellandoli con la leziosa dicitura di “aperitivi”. In principio era questo lo scenario dei bar, povero e settario. Di scarso interesse per manipoli di ragazzini che preferivano fabbricare interminabili “giocate” nei cortili di casa armati di una fantasia che difficilmente troverà eguali. Spiego l’azzardo: il nostro immaginario di young generation era sottoposto per la prima volta dal dopoguerra a una tale quantità di suggestioni che ci consentiva di “navigare” con grande libertà da uno scenario ludico all’altro, anticipando ciò che oggi è diventato il “caricamento” di un videogame. Scontri con plotoni nazisti, complotti di supercattivi, blitz della Swat, tutto avveniva nelle nostre teste collegate in rete live and wireless. 9
Inutile cercare nella memoria la pagina riferita alla prima comparsa in paese di un arcade. Un pioniere di sicuro ci sarà stato. Probabilmente qualche esercente che già trafficava in calciobalilla e flipper e magari s’era stufato della fauna dei biliardisti. Assidui consumatori, sì, di caffè e Campari, ma anche vocianti e molesti, quando non inclini alla pratica della scommessa illecita che, se giungeva all’orecchio del maresciallo, poteva arrecare noie con la locale istituzione dei carabinieri. Così, su dettatura dei piazzisti, sbarcano - in prova - i primi “cassonetti” da gioco. Immagino fosse una versione a colori dello Space invaders, forse un Lunar lander, tanto per saggiarne la capacità d’assorbire le monetine della clientela. Poche settimane di rodaggio riempiono i forzieri e nell’arco di pochi mesi il contagio si diffonde : ogni bar propone all’occasionale avventore il suo game-corner, mini sale giochi che formicolano principalmente di ragazzini appena teenager. Il passaparola viaggia tra compagni di scuola, di banco in banco, da classe a classe, magari durante l’intervallo: si disquisisce con descrizioni approssimative, spiegazioni smozzicate. Mancano i termini di paragone, la faretra degli aggettivi contiene ben pochi dardi. Ancora una volta è l’immaginazione a imporsi, a costruire ponti tra i racconti lasciati in sospeso, interpretando mute gesticolazioni, montando colori e forme a volontà dove non restavano che spazi bianchi, non numerati. Tanto che quando s’arrivava a destinazione, faccia a faccia col video, la prima meraviglia era scoprire la differenza tra il crepitante impasto dei bit concepito oltreconfine e l’ardito costrutto siglato dalla nostra fantasia a briglia sciolta.
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YING, YANG E PONG
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n singolo schiocco in tono basso, gentile, come la bacchetta abbandonata sulla pelle tesa del tamburo. Tre istanti scarsi e, se tutto va bene, giunge la replica: identica. E’ la lingua primitiva del Pong, primo gioco dell’era dei videogame. Un linguaggio elementare che però subito distingue sonoramente gli “armadi elettronici” dagli altri giochi da bar: gli scoppi legnosi della pallina del calciobalilla e le argentine scampanellate dei flipper. Frugando nei miei ricordi penso d’avere avvistato il primo monolitico Pong su qualche rivista piuttosto che dal vivo, in “video e scossa”. Scrutavo con avidità la foto cercando di comprendere come funzionasse, ma nell’articolo ci si contentava di strombazzare l’eccitante anticipazione dell’ultima mania targata stelle e strisce. Il Pong appariva ai giovani d’allora come un oggetto misterioso prodotto della superiore ingegneria americana, l’ulteriore dimostrazione che sul piano della scienza gli Usa potevano bagnare il naso a qualsiasi trovata del blocco sovietico. Del resto chi aveva messo piede sulla Luna? Non certo i cosmonauti griffati falce e martello. Noi ragazzetti filoamericani eravamo cresciuti a pane e cowboys, invaghiti delle divise dei nordisti e delle gesta dei combattenti per la libertà incarnati dal colosso pistolero John Wayne. E su questo filone di freedom from the States, il Pong, per quanto lineare e spartano, faceva intendere che l’autostrada a stelle e strisce della modernità in salsa elettronica era percorribile da tutti col pedaggio di una misera monetina. 11
Ma torniamo un attimo sulla Terra, visto che in concreto lo scatolone che faceva impazzire le folle consisteva in un televisore infilato in un cabinato di legno. Il comando era costituito da un paddle, ossia una manopola un poco più scorrevole di quella della cucina a gas di mammà. Insomma l’opera di un freak dell’elettronica, Nolan Bushnell, il primo a intuire il potenziale economico del gioco in video, ma come spesso accade ai pionieri - chiedetene qualcosa a Colombo e Meucci -, non fu in grado di godere in pieno i frutti della sua scoperta/invenzione. Per avere un’idea dell’impatto causato dalla comparsa dei primi coin op bisogna paragonarlo a una invasione aliena, del tipo Dalek in Doctor Who. All’improvviso ti ritrovi negli angoli più spogli e polverosi delle ammiccanti macchinette che ronzano misteriose. Il loro sguardo