Corso di Laurea Triennale in Scienze Politiche
TUTTI PAZZI PER LO STREET STYLE La Web Communication a caccia dello stile: il fenomeno del CoolHunting
Relatore: Silvia Pezzoli
Candidato: Rebecca Rizzello
Anno Accademico 2011/2012
INDICE
Introduzione................................................................................................................................3 1. The New Generation is coming! I primi look di strada..........................................................6 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6
Il boom delle sottoculture giovanili.....................................................................................6 It's Rock 'n' Roll, baby........................................................................................................12 Piccoli delinquenti crescono: i Teddy Boys.......................................................................14 Mod & Rocker. Lo yin e yang dello stile spettacolare giovanile.......................................17 Anno 1964. Sboccia il fiore Hippie...................................................................................21 Brutti, sporchi e fuori di cresta. I Punk, l'ultima sottocultura spettacolare........................23
2. Dalle sottoculture spettacolari alle neo-tribù. Lo stile fa i conti con la globalizzazione...... 27 2.1 L'individuo e la post-modernità. Il declino delle sottoculture spettacolari........................27 2.2 Nascono le neo-tribu: microcosmi nella società dei “tutti uguali”....................................32 2.3 Al passo con i tempi o con la massa? Il Fast Fashion e la moda “low cost”.....................35 2.4 A conti fatti, questo il risultato: “Sampling and Mixing” le parole chiave del nuovo street style.................................................................................................................................40 3. Nuove realtà, nuove passioni. Il Coolhunting spopola in rete..............................................45 3.1 3.2 3.3 3.4
Fashion Blogs mania..........................................................................................................45 A caccia di street style armati di reflex. Il CoolHunter......................................................49 Un tuffo nel Virtual Coolhunting. L'esperienza di MEOUTFIT.........................................55 Come il Web ha cambiato la moda.....................................................................................58
Bibliografia...............................................................................................................................62 Quotidiani e periodici................................................................................................................64 Sitografia...................................................................................................................................65
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Introduzione “Le vesti significano il mondo, la sua storia, la sua geografia, la sua arte. Nella preistoria l'abbigliamento era uniforme perché il mondo non era differenziato; un pelle di animale serviva per tutte le situazioni e per tutte le circostanze. La metamorfosi comincia quando il valore <<protettivo>> delle vesti, cede il posto a quello <<simbolico distintivo>>.”1
Siamo diversi gli uni dagli altri, ma per esprimere al meglio questa diversità spesso ci affidiamo all'abbigliamento. Cerchiamo di distinguerci costruendo stili unici con semplici accessori o semplicemente riadattando mode passate. Un insieme di gente comune, appunto, che riesce a lanciare, inconsapevolmente, tendenze prima ancora delle passerelle; lungo i marciapiedi, nei bar, nei mercatini, tra la folla di un concerto ogni giorno nascono come per magia spunti per mode future. La strada quindi è stata, ed è tutt'ora, uno dei più importanti centri nevralgici da cui il fashion system trae ispirazione. Perciò si parla di Street Fashion, o meglio dello street style, per indicare tutto quell'insieme di mode nate proprio dalla “street” che, nel corso della storia, si sono trasformate e adattate ai numerosi cambiamenti sociali. Uno tra tutti: l'arrivo di internet. Ecco perché, visto l'enorme successo che i blog di street style stanno avendo al giorno d'oggi, ho trovato interessante analizzare il modo in cui la moda di strada si è evoluta negli anni, concentrandomi soprattutto sul fenomeno, ormai dilagante, dei blog di coolhunting, di cacciatori di tendenze. Grazie al Web 2.0 infatti chiunque può esprimere la sua creatività ed essere sempre on line su ciò che accade nel mondo. D'altro canto, la rete ha trasformato il ruolo dei destinatari che, da semplici lettori, sono diventati scrittori-autori; in passato infatti a influenzare la società erano solo i professionisti, che dopo una lunga gavetta diventavano fonti di fiducia autorevoli per il pubblico. Oggi, invece, grazie ad un pc e alla connessione ad internet noi utenti possiamo esprimere qualsiasi cosa ci passi per la mente, condividerla con il mondo ed assumere così una posizione di rilievo alla pari dei più importanti addetti del settore. Tutti questi cambiamenti hanno ovviamente influenzato il fashion system provocando prima la diffusione di una moda “low cost” e “fast”, poi il coinvolgimento di free lance, nati proprio dai blog. In particolare è con quest'ultimi che la moda di strada ha iniziato a suscitare interesse ad invogliare gli utenti, non professionisti del settore moda, ad esporre sul web i propri outfit e quelli di altri. Raccogliere usi e costumi di vite diverse dalla nostra, immortalare look riadattati agli stili delle generazioni passate o esprimere pareri sulle ultime tendenze è qualcosa di affascinante che la rete ha permesso di 1 U. Galimberti, 2002, p. 203.
