L’ARTE DI FORMARE E DI EDUCARE
Un viaggio tra Socrate e i Sofisti per l’educazione del futuro Breve saggio di un formatore “street philosopher” ad uso e consumo di insegnanti, educatori, formatori, responsabili HR, genitori e curiosi.
di MASSIMILIANO MASSIMI
1 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
INDICE Introduzione………………………………………………………………...3 Capitolo Primo L’ ARTE DI EDUCARE: ALCUNE RIFLESSIONI………………….…5 1.
L’ educatore: un artista e un artigiano………………………6
2.
La materia dell’ artista/artigiano/educatore: la persona……..8
3.
La relazione educativa……………………………….....….10
Capitolo Secondo L’EDUCAZIONE NELLA GRECIA ANTICA: UNA CORNICE STORICA E DI SIGNIFICATO………………………………………..12 1.
La filosofia e l’ imparare l’arte della vita: la paideia………...13
Capitolo Terzo PROTAGORA E GORGIA…………………………………………….17 1.
I principi teorici e filosofici della conoscenza e dell’ educazione: il relativismo di Protagora e il nichilismo di Gorgia…………………………………………………….18
2.
I sofisti, professionisti del sapere: “so di sapere”…………..21
3.
Le parole, il linguaggio, la retorica e l’ arte della persuasione……………………………………33
Capitolo Quarto SOCRATE………………………………………………………………39 1.
Il principio filosofico della conoscenza in Socrate: la ricerca della verità ………………………….…………………….40
2.
Il paradosso del Socrate educatore: “so di non sapere”……42
3.
La maieutica, l’ironia e il dialogo…………………………..47
Conclusioni finali…………………………………………………………...64 Bibliografia………………………………………………………………..67
2 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Introduzione
Che l’ educazione sia un’arte e che l’educatore possa essere considerato un’artista mi è risultato intellettualmente interessante e descrivo brevemente i tratti di queste considerazioni nel primo capitolo, che potremmo considerare quindi un capitolo di cornice introduttiva generale. Nel capitolo secondo richiamo alcuni argomenti che ho ritenuto fossero propedeutici per capire e comprendere con maggiore efficacia il tema centrale dell’ intero lavoro che ho sviluppato negli ultimi due capitoli. Nella “Introduzione alla metafisica”, Heidegger scrive: “ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande […]. Tale è la filosofia dei Greci”1.Per questo, una breve ricostruzione del pensiero che diede inizio alla filosofia, all’ educazione e, in senso esteso, alla cultura occidentale così come oggi la intendiamo, mi è sembrato molto utile per comprendere con maggiore facilità la portata storica e rivoluzionaria dei padri fondatori dell’ umanesimo: Protagora, Gorgia e Socrate. La rivoluzione che introdussero nel pensiero greco fu comune; sia Socrate sia Protagora e Gorgia trasferirono le loro attenzioni, i propri studi, riflessioni, e teorie, verso l’ Uomo. Tutti loro, congiuntamente, cominciarono a vederlo come soggetto, ad indagarlo ed a porlo al centro dell’ intero Cosmo e non più considerarlo come oggetto come “cosa accanto alle altre cose”. Ma lo fecero da punti di vista completamente differenti. Con approcci, strumenti e finalità che hanno dato vita a paradigmi antitetici nella filosofia e nell’ educazione.
1
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Ugo Mursia Editore, 1968, p.49
3 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Saranno proprio questi i temi che ho sviluppato nei capitoli terzo e quarto, lasciando alle conclusioni finali alcune riflessioni che riportano ad unitĂ tutte le considerazioni svolte.
4 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Capitolo Primo L’ Arte di Educare: alcune riflessioni
5 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
1.
L’educatore: un artista e un artigiano
Se riteniamo possibile definire l’educazione come un’arte, concordando con Immanuel Kant, quando afferma che: “L’educazione è il più grande e difficile problema che ci possa essere proposto. Infatti le cognizioni dipendono dall’educazione e questa, a sua volta, progredisce a poco a poco per effetto di quelle[…]. L’ educazione è un’ arte”2; allora non possiamo non chiederci se l’ educatore, l’insegnante , il formatore possano e debbano essere degli artisti. Se l’educare è un’arte ci deve essere un’artista e quell’artista è l’educatore. Che la metafora dell’artista rientri pienamente in una possibile definizione dell’educatore lo possiamo facilmente individuare proprio nell’idea dello stesso Kant per la quale l’educazione è un problema, il più grande e difficile, addirittura. Perché proprio questa caratteristica, quella dell’essere un problema appunto, invita colui che ha il compito di trovarne la soluzione, a scoprire, coltivare e sviluppare quelle attitudini e competenze in grado di poterlo fare e che sono contemporaneamente e verosimilmente anche una peculiarità dell’ artista stesso. Infatti, soltanto la creatività, l’immaginazione, l’intuizione, la sensibilità e l’avere nuovi occhi, per dirne alcune, riescono a realizzare un’opera d’arte ma anche a risolvere un problema in generale e quello del processo educativo, così come indicato da Kant, in particolare. Con l’artista, l’educatore condivide molti tratti comuni. Nello stesso tempo, ad una luce più forte, mi sento di intravvedere ed aggiungere un’altra considerazione e cioè che, nell’ esercizio della sua funzione educativa deve avere anche caratteristiche, attitudini e competenze proprie dell’artigiano, dell’uomo faber, dove la meticolosità, la cura, 2
I. Kant, L’ arte di educare, a cura di A. Gentile, Armando Editore, 2001, p.13.
6 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
l’attenzione, la lentezza, la destrezza, la precisione, la scrupolosità del lavoro quotidiano completano il quadro con una cornice più ampia e luminosa. In sintesi, possiamo ipotizzare l’educatore come una sapiente miscela fra artista e artigiano, tra prassi, metodi, sensibilità, attitudini e competenze proprie delle due dimensioni umane. L’arte e l’artigianalità, l’artigiano e l’artista, l’immaginazione e la razionalità, il pensiero lineare logico-sequenziale e quello creativo, l’emisfero destro e quello sinistro.
7 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
2.
La materia dell’ “educatore/artista/artigiano”: LA PERSONA
L’ artista e l’artigiano devono conoscere molto bene il materiale con cui realizzeranno la propria opera. Pensare di lavorare il legno quando si ha la creta pregiudica irrimediabilmente il risultato. L’ educatore, se intende svolgere la sua missione non può trascurare di pensare, prima ancora di vedere, da chi è rappresentato quel blocco grezzo di materia. Non può non conoscerla e non tenerla bene a mente. “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo”,3 affermava in una felice espressione Kant. Nessun altro lavoro come quello educativo si occupa in modo così diretto e così necessario della persona. L’ educazione deve affrontare, in primo luogo, “la realtà più importante di questo mondo, che allo stesso tempo è la più misteriosa e costituisce la chiave di ogni effettiva comprensione: la persona umana”4. La nozione di persona è il risultato di un riconoscimento storico e culturale lungo e complesso, in questa sede possiamo solo rammentare il posto di assoluta e crescente centralità che essa oggi occupa in tutti i campi di discorsività e di interesse umani: da quello giuridico a quello filosofico, da quello psicologico a quello sociologico, da quello religioso a quello politico a quello economico a quello pedagogico. Nella tradizione pedagogica, in particolare, la categoria di persona si connette strettamente con la nozione di educazione: non solo la persona umana è concepita come esito di un
3 4
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bompiani, 2003, p. 47 J. Marías, Persona. Mappa del mondo umano, Marietti, 2011, p. 134. A cura di Armando Savignano.
8 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
processo, di una costruzione in cui l’educazione riveste un ruolo rilevantissimo, ma, soprattutto, è radicata l’idea che solo laddove l’individuo viene inteso e riconosciuto come ‘possibilità’ di essere e diventare persona, l’educazione può esplicarsi e realizzarsi in quanto tale. Nella cultura occidentale contemporanea, la persona è concepita come soggetto di libertà. Ad essa si richiede pertanto autonomia, maturità intellettuale
ed
affettiva,
autodisciplina,
capacità
di
scelta
e
di
autodeterminazione, responsabilità e affidabilità. L’ideale generale di uomo condiviso nella nostra cultura è insomma costituito dalla persona capace di essere e di comportarsi in maniera autonoma e responsabile, in grado di condurre una vita responsabile (sotto ogni aspetto: fisico, psichico, sociale, professionale, morale, giuridico). Per questo dalla persona si esigono qualità come: capacità di giudizio critico e indipendente, adeguata forza di carattere, disponibilità ed attitudine ad impegnarsi per ciò in cui crede; alla persona si richiede di essere in grado di guidare per quanto è possibile la propria storia individuale e sociale, di agire e vivere seguendo una progettualità positiva. L’ideale pedagogico di persona libera e responsabile rimanda insomma alla capacità di cui gli esseri umani dispongono di darsi progetti di vita, di disegnare programmi e piani di azione sui quali impegnarsi e conduce ad interpretare la formazione come sviluppo e maturazione di quella capacità. Nel senso che l’azione educativa viene intesa come finalizzata, essenzialmente a sollecitare e ad aiutare i soggetti a costruire in proprio e ad assumere autonomamente, coscientemente e responsabilmente logiche di vita in cui credere: per potere vivere in modo consapevole, sensato, convinto; per costruire momento dopo momento la propria vita e il proprio futuro, personale e sociale. Logiche di vita capaci di sottrarre le azioni degli individui alla casualità, all’inerzia, al fatalismo, ma anche alle mode, alla omologazione e alla manipolazione dei più forti. 9 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
3.
La relazione educativa
L’ artista deve immaginare nella sua mente qualcosa che non esiste ancora, forse ciò che i più non vedono neanche. Egli ha davanti a sé materia a cui dare forma ma soprattutto ha un blocco grezzo a cui deve prima sottrarla, la materia. La scultura era per i greci l’arte della sottrazione, l’abilità manuale con cui ottenere una figura a partire da un blocco di pietra, procedendo per successive sottrazioni. Pulire e alleggerire per poi dare forma e trans-formare. L’artista/artigiano/educatore da una parte e la mirabile, complessa e delicata materia dall’altra. Si plasmano a vicenda attraverso l’inizio della loro relazione, grazie a un processo relazionale in cui tutti ne escono trans-formati reciprocamente, in un divenire continuo e costante, all’ interno di un cerchio magico. La relazione: un lento, laborioso, attento, efficace lavoro artigianale, circondato se non intriso, di intuizioni, phatos, eros, creatività ed immaginazione, proprie dell’arte. Ne cito soltanto due di ingredienti che, se miscelati con cura e pazienza insieme a molti altri di eccellente qualità, potrebbero produrre un risultato che sarebbe decisamente migliore della loro somma. La tempestività così come la definisce Cosimo Laneve: “[…] Chi dunque, vuole insegnare qualcosa a qualcuno deve innanzitutto capire lo stato d’animo (relazione empatica) di colui a cui si rivolge, e scegliere il momento opportuno”5, (il Kairòs greco). Oppure, saperlo costruire.
5
C. Laneve, Elementi di didattica generale, Editrice la Scuola, 2006, p. 71
10 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Il Saper attendere6: “ Voi conoscete,…, il valore del tempo e non ne volete perdere. Voi non vedete che più se ne perde nell’usarlo male che a non far niente, e che un fanciullo mal istruito è più lontano dalla saggezza di colui che non è istruito affatto. Voi siete allarmati di vederlo consumare i suoi primi anni nel non far niente. Maestri zelanti, siate semplici, discreti, riservati: lo ripeterò senza tregua, differite, se è possibile, una buona istruzione, per paura di impartirne una cattiva”7
6 7
C. Laneve, Elementi di didattica generale, Editrice la Scuola, 2006, p.72 J.J. Rousseau, Emilio, in Opere, Sansoni, 1972, p.408
11 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Capitolo Secondo L’EDUCAZIONE NELLA GRECIA ANTICA: UNA CORNICE STORICA E DI SIGNIFICATO
12 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
1.