è in bianco e nero, i tratti somatici abbozzati, di una geometria rudimentale. Eppure mettendoci le mani sopra non puoi non avvertire il brivido d’essere entrato in un’altra dimensione. Sì, per certi versi una realtà più povera della nostra, una sorta di Flatlandia, la terra priva della profondità. E’ un mondo astratto eppure essenziale. Nella contrapposizione delle due linee in perenne contesa si inscena una legge del regno iperuranico, nella sorte del puntino sballottato da un campo all’altro c’è la cruda drammaticità del destino dell’uomo. Potete vederci la sfida manichea tra il Bene e il Male sul nero piano dell’infinito, oppure la dinamica contesa dello Ying e dello Yang che col suo moto inarrestabile dà origine al mondo. Il Pong in definitiva è un potente esercizio di metafisica al prezzo di cento lire. Sì, somiglia a un campo da tennis, o da tennis tavolo, ma è assente la fiondata del servizio, sconosciuti volée e rovesci. Qualche ardito distributore con una botta di fantasia si azzardò a dipingere sulle fiancate dell’arcade scenette fumettistiche in stile pop art 12
per sottolineare una vaga parentela del gioco con la disciplina praticata nei templi di Wimbledon e Roland Garros. Una traccia labile, inaccettabile. E infatti sul terreno delle suggestioni sportive non fu certo il Pong a iniziare alla nobile arte del tennis noi giovinetti. Ci voleva un robusto sforzo di fantasia per vedere nelle oscillazioni della tremula bacchetta i robusti passanti di Bjorn Borg e le calibrate voleè a rete alla John McEnroe. La passione per le racchette giunse con i cartoni animati, per la precisione dalla longilinea tennista Jenny. Timida fanciulla dagli occhi di cerbiatto, uscita dagli studios nipponici, conquistò stormi di adolescenti con i suoi intrecci sportivo-romantici. Io stesso finii folgorato dalla moda: m’ero munito di una coppia di scarsissime racchette di legno e corde in plasticaccia per ingaggiare ameni tornei con le donzelle del vicinato. Ogni due, tre colpi la pallina finiva oltre la recinzione, ma la caccia tra la frasche era parte del gioco. Una fortunata strategia per i primi rendez vous privati con l’altro sesso. Naturalmente il videogame non può negare d’essere legato a doppio filo alla realtà commerciale e pertanto il Pong subì delle evoluzioni dettate dalla richiesta di mercato: entrò nelle case con le prime console e si tramutò in un ipotetico “doppio” per sfide tra amici, o giù di lì. Due nuove frontiere abbattute, una più importante dell’altra. Il fatto di poter trasformare il videoscatolone di casa in uno strumento con cui interagire era qualcosa di straordinario. L’idea di poter cancellare a piacimento i volti istituzionali di Nicoletta Orsomandi e Mario Pastore, i loro annunci a sorriso stretto e le compassate notizie, e sostituirli con il muto rettangolo di gioco del Pong aveva un che di rivoluzionario. Naturalmente alla fine degli anni ‘70 un simile trastullo virtuale era alla portata di non molte tasche. Ma nei salotti di qualche amichetto figlio di facoltosi io l’avevo visto il miracoloso scatolotto - non toccato 13
per educazione, soltanto guardato e neanche con tanta insistenza per amor d’etichetta - piazzato a negligentemente accanto al televisore. Segno che forse il divertimento durava poco, un sorso di novità poi via nel cesto delle robe vecchie. Personalmente coltivavo già il dubbio che le cose poco sudate sono anche poco apprezzate e solo così arrivavo a spiegare i mal-trattamenti di cotanto prodigio tecnologico. L’altra novità offerta dalla magica console, come accennavo, era la possibilità di giocare con un avversario in carne ossa. Prospettiva questa che ho sempre trovato poco eccitante, vuoi perché le sfide innescavano competizione e da qui malumori fonti di penose discordie, vuoi perché la prospettiva di mettermi alla prova con una supposta intelligenza artificiale, per quanto simulata nei circuiti stampati di una macchinetta, era indubitabilmente più affascinante. Finalmente avevo la possibilità di confrontarmi in prima persona con gli “alieni” tanto sbandierati in libri e film. Un confronto muscolare con l’altro ostile e misterioso. Niente bandiere da bruciare o ideologie da abbattere, semplice lotta a “mani nude” con il Nemico. E basta. Aspetto che, in seconda battuta, costituiva un sano esercizio di elasticità intellettuale, un invito sottotraccia a non fossilizzarsi sulla contrapposizione, a non dare troppo retta alle divise e agli slogan. Il male non ha una casacca, anzi spesso le pugnalate arrivano da chi ti sta al fianco. Non so se sia stato per questo contorto ragionamento che l’idea di fare del “Pong a due” - chiave di volta della distensione Usa-Cina negli anni ‘70 - il tennis tavolo del 21esimo secolo sia naufragata miseramente. Forse, più semplicemente, resta ancora più pratica ed emozionante la competizione sul vecchio tavolino, spalettando dietro ai secchi rimbalzi di quell’indomabile palletta bianca dall’anima sottovuoto.