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fare senza specifici studi. Dunque lo street style non ha mai smesso di esistere ed è sempre stato fonte di ispirazione e imitazione per il mondo della moda. Nel primo capitolo, quindi, andrò ad analizzare gli albori di questo fenomeno, facendo un vero e proprio “tuffo di stile” nelle sottoculture spettacolari giovanili sviluppatesi tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento: dai Rockabillies rappresentati dall'icona di Elvis Presley, passando per i Teddy Boys, i Mods, i Rockers e gli Hippies, fino ad arrivare alla sottocultura Punk, l'ultima tra quelle definite “spettacolari” che diffuse il motto del DIY ,“Do It Yourself”. Descriverò il modo in cui questi gruppi di giovani, stanchi della società che avevano di fronte, dettero vita a stili personali con il solo intento di sviluppare una forma simbolica di resistenza, provocazione e disturbo nei confronti della cultura egemone e della società stessa. Il loro abbigliamento, ricco di significati e assolutamente distante dal fashion system, verrà tuttavia inglobato nei meccanismi della moda, diventando così il primo portavoce del processo del bubble up, di imitazione dal basso verso l'alto. Tutto ciò serve quindi a dimostrare che siamo dei consumatori creativi, siamo fonti di imitazione e ispirazione per l'industria della moda. Tuttavia con l'arrivo della post-modernità e della globalizzazione, queste sottoculture iniziarono a sparire fino a quando non scomparvero del tutto; dunque nel secondo capitolo cercherò di capire in che direzione si è evoluto lo street style subito dopo l'ultima sottocultura Punk. Mi soffermerò su come, nella società degli anni Novanta definita da Codeluppi una “low-cost society”, l'abbassamento della qualità e, quindi, del prezzo dei materiali provocò l'accesso ad un certo tipo di beni da una parte assai più ampia di consumatori. Mi concentrerò nel comprendere il modo in cui una moda “fast” e “low cost” ha condizionato ed indebolito la capacità di elaborare ed esprimere, in forma collettiva, pratiche culturali di significazione, aprendo le porte ad uno stile più soggettivo e in costante cambiamento. Una società, questa, “degli individui”, per dirla come Elias, che porterà alla nascita di neo-tribu, molto più volubili e mutevoli di quelle spettacolari, prive di alcuna forma simbolica, ma che porteranno, da un punto di vista stilistico, ad una serie di assembramenti sparpagliati e incostanti basati sul “mix & match”. Di conseguenza avremo modo di capire che lo stile di strada non è morto con le sottoculture, ma ha solo cambiato le sue caratteristiche principali, che oggi sono il “sampling & mixing”, cioè il campionare e il mescolare elementi diversi tra loro, di provenienza diversa, al solo scopo di esprimere la propria personalità e staccarsi dalla massa. Ma con l'arrivo del Web 2.0 cosa è successo allo street style? Ecco che nel terzo capitolo cercherò di spiegare il modo in cui l'arrivo del Web 2.0 ha contribuito ad ampliare all'ennesima potenza la differenziazione, la singolarità e la creatività degli stili, rendendo il tutto più immediato. In ogni momento del giorno abbiamo la possibilità di essere aggiornati su quali sono gli usi e 4
costumi di differenti individui, viaggiare per gli stili di paesi lontani semplicemente con un click. Parlerò così della nascita di una nuova figura che permette di essere sempre aggiornati sulle ultime tendenze: la professione del coolhunter, o ricercatore/cacciatore di tendenze che ad oggi risulta essere un mestiere necessario per poter gestire così tanta eterogeneità. Cercherò perciò di capire l'importanza di questa professione partendo dall'analisi del suo antenato, il fashion forecasting, nato negli anni Sessanta e collegato direttamente alle case di moda, per arrivare a descrivere le differenze con il contemporaneo virtual coolhunting. Infatti quello che oggi è cambiato è il modo in cui le case di moda gestiscono la ricerca delle tendenze in strada. Non fanno più solo affidamento sui professionisti, ma usano anche gli innumerevoli blog amatoriali di street style che, seguendo le orme dell'ormai famoso Scott Schuman, aka The Sartorialist, hanno permesso di immortalare la coolnees di ogni soggetto incontrato. Tuttavia per poter capire ancora meglio questa nuova realtà amatoriale userò l'intervista che ho avuto il piacere di fare al blogger toscano di street style, Massimiliano Meoni, che nel 2007 decise di aprire il suo blog Meoutfit in cui quotidianamente pubblica foto di estrosi e bizzarri look incontrati per le vie di Firenze, Pistoia oppure Milano. Insomma è un fenomeno, quello del coolhunting e dello street style, che si è trasformato in una vera e propria mania. Non c'è rivista, sito, trasmissione o radio che non faccia cenno a questi. Il Web ha dunque aperto la caccia allo stile, chiamando a rapporto un numeroso esercito di ricercatori amatoriali, le nuove spie cittadine sempre pronte ad immortalare sulle loro macchine fotografiche i look più cool e di tendenza.
