Università degli studi di Firenze Facoltà di architettura Dipartimento di Tecnologia dell’Architettura e Design “Pierluigi Spadolini” Corso di Laurea in Disegno Industriale - A.A. 2008/2009
Tesi di Laurea di Massimiliano Meoni
Relatore prof. Paolo Pecile Correlatore interno Angelo Minisci
Firenze, 15 Luglio 2009
IBRIDO URBANO di Meoni Massimiliano
A tutti coloro che mi hanno aiutato in questo viaggio e in particolare a colei che al viaggio ha dato avvio.
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Indice
Premessa Introduzione
1 1.1 1.2 1.3
Sí, viaggiare Un viaggio lungo una vita Viaggiare non é solo spostarsi Dalle bisacce alle postine
10 11 13 16
2 2.1 2.2 2.3
Da rifiuti a risorse Materie prime seconde Strategie, metodi e scenari... Il riciclo può anche essere moda
25 26 30 37
3 3.1 3.2 3.3 3.4
Ibridazioni metropolitane La città in sella Proposta di inserimento nel mercato Riflessioni progettuali Progetti che faranno strada
45 46 49 52 60
Eco-scud Bi-sacce Materiali usati L’incontro con Piaggio Contesti d’uso Conclusioni
61 66 68 73 74 81
Fonti Sitografia Bibliografia Riviste consultate Ringraziamenti
82 83 84 85 86
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Premessa Per noi che viaggiare non significa spostarsi, né andare in un posto ben preciso o già stabilito prima ancora di partire. Per noi che una curva è molto di più di un oggetto unidimensionale e continuo che non ha niente a che vedere con la geometria. Per noi che l’asfalto non è solo una mistura da costruzione. Per noi che il vento è un compagno di viaggio. Per noi che non potremmo mai uscire di casa senza la nostra borsa in cui riporre tutto ciò che sia in grado di farci sentire a casa pur non essendoci realmente. Per noi che non importa spingere sull’acceleratore per sentire un’emozione, ma basta andare e farlo dolcemente, armoniosamente e ciò che più conta sul nostro scooter. Per noi che il nostro motorino è questo e molto altro di più. Per me, che ho deciso così di raccontare un’affezione, uno stile di vita e un viaggio che non sono stato solo a sentire, a condurre, a compiere.
Pronti, si parte.
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«Il viaggio è una porta attraverso la quale si esce da una realtà nota e si entra in un’altra realtà inesplorata, che somiglia al sogno.» — Guy de Maupassant
«Per quel che mi riguarda, io viaggio non per andare da qualche parte, ma per andare. Viaggio per viaggiare. La gran cosa è muoversi, sentire più acutamente il prurito della nostra vita, scendere da questo letto di piume della civiltà e sentirsi sotto i piedi il granito del globo appuntito di selci taglienti.» — Robert L. Stevenson
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Introduzione Non è semplice raccontare dei percorsi nati quasi per caso, senza che nemmeno ci sia stato il tempo di accorgersi di essere effettivamente a bordo. La storia del viaggio è in realtà una “storia senza storia”: esiste da molto prima che l’uomo potesse averne memoria. Del resto è pur vero che noi tutti siamo venuti alla luce dopo un viaggio durato ben nove mesi. Ma dopo quel viaggio ne affrontiamo molti altri, alcuni più consapevolmente di altri, alcuni ci pentiamo di averli fatti, altri li rifaremmo appena conclusi e si finisce quasi con il sentire la pressante e costante esigenza di muoversi, di spostarsi, di cambiare aria. Ecco che allora il viaggio diventa una necessità, quasi considerata al pari del dormire o persino del bere e del mangiare. Non è un caso che dopo un lungo periodo di stress e di vita quotidiana molti decidano di staccare e partire. Viaggiare, dunque. Questo accade perché se ci pensiamo bene per noi il Viaggio è sì un’esperienza che ha inizio con una partenza e si conclude con un arrivo, ma contiene in sé una serie di significati connessi che molto probabilmente non riusciremmo mai a esplicitare per intero. Un viaggio possiede intrinsecamente sensazioni di stupore, desiderio, divertimento, conoscenza, esperienza, cultura, prova, ricongiungimento, avvicinamento, stupore, avventura… Oppure stati d’animo completamente opposti come tensione, svelamento, paura, sgomento, vertigine, abbandono, lacerazione, morte, esilio, perdita, distacco. Può essere quindi tutto e il contrario di tutto. Non dimentichiamo poi una ulteriore possibilità che le tecnologie di oggi ci offrono: viaggiare senza realmente muoversi. Non c’è più un vero limite, la libertà di andare via ha creato nuovi uomini, ha creato frontiere più lontane e non solo materiali e geografiche, perché l’uomo di questo millennio ha imparato a navigare rimanendo seduto senza muovere un niente, inerpicandosi tra montagne caotiche di sogni e di idee, correndo veloce tra colori, musica e vita. Ma quali sono le mete? Quelle si trovano dentro ognuno di noi, si fanno sentire oppure no, piano, lentamente, inaspettatamente, fluiscono fuori, come magma fluiscono cautamente da un vulcano di immagini incandescenti. Le mete, quelle vere, sono nascoste bene dietro la curva del cuore, noi ce l’abbiamo nel sangue quelle mete e tutti quei viaggi. L’uomo non può rimanere fermo per sempre, il suo istinto lo ha portato oltre la sua stessa immaginazione ritornando
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anche ferito ma con quella costante e testarda voglia di andare sempre avanti, passo dopo passo. Stilare una sorta di cronologia, o un vademecum storico e letterario sul tema di viaggio è impresa ardua e questo volume non potrebbe mai essere esaustivo in tal senso, ma non si possono dimenticare importanti contributi, riemersi più e più volte nelle memorie arrugginite di passati studenti come noi. Per chi poi compie percorsi paralleli mentre affronta una singola tematica, a prescindere da ciò che si legge, da ciò che si sa ma soprattutto da ciò che ancora non sappiamo risulta difficile. E allora mi tornano alla mente gli infiniti viaggi di Ungaretti, il suo essere nomade e girovago al tempo stesso, un viaggio compiuto nella speranza di trovare la vita e l’armonia per sentire il meno possibile lo scorrere del tempo. Con l’uso delle parole Ungaretti parla più volte di un viaggio che ha il sapore della morte e della lacerazione, per poi rifiorire in un barlume di vita emozionale e sentimentale. «E subito riprende il viaggio come dopo il naufrago un superstite lupo di mare» E il viaggio riprende dopo la guerra vissuta in prima persona dalla quale rialzarsi e affrontare il cammino e la sopravvivenza, senza mai arrendersi. Ungaretti dilata le sue mete, il suo spazio, tanto da naufragare su isole mai rintracciabili ed irriconoscibili, su terre dove si isola completamente in punti separati dal resto del mondo non perché lo siano realmente, ma perché nell’animo può allontanarsi in atmosfere rarefatte. Ungaretti viaggia, senza che nessuno lo riconosca in un anonimato favoloso e meraviglioso. Come non citare poi Dante nella sua Divina Commedia che compie un viaggio che si potrebbe definire mistico, della conoscenza. Si trova da principio smarrito in una selva oscura, vede un dilettoso colle che splende al sole: si trova cioè in uno stato d’animo d’ignoranza ed errore e vede possibile la redenzione.
Allegria di naufragi, G. Ungaretti, 1919.
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Dante compirà poi il suo viaggio in compagnia di Virgilio attraverso l’inferno prima e il purgatorio poi, per poi accompagnarsi a Beatrice quando le porte del paradiso saranno di fronte a lui spalancate. Scorrendo sommariamente a puro titolo introduttivo, altro importante passo storico che ritengo di dover citare è certamente il miglioramento della rete stradale, realizzato da Napoleone, che aveva già permesso un’organizzazione di trasporti a cavallo, ma tutto questo quasi sminuisce davanti all’invenzione della locomotiva, piano la ferrovia si affermava prima in Inghilterra poi sul resto del vecchio continente europeo e sul nuovo continente americano. Contemporaneamente le navi a vela furono messe da parte per passare alla navigazione a vapore. Ed era inevitabile che tutto questo si ripercuotesse sulla vita e l’economia dei popoli Europei e Americani: il veloce scambio di merci, la paradossale vicinanza che si andava creando tra due città lontane, ed il concetto di “lontano” che si ridimensionava lentamente: paesi prima separati da giornate di viaggio a cavallo si avvicinano. Il concetto di viaggio poi non è nemmeno lontano dall’arte, tutt’altro: “Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà decisamente la sensazione dinamica eterna come tale”. Questo è ciò che fa Boccioni nelle sue opere, nei suoi quadri, con i suoi colori. Guardare questi quadri e soffermarsi a pensare a quegli oggetti, a quelle persone: è una stazione, è proprio una stazione con tanto di treno, passeggeri, lacrime e saluti, e sono tre momenti ben distinti: gli addii, la partenza delle persone andate, e la partenza delle persone rimaste [3]. E si scorge quasi vivo il dramma, la nostalgia della lontananza: i rumori si fanno sentire fuori da quei colori, il vento che porta lontano il vapore, un rombo vecchio e lento del treno, le parole, le ultime parole della gente – addio!, appunto –, i passi sul pavimento, la voce dall’altoparlante che incita a salire i passeggeri – in carrozza! –, le valige sopra e sotto i sedili, il fischio del ferroviere, le ultime porte del treno che si chiudono, le ruote cigolano, il treno si muove, va, i finestrini aperti, le mani fuori che salutano.
La pittura futurista. Manifesto tecnico, 1911.
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Si fanno annusare gli odori, è come sentirli sotto le narici per poi scendere giù in gola: l’odore della ferrovia è inconfondibile misto a mozziconi di sigaretta non spenti e vapore e profumo di donne e dopo-barba di uomini e di sudore di macchinisti e di lavoro. Più tardi poi si può sentire l’odore di lacrime, cioè odore di ultimo saluto, l’odore della scia di fumo-nero di carbone e molto altro può venirci alla mente. Le sensazioni in questi quadri sono tantissime ma più che sensazioni sono piccoli drammi universali che si consumano in ogni istante, ed è tutto quello che ci vuole provocare Umberto Boccioni: movimento. Movimento inteso non come preoccupazione cinematografica: la rappresentazione del movimento, in quei quadri, è l’avvicinamento alla sensazione pura, cioè la durata dell’apparizione, il vivere l’oggetto nel suo manifestarsi. Quel treno che parte, la gente che resta e quella che va, vengono tutti rappresentati non in quel momento, in quel fotogramma istantaneo, ma in un movimento continuo di umori e di cose, viaggiando costantemente. È stato come se si fosse trattato di flash accecanti che sono riaffiorati senza nemmeno doverli chiamare o provocare in qualche modo e che sono stati in grado di generare poi qualcosa di concreto, come questa tesi. Gli esempi che si potrebbero fare sono molteplici e questi sono solo quelli più significativi che mi hanno accompagnato in un percorso che io credevo ancora da scrivere, quando in realtà dentro di me forse già conoscevo quale fosse la meta di questo mio viaggio che adesso andremo a fare insieme.
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SĂ, viaggiare
CAPITOLO 1
1.1 Un viaggio lungo una vita «A chi mi domanda la ragione dei miei viaggi rispondo che so bene quello che fuggo ma non quello che cerco.» — Michel de Montaigne Come già ho detto, non intendo in questo elaborato redigere una lista di contenuti storico/letterari a partire dagli albori del mondo, bensì parlare di ciò che più ho sentito appartenermi nel corso di queste ricerche di tesi. La letteratura di viaggio è un po’ qualcosa che sta a metà fra il diario e il reportage di stampo più prettamente giornalistico. Questo accade poiché la critica moderna vede il viaggio soprattutto come fuga, liberazione, anche se temporanea, da un mondo nel quale non ci si sente più a proprio agio. Il rivolgersi a mondi che si sperano diversi, più liberi, meno corrotti si configura come controprogetto esistenziale: se io conosco il mio spazio e i suoi relativi limiti, questo mi permette di viverlo in maniera più consapevole e naturale anche. Sembra che la letteratura di viaggio fiorisca particolarmente quando in un paese la situazione politica o sociale si fa opprimente. Partire veniva considerato come un’opportunità per riflettere sulla propria cultura. Familiarizzare con ciò che è straniero significa ripensare al proprio mondo, prendere delle posizioni, rinforzare le certezze che quello da cui si proviene sia il migliore dei mondi, oppure metterlo profondamente in crisi. Uomini e donne, sulla scia di J. W. Goethe e dei romantici, intraprendevano soprattutto dal nord Europa il loro Grand Tour verso sud, passando dall’Italia come tappa obbligata. Questo viaggio era considerato un’esperienza formativa irrinunciabile nell’educazione culturale delle persone di classe sociale elevata. Ma la vera sfida nella scelta della meta di viaggio era l’Oriente, considerato come vero mondo “altro”. Lo sguardo del viaggiatore, nel confronto con un mondo così diverso, in bilico fra ammirazione e rispetto e un posizionamento in un atteggiamento di superiorità, viene a modificarsi profondamente rispetto all’appartenenza di genere. Il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale effettuato dai ricchi giovani dell’aristocrazia britannica a partire dal XVII secolo e destinato a perfezionare la loro educazione con partenza ed arrivo in una medesima città. Questo viaggio poteva durare dai pochi mesi fino a 8 anni.
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Significative le prime esperienze di viaggio organizzate da Thomas Cook nel 1845, mentre la prima crociera intorno al mondo, sempre organizzata da Cook, è del 1870. Non era rivolta a ceti alti, ma alla piccola e media borghesia. Un viaggio intorno al mondo con Cook durava dai cinque ai sei mesi. È a lui, celebre pastore e imprenditore britannico, che si deve la nascita e il fiorire dei viaggi organizzati e del turismo moderno. Nel corso dei secoli il viaggio e la letteratura di viaggio sono stati appannaggio prevalente degli uomini: la donna, inquadrata nel ruolo di moglie e madre non poteva permettersi di abbandonare l’ambiente familiare per esporsi a pericolose contaminazioni con altri modi di vivere. Ma se il viaggio è una metafora della vita è innegabile che il confronto e il ripensamento che scaturiscono dal venire in contatto con ciò che è diverso sia un utile mezzo per sviluppare la personalità del viaggiatore. Proprio per questo donne viaggiatrici ci sono state e hanno lasciato traccia delle loro esperienze, grazie a scambi epistolari, a diari personali mai pubblicati o pubblicati postumi. Nell’opinione comune queste donne venivano considerate personaggi bizzarri e sostanzialmente trasgressivi. Per la donna che vive in Europa nei secoli dal 18° al 20° viaggiare significa esporsi ad una rottura netta e alla ricerca di un altro possibile modo di essere. Del resto la massificazione del viaggiare diventa per le donne un’opportunità imperdibile. La loro posizione trasgressiva e di rottura degli schemi rendeva l’ottica di viaggio femminile particolarmente vantaggiosa: il punto di partenza a livello mentale non era quello di superiorità, quanto piuttosto di scoperta. Il tutto improntato ad una curiosità costruttiva, indagatrice. Ne deriva apertura verso tutto ciò che è estraneo, diverso. Lo sguardo è profondo, indagatore, particolarmente attento e focalizzato sulle persone, sui modi di vivere, sui rapporti familiari e sociali, oltre che sul loro modo di rapportarsi con la viaggiatrice. Il tentativo spesso riuscito nelle descrizioni di viaggio di numerose donne è quello di indagare popoli e tradizioni penetrandole dall’interno. In questo, un punto di vista diametralmente opposto da quello maschile, sicuramente più freddo e chirurgico che io cercherò di personalizzare e rendere più familiare e curato possibile.