Imparare l’ Arte della Vita: la Paideia
Eraclito, Pitagora, Parmenide, Democrito, Talete e tutti i filosofi e pensatori presocratici indirizzarono il loro sguardo riflessivo verso l’indagine nei confronti della natura ed alle intuizioni di un principio che avesse dato origine al cosmo, predisponendo in tal senso le loro dottrine e i loro insegnamenti e trascurando i temi etici-educativi in maniera sistematica. Le ragioni di tale predominanza della filosofia della natura rispetto ad una filosofia etica e morale che metteva l’uomo al centro delle riflessioni e, quindi dell’ educazione, sono mirabilmente rappresentate dallo Zeller: “Il mondo esteriore si presenta già alla percezione sensibile come un tutto, ossia come un edificio, il cui suolo è la terra e il cui tetto è la volta celeste; nel mondo morale, invece, lo sguardo non esercitato vede da principio solo un formicolio di individui o di piccoli gruppi, che si muovono arbitrariamente e confusamente. Là i grandi rapporti dell’edificio del mondo, le vaste azioni dei corpi celesti, le alterne vicende della terra e l’influsso delle stagioni, e in genere i fenomeni universali e regolarmente rinnovantesi, sono quelli che sopra ogni altra cosa attirano l’attenzione; qui le azioni o le vicende personali. Là la fantasia si trova incitata a integrare con la poesia cosmologica le lacune della conoscenza naturale; qui l’intelletto si trova stimolato a stabilire le regole della condotta pratica per i casi particolari. Mentre quindi la riflessione cosmologica fin da principio si dirige al tutto, e si sforza di renderne concepibile l’origine, la riflessione etica invece si ferma alle osservazioni particolari ed alle regole di vita: a cui fondamento sta bensì una concezione omogenea dei rapporti morali, ma che non vengono espressamente e consapevolmente ricondotti a principi universali; e che solo nella forma indeterminata e immaginosa delle rappresentazioni religiose si ricollegano a
13 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
considerazioni generali sopra la sorte degli uomini, il destino delle anime nell’al di là e il divino governo del mondo”.8 Come afferma Giovanni Reale: “In tal modo, essa (la filosofia presocratica) ha trascurato, o almeno ha lasciato in ombra, l’essere dell’uomo e non si è preoccupata della comprensione razionale della specifica natura dell’uomo. Di conseguenza, non ha saputo né potuto scientificamente comprendere la virtù dell’uomo, né ha saputo filosoficamente giustificare nel loro fondamento le leggi, le regole e le prescrizioni alle quali l’uomo cerca di conformarsi nel suo agire”.9 L’ arte di vivere può essere sostanzialmente un affare personale, tuttavia, non è una faccenda puramente individuale. Al contrario, per potersi sviluppare, necessità di tener conto degli altri e della società e ha bisogno di relazioni non riducibili all’ individualità; ecco che si afferma il nuovo concetto di educazione, la paideia in cui: “L'educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. (…) L'edificio di ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d'una comunità umana".10 Pertanto imparare l’arte di vivere è anche una questione sociale e riguarda una molteplicità di individui che agiscono in maniera coordinata nella polis. Il concetto di educazione nella tradizione filosofica greca del periodo classico Sofisti, Socrate, Platone, Aristotele - non può essere compreso se non nel contesto della polis: educare una persona significa per questi filosofi educare il cittadino. Le ragioni per cui è visto in maniera così stretta il legame tra l'uomo e il cittadino sono diverse da filosofo a filosofo ma dietro le ragioni filosofiche è indubbio che su questo punto tutti subiscano l'influsso della concezione tipicamente greca dell'uomo, una concezione che non aveva E. Zeller-R.Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, La Nuova Italia Editrice, 1999, I, 1, p.236 9 G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, p.7 10 W. Jaeger, Paideia, la formazione dell’ uomo greco, Bompiani – Il pensiero occidentale, 2011, p.21. Introduzione di G. Reale 8
14 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
eguali nelle culture dei popoli vicini e che i Greci sentivano fortemente come propria: l'uomo come portatore di una cultura che si esprime nella sua libertà individuale, resa possibile soltanto dalla vita nella libera comunità politica, appunto, la polis. Va sottolineato che questo aspetto dell'educazione - il legame tra la formazione dell'individuo e la cultura della comunità - così fortemente sottolineato dai greci come carattere dell'uomo libero, può costituire il filo conduttore di tutto il percorso, da Platone a Dewey, perché per tutti, pur nella grande differenza della visione dell'uomo e della comunità, i problemi mantengono una base comune: Qual è la vera natura dell'uomo che l'educazione deve valorizzare, ed innanzitutto rispettare ed esprimere? Quale rapporto deve esservi tra l'educazione come trasmissione di valori acquisiti dalla comunità e l'educazione come cammino personale, libero, per la realizzazione di sé? Si tratta di questioni tipicamente filosofiche, ed in questo senso la pedagogia è stata per tutta la sua storia disciplina filosofica: infatti, la domanda sulla vera natura dell'uomo - sulla sua identità nel mondo -rimanda ai più complessi problemi metafisici ed etici (rimanda al rapporto con la natura, con Dio, con le finalità e il senso della vita, e così via), e lo studio del rapporto tra individuo e comunità, dal punto di vista della libera espressione di sé nella cultura, rimanda ai fondamentali temi filosofici della libertà, dei fondamenti del diritto e della legge, dei suoi limiti. La “paideia” dunque, che i latini successivamente tradussero con “humanitas” non rappresenta la cultura in senso quantitativo ed oggettivo ma la cultura nella sua più alta espressione qualitativa e personale. Diventa quindi una stretta connessione tra la cultura viva di una comunità ed i bisogni di maturazione delle giovani generazioni, sempre finalizzata alla compiuta 15 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
umanizzazione dell’ uomo. Si tratta cioè di utilizzare tutto il patrimonio di civiltà capace di conferire non solo conoscenza e competenza ma anche saggezza che trasforma il sapere in “virtù”. Con Socrate prende avvio quel processo di forte accentuazione del valore individuale della persona, nella pienezza della sua libertà e responsabilità morale, che costituisce uno dei caratteri tipici della cultura occidentale e che ritroveremo nel Cristianesimo. Questo però non significa affatto che l'individuo possa fare a meno della comunità. Al contrario, senza l'apporto degli altri, l'individuo non è in grado di migliorare se stesso, di progredire sulla via della ricerca interiore. Per Socrate è essenziale la piazza, il luogo della continua ricerca dialettica, il confronto con i suoi concittadini. La dialettica, infatti, è il mezzo per acquisire la virtù, se la virtù è così strettamente connessa alla coscienza di cosa sia il bene. E' la dialettica, infatti, il mezzo per scavare nella propria coscienza, e la dialettica implica una comunità in dialogo.
16 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Capitolo Terzo PROTAGORA E GORGIA
17 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
1.
I principi teorici e filosofici della conoscenza e dell’educazione: il relativismo e il nichilismo di Protagora e Gorgia.
“ L'uomo è la misura di tutte le cose di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”, afferma Protagora donando, con questo assioma, il fondamento del relativismo occidentale. Dal momento che l’uomo è il metro di valutazione si può definire la posizione di Protagora come una forma di umanesimo in cui l’uomo non si può confrontare con la realtà così com’è (la realtà avrebbe un solo aspetto e sarebbe un assoluto) ma con la realtà così come appare (fenomeno). Quindi l’approccio del grande Sofista è il relativismo conoscitivo e morale. Per Protagora non esiste dunque un’unica verità ma una miriade di interpretazioni soggettive. Poiché l'uomo è la misura di tutte le cose ne consegue per Protagora che la verità è relativa. Ciascun essere, ciascuna comunità si sceglie dunque la propria verità, decide la propria legge, concorda le regole di convivenza civile senza per questo contravvenire ad un ordine superiore che non esiste. secondo Protagora il Sofista deve essere un propagandista dell’utile, egli è un intellettuale che attraverso l’abilità nella padronanza della parola modifica le opinioni dei cittadini per il raggiungimento dell’utilità comune. Quando Protagora afferma che compito del Sofista è rendere migliore il discorso peggiore intende che occorre trasformare l’opinione meno utile in quella più utile. Nei brani seguenti, tratti dai Ragionamenti doppi, un testo scritto da un anonimo sofista del IV secolo a.C., si espone quello che oggi chiamiamo relativismo, cioè l’idea che non esistano punti di riferimento assoluti nel campo dei valori e che ogni popolo o individuo abbia i propri. 18 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
“Presso i Macedoni si ritien bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l’una e l’altra cosa. Presso i Traci il tatuaggio per le fanciulle è un ornamento; presso gli altri popoli invece, il tatuaggio è una pena che si impone ai colpevoli. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato e argentato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dèi; invece presso i Greci neppure si vorrebbe entrare in casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’essere sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come le donne, e si congiungano con la madre, con la figlia, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello; presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s’accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che siano le donne a tessere e filare la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l’argilla con le mani, e la farina con i piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario”. La conclusione del discorso è questa: “Se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere tra le varie leggi e li si invitasse a scegliere la migliore, ognuno, dopo aver riflettuto, sceglierebbe quella del proprio paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie leggi.” Se il pensiero di Protagora nasce dal relativismo, Gorgia parte invece da una posizione di nichilismo (dal latino medievale nichil , "nulla"). 19 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Gorgia sosteneva tre tesi interconnesse: l'Essere (Verità assoluta) non esiste, ossia nulla esiste; se esistesse, non sarebbe comprensibile; se fosse comprensibile, non sarebbe comunicabile né spiegabile. La dimostrazione delle tre proposizioni ha il fine di escludere la possibilità dell'esistenza d'una verità oggettiva. Secondo Protagora esisteva una verità relativa perché ciascun uomo ha una sua verità, per Gorgia invece non esiste alcuna verità e tutto è falso, perché l'Essere non c’è e se ci fosse non sarebbe né conoscibile né esprimibile.
20 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
2.
I sofisti, professionisti del sapere: “so di sapere”.
Che i sofisti fossero degli insegnanti non ci sono dubbi. Anzi crediamo che siano stati i primi veri esperti di trasferimento della conoscenza della storia occidentale. Lo stesso significato originario del termine sofista ce ne dà conferma: il sofista è un sapiente, un esperto del sapere, un possessore del sapere, è colui che sa, che possiede singolari conoscenze e capacità in generale e che, possedendo tale sapere, è capace di comunicarlo a fini educativi. Purtroppo, i sofisti, in un certo senso, rimasero vittima degli stessi fondamenti del loro pensiero per cui, la medesima parola sofista non avrebbe potuto che rappresentare anche altro e diverso dal significato originario, non potendosi sottrarre al destino delle loro stesse intuizioni. Infatti, Platone, Aristotele e Senofonte per citare i più importanti, attribuirono alla stessa parola altri significati che si sono imposti per molto tempo nella storia del pensiero (sono stati molto persuasivi!) ma nello stesso tempo, confermando così facendo, proprio il relativismo dell’ “uomo misura di tutte le cose”! La sorte ironica ha voluto che Protagora e Gorgia fossero essi stessi “vittime” delle innumerevoli possibilità delle rappresentazioni del reale e quindi anche del significato del termine che li descriveva, al punto che, per molto tempo e forse ancora oggi, la parola sofista ci ricorda altro dal significato originario declinato in senso spregiativo, “di ragionatore capace di far apparire come vero ciò che non è, di oratore dall’abilità discorsiva raffinata ma ingannevole e per lo più superficiale”.11 “ La sofistica è una sapienza apparente, non reale; il sofista è uno smerciatore di sapienza apparente, non reale”. Aristotele – Confutazioni sofistiche Essi reputano, cogliendo le temperie di un tempo aperto al mercato a ai viaggi, che tutta la realtà sia legata alla conoscenza sensibile, ed essendo i sensi relativi, ossia mutevoli secondo gli individui, l’età, la cultura, i costumi, il fisico, di conseguenza non è possibile pervenire
11
H.A. Cavallera, Storia della pedagogia, Editrice la Scuola, 2009, p.17.
21 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
ad alcun immutabile, ad una verità certa e oggettiva, dimodochè vero è ciò che si considera vero e che si riesce a far considerare tale”.12 Oggi si è smesso di considerare questi pensatori come semplici imitatori del vero filosofo o come esponenti di quell'atteggiamento per cui si crede di sapere senza in realtà sapere realmente; né si dà al termine sofista il significato dispregiativo che sorse dalla condanna platonica. Non possiamo più considerarli nemmeno come dei semplici retori che mostrano la loro abilità nell'ingannare l'ingenuo ascoltatore, o come corruttori della gioventù, abili in una dialettica priva di ogni contenuto di verità. Inoltre più che di una corrente omogenea è giusto parlare di qualche carattere, peraltro esteriore, che li accomuna, come il girovagare per le città greche o, cosa scandalosa per quell'epoca, il farsi dare un compenso in denaro per l'attività svolta (in particolare questo fatto colpì negativamente Platone, che era convinto che l'insegnamento della virtù potesse avvenire solo all'interno di un rapporto di amicizia disinteressato). Due tesi convivono, l'una accanto all'altra, sui sofisti: quella che li vuole assertori del soggettivismo, del relativismo e dell'individualismo (contro l'oggettivismo e il naturalismo della filosofia precedente), e quella che li considera addirittura i fondatori della pedagogia e dell'umanesimo antichi. Ma non è possibile rimarcare con efficacia il ruolo di insegnanti dei sofisti se non descriviamo le ragioni sociali e politiche che hanno consentito tale ascesa. L'Atene del V sec. a.C. era una tappa obbligata per i vari sofisti: la città aveva infatti conseguito quella supremazia e quel prestigio culturale che manterrà a lungo. Come abbiamo già detto, ai cittadini era garantita un'ampia partecipazione all'attività politica della città, grazie alle strutture democratiche che la favorevole situazione economica aveva reso possibile, ed è naturale che questa partecipazione attiva agli uffici pubblici (attraverso un sistema di rotazione i cittadini potevano governare direttamente la città) facesse nascere 12
H.A. Cavallera, Storia della pedagogia, Editrice la Scuola, 2009, p.17.