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CAPITOLO 1 The New Generation is coming! I primi look di strada. “Senza gli Hipster, i Teddy Boys, i Rokers, i Mods, gli Hippies, i Punk – e tutti gli altri originali look di strada – molti di noi andrebbero a giro nudi. Ma l'aspetto stilistico fatto di giubbotti di pelle, di jeans, di kaftani e molto altro, rappresenta solo la parte visibile e tangibile di una piu grande eredità.” 2
1.1 Il boom delle sottoculture giovanili. Al giorno d'oggi la moda è come un campo minato. Dovunque si guardi spuntano nuovi blog, nuove riviste, nuovi “trend setter” 3 da cui trarre ispirazione per il proprio stile. Ma non è sempre stato così. Per molto tempo, infatti, chi imitava era la classe inferiore che, per adattarsi alla società, era solita guardare in alto e copiare lo stile dell'aristocrazia. Questo meccanismo, che Ted Polhemus chiama “trickle-down”, della goccia che cade dall’alto verso il basso e che si estende poi orizzontalmente, venne però successivamente rimpiazzato dal suo opposto: il “bubble-up”4. In questo caso chi imitava viene imitato e i loro stili e comportamenti diventarono fondamentali per l'alta moda. Potremmo quindi dire che i luoghi della cultura quotidiana sono, oggi, quelli che determinano le mode, prima ancora che la ricerca stilistica elabori, in segno-merce di lusso, il proprio artefatto. Il fenomeno dello “street fashion” – della moda di strada – non è certo recente: sono decenni che gli stilisti ne traggono ispirazione. In particolare, i primi a fornire questa la linfa vitale furono i giovani che, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si affermarono come nuova categoria sociale, contrapposta alla cultura dominante, attraverso la creazione e l'esibizione di particolari stili. Sovvertire l'ordine istituito, combattere il sistema e ribellarsi alla società attraverso un certo abbigliamento è qualcosa di affascinante e per Georg Simmel, “il fascino davvero stimolante e profondo della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida caducità: sta nel diritto ad esserle infedeli. Il suo fascino risiede nello spazio ristretto in cui chiude una determinata cerchia sociale e nella risolutezza con cui la separa dalle altre cerchia sociali dimostrando come la propria causa e il proprio effetto siano la 2 T. Polhemus, 2010, p. 6, trad mia. 3 Per “trend setter” si intende qualcuno che, tramite il proprio stile inconfondibile, detta i trend del momento e reinterpreta in maniera originale ed esclusiva i must have della stagione. 4 Con il termina “bubble up” ( bolle di sapone) Ted Polhemus intende un cambiamento nello stile. Non è più l'aristocrazia ad imporre un certo abbigliamento, e quindi ad essere imitata, ma è la classe inferiore. É la strada la nuova culla dello stile.
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comune appartenenza ad essa.”5
Fu infatti subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che i giovani, o meglio i Teenager, tra i tredici e i venti anni, cominciarono ad essere considerati come un gruppo sociale. Nasceva così una nuova realtà, “una galassia di corpi contundenti, che ha eroso anno dopo anno, cambiando in continuazione il guardaroba, i compartimenti stagni che separavano i diversi settori della società.”6
Nel 1958 la più grande società cinematografica inglese, la British Pathè, catturò molti esempi di questa strana nuova razza che aleggiava nei pressi di Soho a Londra, GB. Attraverso il documentario It's the age of the Teenager, in cui si vedono immagini di ragazzi e ragazze che ballano il rock'n'roll, che fanno shopping e che comprano dischi, si capisce come questa generazione si sentisse più libera rispetto al passato. Era un fenomeno che, secondo Ted Polhemus, si stava trasformando “in una sorta di mostro di Frankenstein che non poteva essere frenato”7. L'emergere di una cultura giovanile è quindi caratterizzante del XX secolo. Secondo Jon Savage fu l'aumento della fortuna economica del dopo guerra a provocare una nuova percezione dell'adolescenza, la “teen years” – stato intermedio tra l'infanzia e l'età adulta – come fase reale ed identificabile della vita 8. Ovviamente questo non vuol dire che i giovani non esistevano o non svolgevano nessuna attività prima dell'invenzione della brillantina – per esempio gang di giovani terrorizzavano l'Inghilterra Vittoriana – ma semplicemente non erano ancora stati identificati come una cultura 9. Nel XIX secolo, spiega Savage, lo slancio vitale antisistema dei giovani era stato represso perché ritenuto pericoloso dall’establishment. Invece l'esplosione post bellica delle culture giovanili nei teatri inglesi ed americani, era stata possibile sia a causa di un agire più soggettivo dei giovani, sia del profondo e lungo dibattito intellettuale nato all'interno delle scienze sociali.
5 G.Simmel, 2011, p. 49. 6 M.Guarnaccia, 2009, p. 11. 7 T. Polhemus, 2010, p.48, trad. mia, testo originale: “The Teenager became a sort of Frankenstein's monster that could not be subdued”. 8 J. Savage, 2009. 9 K. Milestone, Youth culture, in The Guardian, 18 Dicembre 1999.