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1.2 Viaggiare non è solo spostarsi «Se questo mondo fosse un piano infinito e navigando a oriente noi potessimo sempre raggiungere nuove distanze e scoprire cose più dolci e nuove di tutte le Cicladi o le Isole del Re Salomone, allora il viaggio conterrebbe una promessa. Ma, nell’inseguire quei lontani misteri di cui sogniamo, o nella caccia tormentosa di quel fantasma demoniaco che prima o poi nuota dinanzi a tutti i cuori umani, nella caccia di tali cose intorno a questo globo, esse o ci conducono in vuoti labirinti o ci lasciano sommersi a metà strada.» — Herman Melville, Moby Dick Allontanandoci ancora per una volta dai fini progettuali di questo documento, come in ogni impresa che si rispetti, le digressioni e le variazioni sul tema sono d’obbligo. E non si tratta di allontanarsi troppo dalla meta, ma accostarsi a mondi fantastici che hanno lo scopo di illustrare in maniera esaustiva e poliedrica qualcosa che tutti chiamano Viaggio e che nessuno mai vive con la stessa pienezza ed intensità. Narra la leggenda che Psiche, donna amante degli ideali e della perfezione e sposa di Eros, il dio dell’amore, per volontà degli dei non potesse scorgere le sembianze dell’amato. Tuttavia Psiche, innamorata, volle vedere almeno il volto di Eros e decise di illuminarlo mentre dormiva. Svegliatosi d’improvviso Eros si irritò per la disubbidienza di Psiche e la abbandonò. Iniziò così il lungo e disperato pellegrinaggio di Psiche alla ricerca del suo bene perduto, di quell’amore totale che la teneva relegata all’oscurità. Pensò di togliersi la vita, ma una voce le venne in soccorso e le suggerì di recarsi negli Inferi da Persefone e cercare il recipiente dei profumi magici di quest’ultima. Psiche, superate tutte le prove, ancora una volta fu presa dalla curiosità e aprendo il cofanetto dei profumi ne fu avvolta e cadde in un sonno mortale. Eros allora si mosse a compassione e la soccorse con l’aiuto degli dei riconducendola poi nell’Olimpo, dove furono celebrate le nozze sacre.
Moby Dick.
Robinson Crusoe.
Già ai tempi della mitologia quindi il peregrinare e il vagare si connota di significati alti ed intensi, perché il viaggio vuole in qualche modo indicare una ricerca, un ricongiungimento che sia con un amore, o con un luogo, o con un oggetto ma che abbia sempre a che fare con
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il nostro mondo intimo che riesce a trovare pace nello stesso istante in cui si compie il viaggio e si ottengono dunque le risposte a tutte le domande che prima ci tormentavano. Ma l’antesignano del viaggio moderno raccontato e del viaggio avventuroso non può che essere Robinson Crusoe protagonista dell’omonimo romanzo scritto da Daniel Defoe (titolo originale: The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe). In questo libro York – detto Crusoe – affronta una lunga serie di traversate per mare andando incontro spesso e volentieri a burrasche e naufragi. La sua vita si svolgerà parallelamente ad un viaggio fisico che lo vede crescere, imparare, spostarsi e conoscere. Ciò che è importante sottolineare sulla scia di quanto dico nel titolo del paragrafo stesso è che al di là del moto a luogo in sé stesso, Robinson Crusoe vive un viaggio lungo anni ponendosi i grossi problemi dell’anima, dell’essere e del non essere, della vanità del mondo e del valore della meditazione e della solitudine, della salvezza e della provvidenza. È un percorso parallelo a quello della sopravvivenza fisica, che cambierà radicalmente Robinson. Seppure totalmente fantasioso e fantastico, il romanzo prende ispirazione da un fatto vero accaduto al marinaio scozzese Alexander Selkirk che aveva trascorso quattro anni e quattro mesi in solitudine su una delle Isole Juan Fernández. In chiave ulteriormente fantasiosa sono i viaggi intrapresi dal Barone di Munchhausen: viaggi sulla luna, viaggi a cavallo di una palla di cannone e l’impresa fuori dall’umano di tirarsi fuori dalle sabbie mobili tirandosi per i suoi stessi capelli. Come non parlare poi di un altro celebre romanzo citato ad inizio paragrafo, Moby Dick: oggetto del libro è il viaggio della baleniera Pequod, comandata dal capitano Achab, a caccia di capodogli e balene, e in particolare della enorme balena bianca che dà il titolo al romanzo. Tuttavia in Moby Dick c’è molto di più: le scene di caccia alla balena sono intervallate dalle riflessioni scientifiche, religiose, filosofiche e artistiche del protagonista Ismaele, alter ego dello scrittore, rendendo il viaggio un’allegoria e al tempo stesso un’epopea epica. Emblema dell’antico viaggiatore è senza dubbio però Ulisse, la cui vita si dipana come un filo aggrovigliato e tortuoso, pieno di ostacoli e di insidie. È significativo comunque come il narratore delle imprese
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di Ulisse – Omero – descriva il personaggio di Ulisse come “il più saggio dei greci” proprio perché aveva viaggiato molto e aveva visto costumi e usi di molta gente. Ulisse compirà nell’Odissea un lungo viaggio composto da ben dodici tappe, alcune più insidiose, altre più familiari, ma comunque esperienze profonde che si concluderanno con il tanto sospirato ritorno a casa nei panni però di una persona estremamente diversa da com’era partita, più umile e certamente migliore. Continuando a toccare sommariamente il tema del viaggio un posto degno di nota lo trovano i più celebri esploratori di tutte le epoche, come Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano, Vasco de Gama e infiniti altri sulle cui vicende non staremo qui a dilungarci. Insomma, viaggiare è sognare e se il sogno si traduce poi in una realtà ricca di significati e di emozioni, ecco che allora non pensare ad un compagno di viaggio risulta impossibile. È tempo quindi di cominciare a delineare un contesto, una forma, un terreno fertile su cui questo progetto possa, in finale, attecchire. Continuiamo però ad annaffiare questo terreno di contenuti per dare un valore intimo e far sì che degli oggetti inanimati possano prendere forma e animo.
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1.3 Dalle bisacce alle postine Oggi le chiamiamo borse e le facciamo rientrare nella più generica categoria degli accessori, certo che prima di arrivare a questa definizione, anche se non ci pensiamo, le evoluzioni di questo oggetto sono state molteplici. Acceder, questa l’etimologia latina della parola, termine aulico dal significato eloquente: tale vocabolo denota infatti “aggiunta”, “accrescimento”, come se effettivamente il suo possedimento conferisse una sorta di sovrappiù, come se in qualche modo il solo averla e stringerla tra le mani, portarla in spalla o a tracolla possa in qualche modo renderci migliori, più completi. Lungi dunque dalla stessa etimologia latina l’attribuire un significato secondario o superfluo all’accessorio in questione. Addentrarsi in una speciale classificazione nel mondo degli accessori sarebbe alquanto difficile, quantomeno tentare di farla facendo appello alla personale volontà; mi riferirò dunque ad una iniziale ma fondamentale distinzione degli accessori in due grosse categorie dettata da studiosi facenti parti del Comitato Internazionale dei Musei del Costume: - accessori che si portano sul corpo, di cui fanno parte le acconciature, le calze, le calzature, e tutta una serie di accessori che sono complemento dell’abito (da cui a volte derivano) e che in passato sono stati denominati fronzoli; a questa categoria appartengono colletti, polsini, scialli, sciarpe e cravatte. - accessori che si portano in mano, come borse, ventagli, ombrelli e ombrellini, bastoni, fazzoletti.
Antiche bisacce.
Moderne postine.
Nel tentativo di redigere una specie di cronistoria dell’accessorio “borsa”, potremmo partire addirittura dai tempi preistorici quando, in assenza di risorse e di conoscenze tecniche e produttive, l’uomo doveva necessariamente far ricorso alle pelli animali per confezionarsi abiti e relativi accessori. La borsa nella fattispecie nasceva conseguentemente ad un gesto molto semplice: l’accartocciamento della materia prima, grazie al quale si poteva così trovare lo spazio necessario per riporre pietre, armi ed utensili per poterli avere sempre a portata di mano. Ciononostante la borsa così intesa non ebbe un grande successo nemmeno nel momento in cui si diffuse l’uso del denaro come compenso d’acquisto poiché i più preferivano addirittura portarselo nascosto in bocca, ritenendolo luogo più sicuro onde evitare rischi di smarrimento (da qui l’abitudine di riporre nelle bocche
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dei defunti la moneta con cui pagare il simbolico viaggio verso il mondo dei morti). Quando invece la circolazione monetaria si stabilizzò generalmente – a differenza degli anni precedenti in cui il denaro era ad appannaggio di alcuni e non di altri – allora la borsa trovò la sua giusta diffusione. E insieme alle borse nacquero anche – chi avrebbe scommesso altrimenti – i borseggiatori. Dal momento che niente è mai lasciato al caso, i diversi modelli di borsa, evolutesi poi nel tempo, nacquero proprio nel disperato tentativo di far fronte al continuo attacco di questi borseggiatori. Per esempio la crumena era allora quella che noi chiameremmo modernamente “tracolla”; la manticula l’odierna “pochette” da portare in mano, la zona che invece veniva indossata in cintura. Il passaggio successivo da oggetto contenitivo con scarso valore ornamentale a oggetto simbolo di eleganza, avvenne grazie esclusivamente alle donne che già in epoche antiche fruivano di preziose borsette, che talvolta venivano loro regalate dagli uomini. Seppure si possa essere certi dell’utilizzo delle borsette fin dai tempi di Marziale (vissuto intorno agli anni 60 a.C.) che ne parla in uno dei suoi scritti, nessuna opera iconografica lascia traccia della loro presenza. Questo sorprende perché tale accessorio veniva effettivamente citato più e più volte in testi ufficiali (le cosiddette suntuarie) che ne vietavano l’utilizzo e perché comunque l’attività artigianale era assolutamente fiorente fin dai tempi antichi e le borsette erano senza dubbio solo alcuni dei prodotti meglio riusciti. In Toscana difatti, nel XII secolo, vennero istituite dalla Repubblica fiorentina le cosiddette Arti Minori tra cui quella dei Calzolai, dei Cuoiai e Galigai, dei Correigiai e Sellai che usavano lavorare le pelli immergendole prima nelle acque dell’Arno e poi conciandole dando vita grazie alla loro abilità ad un numero nutrito di borse, borsette e borselli. Sono di questo periodo borse come le scarselle, da portare appese al collo e alle cinture, e le bisacce, borse da viaggio usate dai pellegrini che potevano essere portate anche sul dorso del cavallo. Importante il ruolo attivo svolto anche dalla città di Venezia in cui si realizzavano borse di diversa fattezza e dimensione, da quelle per il denaro a quelle per piccoli oggetti quotidiani a quelle da viaggio destinate alle merci. Carnieri, tascapane, bandoliere sono invece altri dei modelli in auge nel periodo medievale, ovvero modelli
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pensati per non ingombrare le mani da indossare a tracolla affiancati poi da altra tipologia di borsa detta aumoniere sarazinoise (elemosiniera alla saracena), destinata in un primo momento a contenere monete poi in seguito ampliata fino a poter contenere altri oggetti. Tale modello solitamente è in prevalenza di forma trapezoidale con la sommità arrotondata. Nel Duecento compaiono scarselle dette alla tedesca, portate al centro della vita, altrimenti conosciuti come marsupi. Questi potevano essere di cuoio sia semplice che ornato, di seta, di velluto, spesso decorati con metalli preziosi e perle; se ne sono rinvenute anche delle versioni in maglia. Erano anche usate borse con gli stemmi della casata di appartenenza o dell’attività svolta, citate anche nell’Inferno di Dante Alighieri. La scarsella rappresenta la tipologia di borsa più diffusa in quest’epoca e fino al secolo XVI. Al Rinascimento risalgono le prime borse vicine al concetto odierno, con chiusure metalliche nella parte superiore. Nei secoli Trecento e Quattrocento questa chiusura prende la forma della odierna cerniera e viene riccamente decorata. Nel Cinquecento le borse si diversificano in base alla forma e alla provenienza: alla francese, alla ferrarese, alla veneziana; cambiano seguendo i cambiamenti del gusto dell’epoca. I materiali usati sono cuoio e velluto, broccati, rasi, a cui sono applicate varie decorazioni quali fiocchi, frange, nastri e che spesso vengono arricchiti con ricami e applicazioni. Negli anni dei salotti e dei grandi spettacoli teatrali del Settecento non si ha ricordo di aver mai visto borsette al seguito di nobildonne, né pubblicamente, né in alcuna opera d’arte o dipinto: sparita la pedissequa – una sorta di cameriera che lavorava come fosse un’ombra della propria padrona – sono quelli i tempi del cicisbeo a cui spettava la conservazione della borsa, talvolta diventando egli stesso borsa a sua volta visto che in quegli anni si introducevano per la prima volta tasche e saccocce negli abiti maschili destinate a sostituire le borsette delle donne. Le tasche di un cicisbeo dovevano sempre contenere non soltanto quei gingilli che una donna ama avere in borsetta, ma anche moltissimi altri come ad esempio: stuzzicadenti, tabaccheria, posate, finti nei, ago o perlomeno spilli (contro gli strappi allo strascico causati dai pestoni), pasticche varie, sali odorosi e infiniti altri ninnoli.