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THE HARDER THEY COME SPACE INVADERS
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on potevano che essere i primi: invasori dallo spazio e per estensione invasori dello spazio. Era l’avanguardia, l’avvisaglia di un’occupazione dell’immaginario, ma soprattutto un’occupazione del territorio virtuale denominato Tempo libero. La prima volta che ho sentito qualcosa di abbinabile al concetto di Tempo libero è stata la parola “bricolage”. Parola straniera, francese e quindi di diritto ascrivibile al campo delle snobistiche bizzarrie. Infatti descriveva un concetto ben noto e praticato al di qua dell’Alpe, il “fai da te” che nel ventennio fascista era verniciato di orgogliosa autarchia. L’italiano però, se non costretto dalle ristrettezze finanziarie, non è mai stato affascinato dalla falegnameria, dalla tinteggiatura e dall’idraulica post lavorativa. Scocciature da lasciare agli esperti nel settore, c’è la partita in tivù che non aspetta o la briscola al bar di sotto e magari la caccia alle sottane. Quella sempre aperta. Naturalmente il Tempo libero per i ragazzi viaggia su altri binari, bruciando differenti incombenze ricreative. Prima fra tutte il gioco. Le immagini degli american boys intraprendenti e servizievoli tuttofare - chi se la scorda la scena cinematografica dei lanciatori mattutini di giornali - a caccia dei centesimi necessari ad acquistare dolci rovinadenti e fumetti “rovinadellamoralegiovanile”, avevano poco a che fare con la nostra realtà. In primo luogo gli abitanti delle popolose periferie avevano pochi contatti con la realtà del micro commercio, poche le oc16
casioni per accaparrarsi lavoretti retribuiti. E poi cominciavano a farsi severe le regole sul lavoro minorile: il sindacato, ai tempi più braccia che parole, aveva le idee molto chiare sul concetto di sfruttamento e certamente dei giovinetti impiegati in attività di basso facchinariato avrebbero suscitato reazioni poco edulcorate nei confronti del padrone, ops del datore. Insomma l’idea di procacciarsi risorse per coltivare passatempi con un valore di mercato - leggi a pagamento - era ben oltre le nostre verdi disponibilità. Se hai dieci anni nel cuore dei Seventies italici dipendi interamente dalla borsa paterna e dalle mance dei nonni, ergo il porcellino salvadanaio non tintinnava, ma spesso grugniva a pancia vuota. Questo non significa che si vivesse nell’anticamera dell’indigenza o in una condizione di negligente abbandono perché, da che mondo è mondo, i bambini hanno trovato il modo di divertirsi con mezzi propri. Facile spiegarsi perché il pallone abbia tanto successo: mai escogitato gioco più economico. Ventidue bipedi sgambettano attorno ad un unico oggetto, per tacer del pubblico vociante. E alzi la mano chi ha più di trent’anni e non s’è mai arrangiato a scimmiottare il pistolero Ringo o Django estraendo di tasca pollice e indice ben carichi. Al sottoscritto bastava un foglio da disegno e una matita, e quando lo spazio bianco difettava passavo al retro, ai margini e pure agli interstizi fra le righe di vecchi quaderni o i larghi margini di una pagina di giornale. Il terrore dello spazio bianco proprio non mi sfiorava: sapevo bene che nessun angolo avrebbe resistito alla valanga di inchiostro, pennarello e grafite. Una certezza che stava anche dietro la tracotanza degli invasori spaziali concepiti da Lyle Rains e programmati da Ed Logg. Lungi dall’adottare tattiche avvolgenti e subdole tecniche di intelligence e 17