22 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
nel demos nuove esigenze di tipo culturale, cui la filosofia non poteva rimanere estranea; è comprensibile quindi che i sofisti, insegnando la virtù politica e l'arte di avere successo nei pubblici dibattiti, trovassero un grande successo presso le nuove generazioni e, al tempo stesso, l'avversione degli ambienti tradizionalisti. Occorre poi tener conto del fatto che in Atene, grazie all'incremento degli scambi, confluivano esperienze di ogni parte del mondo greco, per cui dal confronto delle diverse tradizioni nasceva il gusto di discuterle e di criticarle; questo poi portava alla consapevolezza di un certo relativismo dei valori che metteva in crisi la tradizione. E' in questo contesto che nasce il gusto per il discorso efficace e convincente, per cui si sviluppano la retorica e la dialettica, nascono le ricerche grammaticali, le analisi delle opere dei poeti e la critica letteraria, mentre si abbandonano le grandi ipotesi naturalistiche. Un grande sviluppo caratterizza anche la matematica (ormai affrancata dagli elementi sacrali) e la medicina, disciplina quest'ultima che considera un onore la sua derivazione dalle arti manuali. Bisogna considerare poi che in quest'epoca si scrive per la prima volta in modo diffuso su tutte le discipline pratiche, a testimonianza del nuovo interesse per il quotidiano. Caratteristico dei sofisti, come abbiamo giò avuto modo di affermare, è il distacco dal pensiero eleatico (Parmenide, Zenone) e il loro avvicinamento alle "cose umane". La loro problematica è legata ad argomenti concreti e attuali della città in cui operano, e anche per questo devono aver sentito come lontane le dispute astratte dei filosofi eleatici. La cultura che essi divulgano non è più riservata a pochi eletti, ma a tutti coloro che ne vogliono fruire (salvo sempre un minimo di possibilità economiche per pagare le loro lezioni). Nei sofisti è sempre presente quella fiducia nella ragione che aveva ispirato i pensatori naturalisti, solo che essa viene applicata allo strumento più importante della nuova situazione sociale, vale a dire il discorso. 23 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Proprio queste ricerche hanno portato i sofisti a scoprire che sullo stesso argomento erano possibili discorsi diversi, tutti logicamente corretti. Sono proprio le istituzioni democratiche che permetteranno lo sviluppo della sofistica rendendola in qualche modo indispensabile: la conquista del potere esige ormai la perfetta padronanza del linguaggio e dell’argomentazione poiché non si tratta più soltanto di ordinare e comandare ma anche di persuadere e spiegare. Divennero quindi dei professionisti del sapere in quanto fecero della scienza e del suo insegnamento il loro mestiere e il loro mezzo di sostentamento; in questo senso possiamo affermare che inaugurarono lo statuto dell’ intellettuale moderno. Sofisti sono infatti coloro che si professano capaci di rendere gli altri edotti nei vari ambiti delle conoscenze teorico-pratiche, utili perché il cittadino possa avere, per es., successo politico. La base sociale e la classe dirigente della democrazia attica è infatti una borghesia ricca e intraprendente, sollecitata dalle nuove esigenze ad acquisire una cultura e un’educazione adeguate alle sue nuove responsabilità. I sofisti rispondono quindi alla necessità di formazione del ceto dirigente e si propongono come maestri di virtù (non intesa come dote di eccellenza e di nobiltà, ma come ‘tecnica’ di comportamento), insegnando l’arte del dire, del persuadere e la conoscenza di ogni sapere che possa apparire idoneo a sostenere tale attività oratoria. Svolgendo questo insegnamento, i sofisti spostano la loro attenzione sull’uomo e le sue esigenze pratiche e soggettive, abbandonando le grandi ipotesi cosmologiche e naturalistiche della scienza precedente e promuovendo un recupero positivo delle ‘opinioni’ e dei ‘fenomeni’. Di qui le impostazioni individualistiche e relativistiche, la rivalutazione di «ciò che sembra a ciascuno», la critica dei valori tradizionali, il razionalismo con cui si indagano tutti gli aspetti della vita umana, dall’etica alla politica, dai costumi al linguaggio; tali caratteri furono interpretati male dai contemporanei più conservatori, mentre hanno decretato il loro successo e la loro fortuna fra i giovani che vedevano in loro la parola nuova che attendevano da tempo. 24 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Quali sono le caratteristiche per cui possiamo riconoscere Protagora e Gorgia come educatori ed insegnanti ci vengono direttamente dalle parole di Socrate per mano di Platone nell’ Apologia, quando fu costretto a difendersi dall’accusa pedagogica. Socrate ci dice che lui non ha mai esercitato il ruolo di maestro in quanto non ha mai svolto alcune pratiche e, quindi indirettamente, afferma quali sono le caratteristiche di coloro che si professano e si considerano tali, appunto riferendosi a Protagora e Gorgia.
In tal senso, sono maestri, coloro che: a) Ricevono compensi in danaro da coloro che desiderano ascoltarli e discriminano i propri eventuali interlocutori per età e per censo. b) Promettono di riuscire a trasferire conoscenza c) Diversificano i contenuti dei loro insegnamenti e lo stile comunicativo tenendo conto dei diversi uditori o delle attività private/personali e pubbliche Questi tratti ci sembrano molto interessanti per due ragioni. La prima, in quanto possono sembrare familiari con l’idea e la prassi odierna dei moderni educatori/formatori; la seconda è per il fatto che, nello stesso tempo, ci rappresentano il nucleo centrale del nostro focus esplorativo.
25 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Proviamo ad analizzarli schematicamente. La questione del compenso in denaro. Scrive Giovanni Reale in proposito: “Platone e altri antichi bollarono la venalità dei Sofisti, e considerarono questo costume di far pagare gli insegnamenti come un indiscutibile segno di bassezza morale. Ma Platone era, in questo giudizio, - assai più di quanto non si creda – vittima del pregiudizio aristocratico. In genere, infatti, la cultura era retaggio degli aristocratici e dei ricchi, i quali si dedicavano ad essa avendo risolto tutti i problemi della vita. Si dedicavano quindi alla cultura come a sublime otium, e la consideravano totalmente staccata da tutto ciò che ha rapporto con il guadagno e col danaro, e la ritenevano puro frutto di disinteressata comunione spirituale. Ma – e questo è il punto da sottolineare – i Sofisti non avevano fissa dimora e non avevano cespiti di guadagno. Di conseguenza, avendo impostato il loro sapere e la loro opera nel modo che abbiamo spiegato, dovevano necessariamente farne mestiere, e d esigere un compenso in denaro per vivere. E si potranno certamente biasimare gli abusi di cui i sofisti si resero colpevoli; ma bisogna in ogni caso essere guardinghi nel giudicarli troppo severamente. Platone, infatti, nel Menone ci dice questo di Protagora: “da solo […] ha guadagnato più dalla sua sapienza che Fidia […] e altri dieci scultori assieme”. Tuttavia non esita, nel dialogo intitolato a Protagora stesso, a mettergli in bocca questa frase: “[…] Ho stabilito che l’esazione del mio compenso avvenga nel modo seguente: dopo che uno ha imparato da me, se vuole, mi paga la somma che 26 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
richiedo; se no, entra in un tempio, presta giuramento, e la somma egli giudica valgano i miei insegnamenti la versa qui”.13 Sulla base della stessa fonte dei giudizi più severi contro i Sofisti, possiamo dunque stabilire che essi non furono affatto dei volgari e spregevoli profittatori della scienza, come troppe volte, in passato, è stato detto. Almeno non lo furono i maggiori rappresentanti del movimento. E poiché abbiamo parlato di “professione”, vogliamo riportare un brano di Theodor Gomperz, che giova al chiarimento di questo punto: “ Il mondo moderno non presenta nessuna forma di vita professionale che possa costituire un termine esatto di paragone con la loro. Dal professore dei nostri giorni il sofista si distingue tanto per la mancanza di ogni rapporto con lo Stato, quanto per il fatto che nessuna specializzazione limitava la loro attività. In quanto uomini di scienza, per la maggior parte almeno, erano degli esperti pressochè in tutto ciò che allora costituiva lo scibile, in quanto oratori e scrittori poi, pronti e disposti sempre, come erano, a ingaggiare diatribe e polemiche, il tipo odierno che loro si avvicina è piuttosto quello del giornalista. Per metà professori e per metà giornalisti, ecco la formula forse più atta a dare a noi moderni un’idea abbastanza approssimativa di quello che fossero nel V secolo i Sofisti”. Il che è vero, però, solo se si tiene presente che il “professore” e il “giornalista” sono, normalmente, per lo più veicoli di informazione e di formazione di opinione, ma non creatori di idee, mentre i Sofisti furono anche dei creatori”.14
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, p.49. Th.Gomperz, Pensatori greci. Storia della filosofia antica dalle origini ad Aristotele e alla sua scuola, Bompiani, 2013, p.210. 13 14
27 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
La questione della discriminazione per censo e ricchezza Socrate, difendendosi dalle accuse di essere stato un maestro, continua affermando che lui non ha mai discriminato alcuno nella possibilità di poterlo ascoltare, meno ancora che per il proprio ruolo sociale o per le soddisfacenti possibilità economiche, sottintendendo che per Protagora e Gorgia, questa, era una prassi molto diffusa. Anche su questo aspetto ci risulta illuminante l’analisi del Reale: “Contro la pretesa della nobiltà, la quale riteneva che la virtù fosse una prerogativa del sangue e della nascita, i Sofisti intesero far valere il principio che tutti possono acquistare l’areté, e che questa, anziché sulla nobiltà del sangue, si fonda sul sapere. E se è vero che i Sofisti non estesero a tutti il loro insegnamento, ma solo a quella élite che doveva o voleva accedere alla guida della Stato, resta pur vero che, con il loro principio, spezzarono almeno il pregiudizio che vedeva l’areté necessariamente legata alla nobiltà del sangue”.15 Prosegue Daniele Vignali: “Il presupposto teorico di questa originale concezione educativa è costituito dall’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini, in tal senso debbono essere ricordate le parole del Sofista Antifone – Per natura siamo tutti uguali e pure noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobile origine mentre, comportandoci da barbari, disprezziamo che è di oscuri natali. Tale pensiero, coerente con i principi della democrazia, non condusse però gli appartenenti al movimento sofistico ad un appiattimento o massificazione degli individui, ma ad una forma più pura di aristocrazia (intendendo il termine da un punto di vista esclusivamente etimologico), che trovò le sue radici nel riconoscimento degli aristoi sulla base di criteri meritocratici e non genetici, o meglio eugenetici. La concezione di fondo della Sofistica è costituita dall’idea dell’uguaglianza degli uomini come condizione di partenza, da cui derivò
15
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, p.48.