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Le uniche borse diffuse pubblicamente erano quelle da lavoro, come ad esempio quelle atte a contenere il necessario per cucire e ricamare. Queste borse erano in tessuto o in perline ed erano spesso accompagnate da un cuscinetto per puntare gli spilli; queste borsine venivano portate anche in occasioni mondane, quasi a ribadire il proprio status di donna “perbene”. Alla corte di Maria Antonietta ad esempio era molto diffuso tra le donne ma anche tra gli uomini il manicotto, in grado di contenere ventaglio, portacipria, tabaccheria e persino piccoli animali da compagnia. È dopo la Rivoluzione che ricompaiono le borse come vuole la moda dell’epoca, cioè leggere e morbide, ispirate alle reticola romane, da cui prendono il nome che storpiato diventa ridicule. Per la prima volta nella storia del costume queste borse sono appese al braccio. Non ebbero tuttavia una grande diffusione. Più vicino a noi come momento storico e più importante in senso evoluzionistico, è il Novecento il secolo in cui si assiste ad una rapida diffusione della borsa. Si può desumere da quanto detto finora che la diffusione dell’accessorio in generale è ogni volta correlata alla funzione che deve svolgere e alla sua veste sociale: non è un caso che siano questi gli anni più fertili per il proliferarsi delle borse poiché la donna stessa intesa adesso come principale destinataria di questi oggetti conquista una maggiore dinamicità e libertà che le permette di agghindarsi come meglio preferisce e che le consente per di più di viaggiare. Con lo sviluppo dei trasporti le distanze si accorciano e nasce il gusto per il viaggio e l’esotico: nascono così le borse da viaggio per signore, funzionali e ricche di scomparti e marchiate con l’iniziale della proprietaria e tutta una serie di bagagli, che fino a questo momento avevano privilegiato l’aspetto funzionale, dalle forme e dettagli ricercati. Si diffondono anche modelli da passeggio, talvolta anche riccamente decorati in perfetto stile Belle Epoque che sarà tuttavia destinato a concludersi con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, periodo durante il quale si abbandonerà la spensieratezza precedente per lasciare ampio spazio alla praticità e alla robustezza dei modelli. Conclusasi la guerra anche gli stati d’animo e gli stili di vita mutano profondamente e la donna di fronte alla quale ci troviamo non è più la stessa: l’oziosità tipica della borghesia del fine Ottocento è ormai qualcosa di cui non si ha più memoria, esiste invece una donna
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vivace e dinamica che riflette il suo essere diversa nel suo abbigliamento e nel suo portamento, quelle stesse componenti che la portano ad essere definita la garçonne des années vingt, il maschiaccio degli anni Venti – ribattezzati poi “Anni Folli”. Talmente folli da generare infiniti modelli di borse dalle pochette a quelle squadrate realizzate nei più disparati materiali. Già da qualche anno inoltre è forte l’eco delle suffraggette, che rivendicano per le donne non solo il diritto al voto, ma una nuova dignità all’interno della società. Queste donne vestono senza il busto, con abiti di linea sciolta, piccoli cappelli e borse appese al braccio, funzionali e non leziose. In questo periodo convivono queste tipologie di borse, funzionali e sobrie, e quelle ornamentali e decorate delle signore eleganti della buona società. Pronta a rispondere alle esigenze di una nuova femminilità è lo storico personaggio di Coco Chanel, che lancia un nuovo modo di essere e di vestire con i suoi abiti rigorosi ed eleganti, con i suoi tessuti sportivi e confortevoli. La borsa diventa un compendio necessario alla mise femminile. Si diffondono varie tipologie: dalle borse a due manici alle pochette alle borsine ricamate, per arrivare al modello che porta lo stesso nome, la famosa Chanel, modello a busta dalle caratteristiche impunture a rombi. Grande successo lo ebbe anche la tracolla lanciata da Elsa Schiapparelli e in seguito quella di Gucci che in questo periodo lancia un modello ispirato al mondo dell’equitazione (ed è allora che viene concepita la famosa banda in tela verde e rossa). La borsa viene anche interpretata da molti artisti dell’epoca, che creano oggetti unici ovviamente destinati ad un pubblico di elite: è il caso dei pezzi creati da Erté un maestro dell’Art Deco, da Sonia Delaunay – celebri i suoi abiti simultanei – ed altri. Una tipologia che si diffonde in questi anni e rimane in voga fino alla fine degli anni Trenta è la trousse, detta in America vanity case: si tratta di piccoli contenitori rigidi, in genere di materiali preziosi come metallo, tartaruga, lacca o pellami esotici come coccodrillo e rettile. All’interno vi è uno specchio e lo spazio per cipria, piumino, rossetto. Nasce il concetto di tempo libero anche per le classi popolari; si diffondono quindi gli sport e l’uso di recarsi al mare. Ciò inaugurerà una serie di nuovi accessori nati
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Chanel Classic Bag.
Gucci Bag in tessuto classico.
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per queste esigenze. Nasce come accessorio estivo il secchiello, proposto da Hermès, che ben presto diventa un oggetto da usare tutto l’anno. Gli anni Trenta sono anche gli anni di proposte stravaganti e surreali, dai pezzi di Elsa Schiapparelli a varie borse dalle forme più disparate case: conchiglie, orologi, mazzi di fiori, violini. In questi anni la scelta della borsa era legata ad una serie di regole per adattarsi alle diverse situazioni e momenti della giornata (mattino, pomeriggio, sera). Le borse da giorno si coordinavano all’abito ed erano dello stesso colore di guanti, scarpe, cappello. Per la sera le borse erano spesso confezionate nello stesso tessuto dell’abito, a volte erano con strass o paillettes. Le ristrettezze degli anni Quaranta favoriscono la diffusione di materiali alternativi e nascono così accessori che si coloriscono di dettagli ironici, che diventano quasi delle vere e proprie provocazioni della moda. In Italia si diffondono alternative ai materiali più preziosi: il cuoietto autarchico (similpelle), il dentice (battezzato “pelle di sirena”) al posto del coccodrillo, il rospo al posto dello struzzo. Si diffondono anche borse in tessuto: canapa, lino, seta. Ci si ingegnò come meglio si poteva, anche usando il feltro dei cappelli. Le borse sono di grandi dimensioni, ormai le borsine degli anni precedenti lasciano il posto alle “borsone per la spesa” che si appendono alla spalla e sono comode per andare a piedi o in bicicletta. Durante la guerra la borsa era sempre pronta, per portare con sé durante eventuali fughe i propri averi. Dopo l’ennesima bufera, rappresentata dalla Seconda Guerra Mondiale, si riscopre il gusto della vita mondana e nel tentativo di allontanare i disgusti e le bruttezze della guerra sarti come Dior e Balmain vestono le donne come fossero vere e proprie opere d’arte delicate e raffinate che trovano la loro icona in Grace Kelly. La silhouette proposta da Dior, il cui “New Look” avrà grande successo, veste la donna come se fosse un fiore: i busti stringono la vita e da qui in giù i ricchi tessuti si svasano. Questo stile è immortalato dai bozzetti di un grande illustratore dell’epoca, Renè Gruau. Sono anni costellati da nomi importantissimi nel settore moda, vedi Roger Vivier con le sue scarpe o Hermès: nel 1956 Grace Kelly viene immortalata con al braccio una
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borsa per l’appunto di Hermès che da quel momento si chiamerà “Kelly”, che altro non è che un sac à courrois, ispirato al mondo dell’equitazione. Gli accessori sono spesso coordinati e confezionati con lo stesso tessuto e decori. Sono diffuse le pochette di dimensioni molto piccole. Tornata l’eleganza formale, torna l’accessorio coordinato. Passati poi i formalismi degli anni Cinquanta e con esso la figura di una donna femminile e procace, la moda conosce un periodo di importanti sperimentazioni, mentre si profila una nuova figura femminile, infantile e asessuata, che sembra incarnare il rifiuto del mondo adulto e con esso i suoi valori sia etici che estetici. Il cambiamento dello stile di vita, ed in particolare verso ritmi più dinamici anche per le donna (automobile, lavoro, studio) decreta il successo di borse funzionali, con tasche, soffietti, cerniere nascoste e tracolle. Nascono inoltre le prime borse destrutturate, anche se comunque per ora non è la tendenza preponderante. Non possiamo parlare di stile ma piuttosto di un IBRIDISMO di stili: l’optical, il retrò, lo psichedelico, l’etnico sono tutte tendenze presenti che influenzano lo stile e la moda. In un’analisi più tecnica e descrittiva, le borse di allora erano caratterizzate da uno spiccato gusto per decori geometrici e per le linee pulite. Molto diffuso il bicolore, anche giocato su materiali diversi, che mette in risalto le geometrie. Spesso sono inserite fibbie, cinturini, tasche, pattine, dettagli metallici, cerniere, rivetti e automatici.
Hermes “Kelly” Bag.
Forse il grande successo di questo accessorio sta in parte nelle motivazioni affettive, in parte nel valore oggettivo dato da lavorazioni, materiali, dal patrimonio artigianale coniugato alle nuove tecnologie che ogni pezzo racchiude. Certamente alla luce di fatti storici e attuali, la borsa è l’oggetto simboleggiante il potere femminile; inoltre col suo compito di contenere e conservare rimanda all’idea di vita, di salute e di preziosità ed è costantemente in bilico tra la sua funzione contenitiva e la sua esteriorità mondana e modaiola. Tra tutti gli accessori è quello di cui forse meno volentieri si può privarsi perché si fa veicolo del nostro mondo privato, di tutto quell’insieme di oggetti indispensabili e non che rappresentano ciò che noi scegliamo ci accompagni nella nostra quotidianità. Rappresenta una sorta di scrigno di cui solo il proprietario conosce il contenuto, ma vive nella contraddizione di
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nascondere e di esibire allo stesso tempo: la sua doppia valenza, la sua dimensione interiore e quella esteriore, sono componenti che attraggono senza però svelare. E rassicurano anche poiché la consapevolezza che la nostra borsa contenga i nostri effetti – ed affetti! – mentre siamo fuori casa aiuta a darci un sostegno, un appiglio nelle situazioni sociali perché la viviamo come se fosse una specie di “guscio della lumaca”, un mobile di casa dietro al quale nasconderci. La borsa finora abbiamo verificato essere un oggetto essenzialmente femminile; l’uomo difatti fa uso di altri accessori come portadocumenti, zaini, ventiquattro ore, cartelle, che potremmo definire quasi dei surrogati. Tale è ed è stata la sua importanza da essere la protagonista recentemente anche di un libro e di una mostra ospitata dalla Triennale di Milano – Quello che le borse raccontano, progetto curato, voluto e sponsorizzato da Francesco Biasia marchio italiano della pelletteria. Con il contributo di fotografi professionisti è stato redatto un reportage di questo oggetto in diversi luoghi del pianeta e si è visto che uomini e donne, ricchi o poveri, hanno le stesse movenze nel trascinare quel pezzo di casa propria appeso alle spalle o stretto tra le mani. Francesco Cocco, uno dei fotografi coinvolti in questo progetto, ha scelto di raccontare la borsa immortalandola come fosse un crocevia culturale, in occasione del Fuori Salone di Milano, nel tentativo di “fissare il momento” e tutto ciò che di dinamico, creativo e ricco di fermento ci fosse in quell’occasione. Fabio Cuttica, altro artista fotografo, recandosi in Colombia ha raccontato la storia della commercializzazione del caffè de la Sierra veicolata tramite le mochilas, borse in fibra d’agave fabbricate dalle donne e decorate con disegni i cui colori simbolizzano gli elementi naturali da mantenere in costante equilibrio. Gli scatti di Daniele Dainelli ci riportano invece nella frenesia, nel ritmo, nella creatività metropolitana di Tokyo dove capita di imbattersi in personaggi come le Classic Gothic Lolita, le Elegant Gothic Lolita e gli Aristocratic Gothic Lolita: in questa giungla di accessori di ogni materiale e colore è curioso notare che anche gli uomini utilizzano le borse solitamente pensate per le donne. Emblematici gli scatti di Stefano De Luigi nei quali vengono ritratte donne e ragazze velate con tracolle materassé di Chanel nascoste sotto le vesti sullo sfondo di Teheran, come a voler rappresentare due realtà così
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distanti e diametralmente opposte tra di loro. Il quinto fotografo, Riccardo Venturi sceglie di immortalare momenti di vita in Namibia attraverso le immagini di alcuni dei suoi abitanti, gli Himba e gli Herero. Sono immagini poetiche, calde e colorate, in cui i contenitori tradizionali per l’acqua, per il cibo e per trasportare i bambini si affiancano a moderni zainetti. Il segno di culture che si fondono, si contaminano, seppure in ambienti che mantengono inalterati i loro tratti originali. Insomma, per concludere la borsa è sicuramente il più facile degli accessori: non dà problemi di taglie o ha effetti collaterali come accade con un paio di scarpe troppo strette o troppo alte. Si porta con ogni capo e può fare la bellezza di quello stesso capo o di tanti altri che naturalmente non la posseggono e, se di qualità, può accompagnarci per la vita.
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Da rifiuti a risorse
CAPITOLO 2
2.1 Materie prime seconde Le questioni legate al rispetto dell’ambiente sono diventate oggi un problema di rilevanza nazionale ed internazionale. Ma se è vero che le società contemporanee si dimostrano particolarmente sensibili verso questo tipo di problematiche è vero anche che, nonostante gli sforzi provenienti da diverse fonti, non si può fare a meno di notare che le nostre continuano ad essere delle società prevalentemente votate al consumo. La logica del prêt-à-porter di massa che domina oggi all’interno del settore dell’abbigliamento ne è una prova. Una moda talmente veloce da incentivare l’usa e getta dei capi. Stabilito che la moda oggi è considerata il fenomeno che in misura maggiore alimenta l’universo del consumo e considerati gli sforzi e le iniziative in termini di ecosostenibilità, una domanda sorge spontanea. É possibile conciliare le esigenze della moda, per definizione effimera e votata al cambiamento, con le istanze ambientaliste? Si può essere allo stesso tempo fashion e rispettosi dell’ambiente? Con alcuni accorgimenti che riguardano produttori e consumatori, molti sostengono che ciò sia possibile. Ne segue che, anche in questo caso le proposte per uso più intelligente del vestiario sono numerose, seguite da diversi studi e analisi svolte col fine comune di controllare l’uso smodato delle risorse sia naturali che energetiche. Se fino a qualche anno fa molti non ne conoscevano nemmeno il significato, oggi, il termine prodotto ecologico è una parola molto usata nel linguaggio corrente e porta con sé tutta una serie di implicazioni e significati. Per prodotto ecologico si intende un prodotto che ha un impatto ambientale minimo e soprattutto inferiore rispetto ad altri prodotti della stessa categoria, poiché garantisce la propria sostenibilità a livello di emissioni inquinanti e basso consumo di energia, sia nella fase produttiva che in termini di smaltimento facile dello stesso e riciclaggio delle materie prime, oltre al basso contenuto di sostanze chimiche tossiche e inquinanti. Se si parla tanto di prodotti ecologici è perché fino a pochi anni fa le emissioni inquinanti, gli sprechi di energia, l’indifferenza verso le forme di riciclaggio e smaltimento dei rifiuti sono state prese un po’ alla leggera fino al punto in cui questa realtà, divenuta insostenibile, ha creato un processo di sensibilizzazione piramidale che, partendo dall’alto si è diffuso fino ad arrivare oggi a coinvolgere
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Ridurre a materie prima.
Tappi di plastica.
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il singolo cittadino. Risulta evidente che il riutilizzo di beni e materiali allunga il ciclo di vita degli stessi in accordo con le proposte di un uso più sostenibile delle risorse, nonché contribuisce a diminuire il flusso di rifiuti destinati alle discariche rimettendo sul mercato un bene ancora utilizzabile e riducendo dunque le risorse per produrne di nuovi. Attorno agli anni 70 la comunità europea, cosciente dei danni causati dall’incontrollato e repentino sviluppo industriale a livello mondiale e non solo comunitario, palesa la necessità di un primo piano d’azione in materia ambientale. La legislazione italiana risponde con la legge 475/88 che prevede, a partire dal 1° settembre 1990, l’obbligatorietà da parte dei comuni italiani di attuare la raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Legno, vetro, plastica, carta, acciaio, alluminio, tessuti, gomma, ecc. sono tutte materie che possono essere facilmente riciclate ottenendo un notevole beneficio a livello economico e soprattutto ambientale. Un altro elemento da pochi considerato ma che nasconde numerosi vantaggi è il materiale di scarto prodotto dalle attività edili di costruzione e demolizione che può essere riutilizzato o in cantiere stesso, riducendo la quantità di rifiuti prodotti, oppure trattato meccanicamente o chimicamente col fine di renderlo comunque un bene riutilizzabile anche in contesti diversi da quello originario. Quest’attività sebbene risulti molto più avanzata nei paesi nord-europei come la Danimarca e l’Olanda, registra in Italia numerose proposte provenienti dalle varie regioni come la Toscana, l’Emilia Romagna, la Sardegna e la Campania, tutte rivolte al riutilizzo degli scarti edili con il conseguente raggiungimento di vantaggi economici e riduzione degli impatti ambientali. Interessanti da segnalare anche le iniziative a livello locale, come quella promossa dal signor Paolo Araldi a Moncalieri (Torino): è infatti suo il primo negozio italiano che acquista rifiuti direttamente dai cittadini. Tutto ciò a vantaggio dell’ambiente, della nostra salute e anche delle nostre tasche: ogni kg di carta viene pagato 4 centesimi, ogni kg di alluminio 40 centesimi e 17 centesimi sono destinati a ciascun chilo di ferro.