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Riguardo a quest'ultima affermazione, secondo Dick Hebdige, “I sociologi hanno insistito sulla disgregazione della comunità operaia e hanno dimostrato come la demolizione dell'ambiente tradizionale, fatto di vita di quartiere, di negozi all'angolo, è semplicemente il segno di piu profondi e inafferrabili mutamenti. […] La scomparsa di punti di riferimento conosciuti, dopo la guerra, presagiva il collasso di un intero stile di vita. L'avvento dei mass media, i mutamenti dell'assetto familiare, dell'organizzazione scolastica e del lavoro portò alla frammentazione e alla polarizzazione la comunità operaia [...]. E l'evoluzione della cultura giovanile dovrebbe essere vista come parte di tale processo di polarizzazione. In particolare possiamo ricordare l'incremento relativo del potere d'acquisto dei giovani della working class, la creazione di un mercato per assorbire il conseguente surplus e i mutamenti nel sistema scolastico, come fattori che hanno contribuito all'emergere di una coscienza generazionale radicata in un esperienza di classe, uguale per tutti ma che veniva espressa in modi diversi, in certi casi antitetici, rispetto alle forme tradizionali”10.
I primi studi sottoculturali possono essere fatti risalire al XIX secolo con i famosi lavori del giornalista Henry Mayhew e dell'autore inglese Thomas Archer che furono tra i primi ad analizzare e descrivere dettagliatamente i criminali dei bassifondi londinesi. Accanto ad essi troviamo anche Charles Dickens che, nel romanzo Le avventure di Oliver Twist, racconta la vita di un giovane orfano costretto ad entrare in una banda di ladruncoli. Al di là della letteratura, un approccio scientifico alla sottocultura, però, non emerse fino gli anni Venti, con le teorie della Scuola di Chicago, negli Stati Uniti. Queste permisero di definire il concetto di sottocultura come un fenomeno di devianza criminale. Tuttavia, a causa dei grandi cambiamenti economici, politici e culturali della società del secondo dopoguerra, questa definizione subì degli aggiornamenti. E così, tale concetto iniziò a rappresentare anche gruppi di giovani che si ribellavano nel tentativo di ritagliarsi spazi di autonomia. La prima teoria sulle sottoculture giovanili si fa risalire agli studi inglesi del Center for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham11, fondato su iniziativa di Richard Hoggart, che proponeva, agli inizi degli anni Settanta, un modello teorico basato su tre argomentazioni: a) individuando nell'origine operaia l'esclusiva matrice di classe, investiva le sottoculture di una funzione politica; b) rappresentava un modello sottoculturale maschile, che 10 D. Hebdige, 2008, p. 90-91. 11 “L'approccio multidisciplinare del Centro di Birmingham si è servito delle riflessioni della Scuola di Chicago utilizzando il lavoro sulle sottoculture devianti giovanili proponendo una lettura che ne sottolineava il carattere oppositivo nei confronti dei valori dominanti. Inserendo tratti del pensiero marxista, i ricercatori britannici hanno manifestato grande interesse per la presunta natura politico e ideologica delle sottoculture nel contesto del secondo dopoguerra”. (R. Pedretti, I.Vivian, 2009, p. 52).
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relegava la figura femminile ai margini delle dinamiche di gruppo, in un livello di subordinazione; c) poneva al centro la questione della razza, in quanto la presenza dell'alterità coloniali, in particolare di afro-caraibici, accompagnava la comparsa spettacolare di diverse sottoculture bianche che in momenti di contrapposizione o di emulazione condividevano la consapevolezza
delle
comuni
condizioni
di
subordinazione
oppure
sviluppavano
atteggiamenti razzisti12. La teoria fu tuttavia successivamente criticata, poiché aveva caricato di un aspetto marcatamente politico i comportamenti sottoculturali, senza tenere conto delle differenze interne, delle aspettative dei singoli e delle modalità di adesione individuale. Per quanto nascano come sottoculture giovanili all’interno della classe operaia, la resistenza alla cultura egemonica non può essere rappresentata attraverso gli strumenti dell’opposizione politica, ma opera a livello dell’universo simbolico. Per capire meglio è opportuno fare riferimento alla definizione di sottocultura operata da Roberto Pedretti, nel 2009. “La sottocultura è un insieme di individui che cominciano a riconoscersi come appartenenti a un gruppo nel momento in cui scoprono di condividere esperienze, interessi, difficoltà. Attivando processi di interazioni questi individui si organizzano e strutturano attraverso la definizione di un insieme di comportamenti, elaborando stili e formulando relazioni con il mondo che servono a distinguerli e che li pongono in concorrenza con il sistema di valori egemone”13.