28 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
l’offerta formale di pari opportunità a tutti gli individui, fra i quali dovranno poi emergere coloro che avranno maggiori attitudini e che si distingueranno proprio per la loro capacità di apprendere la virtù, ma certamente non per la loro nobiltà di sangue”.16
La questione del trasferimento della conoscenza I Sofisti sapevano di sapere e quindi, di conseguenza, si ritenevano anche in grado di poter trasferire la loro conoscenza ad altri. Questa considerazione, apparentemente scontata ai nostri occhi poiché in linea con una parte della moderna concezione della prassi educativa e pedagogica, pone in realtà molti spunti interessanti per attente osservazioni. Secondo quest’ idea di formazione, in questo processo (educativo/formativo) devono co-esistere molte
condizioni:
qualcuno
che
sa
(il
chi),
l’oggetto
del
conosciuto/conoscibile (il cosa), le modalità con cui si trasferisce al fine dell’apprendimento (il come), qualcuno che apprende (il destinatario) e la ragione per cui lo fa (il perchè), che potremmo e dovremmo trovare anche in colui che educa. Vediamo a tal proposito le considerazione a cui è giunto il Kohan: “Per i Sofisti, professionisti dell’educazione, se qualcuno apprende è perché altri gli hanno insegnato le conoscenze che questo ha appreso. Per Socrate in cambio, qualcuno può apprendere senza che il suo interlocutore gli insegni come i professionisti pensano che debba insegnare un maestro, o forse, precisamente, perché il suo interlocutore non ha la pretesa di trasmettere una conoscenza che egli dovrebbe apprendere, come fanno i maestri consacrati al suo tempo”.17
16 17
D. Vignali, I sofisti, retori, filosofi ed educatori, Armando Editore, 2006, p.47. W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, pp.36-37
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La pretesa, o meglio noi diremmo, l’intenzionalità di chi insegna è a nostro giudizio una delle caratteristiche distintive del processo educativo in generale e dei Sofisti in particolare. Pretesa o intenzionalità che Socrate sembrerebbe dimostrare di non avere e, che sarà oggetto dell’ analisi specifica nel prossimo capitolo. Ma la possibilità o meno di avere un obiettivo formativo (che è anticipato appunto dall’ intenzione di raggiungerlo), è necessariamente legata e connessa all’ oggetto, al cosa, a quale conoscenza si intende trasferire e, se è possibile farlo in quanto conosciuta e conoscibile, poiché, altrimenti renderebbe vane le più fervide intenzioni! I Sofisti si consideravano degli esperti eclettici su molta della conoscenza del loro tempo. Ritenendo di sapere molto, erano convinti di poter riuscire anche a trasferire la loro conoscenza attraverso un processo formativo ben costruito (techné). A tal proposito, Jaeger: “La tecnicizzazione dell’educazione non sembra che un caso particolare della tendenza generale dell’epoca a risolvere la vita intera in una serie di specialità opportunamente costruite e teoricamente fondate, che procurano un sapere concreto trasmissibile. Troviamo specialisti e trattati speciali per le scienze matematiche, per la medicina, la ginnastica, la teoria della musica, l’arte scenica, ecc.”. 18 In particolare, ciò che era da loro considerato l’argomento fondamentale dell’educazione era l’areté politica. Ancora Jaeger: “ Il Sofista qualifica la sua professione techné politica, poiché insegna l’aretè politica”. 19 Cosa è l’aretè politica ritenuta dai Sofisti possibile di insegnamento e di essere appresa? Prima di citare ancora una riflessione del Reale, possiamo affermare che molte delle differenze filosofiche, politiche, e sociopedagogiche tra i Sofisti da una parte e Socrate dall’altra nascono proprio intorno al significato W. Jaeger, Paideia, la formazione dell’ uomo greco, Bompiani – Il pensiero occidentale, 2011, pp 514515. 18
19
W. Jaeger, Paideia, la formazione dell’ uomo greco, Bompiani – Il pensiero occidentale, 2011, p.514
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attribuito a tale parola, aretè alias virtù: “ […] La virtù di cui Protagora si professava maestro e per cui i giovani accorrevano da lui a frotte è descritta dallo stesso nel dialogo omonimo di Platone – Il mio insegnamento concerne l’accortezza, sia negli affari privati, ossia il modo migliore di amministrare la propria casa, sia negli affari pubblici, ossia il modo di diventare in sommo grado abile nel governo della cosa pubblica, negli atti e nelle parole – Ora, questa accortezza è proprio l’abilità nel parlare, soprattutto in pubblico, davanti ai tribunali e alle assemblee. E Protagora la ritiene insegnabile appunto mediante la tecnica dell’ antilogia, e la conseguente tecnica che mostra come far prevalere un qualsivoglia punto di vista (relativismo) su quello opposto. E’ chiaro quindi che noi dobbiamo dare ad areté non il senso cristiano di virtù, ma quello originario di abilità( quello stesso senso che ancora Niccolò Machiavelli riprenderà parlando della virtù del Principe). Infatti, è evidente che presentarsi maestro di virtù , se si intende virtù del primo senso, è ridicolo, mentre non lo è se la si intende nel secondo. E Socrate e Platone contesteranno la possibilità dell’insegnamento della virtù perché essi rifiuteranno di intenderla come mera abilità.” Ci risulta a questo punto tutto molto più chiaro sulla pretesa di Protagora e Gorgia di essere considerati dei professionisti del sapere, riuscendo anche a trasferire il sapere poiché ciò che intendevano insegnare era una tecnica e non principi morali o etici.
Vediamo ora
l’ultima
contestazione
che
Socrate
rivolge seppur
indirettamente ai Sofisti, e che ci offre anche l’ultima caratteristica qualificativa di maestri, titolo da cui egli si difende in tribunale con forza e sprezzo, nell’ Apologia di Platone.
31 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
La questione dell’ adeguamento del discorso e della trasmissione della verità in funzione dell’ uditorio. I sofisti, come abbiamo visto, pensavano che non ci fosse una Verità, unica e conoscibile, ma tante quante fossero le verità di ciascuno per Protagora e, nessuna verità per Gorgia. Partendo da questi presupposti è evidente che cercavano, per quanto più possibile, di adeguare i propri stili comunicativi e retorici all’ uditorio, ai vari uditori. Le tecniche di come lo fecero diventarono esse stesse materia di insegnamento, come vedremo nel prossimo paragrafo.
32 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
3.
Le parole, il linguaggio, la retorica e l’arte della persuasione.
Abbiamo visto quali sono stati i principi filosofici del relativismo e del nichilismo di Protagora e Gorgia che hanno ispirato il loro modo di essere educatori e formatori soprattutto dei giovani ateniesi verso l’areté (abilità) politica che consentisse loro di accedere alla vita pubblica ed agli affari di Stato. Abbiamo potuto anche constatare che non solo si reputarono ma furono, nello stesso tempo, anche considerati dagli altri, dei professionisti del sapere e, proprio per questa ragione, diventarono punti di riferimento delle nuove generazioni che aspiravano a trattare i problemi sociali e politici della propria città. Non furono considerati dei sapienti che insegnano o invitano alla scoperta della Verità ma dei veri e propri professionisti che insegnano delle competenze e delle tecniche al fine di far eccellere nella politica. Ora ci interesseremo del come lo fecero, indagheremo quali fossero le tecniche e le abilità(areté) che ritennero utili ai nuovi politici di Atene. Insomma cercheremo di addentrarci in quella sequenza di prassi organizzate con un fine pedagogico che, oggi definiamo didattica e che loro chiamavano techné. La proverbiale abilità con cui insegnavano e comunicavano era essa stessa un esempio pratico di come e cosa si dovesse fare per raggiungere l’eccellenza nella coltivazione dell’ areté. L’ uso delle parole, il linguaggio, la retorica e il discorso persuasivo, l’antilogia, divennero le materie fondamentali del loro studio ed insegnamento. Ciò era la cassetta dei loro attrezzi e delle competenze che avrebbero dovuto avere i nuovi politici per catturare le simpatie del popolo e convincerlo a riporre in loro la fiducia. Alla luce di ciò potremmo non solo definirli come i primi professionisti del sapere ma come i primi teorici ed esperti del linguaggio umano e della comunicazione.
33 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Per Protagora ciò che esula dall’esperienza personale non può essere oggetto di conoscenza, ma non solo: l’uomo è misura di tutte le cose, l’esperienza personale è sempre vera; la verità è definita proprio dalla percezione e dall’opinione personale. E tuttavia, se anche tutte le opinioni sono vere, ci sono opinioni migliori perchè orientano verso il bene, che è rappresentato dall’utile del singolo o della comunità. Per questo, il retore deve saper rendere forte l’argomento debole, deve saper trasformare i sentimenti di una persona o di una comunità. Giovanni Reale lo descrive così: “Il relativismo espresso dal principio dell’ homo mensura doveva trovare un approfondimento nell’ opera intitolata Antilogie. Ci riferisce Diogene Laerzio che Protagora affermava: Intorno a ogni cosa ci sono due ragionamenti che si contrappongono tra loro. Riteneva, precisamente, che su ogni cosa è possibile dire e contraddire, addurre ragioni che reciprocamente si annullano. E Aristotele ci riferisce che Protagora insegnava a: rendere più forte l’argomento più debole. Anche da queste semplici informazioni è facile ricostruire lo scopo al quale mirarono Protagora e quanti lo imitarono. Dacchè il loro scopo – scrive Robin – è quello di armare l’alunno per tutti i conflitti di pensiero o di azione di cui la vita sociale può essere l’occasione, il loro metodo sarà dunque essenzialmente l’antilogia o la controversia, l’opposizione delle varie tesi possibili su dati
34 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
temi, o ipotesi, convenientemente definiti o catalogati; si tratta di insegnare a criticare e a discutere, a organizzare un torneo di ragioni contro ragioni.20 Protagora, dunque sulla base di queste premesse, doveva insegnare come su ogni cosa – e in particolare su quelle cose che riguardavano la vita eticopolitica – sia possibile addurre argomenti pro e argomenti contro, e doveva insegnare come sia possibile difendere e sorreggere l’argomento più debole. Il che non significa certo che egli insegnasse l’ingiustizia e l’iniquità contro la giustizia e la rettitudine, ma significa semplicemente che insegnava i modi con cui era possibile sorreggere e portare a vittoria l’argomento (qualunque fosse il suo contenuto) che nella discussione, in date circostanze, poteva risultare più debole. E una eco di questo procedimento protagoreo è, molto probabilmente, lo scritto anonimo intitolato Ragionamenti duplici, riguardante i valori etici, l’insegnabilità o meno della virtù e il criterio della scelta delle cariche politiche. Scrive questo anonimo: Un duplice ordine di ragionamenti si fa in Grecia dai cultori di filosofia intorno al bene a al male. Gli uni sostengono che altro è il bene, altro è il male; altri invece, che sono la stessa cosa; la quale, per alcuni, sarebbe bene, per altri, male; e per lo stesso individuo, sarebbe ora bene, ora male. Quanto a me, io mi accosto a questi ultimi; e ne ricercherò le prove nella vita umana […]. E dopo aver addotto una serie di ragioni ispirate al relativismo protagoreo di cui ci è data parallela testimonianza da Platone, l’ Anonimo conclude E in questo modo non definisco che co’è il bene, ma questo mi ingegno di insegnare, che il bene e il male non sono la stessa cosa, ma si che ciascuno dei due può essere l’uno e l’altro.