Carta.
Materiale plastico.
In termini di rifiuti ed ecologia le normative vigenti sono assai restrittive e particolareggiate: non si può certo disporre dei rifiuti che si vuole nelle modalità in cui si vuole. Anzitutto definiamo il rifiuto come qualsiasi oggetto o sostanza che rientri in particolari categorie e di cui il
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detentore abbia deciso di disfarsi. Il rinomato Decreto Ronchi stabilisce che il rifiuto deriva – chiaramente - da un produttore e che talvolta ne è previsto il recupero ovvero quell’atto che implica un insieme di operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, combustibili o prodotti, attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici, incluse la cernita o la selezione. Inoltre si definiscono: “sottoprodotto: i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. […]”; “materia prima secondaria: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181”. Il TU con l’art. 181 aggiunge al Ronchi art. 4 alcune cose interessanti: in particolare al comma 6 recita che i metodi di recupero dei rifiuti utilizzati per ottenere materia prima secondaria, combustibili o prodotti devono garantire l’ottenimento di materiali con caratteristiche fissate. Una materia prima secondaria nello specifico la si ottiene quando non sono necessari ulteriori trattamenti nel processo di recupero perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria , combustibile o come prodotto da collocare. I metodi di recupero dei rifiuti destinati all’ottenimento di materie prime secondarie, di combustibili o di prodotti possono essere definiti anche mediante accordi di programma proposti da soggetti economici interessati o associazioni di categoria con enti quali il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive sentito il parere del Consiglio economico e sociale per le politiche ambientali (CESPA) allo scopo di definire i metodi di recupero dei rifiuti destinati all’ottenimento di materie prime secondarie, di combustibili o di prodotti. Gli accordi di programma fissano altresì: - le caratteristiche delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti ottenuti, - le modalità per assicurare in ogni caso la loro tracciabilità fino all’ingresso nell’impianto di effettivo impiego. - le modalità usate per il trasporto e per l’impiego delle
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Alluminio.
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materie prime secondarie - per ciascun tipo di attività, le norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l’attività di recupero dei rifiuti è dispensata dall’autorizzazione. Attraverso la riduzione, il riuso e il riciclaggio risorse e rifiuti, si risolvono contemporaneamente i problemi ambientali e quelli della reperibilità delle risorse, perché gli output di un ciclo produttivo diventano un input per un altro, in qualità di materie prime (secondarie) e risorse. Il che comporta l’acquisizione di tre tipi di vantaggi economici: - riduzione dei costi di conferimento in discarica - riduzione dei costi connessi a possibili danni ambientali presenti e/o futuri - compensazione dei costi tramite il valore economico derivante dall’impiego come materia prima secondaria (anche fino ad ottenere un bilancio economico positivo).
Riciclare
Riciclare dunque si può, ma è importante rendersi personalmente conto che questo gesto può e deve partire prima di tutto da ciascuno di noi.
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2.2 Strategie, metodi e scenari di consumo e di moda Il processo della moda è l’espressione del gusto collettivo, che inizialmente è un insieme confuso e indeterminato di inclinazioni. A questo il sistema offre possibili linee lungo le quali i gusti individuali possono assumere una forma definita. Il gusto collettivo è il protagonista del processo di selezione e strutturazione, che caratterizza il ciclo della moda, e attribuisce a questo una specifica funzione sociale. La moda è prima di tutto un linguaggio da utilizzare per distinguersi dagli altri. Negli ultimi decenni è anche divenuto un fenomeno economico che produce un giro d’affari consistente. Possiamo quindi affermare che il settore moda ha una doppia anima, una simbolica ed una economica, e queste diventano due ambiti di competizione per le aziende. Infatti nel primo caso la competizione riguarda la creatività e quindi la capacità dell’azienda di influenzare col proprio stile, mentre il secondo riguarda la competizione a livello di fatturati, utili e quote di mercato. Nel giro di pochi decenni il fenomeno moda si è diffuso dallo specifico segmento dell’abbigliamento a segmenti di consumo sempre più estesi, come quello degli accessori, dando la possibilità alle imprese di produzione di puntare su un numero maggiore di prodotti. Basti pensare ai fatturati che le imprese raggiungono ogni anno grazie al commercio di borse e scarpe, più che di abiti di prét-àporter. Se in passato il sistema imponeva all’individuo cosa era di moda e cosa no, oggi, nonostante il perdurare di un certo tipo di imposizione nel settore, il consumatore tende a costruirsi la propria moda. Acquista marche e prodotti diversi, abbinando una borsa Prada con una maglietta Zara, per esprimere una propria personalità ed un proprio stile, divenendo il vero creativo. Questo può essere confermato dalla nascita di figure professionali quali il cool hunter, che va per le strade delle grandi metropoli, e non solo, alla ricerca di nuove tendenze da lanciare. L’uomo, infatti, è una creatura inserita in un processo evolutivo, non solo per quanto riguarda l’aspetto fisico, ma, soprattutto, in ambito culturale, comportamentale, psicologico e sociale. L’individuo si veste per conseguenza di tre fattori: protezione, pudore e ornamento, ma, quest’ultimo, è diventato il tratto più significativo, tanto che si è voluto riferire il termine vestiario a quanto può proteggere e costume a ciò che può ornare (Flügel J., 1972).
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Foto di facehunter.blogspot.com
Yvan Rodic, cool hunter.
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La moda può essere considerata sotto un duplice aspetto: come fatto di costume, elaborato artificialmente da specialisti per evidenziare la cultura di appartenenza e come fatto di abbigliamento, riproducendo il modello ideato per commerciarlo. L’abito, in generale, deve essere analizzato come un fatto culturale, un prodotto creativo della società, visto come un modello sociale, un’immagine standardizzata di comportamenti collettivi inattesi. Il mondo della comunicazione non verbale è di sconfinata ampiezza e, per questo motivo, non deve stupire l’esistenza di una scienza della moda e dell’abbigliamento in possesso di un’articolata forma di comunicazione e dotata di un linguaggio elaborato. L’abito, infatti, è caratterizzato da segni che celano un significato, più o meno palese, utilizzato dagli individui per la realizzazione di scambi interindividuali definibili relations in public. In alcuni casi, come quello della moda, l’oggetto perde la sua funzionalità fisica, e acquista il valore comunicativo in modo così chiaro, da diventare, anzitutto, segno e conservare la sua reale natura di oggetto solo in seconda istanza. Un esempio può essere l’abito colorato delle donne nel Rinascimento, nato come moda e diventato, in seguito, segno distintivo delle meretrici; o, ancora, l’attribuzione dei colori, rosa per le femmine e blu per i maschi, o del nero per il lutto. Tutti segni artificiali che, pur prodotti volontariamente dall’uomo, si stratificano e diventano una sorta di radiografia che permette di penetrare e analizzare la cultura di un popolo. L’abbigliamento, quindi, “parla”, riposa su convenzioni e codici, molti dei quali sono robusti, intoccabili. Età, sesso, etnia, religione, molteplici sono i messaggi che l’abito riesce a veicolare mostrandosi come il “biglietto da visita” di chi lo indossa. Le motivazioni di fronte alla moda sono contraddittorie e oscillano tra quelle orientate verso la socializzazione e quelle narcisistiche, di “coccolamento” dell’io; il gruppo di riferimento e la creatività illusoria, rappresentano, pertanto, i punti focali che inducono alla scelta dell’abbigliamento. Chi si veste stimolato sia dalle influenze esterne sia dal desiderio di sentirsi unico e originale, si muove nel mondo affascinante e frustrante del fashion; in tale ambiente vivono non solo gli stati d’animo generati dall’oppressione e dall’imposizione di una classe sociale ma, anche, gli atteggiamenti ludici nati dal desiderio di gratificazione e dal fascino personale.
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Si è alla ricerca della rivincita per sé stessi, un modo per poter emergere dal buio dell’omologazione e dell’accettazione, si cerca un abito che conceda una rivalutazione del suo essere come individuo e come classe sociale, un indumento, insomma, che diventi manifesto della sua identità come, ad esempio, è stata la minigonna negli anni della contestazione femminile. Il vestito concede sempre un’interpretazione, funge da tramite, filtro o amplificatore del contesto nel quale è inserito, non appare mai neutro o, peggio ancora, insignificante. Tra le caratteristiche interpretative, però, non può essere enumerata quella della veridicità: l’abbigliamento esprime solo ciò che l’individuo desidera comunicare, suscita reazioni insolite e, spesso, menzognere (Squicciarino N., 1986). Ogni essere umano elabora, a seconda della cultura di appartenenza, un atteggiamento verso la rappresentazione di sé. Ogni individuo possiede un personale modo di presentare al mondo, dunque agli altri, ma anche a se stesso, la propria immagine. E lo fa con un linguaggio a sé congeniale. Questo rappresentarsi si rivolge ad ambiti diversi e coinvolge dunque linguaggi diversi, come il modo di vestire, il linguaggio verbale, il linguaggio corporeo, etc. Nel mondo occidentale contemporaneo, tutto ciò è particolarmente evidente, poiché l’immagine che ciascuno offre di sé è il primo biglietto da visita che si presenta all’interlocutore. Si può comprendere la necessità di un rapporto molto stretto tra il sé e la persona che lo “indossa”; i vestiti diventano una “seconda pelle”, un’estensione del corpo, assumono la stessa funzione comunicativa non verbale, che si sviluppa in modo generalmente volontario e, talvolta, inconsapevole. L’abito indossato mostra sia l’appropriatezza al ruolo sociale che si vuole rappresentare sia dimensioni della personalità, ugualmente importanti, come l’essere attraenti, in buona salute, gioiosi e così via. L’uso di determinati capi permette all’individuo di fingersi ciò che non è. E’ il “gioco obbligatorio” al quale nessuno può sottrarsi, anche se ciò contrasta con le regole arbitrarie del gioco stesso (Volli U., 1988). La moda indirizza verso l’imitazione senza, però, perdere la sua dimensione ludica. Col passare del tempo, le differenti correnti di pensiero, si sono frammentate e confuse tra loro, scatenando una “guerriglia”, la cui sola consapevolezza è il sapere che si gioca. Strumento necessario per cogliere la complessità del
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mondo odierno è sicuramente l’analisi dei comportamenti di consumo, carattere ormai proprio di ogni aspetto della vita quotidiana e fenomeno unificante della società post-moderna. Nel corso degli anni Ottanta avvenne una trasformazione culturale che ha introdotto in Italia un nuovo tipo di consumatore post-moderno: avviene la scoperta del valore simbolico dei beni, i quali divengono pienamente capaci di definire, diversamente a quanto avveniva prima, non posizioni sociali ma identità individuali. Le merci connotano ora gli stili individuali. Si parla di “consumismo della distinzione”. Il rapporto con l’oggetto permette la costituzione di un insieme di significati, di un linguaggio sociale, che consente di scambiare informazioni e di dare ordine e senso all’ambiente socio-culturale. Come scrive Fabris, il consumatore egoriferito utilizza delle icone sociali per definire il proprio sé. Si è passati dagli “status symbol” agli “style symbol”, dall’identificazione in un ceto alla differenziazione simbolica di identità. Con gli anni Novanta cambiano il clima socio-culturale e le condizioni economiche e si verifica un’importante svolta nel consumo: si diffonde un atteggiamento più maturo, imperniato sulla costruzione di un progetto di consumo individuale. Il passaggio ad un tipo di consumo detto “di qualità”, è sicuramente da attribuirsi ad un’evoluzione del consumatore che è divenuto più esperto, pienamente socializzato al consumo e, più maturo, inizia a rifiutare di sottostare ai “diktat” della produzione. Ormai “autonomo” e “competente”, intraprende un dialogo con le imprese e con le merci, in cui egli non è più solo ricettore passivo ma pieno coprotagonista. Le frontiere del consumo vanno pertanto in una direzione che integra qualitativo e quantitativo, fisico e psichico, polisensualismo e semplicità. Il controllo di sé, il sapere disciplinare il corpo, si accompagnano al sapersi presentare bene, alla gestione dell’apparenza. I diversi significati del consumo non possono essere compresi se non tenendo conto della natura esplicitamente sociale del processo dal quale si originano. Questo significa che ciascun prodotto porta inscritta al suo interno la sua storia, la quale viene messa costantemente in gioco in tutte le possibili relazioni. Nell’atto di comunicare, i prodotti, compiono azioni che interagiscono con le pratiche interindividuali e contribuiscono alla costituzione e alla trasformazione dei significati socialmente condivisi e dei ruoli e dei rapporti di ciascun individuo. I consumatori infatti , tendono a diventare disincantati
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e a non fare più scelte rigide e aprioristiche, bensì piuttosto variabili e occasionali. Si osserva come il consumatore assuma sempre più comportamenti trasversali, non classificabili, né descrivibili con un unico modello di comportamento; non è infrequente che lo stesso consumatore acquisti prodotti di fascia alta e prodotti di fascia bassa a seconda della funzione d’uso. Questa natura attuale dei comportamenti di consumo li rende apparentemente conflittuali, mentre in realtà sono complementari e si armonizzano all’interno del percorso personale del singolo individuo. La causa di questo fenomeno è rappresentata soprattutto dal disgregarsi traumatico dei valori, delle norme e degli ambiti tradizionali di riferimento, che crea nel soggetto un bisogno ossessivo di definizione della propria identità. Il risultato è che in questo nuovo mondo senza “grandi modelli” di riferimento ciascuno si sceglie un “piccolo modello”: un gruppo socioculturale cui appartenere, o forse solo un look, che , una volta scelto, gli permetta di ritagliare all’interno della grande varietà dei modi d’essere e dei prodotti da acquistare quelli “che vanno bene per lui”. Questo trasforma ogni prodotto in un prodotto di nicchia: scompare cioè all’orizzonte l’oggetto che va bene per tutti, scompare l’automobile da famiglia, il motorino per i giovani, il tavolo da cucina, ma appaiono prodotti legati a specifiche esigenze, e a specifici consumatori. Un orientamento rivolto alle componenti fisiche del prodotto, alle prestazioni strutturali che si coniuga con gli attributi intangibili in una nuova dimensione della qualità, il concetto di “total quality” sta diventando una delle più importanti parole d’ordine all’interno delle imprese. Certamente per qualità non è da intendersi quella apparentemente oggettiva che stabiliscono i tecnici della produzione, poiché il mercato possiede una percezione della qualità ben diversa dalla loro. La qualità complessiva è definita da un mix di indicatori oggettivi e soggettivi la cui fonte di riferimento non può che essere il consumatore: “perceived quality”. Ciò che appare rilevante e sinonimo di qualità per un segmento della popolazione può essere irrilevante o addirittura controproducente per un altro, alcune caratteristiche inoltre possono teoricamente escludersi a vicenda,come per esempio la durata e il contenuto moda. “Alle spalle” della moda sta un sistema ancor più articolato, il Sistema Moda, che secondo la definizione
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ministeriale comprende l’insieme dei settori, a monte e a valle, che producono beni destinati a “vestire la persona” in senso lato. Quindi nella classificazione delle attività economiche, oltre alle industrie tessili e dell’abbigliamento, fa parte anche l’industria della pelle, delle calzature, dell’occhialeria, della cosmetica e della gioielleria. A monte s’individuano le filature, le tintorie, i finissaggi, le concerie, ed anche le industrie di produzione di accessori. Negli ultimi anni ogni “attore” di questo sistema ha evoluto – in progressione o in regressione – il proprio ruolo e la propria funzione, sia attiva che passiva. Ciò che più è cambiato riguarda in particolare il consumatore: il ruolo e la vicinanza al mercato di consumo sono stati riconsiderati dai soggetti della filiera e ciascuno ha iniziato a scendere a valle, cercando di avvicinarsi il più possibile al consumatore finale. L’obiettivo generale è divenuto ricercare il collegamento diretto al mercato di consumo finale, il solo in grado di generare sviluppo e stabilità nelle vendite e di far cogliere in modo tempestivo i cambiamenti nelle tendenze del mercato. Allo stesso tempo anche il consumatore finale ha subito un’evoluzione, infatti ha iniziato a modificare il proprio mercato di riferimento e a sviluppare la propria influenza verso gli altri soggetti della filiera. E’ divenuto quindi più esigente, più selettivo ed aggiornato, ed il mercato, come diretta conseguenza, ha iniziato a frazionarsi in una moltitudine di segmenti, ognuno distinto dagli altri nei bisogni e nei comportamenti d’acquisto. Oggi forse è più adeguato e consono parlare piuttosto che consumatore, di ConsumATTORE, un essere non facile da gestire e con il quale relazionarsi. Muoversi in questo scenario così variabile ed imprevedibile non è certo facile per gli operatori del sistema. I reticolati sono infiniti e trovare soluzioni e proposte diventa una questione nodale, in tutti i sensi. I possibili approcci e strade da percorrere, verificare ed implementare sono fatti di marketing relazionale ed esperienziale - portando i consumatori dentro percorsi di lungo periodo - e di knowledge management, in quanto la conoscenza è sempre più fattore critico di successo. A questo vanno aggiunte sensibilità per il bello, una sapiente gestione ed utilizzo di community networks, ed un forte orientamento al melting pot, alla contaminazione. Infine, per raggiungere validi obiettivi sarà essenziale una buona dose di etica ed essere in grado di gestire la connettività ad altissimo livello. Per poter resistere al meglio a tutta questa serie di
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cambiamenti e rispondere tempestivamente alla richiesta esterna è essenziale avere a disposizione il know-how ed il giusto flusso di informazioni. Essenziale per il primo requisito è una politica di marca e d’insegna, che crei un’immagine forte del prodotto dell’impresa. Mentre per un buon flusso di informazioni è importante organizzare un processo di quick response, che permetta un attento controllo di tutto il canale. L’obiettivo generale è quello di raggiungere un grado di coordinamento ottimale lungo tutta la catena del valore, attraverso appunto un efficiente livello di capacità aziendali sommato ad un altrettanto efficiente scambio di informazioni, arrivando ad un modello d’integrazione verticale. Esempi vincenti di coordinamento ottimale sono stati raggiunti da catene come Inditex (Zara), la francese Etam e Hennes & Mauritz (H&M): la loro forza è stata quella di reinvestire continuamente le risorse economiche che vengono generate. Tali aziende godono inoltre di una forte identità d’insegna e di un’offerta, la cui convenienza è visibilmente maggiore di quella della distribuzione specializzata indipendente. Come si è detto, grande attenzione, al momento dell’acquisto, è data all’aspetto estetico del bene. La creatività diventa un importante fattore di vantaggio competitivo: può rappresentare la differenza nei confronti della concorrenza. Quando si parla di design è necessario sottolineare il modo con cui vengono realizzati i beni, in particolare di beni di lusso: forte presenza di lavoro manuale che rende il prodotto unico e individuale. Poter definire quindi un prodotto “prodotto di design” aiuta ad arricchire l’identità della marca perché aggiunge valore alla sua immagine e personalità. Affermare le ragioni della propria diversità, con coerenza e capacità di instaurare relazioni personali. Essere ed essere percepiti differenti dai concorrenti. La costruzione della fedeltà di marca inizia nella fase di studio e ricerca che precede l’ideazione di una stretegia di approccio comunicativo. Ascoltare i clienti è importantissimo in ogni fase di vita del brand, ma nel momento della progettazione è il vero must. A partire dal fatto che tutti i prodotti in diretta concorrenza fra loro sono fatti per assolvere alle stesse funzioni e risolvere gli stessi problemi, è fondamentale andare oltre nella ricerca, nella sollecitazione e nell’ascolto, affinché si possa definire ed offrire un benefit rilevante ed esclusivo. Il brand deve essere in grado di soddisfare le attese non soddisfatte dai prodotti concorrenti a entrambi i livelli, razionale ed emozionale. Deve promettere ciò che davvero interessa al proprio target e deve mantenere in pieno ciò che promette.