depistaggio come gli invasori portati su grande schermo da Cameron Menzies - da cui prendono a prestito il nome - gli Space Invaders da videogammare si piazzavano sullo schermo a mo’ di parata, secondo la logica dell’orda d’oro mongolica. E devo ammettere che il primo approccio davanti a quella brulicante colonna di robot da combattimento era stordente. Non si sapeva da dove cominciare: tu solo, loro decine. Senza contare che non solo dovevi portare casa la pelle schivando perfidi fulminetti, ma l’opera di sterminio era zavorrata da un altro compito: la difesa dei palazzi del potere. In sostanza tre spartani edifici costruiti in un avveniristico materiale simile al biscotto integrale - o così pareva - alla completa mercé dei missili nemici. A nostra disposizione un unico, triste e solitario, cannone semovente. Anche qui gli autori si sono pigliati a prestito un classico degli anni d’oro della fantascienza americana: “la Terra contro i dischi volanti” dove ad opporsi ai piattini alieni c’era proprio un supercannone. Una contrapposizione di prestanza e riflessi, senza la minaccia del “lato oscuro della forza”, un braccio di ferro interplanetario scorciato di dialogo e saluti. L’ammonimento astrale “klaatu barada nicto” di “Ultimatum alla terra” era stato pronunciato e scordato; il tempo della diplomazia era scivolato via come sabbia dalla clessidra rotta della saggezza e a parlare restavano soltanto le armi. Per governare il potente cannone, custode delle umane sorti, non s’aveva che una corta impugnatura - detta poi joystick - e un pulsante a far tuonare la bocca da fuoco. La prima versione del videogame, quella in bianco e nero, era lentissima. Dopo un paio di frustranti partite si intuiva che era necessario acquisire il ritmo, fare fuoco nei giusti intervalli oppure il proiettile si sarebbe infilato nei corridoi vuoti. Lo scenario era futuristico, ma la 18
concezione dell’assalto si rifaceva alle guerre del ‘700 con gli ufficiali a gridare ossessivamente “serrate le file” sopra il rullo dei tamburi. Una muraglia umana faceva scudo ai colpi affinché i tiratori potessero accoppare più avversari e assottigliare la schiera per creare una breccia utile alla carica di cavalleria. E’ la triste e notoria logica della carne da cannone che, pur imbellettata di ideali patriottici e insaporita di prospettive di giustizia, viene servita in ogni guerra più o meno dall’inizio della civiltà. Non ne fa difetto neppure l’ignota Potenza aliena che invia i suoi droidi a fare il lavoro sporco, mentre i generalissimi si contentano di svolazzare di gran carriera sopra i tumulti del campo di battaglia. Soltanto centrando il tronfio graduato con un tiro da fuori campo imitando un provetto cecchino si poteva esprimere una concreta solidarietà alla manovalanza marziana, insieme a un non trascurabile bottino di punti. Sì perché vincere è importante, ma in alcuni conflitti la vittoria può curiosamente diventare un obiettivo secondario. Come in una guerra per gioco... La vita del soldato di fanteria è dura: chiedete a quelli che sono sbarcati a Omaha beach in bocca alle mitragliatrici dei tedeschi. Quanti di loro hanno visto la fine della guerra? Ben pochi e seguendo questo ragionamento nessun giocatore di Space invaders vedrà il termine del conflitto: non ci saranno ghirlande di fiori, bandiere e baci di fanciulle. Anzi una volta sgomberato il campo, pioverà una nuova orda, ancora più veloce, più cattiva. L’obiettivo è sopravvivere più a lungo possibile e vendere cara la pelle raggranellando punti. Davanti al cannone incombono quattro file di robot: le prime due sono affidate da bipedi tuttatesta, seguono simpatici transistor con gambette e braccia e infine delle meduse sorrette da sottili tentacolini. Ognuno ha il suo valore. Correttamente non si può parlare di taglia, visto che siamo in lotta 19