In realtà chi rappresentò per la prima volta l'aspetto ideologico, economico e culturale della sottocultura fu Phil Cohen. Nella sua opera, Sub-culture, conflict and Working Class Community, Cohen definisce la sottocultura come un compromesso nato tra due esigenze giovanili opposte. Da una parte si ribellavano e si distaccavano dai genitori, dall'altra però sentivano come il bisogno di identificarsi con essi. Queste contraddizioni venivano risolte attraverso atti pratici, mettendo in mostra uno stile che si articolava in certe aree specifiche: la moda, il linguaggio (sleng), la musica e i rituali14. Il contributo di Cohen risultò fondamentale per gli studi sulle sottoculture spettacolari, operati successivamente da Hall e Jefferson, del 1976. In Resistance throught Rituals, gli studiosi interpretarono gli stili culturali giovanili come forme simboliche di resistenza alle culturali egemoni, come risposta ad una esigenza di radicalità che si articolava in senso culturale. La creazione degli stili spettacolari venne studiata come metafora di più profondi cambiamenti sociali, dovuti all'avvento della società di massa. 12 R. Pedretti, I.Vivian, 2009. 13 Ivi, p.46. 14 http://cltrlstdies.blogspot.it/2007/10/subcultural-conflict-and-working-class.html
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Per Hebdige, gli stili sottoculturali rappresentavano delle “violazioni dei codici autorizzati, tramite i quali il mondo sociale viene organizzato e vissuto, che hanno un considerevole potere di provocazione e di disturbo. Vengono condannate come contrarie alla sacralità. […] Costituiscono articolazioni profane e vengono, spesso e in maniera significativa, definite innaturali”15.
In sintesi, i giovani che aderivano alle diverse sottoculture esprimevano contenuti proibiti in forme proibite, elaborando soluzioni immaginarie. Tutto questo percorso permette di capire che il vestito spesso può fare il monaco. La creazione di uno stile comporta la creazione di un linguaggio, fatto di oggetti, riti e parole, che risultano identificative di quel gruppo, dando alla sottocultura un'identità coerente e allo stesso tempo separata dal resto del mondo. Il vestito può essere etichettato come un modello sociale che definisce i confini: dentro o fuori è tutta una questione di cosa si indossa, o meglio, di come lo si indossa. A tal proposito dobbiamo chiarire il modo in cui le sottoculture spettacolari danno vita al loro stile. Per fare ciò bisogna ricorrere a due concetti fondamentali: la pratica del bricolage e il concetto di omologia. L'antropologo Levi- Strauss fu il primo ha introdurre il termine “bricolage”; nella sua analisi egli sostiene che “le usanze magiche dei popoli primitivi devono essere considerate come sistemi di connessione implicitamente coerenti e in grado di estendersi all’infinito in quanto gli elementi di base possono essere utilizzati in una grande varietà di combinazioni capaci di generare fra loro nuovi significati”16.
Tuttavia una recente definizione di questo termine ha chiarito il significato originale inserendolo all'interno della cultura spettacolare. John Clarke ha messo in rilievo il modo in cui forme preminenti di discorso sono radicalmente adattate, stravolte e ampliate dal bricoleur17 sottoculturale. Secondo Clarke, “oggetto e significato insieme costituiscono un segno e, nell'ambito di qualsiasi cultura, tali segni sono assemblati, ripetutamente, in forme caratteristiche di discorso. Tuttavia quando il bricoleur ricolloca l'oggetto significante in una posizione diversa all'interno di quel discorso, usando lo stesso 15 D. Hebdige, 2008, p. 111-112. 16 Ivi, p.128. 17 Per bricoleur si intende la persona che pratica l'attività di bricolage. In questo caso fa riferimento ai membri dei gruppi sottoculturali, i giovani.
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repertorio di segni nella sua completezza, o quando quell'oggetto è disposto in un insieme differente nella sua totalità, si costituisce un discorso nuovo, si trasmette un messaggio differente”18.
Quindi i membri del gruppo, per dar vita al proprio stile, si servono di oggetti e di materiali dotati di significati specifici, che già circolano nella società, ricontestualizzandoli e risignificandoli all'interno del discorso sottoculturale. Questi materiali definiscono un carattere oppositivo alla cultura dominante. Spostando invece lo sguardo verso la struttura interna della sottocultura si nota come essa sia caratterizzata da un'estrema regolarità. Secondo quanto proposto da Hebdige, se la sottocultura rappresenta un rumore per la società è perché al suo interno è perfettamente ordinata e coerente. Tutto ciò ci rimanda al secondo concetto, quello di omologia, per mezzo del quale “gli interessi focali, le attività, la struttura e l'immagine collettiva del gruppo vengono agglomerati in un insieme coerente e caratteristico, in cui i membri riescono a riconoscere i loro valori essenziali”19.