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Zara, Inditex.
Pubblicità H&M.
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2.3 Il riciclo può anche essere moda Negli ultimi anni lo slancio ecologico e l’occhio all’ambiente da parte di progettisti e consumatori l’hanno fatta da padrona. Necessità, esigenza, tendenza anche, fatto sta che l’utente chiede oggetti e progetti attenti e responsabili. Il design assume un valore progettuale ulteriore grazie all’utilizzo di materiali poveri e riciclati per realizzare oggetti e proposte d’arredo senza tempo; gli esempi che si potrebbero portare sono innumerevoli, ne citiamo solo alcuni più recenti, o più significativi, o più accattivanti. Nuove destinazioni d’uso rappresentano uno stile che privilegia la sostanza e il rispetto dell’ambiente. Fanno parte di un progetto collettivo di Studiomama, che ha fatto proprio questo percorso creativo, i pezzi di design ricavati da pallet da imballaggio: Pallet Floor Light – Pallet Chair – Pallet Stool – Block in red – Pallet Block Light – sedia in progress anti Breuer di Andrea Magnani per Design – Fauna, cassettiera di Peter Marigold. Quando il riuso della carta si fa più arte che design, nasce Cabbage Chair un progetto di riciclo della carta usata per dare forma ai tessuti plissè della maison Issey Miyake, che nel 2008 aveva invitato artisti e designer a interpretare i temi d’attualità in occasione della mostra XXist Century man: lo studio Nendo ha elaborato un progetto di riciclo della carta usata per dare forma ai noti tessuti plissé della maison. Riuniti in un cilindro, i fogli sono tagliati e aperti come per sfogliare una pianta di cavolo, trasformandosi in un geniale prototipo, nella sua semplicità, di sedia destrutturata e risposta gentile ai problemi ambientali.
Craft Punk. Design Miami - FENDI
Un caso interessante è senza dubbio quello rappresentato dall’azienda Regenesi il cui motto esplicita chiaramente il concept: “trasformiamo rifiuti in bellezza perché non c’è antitesi fra funzionalità, eco - compatibilità e bellezza. Pensiamo che dalla società dei consumi e dallo spreco possa nascere qualcosa di bello ed utile.” Questa è Regenesi, azienda nata nel maggio 2008 dall’intuizione e dalla passione di Maria Silvia Pazzi. Regenesi idea, produce e commercializza oggetti di design innovativi realizzati con materiali di riciclo postconsumo. L’idea è quella di promuovere una “bellezza sostenibile”, rappresentando così un vero e proprio stile di vita. Si tratta di un contenitore di prodotti di differenti tipologie, che spazia dagli oggetti per la casa sino agli accessori moda. Il filo che li lega è quello dell’utilizzo innovativo di
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materiali di post-consumo - fino ad ora impiegati solo per la produzione di beni di uso comune o inseriti nelle parti non visibili di prodotti - che da oggi non solo vengono impiegati in modo utile, sano e corretto, ma anche per dare vita a qualcosa di bello e di tendenza. Alluminio, vetro, plastica, pelle, cartone - trattati con processi di lavorazione innovativi che garantiscono identici standard di qualità rispetto alle materie prime vergini - diventano così oggetti del desiderio. In questo modo l’azienda risponde al desiderio di ecosostenibilità, esigenza sempre più diffusa e condivisa nel mondo contemporaneo. La volontà è infatti quella di valorizzare - presso un pubblico di “consumatori responsabili” mondiale l’imprinting del design italiano e la qualità del prodotto anche eticamente bello, lasciando il segno in un ambito che tutto il mondo ci invidia ed al quale dà immenso valore: l’Italian Life Style. Le collezioni sono create dai designer più noti a livello internazionale, tra i quali Denis Santachiara, Marco Ferreri, Matali Crasset, Setsu e Shinobu Ito, i quali - interpretando materiali inconsueti con una creatività diversa - hanno realizzato oggetti capaci di emozionare e liberare nuove energie. Santachiara ha elaborato per esempio progetti per la tavola – piatto da portata, ciotola dessert e una coppia di piatti – in Alulife (100% alluminio riciclato); Ferreri ha invece progettato una serie Sports di tappeti in cinque varianti, ognuna dedicata ad uno specifico sport (calcio, calcetto, tennis, basket e atletica) in Sportflex, una mescola usata per rivestire i campi da gioco e proveniente da eccedenze di produzioni precedenti interne. I giapponesi Setsu e Shinobu Ito invece hanno fatto ricorso per il 100% alla pelle rigenerata per dare vita alla Fruit Bag, pratica borsetta per la spesa, e al Vimono, astuccio per riporre bottiglie di vino; infine l’eclettica Matali Crasset ha realizzato la serie o-Re-gami in pelle rigenerata al 100% composta non solo di oggetti decorativi ma anche funzionali che si ispirano alla leggerezza e al romanticismo degli origami: cestini per la carta e centrotavola/porta oggetti totalmente riciclati e riciclabili.
Setsu e Shinobu Ito, fruit bag.
Matali Crasset.
Significativa anche l’esperienza di Giles Miller un giovane designer inglese che ha rivolto il suo interesse al versante ecologico del design utilizzando cartone in ogni suo progetto: interessanti l’armadio, le lampade e la borsa porta computer.
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Entrando nello specifico a parlare di borse, quest’accessorio ha acquisito nel tempo un carattere e una personalità tale da entrare nel cuore delle donne e poi anche – ma solo più tardi – in quello degli uomini, superando lentamente quel cliché che identificava il maschio portatore – sano! – di borsa in un soggetto effeminato o addirittura omosessuale. Sembra infatti essere finita l’epoca del “Cara, puoi tenermi le chiavi e/o sigarette e/o cellulare,nella tua borsa?”: declinate in diverse misure, da quella extrasmall per il minimo indispensabile portata a tracolla, a quella di dimensioni maxi per riporre il necessaire per il weekend, realizzate in diversi materiali, assolvono il loro compito di accessori pratici e di tendenza. Il successo riscosso nel tempo da quest’accessorio e la passione di un collezionista olandese sono stati il mix perfetto per dar vita al primo Museo della borsa, iniziativa espositiva permanente concepita per accogliere una collezione di borse e borsellini di oltre 3500 pezzi, dal XVI secolo a oggi. Niente è lasciato al caso e ogni dettaglio è curato sul tema della borsa, dal bar caffetteria – con bonbon della medesima forma – alle toilettes, con ladies room profumate. Questo è l’unico museo del genere in tutta Europa (ce ne sono altri due in Giappone e Australia) e vale la pena fermarsi se si è diretti nei Paesi Bassi. E la borsa è diventata una tale star da essere celebrata ad ogni suo compleanno o anniversario: The knot – a retrospective l’evento curato da Bottega Veneta nel 2008 ne è un esempio. L’esposizione raccoglieva oltre 50 versioni di questa borsa iconica, presentata poi nelle principali boutique Bottega Veneta in tutto il mondo, riservando uno spazio d’onore alla knot, piccola clutch dalla forma arrotondata, una delle borse “icona” più apprezzate ed amate di Bottega Veneta. Anche un nome altisonante come Fendi ha dedicato con entusiasmo uno spazio allo scarto di pelle: non è necessario guardare troppo indietro nel tempo per scovare Craft Punk, progetto di artisti ospitati nello Spazio Fendi, selezionati da Ambra Medda, direttore del Miami Design. Nel tentativo di mantenere intatta la tradizione artigianale, lo spazio utilizzato dalla stessa maison per le proprie sfilate è stato messo a disposizione in occasione del Salone Internazionale del Mobile di quest’anno a coloro i quali avessero dimostrato di parlare, lavorare, creare secondo dei precisi codici, percorrendo le stesse strade ideologiche della casa di moda. Prima che
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un’operazione di marketing, Craft Punk si è proposto come uno scambio culturale reciproco in grado di determinare lo scatenarsi di un processo più o meno articolato che porta a prodotti nuovi e d’avanguardia e per tutelare l’ormai raro “fatto a mano”. Riprendendo l’antico concetto di bottega artigianale locale, dieci artisti hanno realizzato in diretta, di fronte al pubblico le loro opere e lì hanno persino mangiato e dormito: lo spagnolo Nacho Carbonell lo ha usato per forgiare, con la pelle di scarto della produzione Fendi, strane creature animali e Simon Hasan ha invece preso il cuoio, l’ha bollito, l’ha reso rigido e con questo ha formato sculture multiformi. Focalizzandoci sull’oggetto borsa da segnalare la vittoria di Francesco Librizzi e Vittorio Venezia della prima edizione (2008) del premio indetto dalla nota casa di moda Émile Hermès, rivolto ai giovani designers. Tema del bando lanciato dalla Maison Hermès era: La légèreté au quotidien nella sfera degli oggetti da viaggio e per la casa. Rolling VS Folding, una borsa da viaggio per il week end, è stata la loro risposta e la loro originale interpretazione di leggerezza, con la quale hanno vinto il concorso; una borsa, che, come indica lo stesso nome, si apre e si chiude arrotolandosi su se stessa, arrotolando al contempo anche gli indumenti che vanno inseriti al suo interno, in modo da utilizzare il minimo dello spazio necessario. Originale anche la scelta e l’accostamento dei materiali utilizzati: cuoio nella faccia esterna e grande e comodo manico in gomma, mentre la struttura interna è stata pensata con un foglio di plastica irrigidito da alcune lamine di alluminio in modo da permettere che nella configurazione aperta, la borsa possa risultare ben tesa. Sempre nel campo dell’accessorio, dalla borsa alle cinture ai gioielli, potremmo citare le esperienze di Carmen Bjornald italiana d’adozione di origine tedesca che realizza le sue creazioni riciclando stampati di mass media dei nostri giorni, sacchetti della spesa e dell’artista inglese Ellen Bell, la cui sensibilità materica verso l’ecologia ha dato vita ad abiti in carta presa a prestito da magazine femminili – Party Line – e addirittura scarpe – Sunday School – realizzate utilizzando le pagine della Bibbia poiché nascono dal ricordo di una favola di Andersen.
Progetto di Joao Sabino.