su un campo aperto con due eserciti regolari impegnati in un conflitto ufficiale. Ma ricordiamo che pure in questi scontri con supposte e condivise regole di ingaggio esistono laute ricompense per i soldati che hanno la ventura di brillare nel massacro o nella decapitazione dei capi avversari. Quindi, per quanto si voglia abbassare Space invaders al rango di una versione elettronica del gioco dei birilli, la verosimiglianza con abitudini guerresche è tutt’altro che remota. E veniamo ai fatti, o meglio alle mani: sì perché occhio e mano devono stringere una salda alleanza per farsi strada nel duro mondo del videogame. Dopo le prime mille lire, sbolliti gli entusiasmi della novità, si realizzavano un paio di fondamentali informazioni. Numero uno: il movimento impresso alla manopola non corrispondeva istantaneamente allo spostamento del cannone. Numero due: il salvifico cannone non sparava con la frequenza desiderata. E in più, quando gli alieni si avvicinavano fino a poter vedere il “giallo” dei loro occhi, si agitavano tanto che era quasi impossibile non finire arrostiti dai loro raggi. La difficoltà di Space invaders - e di molti giochi al suo pari - sta nel fatto che per colpire devi piazzarti sulla stessa traiettoria di fuoco dell’avversario e in quel delicato frangente può piovere il malefico siluro che pone temporaneamente fine alla tua esperienza videoludica. La saggezza del vecchio uomo d’armi sta nel coordinare il fuoco e lo spostamento: colpisci e fuggi. Ma attenzione, non basta essere rapidi perché la matrice aliena si muove, un movimento laterale che dà l’illusione di uno spostamento ondulatorio e progressivamente si tramuta in una inesorabile calata che arriverà fino allo zerbino di casa, se non vi inceneriscono prima. Così, ma stavolta al costo di svariati biglietti da 500 - lire of corse -, si arrivava al secondo segreto di Space invaders: il ritmo. Muovere e 20
sparare vanno inseriti in una precisa sequenza in modo da non sprecare colpi a vuoto o addirittura finire addosso al missile nemico sparato a casaccio. Non so se vi sia capitato di sparare con una pistola vera in un poligono di tiro. Le dimensioni di un’automatica non sono molto lontane dalle repliche giocattolo, il peso e la consistenza leggermente superiori. Anche il grilletto cede con facilità impressionante. Si potrebbe concludere che sparare sia un gioco da ragazzi: bè i fori lasciati sui bersagli raccontano spesso tutt’altra storia. Se non si dispone di un mitragliatore e colpi infiniti - tipo alcuni sparatutto che andavano per la maggiore negli anni ‘90 - per sventagliare l’avversario finché cade, allora si deve comprendere che fare fuoco non è semplicemente puntare e premere il grilletto. Occorre posizionare il corpo in una postura corretta e stabile, coordinare i movimenti del braccio, stringere il calcio della pistola per fare sì che il polso non ceda all’ultimo momento, regolare il respiro perché non interferisca col gesto e infine imprimere all’indice un ordine secco, istantaneo. Per sparare si deve trovare l’attimo in cui la visione del bersaglio e il vostro mondo interiore coincidono. Roba da lo Zen e l’arte della polvere da sparo. Ma tutto questo, direte, a che serve se mi voglio rilassare sparacchiando agli Space invaders? Non serve a granché, mica dovete abbattere i robottini a colpi di Beretta. Però rigiocando dopo anni, stranamente le due esperienze si sono incrociate e ho fatto un singolare collegamento. Movimento, tempo e respiro sono le componenti del ritmo e, per estensione, del ballo. Le quattro file di alieni si agitano tutti a tempo, con una sequenza di passi che di fatto è uno schematico balletto. La partita di Space invaders allora non è più un duello, ma un bizzarro invito alla danza. Guardate come allargano braccia e incrociano le gambe: gli ali21
eni vi chiedono di entrare in sintonia con il loro indiavolato minuetto. Sventate i loro “pestoni”, eliminate i contendenti più goffi. Emuli di Tony Manero, stracciateli volteggiando sulla pista al ritmo di una suite dei Daft Punk! Avanti, finché il fiato vi regge. Il limite sta nella testa: per quanto potrete reggere questo dirty bit-dancing?