20
L. Robin, Storia del pensiero greco, Mondadori, 1972, p.177
35 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
La stessa cosa l’Autore ripete per il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, la pazzia e la saggezza. Non si definisce l’essenza dei valori, ma si fa vedere tutta la serie di ragioni che fanno apparire una cosa buona, bella e così via, e l’altra serie di ragioni che fa apparire la medesima cosa brutta, cattiva, e così via”.21 Ancora sullo stesso argomento, Adorno, Gregory, Verra: “ […] E il vero di oggi può non essere il vero di ieri. E così, sul piano logico, proprio perché logicamente il reale è inafferabile, la tesi a può essere vera quanto la tesi b pur essendo le due tesi reciprocamente contradditorie. Nascevano di qui le antilogie (contraddizioni) protagoree che, portate alle ultime conseguenze, sboccheranno nelle confutazioni e nell’eristica, cioè in quella degenerazione della sofistica consistente nella confutazione di qualsiasi tesi, vera o falsa che sia, con argomenti e tecniche volti ad aver comunque la meglio nella discussione, a prescindere dalla verità o falsità delle tesi sostenute. Coerentemente all’accantonamento del problema del divino, dell’essere, dell’ordine in sé della natura, le antilogia stanno a dimostrare come su un piano logico vi sono sempre verità opposte, e dunque il vero non consiste in ciò che è, ma in ciò che, mediante il ragionamento e la confutazione, si dimostra tale: vero è ciò che convince e persuade. La ragione, dunque, si risolve nel ragionare, nel disputare, nel contrapporre; ragionare ( dialèghesthai: donde: dialettica) è sempre usare e contrapporre discorsi duplici. Attraverso il ragionare, che è parlare, si costituisce, volta a volta, ciò che conviene a questo o quel posto o quel possibile ordine di uomini, in questa o quella situazione. […] Ragionare è discorrere e persuadere; a questo fine possono essere usate due tecniche argomentative e retoriche: quella delle brevi domande e risposte ( brachilogia) e quella del lungo discorso oratorio (macrologia), cioè della conferenza vera e propria, a seconda della situazione e degli uomini con cui 21
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, pp. 59-61
36 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
si parla. Protagora insegna queste tecniche del persuadere (del condurre a sé) che, naturalmente, cambia e si diversifica di volta in volta, a seconda delle occasioni e delle situazioni, per cui si fa evidente, da un punto di vista didattico, l’importanza dello studio delle parole, l’analisi linguistica e stilistica, le esercitazioni oratorie.”22 Anche Gorgia si concentra sulla retorica, e sulla filosofia del linguaggio: per lui, il linguaggio non ha a che fare con la verità descrittiva (non ci dice come sono gli stati di cose nel mondo), ma ha una funzione pragmatica: spinge a credere e ad agire; e lo fa stimolando non l’apparato intellettivo, ma quello emotivo. Dato che non possiamo avere alcun accesso alla verità della realtà esterna e indipendente da noi, dato che viviamo nei confini del nostro linguaggio e del nostro pensiero, siamo in balia del linguaggio: potentissimo, dunque, risulta essere chi è in grado di dominarlo. “Le argomentazioni di Gorgia sono ad alto livello logico” – affermano Adorno, Gregory, Verra – “e implicano che all’uomo non resta che il mondo degli uomini, che è il mondo dell’ illusione e delle opinioni, degli affetti, su cui si agisce mediante la parola e l’arte della parola (retorica). Nell’ Elogio di Elena (un pezzo oratorio dove si cerca di assolvere Elena dalle accuse tradizionali), dice a un certo punto Gorgia: Se, invece, fu la parola a persuaderla e ad ingannare l’animo suo, neppure questo è difficile a difendersi, sciogliendo l’accusa nel modo che segue: gran dominatore è la parola, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, riesce a compiere divinissime cose. Essa è, difatti, capace di calmare la paura, di allontanare il dolore, d’infondere gioia, di accrescere la pietà. Con la parola discipliniamo gli affetti. La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini e, perciò, nell’istituzione della vita civile. Nella capacità di congiungere o contrapporre passione a passione, sentimento a 22
F. Adorno-T.Gregory-V.Verra, Manuale di storia della filosofia vol.1, Editori Laterza, 2006, pp.37-38
37 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
sentimento, possiamo intrecciare rapporti tra gli uomini e costruire una società umana. E poiché la passione di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la passione di un altro, di qui l’importanza del sapere usare le parole, l’importanza delle tecniche dei discorsi. Il discorso così è visto come capacità di modificare il mondo dei rapporti umani e, poiché l’uomo è sentimento e opinione, e sentimento e opinione sono parole, è la parola che trasforma e costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere le virtù, indipendentemente da cosa sia la virtù in sé. Gorgia, a chi gli chiedeva cosa è virtù, rispondeva: la virtù di chi? Del bambino o del vecchio? Della donna o dell’uomo? Non vi è infatti discorso sulla virtù in sé”.23 Giovanni Reale sulla retorica e l’onnipotenza della parola in riferimento a Gorgia ritorna sul Trattato sul non essere: “ Se non esiste una Verità assoluta ( e neanche relativa al modo in cui riteneva Protagora), è chiaro che la parola viena ad acquistare una sua autonomia pressochè sconfinata, perché, appunto, non è legata dai vincoli dell’essere. Nella sua indipendenza ontologica la parola diventa (o può diventare) disponibile a tutto. Ed ecco, allora, che Gorgia scopre quell’aspetto della parola per cui essa è portatrice di suggestione, di persuasione e di credenza. E la retorica è esattamente l’arte che sa sfruttare fino in fondo questo aspetto della parola, e dunque può essere detta l’arte del persuadere. […] Si capisce pertanto che Gorgia, una volta sciolto il legame fra parola e conoscenza e potenziato al massimo l’effetto psicagogico (suggestivo) della parola, si potesse vantare non solo di saper parlare su tutto e di convincere tutti su tutto, ma di superare, in abilità persuasiva, perfino i tecnici nel loro stesso ambito: si vantava, per esempio, di aver superato il fratello medico nella capacità di persuadere il malato a sottoporsi a determinate terapie”.24 23
F. Adorno-T.Gregory-V.Verra, Manuale di storia della filosofia vol.1, Editori Laterza, 2006, p.39.
24
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, pp. 79-80
38 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Capitolo Quarto Socrate
39 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
1.
Il principio filosofico della conoscenza in Socrate: la ricerca della Verità. “La verità è per noi perenne, infinito movimento. Scorgere la verità è la dignità dell’uomo. Solo attraverso la verità diveniamo liberi, e solo la libertà ci rende pronti incondizionatamente per la verità.” [Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico]
Per Socrate, a differenza dei sofisti che la negavano o ne riconoscevano molte, la Verità, l’unica Verità esiste, e quindi di conseguenza, può essere cercata e trovata. Dentro di sé, riconoscendo il Divino che è in ognuno di noi e, quindi, soltanto dedicandosi alla conoscenza di se stessi si potrà arrivare alla verità. Il punto di partenza per la ricerca della verità è l’ignoranza che si fonda nella conoscenza divina. “ questo sembra essere un punto fisso che Socrate non permette venga messo in discussione.”25 Ma è un cammino esplorativo che non assume i contorni egocentrici di Eraclito bensì la dimensione altruista. Nel senso che si può conoscere se stessi sia con una profonda introspezione sia e soprattutto in relazione agli altri. “Conosci te stesso” ammoniva Apollo, invitando l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, e quindi a mettersi in rapporto col dio, che è completamente diverso da lui, sulla base di questa precisa consapevolezza.
25
W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, p.89.
40 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
A chi entrava nel tempio di Delfi veniva detto con quel motto quanto segue: Uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu ti avvicini al dio immortale. Per arrivare a Dio e quindi alla verità occorre scoprire se stessi e scoprendo se stessi, come afferma Giovanni Reale: “il pensiero viene ad urtare contro qualcosa che l’uomo non può pensare , (che Kierkegaard indica come l’ignoto) e che considera come ciò che è divino – Esso però non è qualcosa di umano, per quanto noi conosciamo l’uomo, e neppure qualche altra cosa che noi conosciamo. Questo sconosciuto chiamiamolo allora Dio.
41 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
2.
Il Paradosso del Socrate Educatore
Potrebbe risultarci difficile immaginare Socrate come un insegnante, un educatore, un maestro. Lui, che sapeva di non sapere, come avrebbe potuto insegnare qualcosa di cui non aveva conoscenza? Proprio lui, che non aveva scuole, che non utilizzava artifici retorici e discorsivi per persuadere e convincere, che non scriveva per i posteri e per lasciare traccia. Eppure, nonostante questo, è considerato uno dei massimi ispiratori della cultura occidentale, un maestro autentico. E’ paradossale, fuori di dubbio. Dice letteralmente nell’ Apologia: “ Io non sono stato maestro di nessuno”. E lo giustifica affermando che non ha mai ricevuto denaro da chi desidera ascoltarlo, non discrimina i suoi interlocutori per censo e per età, non promette ne insegna qualcosa ad alcuno, non usa stili comunicativi retorici e persuasivi. “ Socrate afferma di non insegnare e, tuttavia, coloro che dialogano con lui apprendono, tanto che non potrebbero dire di apprendere cose diverse in pubblico e in privato. Però bisogna notare che non è tanto curioso, nel senso che, giustamente, Socrate vuole dislocare la relazione fra chi insegna e chi apprende dalla logica della trasmissione dei saperi imposta dai professionisti dell’educazione. Per questi, se qualcuno apprende, è perché altri gli hanno insegnato le conoscenza che questi ha appreso. Per Socrate, in cambio, qualcuno può apprendere senza che il suo interlocutore gli insegni come i professionisti pensano che debba insegnare un maestro, o forse, precisamente, perché il suo interlocutore non ha la pretesa di trasmettere una conoscenza che egli dovrebbe apprendere, come fanno i maestri consacrati al suo tempo”.26
26
W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, pp.36-37
42 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Pretesa, Intenzionalità, ecco, crediamo che siano queste le fondamenta della critica di Socrate ai Sofisti. Questi ultimi avevano l’intenzione di farlo, insegnavano intenzionalmente qualcosa a qualcuno. Lui no. Ma è proprio così? Il suo atteggiamento era proprio quello di aiutare a vedere senza mostrarsi, di esporsi nascondendosi? Il suo dialogare era scevro da qualsivoglia intenzionalità? Un maestro invisibile? “ Nel suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità, Foucault sostiene che Socrate respinge il ruolo di maestro per rifondarlo. In effetti, Socrate rifiuterebbe di occupare il posto di maestro in un’arte (téchne), qualunque essa fosse, e insieme a questo rifiuto stabilirebbe un nuovo posto per il ruolo del maestro, quello di guidare tutti gli altri, sul cammino del lògos, perché si prendano cura di se stessi e, eventualmente, degli altri. Curarsi che gli altri si prendano cura di sé”.27 In questa analisi del Kohan che cita anche Foucalt, non risulta che Socrate non sia un maetsro ma che, giustamente, lo sia in un modo diverso ma che lo sia comunque. Ancora il Kohan: “ Socrate ci aiuta a ripetere alcune nuove e vecchie domande: cosa significa insegnare e apprendere? Quale connessione è necessario, conveniente, desiderabile, favorire fra chi insegna e chi apprende? E’ possibile, desiderabile, necessario apprendere senza un maestro che insegni?”.28 Ci è interessante riportare di seguito una intelligente osservazione di Cosimo Laneve sulla didattica dell’oscuro: “ Molta dell’attività dell’insegnante è esplicita diretta, evidente e costituisce quella che possiamo chiamare la didattica del – chiaro – o del – testo -. Ma, come ognuno sa, accanto a tali
27 28
W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, p.42 W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, p.45
43 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
attività ve ne sono altre che lo stesso docente non esprime con la medesima intenzionalità e con la medesima visibilità: le sue convinzioni, le sue preferenze, i suoi comportamenti; ma non solo: anche le sue insicurezze, le sue paure, i modi di reagire, i criteri in base ai quali operare le scelte e assumere le decisioni sono tutti elementi che vengono appresi o comunque altrettanto influenzanti le modalità di comportarsi e di essere. Le ricerche di Wertsch e del suo gruppo individuano le differenze fra genitori e insegnanti: i genitori guidano molto più direttamente verso l’azione corretta, mentre gli insegnanti usano una guida assai più indiretta. Una serie di contenuti ( e non solo conoscenze, ma anche abilità, modi di relazione, opinioni, orientamenti di valore) sono dunque veicolati dall’insegnante attraverso il suo fascino, la sua autorevolezza, la sua esemplarità o attraverso un autoritarismo palese o strisciante. E qui un ruolo determinante hanno le dinamiche affettive: la rimessa in discussione del primato e dell’esclusività del mentale, epperciò dell’intrinseca emotività di tutte le azioni, anche di quelle cognitive, nei processi di insegnamento. Chiamo questo tipo di azioni ( d’insegnamento) didattica dell’oscuro. Rispetto alle attività didattiche del – chiaro – queste dello – scuro – hanno di solito maggiore possibilità di essere apprese per la loro forte ibridazione con elementi emotivi e persuasivi legati alla persona del docente. Non è infatti difficile riscontrare che una parte rilevante di quello che il docente è e fa viene assimilato dai discenti e talora in percentuale decisamente maggiore e sicuramente più di quanto si possa pensare, rispetto a quello che si propone con lucida intenzionalità. […] Appunto per questo si richiama qui l’attenzione su quanta parte di quello che gli alunni appendono non solo in atteggiamenti, in comportamenti, ma anche in conoscenze, in significati evalori sia esito di tale azione nonintenzionale.”29 29
C. Laneve, Elementi di didattica generale, Editrice la Scuola, 2006, p. 56
44 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
Potrebbe sembrare un esercizio speculativo quello di indagare sull’ intenzionalità o meno di Socrate nell’ insegnare, ammesso che lui l’abbia voluto fare ma riteniamo che, come ci fa osservare Cosimo Laneve, molto spesso l’insegnamento, forse quello che genera l’apprendimento più intenso e duraturo, ci arriva proprio da coloro che non intendono farlo. Oseremmo dire che le conoscenze più intime ci giungono proprio da coloro che non hanno avuto la benchè minima intenzione di insegnarci alcunchè! Se la fama di Socrate si è mantenuta così tanto nel tempo, ci sarà stata una ragione. Consapevole o meno di insegnare, Socrate ha indubbiamente prodotto cultura e, quindi conoscenza. Vediamo cosa ci ha trasmesso, indipendentemente dalla sua volontà e/o intenzione: a) l’amore per l’ignoranza: “ Socrate non concepisce la filosofia come un sapere, ma come una relazione con il sapere, a partire dalla qualer si possano sviluppare una serie di pratiche.