Borse effettivamente singolari sono quelle nate dall’idea di Joao Sabino – costruite utilizzando circa 400 tasti di una comune tastiera del pc e generando un prodotto che ogni volta può essere definito pezzo unico – oppure
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ancora quelle fatte quasi esclusivamente di anelli di apertura di lattine da bevanda in alluminio opera della brasiliana Neide Ambrosio Martins de Souza, o quelle che si chiamano esse stesse Basura (spazzatura in spagnolo) borse fatte a mano, quindi ognuna è un pezzo unico, ricavate dalla spazzatura raccolta dalle strade dell’Hunduras e sono totalmente riciclabili, oltre ad avere uno scopo educativo: per ciascuna borsa venduta, il ricavato viene devoluto per contribuire all’acquisto di materiale scolastico. Materiali ecologici e riciclati, tra cui cartone e carta plastificata, sono alla base dei prodotti disegnati da Sandra Di Giacinto. Bracciali e collane che sembrano origami e borse da immaginare indossate insieme ad un abito stile kimono. Un’azienda olandese ha tovato un modo geniale per fare, allo stesso tempo, qualcosa di ecologicamente impegnato e un prodotto unico per design, colori, tessuti. Stiamo parlando della Rag-Bag, che crea borse, zaini, agende, portafogli e quant’altro ricavando la materia prima dalle buste di plastica riciclate. Sono molteplici le buste di plastica non biodegradabili che ogni giorno vengono immesse sul mercato e sono ovviamente per questo fonte di inquinamento quanto le bottiglie o le lattine, ma pochi pensano a riciclarle, più che altro si usano per portare via la spazzatura, ma il numero delle buste è tale che urge trovare il modo di dare loro una seconda vita. Ci ha pensato questa azienda olandese che ha una politica socialmente e ambientalmente utile: le buste vengono raccolte per le strade di New Delhi, in India, da un gruppo di 50 ragpickers (raccoglitori di buste e bottiglie di plastica) sponsorizzati dall’azienda stessa! Le buste vengono raccolte e lavate per bene. Una volta asciutte, suddivise in base alle tonalità di colore e pressate in modo da creare dei fogli con i quali poi si realizzano i prodotti targati Rag-Bag, praticamente indistruttibili. E ancora: una nuova griffe romana di borse e accessori sposa fantasia e responsabilità ambientale. Sprecare oggi non è più di moda. Lo ribadisce anche il nuovo progetto creativo di accessori di riuso eco-chic “Carmina Campus”. L’anima del progetto è Ilaria Venturini Fendi, figlia d’arte (la madre Anna è una delle cinque sorelle Fendi). Accessori alternativi fatti di materiali presi qua e là e riciclati ad arte che, con il loro stile fantasioso, hanno
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sviluppato un concetto di recupero creativo sorretto da un impegno autentico non solo nella salvaguardia dell’ambiente ma anche in campagne umanitarie di rilievo internazionale. L’idea è sostanzialmente quella di lanciare un approccio più sofisticato e artigianale al concetto del riciclo, oggi così in voga. Niente si butta, tutto può rinascere a seconda vita: tende da doccia, maniglie di mobili, teloni di camion, tastiere, pagliette per lavare i piatti, vecchi tappeti, berretti di lana, panni da pavimento. Attualmente modelli ingegnosi di borse come la car bag, fatta di cinture di sicurezza intrecciate di vecchie automobili intrecciate, o la work bag che riprende l’idea di una borsa da lavoro mediante l’uso di fasce elastiche di guepière d’antan, o la Venetian Bag piccola pochette dai colori brillanti fatta di sottile lamine in alluminio di vecchie tende veneziane assemblate tra loro, hanno trovato casa nel nuovo spazio Re(f)used, giovane negozio romano che espone creazioni di giovani designer italiani e internazionali sensibili alla tematica ecologica e ai suoi risvolti sociali. Si tratta di un progetto ecologico a 360° dal momento che il riuso viene applicato persino nei packaging realizzati con imballaggi riciclati e nastro da pacchi biodegradabile.
Alessandro Acerra.
C’è anche chi, come Alessandro Acerra, riusa abiti, scarti sartoriali e stoffe luxury: in un mix vincente di assemblaggio tessuti, fantasia di soggetti e packaging contenitore (cartone della pizza da asporto) Alessandro è riuscito a decretare il suo successo con le sue stesse mani. Obiettivo che fa subito tendenza: le magliette, lavorate a mano in ogni dettaglio (rifinitura ad ago, targhetta e numero di serie per ogni singolo pezzo), combattono – simpaticamente – ogni omologazione di massa, Artigianalità + qualità: la merce rara si acquista con un clic. Progettate come quadri da indossare sono espressione di prezioso lusso, sono vere e proprie opere d’arte e allo stesso tempo oggetto di consumo: le si può indossare, sporcare, lavare oppure appendere al muro come quadri come consiglia lo stesso eco designer. David Shock invece ama riciclare i recinti plastificati dei lavori in corso, trasformandoli in simpatiche borse. Ogni borsa è dotata di una fodera interna, e sono disponibili in diversi modelli e dimensioni.
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C’è poi un’altra fetta di imprenditori che con un occhio alle tendenze e alle preferenze dei consumatori si sono interessati alla “moda ecologica” ovvero quella parte di produzione realizzata in fabbriche che non fanno uso di prodotti chimici, fertilizzanti o pesticidi. Con 72.000 imprese e 700.000 persone occupate nel settore, l’industria dell’abbigliamento in Italia è tra le prime nel mondo. Benché la moda a basso impatto ambientale sia più avanzata sui mercati tedesco e britannico, giganti come Giorgio Armani sono pronti a seguire la tendenza. Armani sta già disegnando jeans “biologicamente corretti”, prodotti con cotone proveniente da coltivazione biologica. Anche altre note imprese internazionali presenti sul mercato italiano si sono orientate verso la moda ecologica, come Levi Strauss, Gap, Nike e Marks & Spencer. Poncho intessuti con fibre di soia, abiti fabbricati con i cartoni delle uova, pantaloni prodotti con le alghe, sono solo alcuni esempi della moda alternativa che combina creatività con materiali originali. È curioso notare che nel tempo le tendenze e i valori ad esse associati tendono a cambiare: la moda ecologica era infatti in voga negli anni ’80, e aveva una connotazione “povera” o “hippy”. Oggi, invece, è diventata alta moda, con rassegne speciali nelle capitali mondiali della moda, come Londra, New York e Milano. È altresì vero comunque che in Italia non c’è un mercato forte per la moda ecologica, e non ci sono consumatori disposti a pagare di più per l’abbigliamento ‘verde’. A Milano inoltre, l’Istituto europeo di design riutilizza diversi materiali ed ha persino fabbricato delle magliette con fogli di alluminio, abiti con filo elettrico o carta da imballaggio, o anche pantaloni con il metallo delle biciclette. Sono progetti realizzati da studenti ancora in corso che hanno fatto uso anche di calze di nylon e suole di scarpe per trasformarli in indumenti originali ed ecologici. Certo, non si tratta di una linea definita, è tutto ancora in fase sperimentale ma è pur sempre un tentativo apprezzabile ed apprezzato allo stesso tempo. Annika Sanders e Kerry Seager invece hanno costruito il proprio business nel 1997 con l’istituzione del Junky Styling, maturando un pensiero preciso durante una serie di viaggi: in grandi centri urbani come San Francisco e Tokyo infatti hanno notato una netta
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prevalenza dell’attività di riciclo applicato a più settori. Una volta tornate a Londra, loro città di appartenenza, hanno deciso di dedicarsi anch’esse al riciclo e di farlo sperimentandolo nell’abbigliamento, attingendo a vecchie tute maschili comprate nei negozi di seconda mano. Ciò che sta alla base del concept di Junky Styling è un lavoro fatto su vestiario usato della migliore qualità, “destrutturato”, tagliato nuovamente e trasformato completamente in un nuovo prodotto che continua comunque a possedere l’autenticità e l’identità del materiale grezzo. Non è affatto necessario seguire le mode e le tendenze per Junky, ciò che conta è promuovere un design originale e senza tempo, fatto di capi eticamente prodotti per i quali poter avere assistenza fino a oltre 5 anni dall’acquisto. E se poi invece non siete contenti…esiste anche un riciclo del tipo “fai da te” come quello promosso da Jenny Krauss, giovane designer che ha trasformato una comune canotta da donna in una pratica e morbida borsa da passeggio. E allora chissà che pure quegli slip provati dal tempo e dall’usura non possano un domani diventare… una morbida pochette?!
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Ibridazioni metropolitane
CAPITOLO 3
3.1 La città in sella L’idea di quello che in conclusione – o forse semplicemente al suo inizio – ha preso il nome di Ibrido Urbano è nata conseguentemente alla mia personale passione nei confronti della strada percorsa in sella ad uno scooter. E badiamo bene, non uno scooter qualunque ma il mio scooter, la mia Vespa. Anche solo a citarne il nome viene in mente tutto un immaginario connesso che ha in sé il profumo di casa, il sapore di una torta appena sfornata, la morbidezza di una sciarpa di pura seta. Vespa è qualcosa che difficilmente si può spiegare esaustivamente a parole, forse perché la Vespa stessa tende a parlare di sé da sola ogni qualvolta viene citata. La storia di questo mezzo a due ruote nasce in casa Piaggio nel lontano 1946 grazie all’inventiva e all’efficacia del pensiero di Corradino d’Ascanio: da allora l’ascesa e la miglioria progettuale della Vespa è tale quasi da non conoscere eguali. Così come il posto che riesce a ritagliarsi nel cuore degli amatori, alcuni dei quali in grado di collezionare intere serie di modelli Vespa non solo per il semplice piacere di ammirarli e di poterli contare numericamente quanto soprattutto per la possibilità di sperimentare in prima persona il brivido di macinare chilometri su chilometri. E’ certo infatti che l’immagine del piccolo scooter italiano si diffuse grazie anche alle iniziative dei suoi innumerevoli fans e cultori di questo “mito a due ruote”. Per non parlare dei Vespa Club, organizzazioni amatoriali di appassionati della Vespa che hanno contribuito in maniera prepotente a diffondere in tutto il mondo, grazie ad una serie di innumerevoli iniziative, non solo un semplice prodotto industriale ma addirittura un vero e proprio stile e modo di vivere. Andare in Vespa diventò per i suoi appassionati sinonimo di libertà, di fruibilità degli spazi, di più facili rapporti sociali; un fenomeno, insomma, di costume che caratterizzò un’epoca e che trovò infiniti sviluppi e testimonianze anche nel mondo della letteratura, del cinema e della pubblicità. Subentra qui infatti il tentativo di comunicare con un progetto ibrido una tendenza incline soprattutto all’ecologia grazie alla nuova attenzione maturata in Piaggio con la messa a punto di uno scooter ecologico di tipo – appunto – ibrido poiché connette e integra meccanicamente ed elettricamente due motori e una passione che diventa stile, modo di vivere. E puntare a un prodotto di tale identità consente poi di organizzare precise strategie di marketing dal momento
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Vespa, tutti la vogliono.
Vespa, tutti ci giocano.
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che si riconosce che le persone si dividono in gruppi sulla base di ciò che piace loro fare, di come trascorrono il tempo libero e di come scelgono di spendere il loro reddito disponibile. Un determinato stile di vita comporta da parte del membro che decida di appartenere a quel gruppo la scelta delle modalità di distribuzione delle risorse tra differenti prodotti e servizi e tra alternative specifiche all’interno di queste categorie. Se si intende lo stile di vita come identità di gruppo, vogliamo dire che si sta parlando di dichiarazioni relative a chi è in società e a chi invece non c’è, tenendo conto di una componente individuale e soggettiva che caratterizzerà sempre il singolo pur facente parte di un gruppo. In quest’ottica i prodotti vengono intesi come mattoni per la costruzione degli stili di vita che i consumatori scelgono poiché associati a preconcetti e “dogmi” ben precisi. In questo senso, le strategie di marketing intendono focalizzarsi sull’uso di prodotti in contesti socialmente desiderabili in modo tale da colpire direttamente “al cuore” l’utente finale. Non ultimo legante di questo mix è sicuramente il concetto di mobility oggetto di discussioni, focus group e workshop, ma più in particolare ci si è concentrati maggiormente su di una mobilità che fosse il più possibile sostenibile. La città fino a poche decine di anni fa era il luogo dell’incontro, dello scambio, del passeggio. Per questo doveva essere, ed era, pur con tutte le contraddizioni bella, ricca di monumenti, di sorprese, di prospettive sempre nuove. In questa città, l’interesse dei cittadini era quello di uscire di casa e di vivere la città, di frequentarne le strade, le piazze e i luoghi di incontro. La casa era un luogo importante ma semplicemente legato alle funzioni primarie, tutta la vita sociale, gli interessi, il divertimento, si collocavano negli spazi pubblici della città. Oggi sembra tutto completamente rovesciato: apparentemente il desiderio più forte che i cittadini esprimono è quello di rientrare il più presto possibile a casa. La casa è diventata ricca e confortevole, un luogo difeso verso l’esterno, rassicurante e rilassante verso l’interno. La città è diventata ostile, la si vive come pericolo da evitare. Si cerca di passare da un luogo privato (la casa) ad un altro (il luogo di lavoro, la scuola, la palestra, il teatro, ecc.) senza rischiare i tanti effetti di un
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Quadrophenia di Franc Roddam, film 1979 .
Scooter mods.
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preoccupante attraversamento e si preferisce utilizzare ancora un mezzo privato come l’automobile. Questa continuità di luoghi privati e la scomparsa dei luoghi pubblici caratterizza in qualche modo una “non città”. L’obiettivo principale della mobilità urbana è quello di favorire il traffico automobilistico, di “fluidificarlo”, di “velocizzarlo”. Le macchine hanno il motore, ma non si vede mai una strada che si alza per consentire ai pedoni di proseguire il loro percorso a livello del suolo. Molte aree usate dagli adulti, soprattutto dagli anziani e dai bambini, come spazi liberi, sono diventati parcheggi o stazioni di servizio. La maggioranza dei cittadini ha difficoltà a percorrere le strade della città, ad attraversarle, ad andare da soli a scuola, alla posta, al mercato, a soddisfare autonomamente i propri bisogni, ad esercitare un loro preciso diritto incluso in quello più generale di cittadinanza: quello di usare gli spazi della città, percorrerli con sicurezza. La assenza di questi cittadini dalle strade è una prova eclatante della perdita di “democrazia” delle aree urbane. Bisogna cercare quindi di restituire la città ai cittadini rendendola più a misura d’uomo, più vivibile, vivace e respirabile e questo lo si può fare anche scegliendo uno scooter ibrido a bordo del quale poter finalmente portare tutti i nostri aggeggi e oggetti personali, sentendosi al sicuro sempre.
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Vespa club.
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3.2 Proposta di inserimento nel mercato Essendo partito da un insieme di componenti per me fondamentali, Ibrido urbano si colloca in una posizione ben precisa ed è il risultato esatto di una somma specifica, già dichiarata nel paragrafo precedente: mobility + ecologia + stile di vita. Questo significa mirare ad un fruitore ben preciso: il nostro acquirente ideale è un individuo dinamico, che vive la città, che si sposta per lunghi come per brevi o brevissimi tragitti, che veste casual, che sa essere di moda pur non essendo alla moda, che sa unire peculiarità diametralmente opposte tra di loro in un connubio tutt’altro che disomogeneo. Volendo segmentare i destinatari di questa proposta su base psicografica sarà necessario far riferimento a variabili immateriali quali valori, credenze, atteggiamenti e opinioni. Il prodotto così elaborato e progettato ha lo scopo primario di essere venduto non tanto – o meglio, non solo – per le sue caratteristiche funzionali che fanno riferimento poi ad un livello di conoscenza superficiale, quanto per il suo significato simbolico ed emozionale. Se si analizzano le attività, gli interessi, le opinioni e le caratteristiche demografiche e dunque se si procede con efficacia in un tipo di analisi – ammettiamolo! – un po’ problematica e difficile, si potrà ottenere uno strumento potentissimo che sortirà un largo successo e colpirà dritto alla soddisfazione dei bisogni di questi utenti così individuati. Dunque dobbiamo capire chi è effettivamente colui che compra e qual è la ragione primaria che lo spinge ad acquistare un prodotto anziché un altro. Ed è esattamente questo il modo in cui anche io ho scelto di procedere in fase analitica e di sondaggio per capire sommariamente che possibilità di collocazione potesse avere questo prodotto. Ho cercato dunque di concentrarmi su aspetti effettivamente misurabili, domandando per scritto ad un gruppo ridotto di giovani di età compresa tra i 20 e i 35 anni quali fossero i loro punti di vista su aspetti quali il proprio paese e i fenomeni sociali, che preferenze e priorità avessero, quali fossero le loro occupazioni ed attività, come impiegassero il tempo e cosa acquistassero con maggior frequenza.