Il gruppo sottoculturale deve riconoscersi e differenziarsi dal resto del mondo, perciò gli oggetti scelti devono essere omologhi agli interessi fondamentali, agli atti, alla struttura del gruppo e all'immagine che la collettività della sottocultura ha di se stessa. Questa prospettiva teorica è un modo per tenere insieme, da un lato, una percezione della coerenza, dall'altro, la consapevolezza della qualità di seconda mano, da collage, dei loro stili 20. L'elaborazione sociologica dello stile spettacolare segue dunque delle costanti. Per prima cosa si deve sottrarre alcuni elementi stilistici, gergali o tecnologici, da un ambiente estraneo al proprio. Successivamente si deve riconsiderare tali elementi sotto una luce diversa, giustapponendoli con altri. Infine si ri-istituzionalizzano con atto magico dando loro un nuovo significato simbolico di resistenza/estraneità all'ordine costituito 21. Per questo si parla di stile, per intendere una serie di caratteristiche espressive relative a un singolo, o ad un gruppo, che si vuole allontanare dalla dimensione omologata e massificante della moda. Un semplice cambio d'abito può fare la differenza per anticipare, accompagnare o provocare i mutamenti sociali. Studiare le generazioni passate ci permette, dunque, di leggere ed interpretare meglio il nostro tempo, al fine di comprendere il processo di imitazione nella moda del nuovo millennio. 18 19 20 21
J. Clarke, in Hebdige, 2008, p.129. S. Hall, T. Jefferson, 1976, p. 56. M. Guarnaccia, 2009. Ibidem.
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1.2 It's Rock 'n' Roll, baby. Memphis, Tennessee, USA, 19 luglio 1954: nasce una delle forme espressive più irriverenti e longeve della cultura occidentale, il rock 'n' roll e da quel momento tutto cambiò. Per la prima volta stava nascendo un genere musicale fatto proprio per i giovani, una musica che sapeva rappresentare le nuove esigenze, le ansie, le speranze e i desideri giovanili fino a quel momento soppressi e occultati dalla cultura dominante. Fu il brano That's all Right (Mama), nato come un regalo22, ma diventato poi un successo mondiale, che portò un camionista, a quel tempo diciottenne a entrare nella storia e a fare del rock 'n' roll un simbolo culturale. Quel ragazzo si chiamava Elvis Presley e grazie a lui partì il fenomeno del Baby Boom. Il genere rock 'n' roll non era certo nuovo: circolava già dal 1949. Le sue radici vanno fatte risalire alla cosiddetta “race music” e alla musica “hillbilly”, più tardi chiamate rispettivamente rhythm and blues e country. Significative sono state le influenze jazz, blues, boogie woogie, country, folk e gospel. Tuttavia, quelli erano solo dei piccoli tuoni, in attesa di una più grossa tempesta: Elvis fu il fulmine che incendiò il pagliaio 23. Questa esplosione fu un chiaro segno di insofferenza e ribellione trasmesso dai giovani ai loro genitori. Con Presley si completò il processo di identificazione dei teenager: l'idolo diventa mito, l'idolo influenza la moda. Questo processo trovò punti di riferimento sia nella letteratura che nella cinematografia. É opportuno citare due romanzi usciti tra il 1941 e il 1944: On the Road di Jack Kerouac e Rebel without a Cause di Robert Lindner, dal quale poi venne tratto il film Gioventu Bruciata, con un grande divo di quei tempi, emblema della gioventù ribelle senza causa, James Dean. Il tratto che accomuna questi romanzi è la rappresentazione di un mondo giovanile travolto da una forte crisi esistenziale. Basta vedere come si comporta il personaggio descritto da Lindner e interpretato su pellicola da Dean: fortemente violento e vandalico. Il cinema dette alla luce anche un'altro film dal titolo Rock Around the Clock, ripreso dal successo di Bill Haley & His Comets 24, uscito nel 1956, che rappresentò per la prima volta la novità del rock 'n' roll, mostrandola ad un pubblico di adolescenti. La scena più rappresentativa è senza ogni dubbio quella in cui il manager Steve Hollis, annoiato dalla solita 22 Quel brano venne registrato alla Menphis Recording Service come regalo di compleanno per la madre, dove la segretaria, anziché gettare la registrazione, decise di passarla al suo capo, Sam Phillips. Il direttore della Sun Records ne fu talmente colpito che fece incidere il brano. (M.Guarnaccia, 2009). 23 M.Guarnaccia, 2009. 24 http://www.allmusic.com/artist/bill-haley-mn0000077870 : Bill Haley rappresenta l'eroe trascurato del primo rock 'n' roll, a differenza di Elvis Presley che venne riconosciuto come la vera star nel firmamento della musica rock. La sua musica infatti raggiunse il record di vendite, anche se il singolo di Haley, Rock around the Clock, rimase in cima alle classifiche per ben otto settimane nell'estate del 1955.
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musica, si ritrova immerso tra giovani che liberavano le proprie frustrazioni e le ansie, ballando il rock 'n' roll sulla base del singolo, See you later Alligator. Non a caso il protagonista del film è costretto a chiedere ad una giovane ragazza che tipo di ballo fosse, poiché era un mix tra swing, jazz e boogie woogie. Tornando alla figura di Elvis Presley, che con il suo movimento pelvico agitava migliaia e migliaia di ragazzine, fu una vera rivoluzione non annunciata. Da un giorno a un altro “il termine giovinezza diventò la componente chiave di una identità personale, riducendo l'importanza degli altri, e definendo il teenagers come una cultura quasi omogenea nei loro diritti”25.