[…] Vivere filosofando significa, per
Socrate, dare un certo spazio e risalto all’ignoranza, nel pensiero e nella vita, avere con essa una relazione di potenza, affermativa, generativa. Il problema, secondo Socrate, non sarebbe essere ignorante. Di fatto tutti gli esseri umani lo sono. La questione principale attraversa la relazione che abbiamo con l’ignoranza. Alcuni la negano, la ignorano. Questo è il principale difetto, sembra voler dire Socrate, di un essere umano: ignorare la sua ignoranza. Tutto si può ignorare, tranne la propria ignoranza.”.30 Insomma ci insegna/ammonisce a riconoscerla ad ammetterla e, quindi, a disimparare un’ illusione di sapienza b) l’ importanza di esaminare sé stesso e gli altri: il conosci te stesso del tempio di Delphi
30
W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, p.26
45 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
c) l’ invertire i valori dominanti: “un’ esortazione a smettere di curarsi di ciò che si cura e curare ciò che è abbandonato”31 d)l’ interrogare, esaminare, confutare come metodo per conoscere e) l’autodominio f) la libertà interiore g) l’autarchia
31
W.O.Kohan, La filosofia come paradosso, Aracne Editrice, 2014, p.32
46 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
3.
La maieutica, l’ironia e il dialogo
Come fece ciò che fece, con quali strumenti e con quali modalità è il tema che svilupperemo in questo paragrafo. a) la maieutica: “La maieutica costituisce una delle più famose metafore del socratismo ed è diventata un importante punto di riferimento anche nella moderna scienza dell’educazione.”32 E’ indubbio, a tal proposito che, ancora oggi, dopo secoli di storia, perdurano e si mostrano di larga attualità gli insegnamenti educativi e didattici derivanti dalla
dottrina
socratica.
E’ sempre accesa, difatti, la fertile discussione sui costrutti basilari introdotti dal noto maestro: la ricerca costante del dialogo, del confronto e della cooperazione, l’arte della maieutica, le problematiche connesse al “fare ragionamento” e ai processi di concettualizzazione. Secondo uno dei più autorevoli storici dell’educazione antica, Henri-Iréné Marrou, occorre attribuire alla figura di Socrate uno spessore pedagogico notevole, in quanto spetta a lui il merito di aver scoperto e abbozzato una serie di tendenze pedagogiche diverse ; di aver cioè percorso in ogni strada solo alcuni passi, ma nel contempo aver tracciato la direzione che fu successivamente seguita. La Verità non può scaturire né erompere dal mondo esterno, né può essere tramandata. Essa è frutto di un processo di ricerca interno all’individuo, contraddistinto da momenti di tensione e di riflessione e che veicola come mezzo educativo e pedagogico più efficace il ragionamento che si esplica, a sua volta,
attraverso
la maieutica (azione
del
trarre
fuori).
Avveniva, infatti, che l’allievo, dopo esser stato interrogato dal maestro su 32
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, p.210
47 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
una determinata questione, era indotto all’abbandono delle possibili certezze e alla rinuncia dei propri pregiudizi, per poter dar spazio all’azione della maieutica, atto squisitamente educativo in grado di far venire alla luce la “verità” che è nell’animo di tutti (evidente è la correlazione con il termine “educare”, derivante dal latino “educere”, ovvero, “trarre fuori”) già richiamata nella definizione iniziale. L’azione della maieutica ha rappresentato, pertanto, il primo grande passo, compiuto nella storia della pedagogia, volto al rifiuto di un metodo impositivo di trasmissione culturale unilaterale, dall’esterno verso l’interno, e lineare,
dal
maestro
verso
l’allievo.
La modalità socratica di intendere la relazione educativo- didattica si caratterizza, al contrario, da una vitale circolarità dialogica che, scombinando il ruolo dei soggetti che vi partecipano, li riveste di nuovo senso: il maestro è colui che sollevando dubbi, destando incertezze, cogliendo contraddizioni, sollecita alla ricerca, indirizzando l’allievo verso la problematizzazione, guidandolo ad intraprendere uno scavo graduale che lo conduce al ritrovamento della verità, alla scoperta di un “sapere concettualizzato”. Afferma
Giovanni
Reale:
“Kierkegaard
esprime
una
profonda
interpretazione della maieutica, ossia che l’aiutare a partorire la verità rappresenta il rapposto più grande che si può instaurare fra uomo e uomo. Kierkegaard scrive: “ Egli era e rimase un ostetrico, non perché non aveva il positivo, ma perché intravide che quel rapporto era il più alto che un uomo possa intraprendere con un altro. E in questo egli continuerà ad aver ragione per tutta l’eternità; perché anche se ci fosse un punto di partenza divino, fra uomo e uomo ci sarà il rapporto vero quando si rifletterà all’assoluto e non ci si baloccherà col contingente, ma dal fondo del cuore si rinuncerà a comprendere quella realtà a metà che sembra essere il piacere degli uomini e il segreto del sistema. Socrate invece era un ostetrico patentato da Dio stesso; l’opera che egli compiva era una missione divina, anche se per gli uomini egli 48 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
dava l’impressione di essere un originale; ed era questa l’ intenzione divina, ciò che Socrate aveva compreso, che Dio gli aveva proibito di generare: fra uomo e uomo il maieuesthai è il compito più alto, perché il generare appartiene a Dio. […] Secondo la concezione socratica ogni uomo ha il suo centro in se stesso e tutto il mondo non fa che concentrarsi in lui, perché la sua conoscenza di sé è la conoscenza di Dio.”33
33
G. Reale, Storia della Filosofia greca e romana, Tascabili Bompiani, 2006, pp. 215-216
49 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
b) Il dialogo e l’ironia Strumento cardine per la realizzazione di tale processo è il dialogo, che apre alla dialettica, intesa come forma di argomentazione che giunge all’unificazione attraverso l’opposizione delle tesi e degli argomenti e permette di costruire un’unità che tende a farsi sempre più ricca. Il metodo di indagine praticato da Socrate costituisce, sotto un certo aspetto, uno sviluppo di quello dei sofisti. Esso pure, infatti, si basa sull'argomentazione discorsiva, ma rendendola più snella, più penetrante, più sincera. Socrate non si vale più come i sofisti della perorazione lunga, complessa, rivolta a sostenere qualche tesi prestabilita; il suo metodo è il dialogo: dialogo tra persone sinceramente intese a sviscerare il problema in esame, a precisarne i termini, a chiarirne gli equivoci, sempre disposte a mutare le conclusioni raggiunte qualora si scoprano nuovi argomenti contro di esse. Questa provvisorietà delle conclusioni è il sintomo di una apertura nuova, di una nuova sensibilità per i problemi, di un profondo amore della coerenza,
che
è
tutto
caratteristico
di
Socrate.
Anche la famosa ironia socratica fa parte di tale apertura. E' una ironia che Socrate rivela innanzitutto contro coloro che si credono grandi maestri, non essendo consapevoli delle vere difficoltà delle questioni; ma non risparmia nemmeno contro se stesso, per evitare il rischio di trasformare le proprie concezioni
in
dogmi.
Il suo amico Cherofonte si è rivolto all'oracolo di Delfo per conoscere chi sia l'uomo più sapiente dell'epoca; e la sacerdotessa risponde che è Socrate. Proprio lui però è il primo a non capacitarsi di tale risposta, e, desideroso di smentire l'oracolo, interroga i più illustri maestri per dimostrare che la loro scienza supera immensamente la propria. Alla fine però deve convincersi che la sacerdotessa aveva ragione: egli è veramente il più sapiente, solo perché sa di non sapere. La coscienza critica della non assolutezza del proprio sapere, è,
proprio
essa,
l'unica
vera
50 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
scienza.
Socrate non ritiene di possedere alcuna verità da riversare nei discepoli. La funzione della sua parola può soltanto essere quella di risvegliare gli animi; di richiamare ciascuno a guardare con sincerità nella propria coscienza. Per questo l'insegnamento di Socrate è maieutico (come abbiamo già avuto modo di vedere), simile cioè all'arte della propria madre levatrice. La levatrice non possiede un figlio da donare alla madre, ma aiuta questa a partorirlo; così Socrate non possiede alcuna scienza già costruita da donare al discepolo, ma solo aiuta il discepolo a chiarire la propria intima consapevolezza. Platone interpreterà questo metodo maieutico in un altro senso 'come processo rivolto a richiamare nel discepolo conoscenze assolute già apprese in un'altra vita); però questa interpretazione è completamente estranea al pensiero socratico. Pur essendo così aperto, l'insegnamento di Socrate non può dirsi privo di conclusione: questa non sarà tuttavia una conclusione teorica (in quanto non consisterà nel possesso di una verità assoluta), ma sarà una conclusione morale. Risvegliando ciò che vi è di più intimo nelle coscienze, l'insegnamento avvia i giovani alla virtù: la virtù infatti è sapere, cioè consapevolezza dei valori che l'uomo porta in sé, è superamento della propria limitatezza con la comprensione di ciò che accomuna tutti gli individui. Il metodo socratico oltreché dialogico-dialettico è dunque esortativo cioè rivolto all'arricchimento della personalità umana in tutta la sua complessità. Vi è una profonda unità fra questi due aspetti del socratismo. Così come la verità non si può risolvere per Socrate in alcun sistema chiuso di nozioni o di concetti, ma è essenzialmente ricerca e metodo del vero; così come egli trasferisce il piano del pensiero dalla soffia (= sapienza) a quello della filosofia (= amore, ricerca del sapere), parimenti l'etica non potrà tradursi in una serie di precetti morali. Non esistono cose in sé buone o cattive, comportamenti in sé giusti od erronei. Le une e gli altri sono qualificati dall'intenzione che ha dato loro luogo e dal senso che essi assumono nella
51 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
singola situazione. Il relativo giudizio, in altri termini, non può essere determinato dal loro contenuto ma soltanto dalla loro modalità. E l'unica modalità positiva è per Socrate quella in cui la ragione e la coscienza controllano i comportamenti, conferiscono senso alle cose; controllo e senso che a loro volta non andranno intesi moralisticamente, ma in funzione della conquista di un sapere logico e pratico sempre più vasto ed armonico, cioè della suprema vocazione dell'uomo, la conoscenza. Tutta la filosofia di Socrate era dunque tesa al riconoscimento di una unità del valore, per cui il vero non poteva essere più separato dal giusto né entrambi dal bello; e tale unità diventava a sua volta il traguardo, il bersaglio cui l'intera vita dell'uomo e della società dovevano indirizzarsi, trovando ín questa tensione il proprio significato e la propria giustificazione. Anche qui è bene fare un’ operazione di collegamento con le prassi educative moderne e scoprire quanta sia stata l’influenza del metodo socratico nelle odierne prassi educative. A tal proposito proponiamo un testo realizzato attraverso la traduzione liberamente riadattata ed integrata dell’articolo The Structure and Function of a Socratic Dialogue di Lou Marinoff, , American Philosophical Practitioners Association, Inc. Struttura e funzionamento di un Dialogo socratico 1.Che cos’è un Dialogo socratico? 2. Il Metodo del Dialogo 3. La Struttura del Dialogo 4. Come prepararsi per un Dialogo 5. Ricapitolando…
52 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
1. Che cos’è un dialogo socratico? Il dialogo socratico è una pratica filosofica comunitaria basata su un metodo formale, ispirato dall’opera del filosofo tedesco Leonard Nelson (18821927). In genere, è organizzato all’interno di un piccolo gruppo di persone – tra le 5 e le 10 – (studenti, colleghi di lavoro, appassionati di filosofia, ecc.), guidato da un filosofo che funge da facilitatore. Scopo del Dialogo è ricercare, comunitariamente, una risposta condivisa – per quanto aperta e problematica – ad una domanda di tipo universale (per esempio: “che cos’è la felicità”?, “cos’è l’onestà?”, “come si può volgere in positivo un conflitto?”, “qual’è la natura del dolore?”, “su quali principi dovrebbe basarsi il rapporto tra colleghi?”, “qual è lo scopo dell’educazione?”, ecc.). Il “Dialogo socratico” non dev’essere confuso con il cosiddetto “metodo socratico” (elenchos) sviluppato ed illustrato da Platone nei suoi Dialoghi. Pur ispirandosi in termini storico-filosofici alla tradizione socraticoplatonica, la moderna pratica del “Dialogo socratico” ha proprie peculiarità. Se nei Dialoghi il personaggio Socrate, in molti casi (soprattutto nei cosiddetti “dialoghi aporetici”), aiuta o forza i suoi interlocutori a scoprire le contraddizioni implicite nei loro assunti di partenza, di contro, il Dialogo socratico viene svolto con comunanza d’intenti all’interno di una compagnia di individui interessati e opportunamente motivati a darsi ragione di un concetto generale, attraverso un’accurata indagine di cosa esso sia o non sia.