Foto di stilinberlin.blogspot.com.
Foto di facehunter.blogspot.com.
Esempio 7. Mi piacciono le persone stravaganti Si Abbastanza Poco No 8. Mi piace condurre una vita all’insegna delle varietà
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Sì Abbastanza Poco No 9. Seguo la moda e le tendenze del momento Sì Abbastanza Poco No 10. Coltivo pochi interessi Sì Abbastanza Poco No 11. Mi piace condurre una vita ricca di emozioni Sì Abbastanza Poco No 12. Mi interesso di arte, storia e cultura Sì Abbastanza Poco No 13. Preferisco creare qualcosa piuttosto che comprarla Sì Abbastanza Poco No 14. Il mio modo di vestire è più trendy rispetto alla media Sì Abbastanza Poco No Sarà necessario trovare un giusto compromesso tra senso ed utilità del prodotto, pur non scindendole totalmente l’una dall’altra poiché reciprocamente funzionali e complementari. Si dovrà poi come “smembrare” il prodotto in tutti i suoi componenti, analizzandoli e studiando tutte le alternative progettuali del caso questo perché un progetto non può essere solo anima e sensazione, ma deve anche essere tecnica e funzionalità in un’ottica di opportunità, di prestazione offerta dal prodotto, di durabilità dello stesso, della possibilità di intercambiabilità e sostituibilità. Si devono sviscerare le funzioni svolte da ogni singola parte del prodotto e dalle sommatorie di funzionalità svolte da più componenti, nonché si deve valutare l’effettiva fattibilità dell’oggetto sia in termini di costi che di produzione e reperibilità del o dei materiale/i. È importante anche sottolineare se esiste una possibilità di personalizzazione e se sì a che costo questa personalizzazione può essere effettuata. Mi sono poi domandato se Ibrido urbano fosse da intendersi come un’invenzione o come un’innovazione per giungere poi alla constatazione che si tratta di un’innovazione per l’impresa in quanto già presente nel mercato ma nuova per l’impresa – nella fattispecie, Piaggio. Più nello specifico a voler classificare questo mio personale intervento sul prodotto si potrebbe anche dire che si tratta di un’innovazione di tipo “design driven”: sto parlando dell’esplorazione consapevole e continuativa di trend e modelli culturali in grado di produrre fenomeni di innovazione non attesi dal mercato in modo consapevole e/o palese. È un cambiamento spinto da una visione, sostenuta
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Foto proprie.
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da un processo intenso di ricerca, una ricerca non convenzionale che può chiedere la partecipazione di soggetti che intervengono in un mercato in modo differente. Questa collaborazione può fornire le chiavi di lettura per capire quelle variazioni di linguaggio, per trovare cambiamenti anche radicali di senso, superando uno scenario già noto. L’operazione fatta su di una categoria merceologica già esistente si propone come un’operazione di “combinazione” moltiplicando le opzioni in uno stesso prodotto, sfruttando inoltre l’elemento della “contiguità” ovvero andando a studiare fenomeni merceologici appartenenti anche ad altri settori e risultati poi fenomeni di successo. Giocare poi sulla “fascinazione immediata” costituisce un plus qualitativo per il prodotto: fare in modo cioè che scatti un vero e proprio colpo di fulmine tra il prodotto e l’acquirente che avverte così l’esigenza e la necessità di comprare senza dover necessariamente aspettare l’ultimo minuto perché per lui il vero “affare” è adesso e non più avanti. Il fatto poi che Ibrido Urbano apra ad una nuova concezione di vita, ad un nuovo comportamento quotidiano – ovvero che “istighi” positivamente al riciclo e all’ecologia – può sicuramente rappresentare uno stimolo per il consumatore che messo di fronte ad un nuovo stile di vita vive quest’esperienza come una sfida, come una missione quasi e si sentirà poi nel breve futuro autorizzato a ripensare e stravolgere quello stile di vita stesso. È la chiave infatti dell’invito non quella dell’imposizione: Ibrido Urbano, così come tutti i prodotti ecologici in generale, propone una nuova visione della vita, un mondo possibile e più attento, regalando ai consumatori il frutto di un lavoro svolto con minuzia il cui possesso potrà innescare nell’individuo una presa di posizione precisa che potrà quasi certamente non fermarsi unicamente all’acquisto ma andrà oltre applicandosi nel quotidiano. Sarebbe infatti sconcertante pensare il contrario: ci si immagina difficilmente per esempio che chi raccoglie rifiuti in maniera differenziata presso la propria abitazione possa essere la stessa persona che getterebbe dal finestrino dell’auto un chewingum.
Foto Roberto Arleo.
Foto Pietro MrEnnio Albini.
…questo più che essere ibrido, sarebbe effettivamente… sorprendente!
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3.3 Riflessioni progettuali Tutto quanto detto finora non può bastare per delineare il profilo del progetto finale. Si è detto di voler creare una innovazione, questo significa far riferimento a un prodotto che esiste già e che solo somiglia a quello che sarà il risultato finale. In termini di mobility, urban style, abbigliamento e accessori pensati per il viaggio, non sono pochi i nomi che possono venire alla mente. Una storia tutta italiana è quella marchiata Mandarina Duck: siamo nel 1977 e questo brand già in quegli anni dichiara il desiderio di esplorare le diverse dimensioni dello stile, del design e del colore senza abbandonare la propria indole. È per questo che l’azienda ha perseguito l’obiettivo costante di scoprire e sperimentare linguaggi ogni volta rinnovati rimanendo però fortemente legata alla sua identità natia, al suo carattere innovativo e rigoroso, sempre e comunque al passo coi tempi. L’evoluzione del marchio si dimostra da subito rapida e incisiva con una capillare diffusione non solo sul territorio locale ma anche all’estero: piano piano l’azienda si inserisce nel settore “accessori da viaggio”, prosegue lavorando anche la pelle oltre alla ancora celebre serie Utility realizzata in plastica, evolve verso il concetto di lifestyle aprendo licenze nel mondo degli occhiali, dei profumi, dei cellulari e degli orologi. Un’attenta ricerca dei materiali, sicuri, inusuali ma affidabili fa di Mandarina Duck un’azienda produttrice di veri e propri oggetti cult, destinati ad un viaggiatore moderno, disinvolto, cosmopolita, ma anche alla categoria dei giovani viaggiatori, dei lavoratori “classi business”, per finire con un prodotto perfettamente calzante coi tempi che corrono: cartelle dalle forme funzionali e accurate con un wireless detector che semplifica l’uso del pc. Il concetto di contemporaneità è il fulcro della produzione Mandarina Duck espresso attraverso un linguaggio moderno, al passo coi tempi e il più delle volte in grado di anticiparli con il gusto dell’innovazione e la capacità di offrire nuove soluzioni con originalità, spigliatezza e carattere. Le soluzioni offerte dall’azienda sono pensate per specifiche occasioni d’uso, con collezioni destinate ad una donna da valorizzare in ogni momento del giorno, a viaggiatori per brevi e lunghe percorrenze di lavoro, d’amore o per il semplice gusto della conoscenza. Estetica, praticità, velocità, funzionalità, dinamicità e tecnologia; grinta, ricchezza di dettagli e anche una nuova attenzione all’ambiente con la valigeria eco-compatibile realizzata in
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Foto proprie.
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DuPont™ Sorona®, un tessuto polimerico parzialmente a base di mais (37%) e realizzato con energia rinnovabile, sicuramente più facilmente smaltibile rispetto al nylon. Azienda storicamente più giovane (2003) ma già di successo, è Momaboma: nata dall’idea di riutilizzare materiali usati, dal sacco di cemento impiegato per produrre i primi esemplari di borse, si passa ad un produzione sempre più variegata basata essenzialmente sul concetto di recupero. La storia dell’azienda non è delle più floride al suo inizio per cause di inserimento nel mercato ostile a quel tipo di prodotti e per scarse competenze tecniche e produttive dell’azienda; oggi però Momaboma, che ha trovato una sua collocazione di successo nel settore moda, può contare su una rete di fornitori, da cui acquista le materie prime, diversi a seconda del materiale in questione come piccoli rigattieri, commercianti di antiquariato e modernariato e stocchisti di vintage, legati ormai da rapporti di fiducia, che sono le principali fonti da cui l’azienda raccoglie il materiale da utilizzare nelle proprie lavorazioni. Camere d’aria, riviste, materiali tessili, materassini in gomma, metri da sarta, dischi in vinile, t-shirt, pelle, sono questi alcuni dei materiali utilizzati per i modelli Momaboma più celebri trasformando ogni singola borsa in un vero e proprio album fotografico dove i racconti dei tempi che furono si possono accavallare, tra un risvolto e una tracolla. È incredibile il fatto che Momaboma abbia costruito una fortuna del tutto casuale, senza alcuna pianificazione o analisi di mercato precedente e sia emersa grazie ad un modello storico – la Kelly di Hermes, chiamata ora Bombo – su cui ha poi applicato gli scarti di cui sopra. Si tratta dichiaratamente di un’azienda orientata al prodotto più che al mercato, caratterizzata da una forte spinta creativa, volta a comunicare il suo rispetto per l’ambiente e un messaggio per il quale l’originalità di prodotto la si può raggiungere nella totale tutela del mondo in cui viviamo. Le scelte di vendita del marchio esplicitano da subito il messaggio principe: non solo l’azienda ha scelto di volgere il suo interesse all’ambiente, ma vuole che l’acquirente stesso comprenda l’unicità e l’irripetibilità del prodotto che va ad acquistare poiché nessuna borsa è uguale all’altra ed ognuna è il frutto dell’unione di materiali che hanno un vissuto ben preciso in grado di comunicare un’emozione e una sensazione del tutto particolari.
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Foto Momaboma.
Foto Momaboma..
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“Ogni cosa ha un corpo, uno spirito, un’essenza... il corpo, con il passare del tempo, perde forza, vitalità. Lo spirito invece resta… crediamo nella possibilità di dare una seconda vita ad ogni cosa. Noi chiamiamo questa vita Momaboma”. “Invert the world” è il motto dell’azienda: lo sforzo di pochi può finalmente diventare alla portata di tutti, basta desiderarlo. Altre aziende di riferimento nella mia ricerca che hanno costituito spunto per l’elaborazione del progetto sono maggiormente quelle improntate al riciclo e al riuso collocate perfettamente nella somma già citata: mobility+ecologia+stile di vita. Se è vero che il bisogno aguzza l’ingegno, allora Naomi Gerstein con la linea Abu Yoyo era fortemente alla ricerca di qualcosa. Lei rappresenta la dimostrazione del fatto che aver risorse limitate a volte può essere un vantaggio, a patto che si sappia sfruttare al meglio ciò che si ha a disposizione. Questa ragazza crea borse, cartelle, bustine, portafogli ecc. dando nuova vita a materiali che altrimenti sarebbero destinati ad essere smaltiti come gli enormi cartelloni pubblicitari che decorano le strade delle grandi città, ma che seguendo il ritmo della moda e del cinema vengono rapidamente rimpiazzati da altri più nuovi. Il risultato che ne deriva è una linea giovane e colorata di prodotti realmente second life, ed è proprio lì che sta il suo fascino. Altro “ente” impegnato nell’ecologico è Errastrana: Errastrana non è propriamente uno studio di design o di architettura, ma un’associazione di promozione sociale senza finalità di lucro nata dalla collaborazione di diverse realtà professionali e artistiche. L’associazione Errastrana intende fornire idee e collaborazione attiva, vuole essere un cantiere creativo, riempito di contenuti ed idee, essere a disposizione di giovani menti, impregnato di stimoli culturali ed energia. È a seguito di un workshop svoltosi nel dicembre dello scorso anno che è nata la serie di borse “Tubes” frutto di un lavoro in team all’interno del quale le competenze sono state vissute come ricchezza collettiva e non unicamente come proprietà. Il lavoro di produzione svolto si articola in più fasi e precisamente: si prelevano le camere d’aria dai gommisti, vengono portate in laboratorio, aperte a metà e lavate con acqua e sapone in maniera accurata. Vengono poi
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Naomi Gerstein ,Abu Yoyo.
Borsa Errastrana.
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asciugate e tagliate a mano in tutti i componenti della borsa o del portafoglio; ogni borsa è cucita a mano e finita con dettagli molto curati: le tracolle sono in cintura di sicurezza, l’interno è in tessuto da sdraio da mare. Il prodotto finito è resistente, funzionale e socialmente sostenibile, il che per Errastrana significa design. Riciclo e viaggio sembra quasi che vadano di pari passo: a farci caso difatti gli scarti maggiormente utilizzati nella produzione di questi accessori provengono dal settore di dismissione auto, bici, moto e persino barca, come nel caso di Relation de Voyages, azienda poliglotta, metà italiana e metà francese, che attinge a vecchie vele da imbarcazione e realizza borse in serie molto limitata per lasciare libero il tempo dedicato alla creatività, gestire e rinnovare lo stock di vele usate, rispettare l’ambiente usando dei prodotti naturali per il lavaggio e per la serigrafia. Il laboratorio di produzione – uno a St. Malo, uno a Pietrasanta e l’alto a Marie-Galante – è come la maggior parte dei laboratori artigiani, come una sorta di stanza del mago con un pentolone all’interno del quale bollono innumerevoli ingredienti e attrezzi. Il compito arduo è quello dell’artigiano che dovrà essere in grado di sentire con le mani la trama del tessuto, capire i suoi punti di fragilità e di resistenza. Il materiale principale è la vela usata. Da circa cinquant’anni, la quasi totalità delle vele sono fabbricate con dei tessuti sintetici studiati con una ricerca tecnologica molto avanzata, come: duradon, dacron(inventato 1950), mylar(1952) kevlar(brevettato nel 1966,cinque volte più resistente dell’acciaio), spectra e carbonio. Le loro qualità principali sono la resistenza e la leggerezza. Il loro principale difetto: SFIDARE L’ETERNITA. “Queste vele che hanno sbattuto al vento o sbadigliato al sole e non solamente, sono per noi piccoli tesori perché, all’insaputa dello skipper, si sono impresse - durante il passaggio dell’Orizzonte - almeno noi lo crediamo, di storie fuori dal Tempo e fuori dello Spazio marittimo cartografico. Se si sporge un po’, l’Orizzonte esiste dalla formazione della Terra; ma sono gli uomini che l’hanno inventato: navigatori, esploratori, vedette.che avevano paura non segnasse la fine del mondo, una voragine dove andavano a sprofondare i loro velieri. I secoli sono passati. Nessun geografo visionario, nessun progresso tecnico, nemmeno la mondializzazione (!) l’hanno raggiunto. Dimora indenne nello sguardo della gente di
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Borsa Relation de Voyages.
Borsa Relation de Voyages.