Una malattia che trascinò i giovani in un turbinio di nuove emozioni e che si manifestò sotto una forma più radicale e pericolosa, il Rockabilly. Questo termine deriva dall'unione di rock e hill-billy, in una parola comparsa nel 1900 in un articolo del New York Journal. Anche Elvis Presley era un Rockabilly, ma veniva soprannominato “Hillbilly Cat”. Il termine hill-billy, si riferisce ad una particolare tipologia umana che vive tra i monti Appalachi, gli hill-billie, ovvero i tipi delle colline, spiriti liberi di origine scozzese e irlandese, spietati, senza peli sulla lingua, la cui musica, un genere folk montanaro che voleva isolarsi dalla cultura nera, esprimeva una sonorità da contrabbandieri e fuorilegge; il termine Cat invece collega questo giovane musicista al termine Hip Cats della tradizione jazz nera. In un certo senso Presley era un Hipster, ma del Sud, quindi un Rockabilly, perché conservava molta della propria cultura. Infatti sia lui che i suoi successori univano la loro tradizione musicale con la cultura contemporanea nera del Rhythm & Blues, Gospel e Jazz 26. Da un punto di vista stilistico questa fusione nero-bianco era ben evidente. A differenza degli Hipster veri e propri, che copiavano in tutte le sfumature lo stile appositamente ideato per i jazzisti neri, i Rockabillies si appropriavano del loro vestiario più chiassoso, facendo proprio il principio generale secondo cui l'uomo doveva sostenere con orgoglio la scena del mondo come un pavone, rielaborando queste scelte stilistiche nella tradizione vestimentaria bianca. Il concetto è semplice: ci troviamo di fronte a gente rustica che si agghindava per le feste 27. Così nel guardaroba spiccavano giacche sportive, comode oppure appartenenti alla lunga schiera di modelli da smoking, da portare rigorosamente aperte, in modo da poter mettere in mostra il petto. Il colletto della camicia era sempre di colore diverso dal resto dell'indumento 25 T. Polhemus, 2010, p.62, trad.mia, testo originale: “Youth became the key component of personal identity – reducing the importance of other and defing teenagers as an almost homogeneous culture in their own right”. 26 M. Guarnaccia, 2009. 27 Ibidem.
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e doveva essere alzato, sia mai che si intraveda un po' di collo. Per la scelta dei colori non si può sbagliare, la parola chiave? Il bicolor: nero-bianco o rosa-nero. Di grande successo erano i tessuti lucidi e i pantaloni larghi con la banda laterale, rigorosamente neri, tenuti da cinture che si allacciavano lateralmente. I capelli venivano letteralmente impomatati con chili e chili di brillantina per creare quel ciuffo a banana, chiamato anche duck's ass, reso famoso da Presley. Un'escrescenza lucida che troneggia sui capi dei ragazzi, con il quale svilupparono un rapporto quasi morboso, pettinandolo e modellandolo costantemente, come se fosse reale. Questa acconciatura tuttavia fu creata per la prima volta nel 1940 da un barbiere italoamericano di Philadelphia che usò come cavia un bambino cieco pensando che tanto non si sarebbe accorto dell'oscenità. Ma ebbe talmente successo che da quel giorno ondate di ragazzini travolsero il negozio per poter sfoggiare questo capolavoro. E infine le scarpe. Che dire, un look così eccentrico non può altro che avere scarpe color bianco neve o di camoscio blu per contrastare il doppio tono dell'abbigliamento. Quest'ultime diventarono il simbolo del look Rockabilly grazie alla famosa canzone di Elvis Presley, Blue Suede Shoes. Tuttavia lo stile Rockabilly, unico nel suo genere, dette alla luce un look completamente opposto. Nel 1957 Elvis apparve nel film Il delinquente del rock 'n' roll (Jailhouse rock), diretto da Richard Thorpe, indossando una giacca in denim, jeans e stivali, in assoluto contrasto con lo stile bicolore del 1956. Una forza irriverente, quella di Elvis “The Pelvis”, che dimostrava l'associazione ormai diffusa tra rock e delinquenza. Se il rock 'n' roll per molti rappresentava un elemento del comunismo per distruggere la cultura americana, per molti invece, riuscì la dove le armi e la diplomazia avevano fallito: conquistare il cuore , ma soprattutto le gambe degli oppositori dell' “American way of life”28. Ciò accadde in Inghilterra, dove l'invasione degli americani e della loro musica ribelle trasformò inevitabilmente la società inglese, provocando la nascita di un gruppo di giovani squinternati. Sto parlando della sottocultura giovanile dei Teddy Boys. 1.3 Piccoli delinquenti crescono: i Teddy Boys. La Gran Bretagna, negli ultimi anni della guerra, vide migliaia di soldati bianchi e neri del corpo di spedizione statunitense affollare le città, i paesi, le campagne, frequentare pub, cinema e dance-hall, intrecciare relazioni e amicizie rendendo reali modelli di comportamento e stili di vita precedentemente visibili solo nel buio delle sale cinematografiche o sulle pagine 28 M. Guarnaccia, 2009.