53 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
2. Il metodo del Dialogo Il metodo del Dialogo socratico dovrebbe essere di per sé tanto gratificante per i partecipanti quanto elevati sono gli obiettivi che ci si propone. Il coinvolgimento di tutti a livello comunitario è determinante per la buona riuscita della pratica. Il gruppo è stimolato a prendere delle decisioni fondate sul consenso, che rappresenta, a differenza di altre più diffuse modalità relazionali, la caratteristica distintiva di questa pratica. Innanzitutto, poiché il Dialogo socratico non è né un dibattito, né una controversia, né una qualche altra forma di competizione dialogica, non prevede né vinti, né vincitori. Non è il singolo individuo, ma l’intero gruppo ad avere successo o a fallire nell’intento di raggiungere una conclusione accettabile in un tempo prestabilito, ed ogni fase di questo processo, ogni obiettivo intermedio è centrato soltanto attraverso il consenso. Si tratta, insomma, di un vero e proprio gioco di squadra, in cui la dimensione comunitaria è fondamentale e fondante. Tant’è che ogni domanda, dubbio, intuizione, osservazione, obiezione o ragionamento offerto da ogni singolo partecipante viene preso in considerazione ed esaminato dall’intero gruppo, fintantoché ciascuno non si senta soddisfatto di quanto deliberato. Il metodo della ricerca del consenso, attraverso un confronto dialogico autentico ed aperto all’Altro, in cui ciascuno si mette in gioco in prima persona – consenso che porta all’assunzione individuale e collettiva di responsabilità nei riguardi della decisione finale presa dal gruppo sulla questione di partenza – si contrappone, evidentemente, ad altre ben note modalità relazionali di gruppo. Un dibattito, ad esempio, può servire ad esercitare la prontezza di spirito, le abilità retoriche e il potere di persuasione, ma coloro che sono coinvolti nel dibattito si trovano “imprigionati” in un contesto relazionale che li obbliga spesso a vincere o a perdere difendendo tesi che loro stessi avvertono per primi come imperfette, fallaci o, peggio, deleterie. In altre parole, la situazione non 54 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
consente loro di lavorare sulle imperfezioni o sulle aporie contenute nei loro assunti, mettendo a fuoco tesi ulteriori e progredendo nella ricerca. Una votazione democratica può esser utile a rivelare l’opinione della maggioranza, ma i votanti raramente si interrogano a fondo sull’essenza delle questioni in gioco. E non sempre l’opinione della maggioranza coincide con il miglior argomento o con la migliore soluzione al problema. Una catena di comando basata su una rigida gerarchia, come nell’esercito o nella burocrazia, è utile a far rispettare degli ordini o delle direttive di rilevanza sociale o politica, ma, va da sé, tali ordini o tali direttive non possono essere sottoposte ad analisi, né messe in discussione per esser partecipate. E a prendere le decisioni o ad emanare normative e divieti nella vita accademica o in quella politica sono le cosiddette commissioni, ristretti gruppi di persone precostituiti all’uopo, che sovente – come è noto – sono caratterizzate in negativo da disaccordi interni, acrimonie, scenari da “terzouomo”, e altri compromessi insoddisfacenti o finanche nocivi. Difficile meravigliarsi, pertanto, che i metodi applicati per prendere una decisione, in questi casi, tendano a produrre discordia piuttosto che un armonioso accordo, a produrre fazioni e partiti contrapposti piuttosto che condivisione e partecipazione generalizzata, “particolari” in luogo di “universali”. La ricerca della verità è costantemente sacrificata alla logica dell’espediente; il consenso è ostacolato dal continuo, spesso pretestuoso, prender tempo. Tali approcci metodologici evidenziano difetti e lacune incolmabili che producono frustrazione, adattamento forzato, abulia. Al contrario, il Dialogo socratico anticipa il dissenso, concedendogli lo spazio che merita, e attraverso l’esame e il confronto delle varie posizioni alternative, produce infine una forma di consenso che soddisfa i partecipanti. Il metodo del consenso, dunque, esclude le più comuni e grossolane imperfezioni che caratterizzano le altre forme di relazione. Sono le virtù della pazienza, della tolleranza, dell’attenzione, della meditazione e del confronto civile a prevalere. Ma al contempo vi è modo di lasciar sgorgare e 55 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
fluire le proprie emozioni, di dar loro corpo smussandone i tratti più taglienti in un contesto allargato di dinamiche relazionali dal sicuro effetto catartico. Nel momento in cui i partecipanti ad un Dialogo socratico entrano nel vivo di tale processo, sviluppando reciprocità e sintonia, iniziano a rendersi conto, pian piano, che questa volta non hanno a che fare con un dibattito, che la polemica non è necessaria, la volontà di prevaricare il prossimo è bandita, non ci sono in gioco elezioni, né gerarchie, né interessi di partito. Si tratta, invece, di una ricerca cooperativa volta all’individuazione di una verità universale, che deve emergere, quanto più possibile, attraverso il lavoro di gruppo. Sotto questo profilo il Dialogo socratico assomiglia al lavoro di studio e di deliberazione che viene svolto in tribunale da una giuria popolare. All’interno di una giuria gli sforzi dei singoli componenti sono volti alla ricerca del consenso, e alla deliberazione finale si giunge soltanto dopo un lungo e complesso dibattimento. I giudici popolari sono tenuti ad esprimersi oltre ogni ragionevole dubbio, dopo aver passato in rassegna, analizzato e soppesato gli aspetti più salienti del caso: lo stesso devono fare i membri della comunità di ricerca, prima di formulare ed articolare una definizione universale, al termine del Dialogo socratico. Sin qui le analogie. Anche le differenze, d’altra parte, appaiono manifeste: nel Dialogo socratico non si sta giudicando una persona, ma indagando una verità universale. I partecipanti, pertanto, sono legati tra loro da condizioni e norme di natura completamente diversa: non quelle della legge, bensì quelle del discorso razionale. Sarà lo stesso gruppo a presentare le prove e a decidere quale prova è più opportuno passare al vaglio della ragione. Non si presenteranno testimoni esterni alla comunità, ma ciascuno, a tempo debito, sarà chiamato a testimoniare direttamente e a svolgere una disamina della sua e dell’altrui testimonianza. Al contrario di una giuria che formula la sua deliberazione all’interno del consesso processuale senza di fatto avere il potere di emanare la sentenza, il Dialogo socratico produce attivamente sia l’equivalente del processo che del verdetto finale. Sotto questo aspetto, la 56 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
pratica filosofica è completamente autonoma e fine a se stessa. Il Dialogo socratico prevede tre livelli (o ordini) di discorso: innanzitutto, il discorso rappresentato dal dialogo in sé e per sé; in secondo luogo, quello strategico intorno alla direzione o alla forma da dare al dialogo; in terzo luogo, il meta-discorso intorno alle regole che lo governano. Il filosofo, in quanto facilitatore, non dà alcun contributo al primo ordine di discorso: si limita semplicemente ad annotare quanto emerge dal dialogo fase per fase, sulla falsariga della struttura prestabilita (vedi sotto). Per quanto concerne il secondo livello discorsivo, quello propriamente strategico, recita comunque un ruolo minimale: giacché gli è consentito, su richiesta, offrire alcuni suggerimenti intorno alle fondamentali strategie da adottare. È nell’ambito del terzo ordine, il meta-dialogo, che esplica attivamente la sua funzione. Si può ricorrere al meta-dialogo in ogni momento, su sollecitazione di un membro del gruppo che abbia bisogno di un chiarimento riguardo alle regole o a qualsiasi altra questione connessa al funzionamento generale del dialogo. Il facilitatore ha la responsabilità di fornire risposte precise e circostanziate a domande di natura meta-dialogica. Gli è consentito, inoltre, interrompere i lavori e dare vita ad un momento di riflessione metadialogica, qualora a suo giudizio alcuni passaggi procedurali richiedano ulteriori chiarificazioni. In tal modo, il filosofo-facilitatore assomiglia ad un direttore d’orchestra: non dà un contributo esplicito alla sinfonia, unendo la sua voce al coro strumentale, ma fa risuonare la sua meta-voce nel condurre ed armonizzare la performance complessiva del gruppo.
57 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
3. La Struttura del Dialogo La struttura del Dialogo socratico è tipicamente simmetrica. Può esser paragonata alla forma di una clessidra, più larga in cima e sul fondo e più stretta al centro. Si comincia dalla sommità, prendendo in considerazione una domanda di carattere universale (ad esempio, “che cos’è l’onestà?”). Il tema può scaturire naturalmente dal gruppo, a seconda delle circostanze. Un gruppo di dipendenti ospedalieri, medici, psicologi, infermieri, portantini, per esempio, potrebbe sentire l’esigenza di interrogarsi intorno al significato del dolore o della sofferenza all’interno della struttura sanitaria. Oppure, uno staff di insegnanti porsi la domanda: “che cosa significa formare o educare?”. Quando la domanda non è immediatamente chiara e a portata di mano – il gruppo magari è composto da elementi eterogenei quanto a professione, interessi, cultura – il filosofo-facilitatore sollecita i partecipanti, uno dopo l’altro, a proporre una questione, da scegliere in base alla sua rilevanza o urgenza sul piano personale o sociale. Dopo averle annotate su un taccuino o su una lavagna, le sottopone al giudizio del gruppo affinché deliberi in merito alle varie proposte ed eventualmente le mette ai voti. Individuato l’universale da sottoporre ad esame, ciascun membro del gruppo è invitato a raccontare un esempio tratto dalla propria particolare esperienza, atto ad incarnare o altrimenti ad illustrare tale universale. Il gruppo può liberamente indagare le varie storie proposte, ponendo, di volta in volta, domande chiarificatrici alla voce narrante. Gli esempi dovrebbero essere portati in prima persona ed avere una forte rilevanza autobiografica. È importante, inoltre, che la narrazione sia breve e concisa (la durata di ciascun intervento va stabilita preliminarmente, cinque o dieci minuti al massimo, a seconda della disponibilità di tempo complessiva), quanto più possibile semplice, lineare e scevra di particolare carica emotiva. Non bisogna dimenticarsi, infatti, che anche gli esempi apparentemente più 58 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
elementari possono risultare estremamente complessi se sottoposti al fuoco dell’analisi dialogica. A questo punto, il gruppo è chiamato a scegliere, tra le narrazioni proposte, quella che appare più interessante e significativa per il proseguo del dialogo, ovvero per l’individuazione di una definizione condivisa dell’universale in questione. L’esempio prescelto diventerà il principale veicolo per il successivo processo dialogico. Il suo autore è chiamato ad offrire al gruppo una relazione quanto più dettagliata possibile del caso proposto, che sarà soggetto, passo dopo passo, ad una serie di domande da parte del gruppo, al fine di elaborare e comprendere a fondo il senso della narrazione, in tutti i suoi molteplici aspetti. Il facilitatore ha il compito di trascrivere, paragrafare ed evidenziare ogni passaggio del racconto, cosicché il gruppo possa avere sotto mano una “storia scritta” da poter eventualmente consultare. Il gruppo è chiamato, quindi, a specificare e delimitare il punto esatto della narrazione in cui l’universale si manifesta e prende corpo. Se la questione in ballo fosse “che cos’è l’onestà?”, in tal caso il gruppo dovrebbe essere in grado di determinare con esattezza il passaggio narrativo che contiene l’idea di “onestà”, le sue eventuali occorrenze, gli elementi narrativi che alludono ad essa e i possibili collegamenti interni. Procedendo innanzi, il gruppo deve arrivare a dare una definizione di “onestà” che descriva adeguatamente ciò che è stato individuato all’interno del racconto. L’articolazione di tale definizione, sempre ottenuta in maniera consensuale, conduce il gruppo al punto più “stretto” della struttura a clessidra. L’universale da cui si era partiti è stato, per così dire, “particolarizzato”. Si giunge così al punto mediano della struttura concettuale del dialogo – e, grosso modo, a metà della sua scansione temporale complessiva. Da questo punto in poi il dialogo inizia ad allargarsi. Il lavoro di definizione viene ri-applicato a ciascuno degli esempi precedentemente narrati, trascritti e messi a disposizione del gruppo, ma non ancora elaborati. Se la 59 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
definizione è davvero universale, allora – per controprova – dovrebbe adattarsi alle varie narrazioni. In caso contrario, occorre apportare le necessarie modifiche attraverso successive rielaborazioni. Nell’ultima fase, collocata verso il fondo della clessidra, il gruppo cercherà di immaginare eventuali contro-esempi, atti a confutare o falsificare la definizione sulla quale si era precedentemente accordato. Se è il caso, c’è ancora spazio per ulteriori modifiche o ritocchi; altrimenti, il procedimento può dirsi concluso con successo.