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mare o delle coste. L’Orizzonte è una bella invenzione umana perché al di là tutto è possibile, libero, infinito. E i soli complici sono le nuvole e la foschia”. Attingono dal mondo dei trasporti e del dimesso anche Alchemy Goods, Canvasco, Marlon, Rag-bag, Demano e Freitag, solo per citarne i più celebri. Alchemy Goods è un’azienda americana che ricicla elementi provenienti dalle strutture delle biciclette (camere d’aria) e cinture di sicurezza. Il prodotto finale risulta estremamente resistente, totalmente impermeabile e a prova di macchia; interessante l’espediente comunicativo adottato dall’azienda: in ogni cartellino cucito alla singola borsa, sopra al logo Alchemy Goods vi è stampato un numero – “tiny number with big significance” – che indica la percentuale di materiale riciclato utilizzato per la realizzazione di quel prodotto specifico. Trasformare l’inutile in utile è la missione di quest’azienda ed è per questo che si definiscono essi stessi degli “alchimisti”, ovvero coloro che nei tempi antichi erano in grado di trasformare qualcosa di scarso in valore in qualcos’altro che di valore ne aveva davvero molto di più. Demano invece è un marchio spagnolo che sfrutta per le sue produzioni materiale pubblicitario dimesso, cartelloni in pvc o poliestere reduci da allestimenti temporanei, festival ed eventi culturali. Un vademecum chiaro, sintetico ed incisivo detta le regole per una vita sostenibile a tutti gli effetti:
Borsa Alchemy Goods.
01. Sostituisci le tradizionali lampadine con lampadine a basso consumo energetico 02. Abbassa il tuo termostato di due gradi in inverno ed aumentalo di due gradi in estate 03. Riduci il consumo di acqua, specie quella calda 04. Evita di asciugare gli abiti all’asciugatrice, appendili sul tuo stendino 05. Fai tutto quello che puoi per riciclare i rifiuti a casa tua! 06. Spegni le apparecchiature elettriche quando non le usi 07. Riusa le buste di plastica 08. Compra prodotti in carta riciclata 09. Manda lavatrice e lavastoviglie solo quando a pieno carico 10. Scegli un mezzo di trasporto sostenibile Acquistare un prodotto Demano vuol dire quindi scegliere
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un comportamento di vita preciso e responsabile, che sarebbe poi auspicabile in chiunque acquisti prodotti di questo tipo. Un team di designers affianca la produzione Demano garantendo un assortimento sempre più vasto per applicazioni sempre più disparate: portafogli, cappelli, stivali e borse pensate appositamente per i tragitti compiuti in bicicletta, il mezzo di trasporto più ecologico a nostra disposizione. E intorno alla bicicletta ruota anche il progetto Balla Billa Bag, originale linea di borse nata come qualcosa di utile finita poi per diventare un accessorio estremamente cool e di moda. Disponibile in varie versioni, è fatta a mano, con pelle resistente all’acqua, progettata e realizzata in Italia, solo con materiali italiani. Pare sia facile da applicare sul portapacchi della bicicletta, inoltre il manico sganciabile permette di rimuovere la borsa dalla bici e di portarla con sé. Questa borsa è stata realizzata per soddisfare tutte le esigenze di mobilità: caratterizzata da un design funzionale ed intelligente è capace di contenere dagli accessori più femminili (come il make up), ai documenti e a tutte le carte del professionista. Per arricchire ulteriormente questa carrellata di aziende “eco-oriented” come non parlare di Canvasco, marca popolare tedesca per Urban Sailors, ovvero per gente che vive nelle metropoli nel cuore del tempo. Un gruppo molto esigente con degli interessi versatili e gusti individuali. Anche nel caso aziendale Canvasco dunque ogni borsa è uguale solo a sé stessa e il concetto dell’unicità viene esteso a tutto campo allo scopo di far sentire l’utente una vera e propria persona dotata di una personalità che è solo sua e solo a lui appartiene. Il materiale base di lavorazione è costituito da vele usate, ne deriva che la natura delle borse è cosi differente come le vele in se: belle, pratiche e soprattutto desiderabili. Nonostante la vasta collezione, Canvasco rimane riconoscibile, poiché i prodotti pur giocando sempre con gli stessi dettagli come cintura, fibbia e materiale sono sempre nuovi ed ingegnosi.
Borsa Demano.
Borsa Canvasco.
“A come avanti, avanti; B come prezzo basso; C
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come Canvasco (dall’inglese, canvas, vela); D come Deutschland; F come femmine detenute; H come ho davvero fortuna; J come junior-imprenditore dell’anno; N come nostra durevolezza; O come onnipresenza: Sulla spalla - una borsa di Canvasco; sul corpo - una camicia di Canvasco; Q come qualità; S come stoffa di vela: ...che dà libertà; U come unico: Tutte le borse sono uniche; W come „the wind: ...my friend“; Y come Yuppi: Fanatico urbano, giovane che si rende conto della sua carriera. È pazzo di cose uniche.” Altra azienda simbolo del riuso è la Marl-on, anch’essa volta al recupero di teloni pubblicitari in pvc e cinture di sicurezza destinate alla rottamazione. Si ribadisce ancora una volta come le colonne portanti dell’azienda siano la singolarità, data dalla svariata fantasia dei Pvc, e l’ “handmade” , ossia la possibilità di realizzare qualsiasi forma e tipo di borsa, non rimanendo quindi vincolati a modelli standard. Le borse vengono inoltre completate dal logo Marl-on serigrafato sempre su materiale Pvc ed infine cucito.
Borsa Marl-on.
Ultime ma non ultime per i miei obiettivi progettuali sono due aziende vicine eppure lontane: Freitag e Tucano Urbano. “Guardando dalla finestra della cucina, un giorno pensammo che con le migliaia di chilometri di teloni dei Tir che transitavano sulla strada si sarebbe potuta confezionare una borsa a tracolla”, parola di Markus Freitag. L’idea infatti di riciclare oggetti simili per ricavarne borse è dei fratelli Freitag che cominciarono nel 1993 con il confezionarle in proprio a casa loro. In un vortice rapido di susseguirsi di eventi, le freewaybags made in Swizterland hanno conquistato il mondo e sono diventati veri e propri oggetti di culto. Qualità riciclaggio e spirito svizzero sono le tre costanti del prodotto Freitag. Ad oggi Freitag realizza più di quaranta tipologie di prodotti, borse da spalla, porta iPod e custodie per laptop, tutti oggetti che grazie all’impiego di materiali usati hanno sempre stampe e colori diversi con design sempre nuovi. Il desiderio di individualità avvertito dal consumatore è perfettamente colto dall’azienda che compie un’operazione di marketing a 360°, operando su più fronti ed offrendo la possibilità all’acquirente potenziale di potersi costruire da solo la propria borsa dei sogni con
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una limitata serie di click comodamente seduti dal pc di casa propria. Tutto questo accade a Zurigo, città emblema della vivibilità e della sicurezza, potremmo dire a misura d’uomo, trafficata quasi esclusivamente da biciclette e popolata da individui aventi esigenze differenti rispetto agli abitanti delle grandi metropoli: praticità, rapidità di spostamento, facile reperibilità delle risorse, di qualunque natura esse siano. Una conferma una volta di più che un progetto di design è qualcosa che nasce sull’onda della quotidianità, che un’idea genera dalla spontaneità di un gesto e di un pensiero, come, in questo caso, quello di avere con sé un accessorio impermeabile pensato per chi vive la città in bicicletta e la utilizza anche in caso di maltempo. Tucano Urbano coniuga tecnologia e competenza nella produzione di termoscud, abbigliamento, guanti, borse ed accessori in generale per lo scooter. “Per gente sempre su due ruote. Tutti i giorni, in ogni stagione e in ogni occasione. Da più di 10 anni, produciamo abbigliamento e accessori per chi si muove in scooter e in moto. Sotto la pioggia battente o sotto il solleone, per andare in ufficio o per una passeggiata fuori porta. Sempre e ovunque. Non ci sono limiti per chi si sposta ogni giorno sulle due ruote (di questo siamo fermamente convinti)... In moto sempre in moto, per l’appunto. Questo è il motto che accompagna tutte le nostre collezioni: abbigliamento e accessori che garantiscono sicurezza, comfort e moda in qualunque condizione meteorologica.” Inizialmente Tucano produce solo il coprigambe Termoscud per proteggersi da pioggia, vento e basse temperature, poi tutta una serie di accessori per “combattere” le intemperie climatiche mentre si è a bordo dello scooter I motociclisti metropolitani, gli amanti dei viaggi, gli eleganti professionisti o i giovani alla moda non hanno che l’imbarazzo della scelta. La riflessione progettuale che ho maturato a questo punto è arrivata in maniera del tutto inaspettata ed immediata, spontanea piuttosto.
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Freitag.
Tucano Urbano.
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3.4 Progetti che faranno strada Scegliendo aziende con un know how consolidato e con un forte seguito di pubblico, si possono creare dei sodalizi vincenti per rispondere alla mancanza di prodotti e di valori allo stesso tempo. In un primo momento l’idea era quella di rivalutare l’oggetto Termoscud attingendo alle competenze di un’azienda orientata all’ecologia e per vivacizzare un prodotto ancora troppo tecnico e esteticamente rigido e freddo. Si sarebbe dunque attinto a Tucano Urbano per motivi di leadership dell’azienda nel settore scooter – sia in termini di urban fashion, che di assortimento e duttilità/ versatilità –, a Freitag per la scelta di materiali riciclati in fase di produzione dell’oggetto borsa e infine a Piaggio per la sua impronta ecologica sviluppata negli ultimi anni con il nuovo scooter ibrido.
Eco-scud.
…grandi nomi, grandi contenuti, grandi principi… e piccoli progetti con grandi aspirazioni.
Bi-sacce.
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Eco-scud
Termoscud Tucano Urbano.
Ipotesi progettuale.
Idea di progetto.
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Schizzi progettuali.
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Taglio.
Cucito.
Prototipo.
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Prove di funzionalitĂ .
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Partenza...
Via!
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Bi-sacce
Schizzi progettuali.
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Schizzi progettuali.
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Materiali Usati
Teloni camion in PVC.
Camere d’aria di bicicletta.
Cintture di scurezza di automobili.
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Studio assemblaggio.
Soluzioni tecniche.
Cucitura.
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Cuciture, finiture, in camera d’aria.
Ci siamo quasi.
Il prototipo e servito.
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70
35.00 16.50
12.00
35.00
23.00
Tavole tecniche scala 1:5
43.00
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71
40.00
58.00
18.00
43.00
Tavole tecniche scala 1:5
58.00
16.50
43.00
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L’incontro con Piaggio
Prove di funzionaliĂ .
MP3 con motore ibrido, il futuro.
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Contesti d’uso
Soluzione scudo.
Facile.
Utile.
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Con una.
Tracolla.
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Metropolitano.
Relax.
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Con due.
Equilibrata.
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Soluzione bisacce.
Veloce.
Due in una.
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Capiente.
In due è meglio.
Interessi comuni.
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Andare.
Tornare.
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Conclusioni Con questo progetto, come ho più volte dichiarato, non ho mai inteso sorprendere o presentare un lavoro estremamente complesso e affascinante, di quelli “ingombranti” ed “importanti”. A modo mio, ho cercato di dare il giusto valore alle questioni e di occuparmi di qualcosa che mi ha riguardato e che tutt’ora mi riguarda, auspicando con questo di aver colpito e stimolato la curiosità di coloro che non condividono attualmente i miei gusti e le mie stesse passioni. Ho parlato di tanti mondi apparentemente gli uni distanti dagli altri, eppure un filo sottile che lega ogni cosa c’è, esiste ed io lo sento. E Ibrido Urbano non è altro che il palesarsi di un legame che volevo tutti fossero in grado di poter cogliere. Perché i nostri occhi, i nostri sogni, i nostri progetti non devono necessariamente guardare troppo lontano o troppo avanti per poter essere affascinanti, o futuristici, o… “ganzi”. La bellezza e la semplicità del nostro presente richiedono risposte che mai un progetto troppo proiettato al futuro potrà dare.
Tre.
Perché non so il vostro, ma il mio, di futuro, è adesso. E lo voglio vivere con Ibrido Urbano sulle spalle. Due.
Uno.
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Fonti
Sitografia abuyoyo.co.il alessandroacerra.com altaroma.it alulife.com arte.go.it bagsnob.com basurabags.org boboswear.it brandchannel.com brandforum.it cameramoda.it ceebee.it comieco.org dellamoda.it demano.net demauroparavia.it dweb.repubblica.it elle.com espresso.repubblica.it fashionline.com freitag.ch gilesmiller.com mandarinaduck.com marl-on.com modestyle.com momaboma.it ounodesign.com piquadro.com regenesi.com sandradigiacinto.it silviasthink.blogspot.com sistemamodaitalia.it stefanodeluigi.com stylosophy.it tassenmuseum.nl triennale.it tucanourbano.it velvet.repubblica.it vogue.com vespa.com
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Bibliografia AA.VV., “Communifashion”, Luca Sassella Editore, 2001 Abruzzese, A., “L’industria culturale”, ed. Casacci, 2000 Boitani, P., “Sulle orme di Ulisse”, Il Mulino, 1998 Brilli, A., “Il viaggiatore immaginario” , Il Mulino, 1997 Brilli, A., “Quando viaggiare era un’arte”, Il Mulino, 1995 Bucci A., L’impresa guidata dalle idee. Management dell’Estetica e della Moda, Domus Academy, 1992 Calefato, P., “Mass Moda”, Costa&Nolan, 1996 Calefato, P., “Moda, corpo, mito”, Castelvecchi, 1999 Cavalca, Altari, “La moda allo specchio. Comunicare moda: strategie e professioni”, Franco Angeli, 2004 Ceriani, G., Roberto G. (a cura di), “Moda: regole e rappresentazioni”, FrancoAngeli, 1996 Chialant, M.T. (a cura di), “Viaggio e letteratura”, Marsilio, 2006 Ciappesi, C., Nosi, C., “Vendere arte e spettacolo, lezioni di gestione e marketing”, ed. Cadmo, 2000 Collini, P., “Wanderung: il viaggio dei romantici”, Feltrinelli, 1996 De Bono, E., “Essere creativi – Come far nascere nuove idee con tecniche del pensiero laterale”, Ed. Il sole 24ore, 1998 Dorfles, G., “La moda della moda”, Costa&Nolan, 1999 Douglas, M., “Il mondo delle cose”, Il Mulino, 1984 Floch J.M., Semiotica, marketing e comunicazione: dietro i segni, le strategie, Franco Angeli, 1992 Foglio, A., ‘’Il marketing della moda’’, Franco Angeli, 2002 Guolo A., “La borsa… racconta”, Franco Angeli, 2007 Mazza, A., “Marca e comunicazione nella gestione delle imprese dell’abbigliamento”, Cacucci editore, 2000 Morace, F., “Metatendenze”, Sperling&Kupfer, 1996 Morelli, M., “La comunicazione d’impresa e la promozione dell’immagine”, Franco Angeli Pambianco, C., ‘’Le strategie delle aziende di moda: nuovi scenari di mercato’’, 2003 Saviolo, S., Testa, S., ‘’Le imprese del settore moda’’, Etas, 2000 Semprini, A., “La marca - dal prodotto al mercato, dal mercato alla società”, Lupetti ed., 2003. Semprini, A., “Marche e mondi possibili”, Franco Angeli, 1993 Squicciarino, N., “Il vestito parla”, Armando, 1986
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Riviste consultate Elle Decor Il VenerdĂŹ Interni La Repubblica delle Donne Mark Up Modo Panorama
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Ringraziamenti Azzurra Mantellassi Extrabilia (Parentesi Quadra) Linda Meoni Luca Giacomelli Marl-on Massimo Bacci Michael Reali (cizuti) Momaboma Piaggio Simone Tramonti Tucanourbano
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