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LA MINACCIA GIALLA PAC MAN
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programmatori di giochi fino ad allora avevano cercato di coniugare la scarsa disponibilità di bit con una parvenza di rappresentazione logica della realtà: in sostanza, il cannone di Space invaders, per quanto somigliasse a una pastiglia Valda, aveva un senso iconografico. Il Pong sintetizzava in una linea bianca la racchetta del campione di turno. Il Lunar lander, bè quello non andava molto lontano dal tremulo Lem (Lunar escursion module), l’originale guscio d’alluminio delle missioni Apollo che portò nel 1969 portò sulla Luna Armstrong, Aldrin e Collins. Così dopo aver riprodotto in una manciata di puntini automobili, carriarmati, aeroplani era tempo di spiccare il salto nel vuoto e questa fantastica sfida porta il nome di Pac Man. Chi è quella pallina gialla? Una vitamina B12 passata sul tavolo operatorio del dottor Frankenstein? Una liscia palla da tennis schizzata via dal prato di Wimbledon dopo un ace portentoso? Niente di tutto ciò. Pac Man non ha gambe e corre come un dannato, non ha occhi ma sfreccia automaticamente tra i muri del labirinto con una bocca munita di instancabili ganasce, manifestazione del suo appetito incontenibile. Ha ben poco di antropomorfo eppure si solidarizza alla svelta con il tondo soggetto, stretto tra le pareti di un labirinto innominato e inseguito da un irriducibile quartetto di fantasmini - loro sì - ad occhi spalancati. Pac Man, targato Namco 1980, è un’invenzione giapponese. Il nome deriva dall’onomatopea convenzionale per masticare: il munch-munch nipponico che fa packu-packu. Ahimè, una delle tante cose che dividono noi homo sapiens sul planisfero. Provate a spiegare a un inglese 23
che il gatto fa “miao”, vi risponderà che a casa sua fa “meow”. Fosse nato in Italia il nostro giallo amico si sarebbe chiamato Gnam Man. Per parecchi anni Pac Man è stato sinonimo di videogioco, la figura più popolare insieme al baffuto idraulico Mario. Di lui conosciamo soltanto il profilo, di fronte penso che potrebbe apparire come una caricatura dello “smile” che furoreggiava sulle spillette dell’epoca. Qualche sconsiderato ha messo in giro la voce che la trovata della forma del giallo protagonista avvenne di fronte a una modesta pizza d’asporto privata della prima fetta, ma l’autore Toru Iwatani spiegò che Pac Man era frutto di un lavoro di grafica e kanji (i “caratteri” giapponesi). In pratica somma già la forma e il suono nell’unità del simbolo . Il successo di Pac Man fu immediato e dirompente: era una novità assoluta, come resistere. Fino ad allora si era sparato, colpito e schivato. L’impostazione dei videogame era sostanzialmente bellica: cannoni, astronavi, sottomarini, al massimo un’auto in pista. Temi che potevano risultare irritanti se non indigesti alla massa potenziale dei giocatori pacifisti. Pac Man si presenta giallo e gagliardo, scintillante di colori, sound personalizzato e soprattutto una mobilità a tutto campo nel labirinto disseminato di punti-pallina. E poi parla o almeno ha una sua espressività nella masticazione, indice d’una personalità se non verace, di sicuro vorace. L’appetito insaziabile di Pac Man è certo uno dei tratti che lo rendono simpatico. Pur di completare i suoi “spuntini” in santa pace siamo subito pronti a sfidare territori sconosciuti e fantasmi guardiani. Come interpretare il mondo di Pac Man? Il primo dato è che il nostro si avventura in terreno non suo: il labirinto è un luogo ostile, concepito per mettere in difficoltà l’eventuale visitatore. Pac Man inoltre si presenta con l’obiettivo di “ripulirlo” dai succulenti puntini gialli che - stando al punteggio - rappresentano un ambito bottino. Ma il suo 24
catalogo comixrevolution
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Ringraziamenti L’idea non nasce da sola, è il frutto di stimoli e accidenti. Da qui il percorso di Amarcade, che è stato in gran parte condiviso con un drappello di fedeli variamente votati alla disciplina dei coin op. Fabio Bacucco per il gusto della riscoperta e le innumerevoli partite giocate in puro spirito di revival. Diego Tadolti, inesauribile pozzo di ricordi e costante pungolo critico. Mio fratello Federico, socio e cospiratore videolucido da una vita. Il mio parentado per il prodigo foraggiamento a suon di centoni (cento lire in moneta intendesi ovviamente) che mi permise di esplorare la giungla dei bit e dei byte. Songkran per la pazienza, le invettive e i piatti caldi. E poi gli amici del tempo: Massimo, Roberto C. Roberto S. Fede piccolo, Laura e Giusy.
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AMARCAKDE Avete mai difeso la Terra da un’orda di robotici alieni? Avete mai sfidato un gorilla dispettoso in cima a un grattacielo? Avete mai inseguito quattro fantasmini blu in un labirinto al neon? Eccovi un viaggio tra ricordi e fantasie nella prima età del videogame. Per chi c’era e chi no Insert coin e buona lettura
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