4. Come prepararsi per un Dialogo Per partecipare ad un Dialogo socratico non è affatto necessario essere filosofi laureati, possedere titoli accademici o nozioni più o meno approfondite di filosofia. A rendere affascinante il Dialogo socratico è proprio il fatto che vi possa partecipare chiunque abbia voglia di mettersi in gioco in modo autentico e sincero, e sia disposto a ricercare una verità universale radicandola a fondo nella sua concreta e particolare esperienza di vita. Lo scopo del Dialogo è proprio quello di raggiungere l’universale partendo dal particolare. Ma non è previsto alcun riferimento preliminare alla letteratura filosofica, né occorre esplicitarlo durante lo svolgimento della pratica. La questione posta all’inizio non si affronta citando il pensiero di Nietzsche o di Platone al riguardo, bensì discutendo ed analizzando quanto i membri del gruppo hanno realmente sperimentato in prima persona. Tutti noi abbiamo fatto esperienza e rechiamo insita la capacità di pensare con la nostra testa. In un Dialogo socratico non è ammissibile alcun richiamo a pubblicazioni scientifiche o letterarie: il riferimento all’esperienza di ciascuno è ragione necessaria e sufficiente al fine che ci si prefigge. Nel regno delle arti filosofiche, la sintesi dell’esperienza plurale del gruppo può di fatto arrivare a conquistare un di più di verità – e quindi una più vasta 60 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
universalità – rispetto alla ruminazione del singolo intelletto, non importa quanto fine e profondo esso sia. Il Dialogo è una sinfonia, non un assolo. Quindi il miglior modo per prepararsi ad esso consiste nel mantenere la mente aperta e nel coltivare la propria disposizione interiore al confronto e alla ricerca, sforzandosi di arricchire il lavoro comunitario con esempi appropriati ed illuminanti (scegliendoli con cura preliminarmente, sempre che l’argomento del Dialogo sia già noto ai suoi partecipanti). 5. Ricapitolando… La Domanda Le migliori domande sono quelle espresse nella forma: “che cos’è X?”. Ad esempio le domande: “che cos’è l’onestà?”, “che cos’è la felicità?”, “che cos’è la libertà?”, oppure “che cos’è la giustizia?”, sono decisamente indicate per un Dialogo socratico. Il gruppo è invitato a selezionare la sua domanda il prima possibile, consultandosi, se necessario, con il facilitatore. Gli
Esempi
Una volta che si è scelta la domanda, ciascun membro del gruppo dovrebbe pensare ad un esempio tratto dalla sua esperienza personale che metta in luce o personifichi l’universale che si sta ricercando. Ripeto, un esempio appropriato dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: essere concluso, a tutto tondo, in uno ridotto spazio di tempo; la sua narrazione non dovrebbe essere eccessivamente emotiva, sia nella forma che nel contenuto, per non ostacolare la successiva analisi razionale; essere il più breve e semplice possibile; essere portato in prima persona e riguardare specificamente l’universale che si sta indagando, con la disponibilità da parte del narrante di rispondere dettagliatamente alle eventuali domande che il gruppo gli rivolgerà. Per questo, sarebbe meglio che i partecipanti scegliessero in anticipo i loro esempi.
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Le Regole generali Se il facilitatore ha la responsabilità di guidare il gruppo attraverso le varie fasi del Dialogo, ciascun partecipante è tenuto a rispettare le seguenti regole, le sole atte a garantire un’esperienza intensa e gratificante. 1. Esprimere i propri dubbi 2. Ascoltare con attenzione e rispetto gli altri 3. Evitare assolutamente i monologhi 4. Non fare domande ipotetiche 5. Non citare né fare riferimento a pubblicazioni di alcun genere 6. Sforzarsi di mirare al consenso Criteri per un buon esempio 1. Basarsi sulla propria esperienza personale 2. Narrarlo in un periodo di tempo limitato 3. Narrarlo in maniera non troppo emotiva 4. Breve e conciso 5. Semplice 6. Essere disponibili a rispondere alle domande della comunità
Alcune considerazioni accessorie: spazio, tempi, numero di partecipanti, disposizione del gruppo Per creare un clima adatto alla riflessione comunitaria, va da sé, è opportuno scegliere una sala sufficientemente spaziosa ed accogliente, né troppo calda, né troppo fredda, al riparo da fonti di rumore eccessive e dal passaggio di estranei. Elemento di arredo importante (ma non indispensabile) potrebbe essere un tavolo, sufficientemente grande da accogliere i partecipanti, con un numero congruo di sedie. I partecipanti, in genere, non dovrebbero superare la decina o la dozzina, 62 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
più il filosofo-facilitatore. Un numero maggiore renderebbe più dispersiva la sessione di Dialogo socratico. La scansione dei tempi, naturalmente, è un fattore fondamentale. Il facilitatore dovrà far sì che ogni fase del Dialogo rimanga entro i limiti di tempo prestabiliti, informando preventivamente il gruppo ed intervenendo durante i lavori, se necessario. In genere, si dovrebbe avere a disposizione un orizzonte temporale abbastanza lungo, senza interruzioni di sorta: una giornata di lavoro, mattina e pomeriggio (con un breve spuntino), sarebbe l’ideale. Nel caso si renda necessario dividere il Dialogo in più incontri, le riunioni successive (due o tre) andrebbero fissate il prima possibile. Indispensabile, in tal caso, la sintesi scritta che il facilitatore va compilando durante le varie fasi del Dialogo, che sarà brevemente riesaminata dai partecipanti all’inizio di ciascun incontro. La disposizione del gruppo dovrebbe essere in circolo, onde facilitare lo scambio dialogico e la comunicazione non verbale.
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Conclusioni finali Socrate da una parte, Protagora e Gorgia dall’ altra. Potremmo dire che rappresentano l’antropomorfizzazione dei due più importanti paradigmi dell’educazione. Il Maestro e l’insegnante; chi sa di non sapere e chi sa di sapere; chi ri-conosce molte verità, tutte ugualmente importanti, o non ne ammette possibile neanche una e, chi la ricerca dentro di sé, una e incontrovertibile; chi usa abilità retoriche e persuasive per dimostrare come vera la propria tesi/verità e chi domanda e sollecita affinchè ognuno, riconoscendo la propria ignoranza, trovi nel profondo di sé stesso la luce che lo collega all’ autentica conoscenza. Maestro e Insegnante non sono proprio dei sinonimi. Tutti abbiamo avuto decine di insegnanti, ma quando ci siamo accorti di aver incontrato un maestro? Sembra proprio che, ripercorrendo la filosofia educativa dei sofisti e di Socrate, così come abbiamo fatto nei capitoli precedenti, possiamo notare che tra insegnante e maestro ci sia proprio una grande differenza: l’insegnante, figura peraltro di grande utilità e importanza, è chi spiega che cosa fare e come farlo; Maestro (a questo punto la maiuscola è d’obbligo) è chi si fa promotore della crescita di ognuno di noi: una crescita non necessariamente oggettiva e comportamentale o esteriore, ma piuttosto quella soggettiva e intersoggettiva, cioè prevalentemente interiore. L’ implicito sembra essere che tutti sapevamo chi era l’insegnante di una determinata materia nel momento in cui ce la insegnava, ossia avevamo la consapevolezza del rapporto insegnante-allievo poiché era in tempo reale; ma solo più tardi, ci siamo resi conto di aver trovato un Maestro (magari anche identificabile con lo stesso insegnante della stessa materia). E’ solo in apparenza paradossale, quindi, che ricordare un maestro è come ricordare il primo amore (Il fondamento erotico del sapere nella tensione che anima la 64 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
ricerca socratica, ben descritta del “Protagora”)34, perché se l’insegnante ci ha arricchito di nozioni, il Maestro ci ha cambiato la vita, perché ci ha dato la capacità di capire, interpretare e intervenire sul mondo. Ci viene da chiedere, a tal proposito, chi siano o chi siano stati nella vita di ciascuno di noi i Maestri. Ciascuno di noi anche se non ci ha mai pensato o non se ne è accorto, ha avuto dei maestri. Purtroppo, molto spesso tendiamo a pensare che i maestri siano stati o siano quelli che ci hanno insegnato meglio qualcosa, nel senso per lo più concreto, meccanico, contenutistico e ristretto del vocabolo: chi ci ha insegnato a parlare meglio una lingua, l’aritmetica, il latino, uno sport, un aspetto del lavoro… Ciò significa dare la precedenza e/o il primato ai Contenuti di un certo aspetto della nostra esistenza, mentre i maestri sono in realtà coloro che meglio e più, hanno inciso sui Processi della nostra crescita fisica o intellettuale, lavorativa, esperienziale, o esistenziale. Questa è la ragione per la quale crediamo che il problema sia proprio quello di distinguere tra Contenuti e Processi. In fondo i Maestri sono stati e sono, nel nostro vissuto e nella nostra memoria, persone di cui ci ricordiamo di più. Stiamo parlando insomma di quegli individui di cui ci rammentiamo perché in un modo o nell’altro, più hanno inciso sulla nostra crescita e formazione, nella nostra maturazione e autoformazione. I Maestri sono quindi dei “promotori della crescita di ognuno”: una crescita interiore ma che riguarda anche e soprattutto il rapporto con gli altri, con la realtà, con la vita esterna, con il sociale, con l’ambiente, con la cultura in cui ci muoviamo, agiamo, ci sviluppiamo e ci realizziamo. In questa prospettiva risulta chiaro cosa può significare imparare dai Maestri. Tramite loro, possiamo cambiare, arricchire la nostra esperienza, aumentare le nostre possibilità di capire e comprendere, interpretare e intervenire sul mondo, sia su quello proprio che su quello esterno, sia sulla scena manifesta che su quella nascosta della propria vita. In un certo senso, ci offrono la
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Zeami G., Presti F., Daimonicità del Logòs, Mimesis Filosofie, 2011, p. 55.
65 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
possibilità di cogliere e interpretare il nostro essere nel mondo, nonché di agire adeguatamente su di esso. In sostanza, i Maestri sono tutte quelle figure indimenticabili che si sono succedute nell’ evoluzione della nostra vita, sia a livello della consapevolezza che della inconsapevolezza. L’esito bello o brutto, positivo o negativo, cognitivo o affettivo del rapporto di ciascuno di noi con i propri Maestri verrà sempre rammentato, rievocato e rivissuto. Possono sempre essere evocatori in proposito, per ciascuno di noi, alcuni grandi esempi. Assumono infatti un particolare significato di guida e di faro, quei Maestri che ti accompagnano nelle crisi personali. Vale a dire nei salti di trasformazione individuale, quando avviene la messa in crisi più o meno parziale o totale delle proprie convinzioni, del proprio mondo, del modo in cui ciascuno è stato allevato ed educato. Sono Maestri coloro che lasciano ad ognuno dei propri allievi la possibilità di “crescere se sognato”, come diceva il poeta Danilo Dolci, ossia che ciascuno di noi è in grado di superare quel che è soltanto se qualcun’ altro è disposto ad investire il suo tempo per immaginare ciò che ancora non è. Il Maestro è quindi un visionario, un artista e un artigiano che lavora con pazienza una materia che muta costantemente. E’ un ostetrico che intuisce il valore di ciascuno dei propri ragazzi, molto spesso ben celato, soprattutto in coloro che si mostrano maggiormente ostili alla relazione. E’ colui che vede nelle relazioni più difficili una scommessa con se stesso, una passione da coltivare e non un’occasione per concluderla velocemente. I Maestri non sono coloro che, cognitivamente parlando, risultano più bravi o più abili nel fare lezioni. Anche. Maestri lo sono soprattutto coloro che lasciano una traccia indelebile, un’impronta profonda, nel cuore dei loro allievi così come, suo malgrado, lo è stato nell’ Atene del V secolo a.C. e, successivamente rimasto immutato nel tempo, grazie agli scritti del suo più indisciplinato allievo Platone, Socrat 66 Massimiliano Massimi, L’arte di educare e di formare
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