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delle riviste. Per la popolazione britannica, stremata dai sacrifici e imprigionata in una rigida compartimentazione di classe, questo contatto provocò l'emergere e il diffondersi di sentimenti ambivalenti. L'élite britannica dominante sente minacciata l'identità nazionale che sembra non reggere l'impatto, forte e repentino, del modello americano. La paura di vedere crollare quei valori sedimentati di una Englishness ancora legata ad un progetto politico imperiale era tanta29. Tuttavia una parte della popolazione, che frequentava le sale cinematografiche dove si proiettavano i film di Hollywood e che ballava al ritmo dei gruppi d'oltreoceano, vide nei nuovi arrivati la realizzazione di un sogno: essi rappresentavano la possibilità di un nuovo stile di vita. Ora che la pace era arrivata, c'era da parte della working class inglese l'aspettativa che le difficoltà condivise fino ad ora sarebbero state ricompensato da una società più egualitaria e senza classi. La conseguenza più immediata ed evidente di questa aspettativa fu la vittoria del partito laburista nelle elezioni del 1945. Da quel momento la scena inglese fu letteralmente presa d'assalto della classe operaia, dei giovani, delle donne e degli immigrati. Saranno soprattutto questi gruppi a provocare le trasformazioni dei contenuti dell'identità britannica. Questo mix, tra aspirazioni della working class e assertività giovanile, creò qualcosa di straordinario30. Nel 1952 in una zona a sud del Tamigi, Elephant & Castle, giovani uomini iniziarono a far proprio lo stile Edoardiano dell'alta società volgarizzandolo all'ennesima potenza, mixandolo con elementi ripresi dalle proiezioni dei film western americani. I giornali chiamarono questi ragazzi nuovi edoardiani o Teddy boys 31. Infatti, “ispirati nel nome dall'utilizzo e dalla trasformazione nell'ambito della pratica sottoculturale di elementi appartenenti alla moda maschile detta edoardiana diffusa in epoca post-vittoriana dai sarti della londinese Savile Row tra i giovani appartenenti all'upper class, i teddy boys elaborarono uno stile di abbigliamento che opera un azione di ribaltamento dell'immagine aristocratica[…]. Il risultato di questa azione di bricolage sfocia in un effetto caricaturiale e distorsivo che causa un'espressione di turbamento negli osservatori esterni”32.
Ciò sconvolse la società inglese che sosteneva ancora l'idea secondo cui ognuno doveva rispettare le proprie tradizioni anche nel campo dell'abbigliamento, perciò il proletario non avrebbe dovuto appropriarsi dello stile dell'alta classe. Ma l'appropriarsi di significati e stili di 29 30 31 32
R. Pedretti, I. Vivian, 2009. T. Polhemus, 2010. Il nomignolo teddy deriva da Ted, diminutivo di Edward. R. Pedretti, I.Vivian, 2009, p.86.
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epoche passate voleva simboleggiare la voglia di superare la realtà classista. Accusati di mancanza di disciplina e ambizione, i Teddy Boys vengono rappresentati alla pari delle gang newyorkesi, anche se, a differenza loro, si limitavano a spaccare la faccia a sconosciuti, rompere i lampioni, spaventare poveri gentleman lanciandoli contro bottiglie di vetro o bidoni della spazzatura. I giornali locali, e non solo, etichettavano questi come criminali, come un'orda barbarica che avrebbe sconvolto il sonno di tutta l'Europa. In Italia, Pier Paolo Pasolini, grandissimo scrittore nonché sceneggiatore, passò tre mesi, tra il 1958 e il 1959, con una di queste bande per studiarle in vista di un film, poi mai fatto. In un articolo apparso sulla rivista Vie Nuove descrive i Teddy boys come “Una gioventu insofferente e incattivita, che alla superficialità risponde con superficialità e alla crudeltà con la crudeltà.”33
Secondo lui non era gioventù bruciata, come molti l'avevano etichettata per il forte senso anticonformistico, ma insofferente. Erano ragazzi nati da padri avvocati o professori. Per lui questa voglia di ribellarsi era il prodotto di una società ad alto livello economico; una società che poteva offrire molto, ma noiosa e ipocrita34. Erano spiriti criminali che vagavano per le città provocando disordine, rivendicando i valori tradizionali in via di scomparsa. Questa resistenza al nuovo mondo, sviluppata in forma simbolica attraverso uno stile un po' azzardato e allo stesso tempo bizzarro, conferì loro un'aura di dignità ed eleganza. Nel loro guardaroba possiamo trovare giacche a tendaggio, fatte di lana, ricche di taschine che servivano per inserire il pettine, una bottiglia di Whiskey ma anche un piccolo manganello di cuoio ripieno di sabbia. Sotto al blezer, spesso rosso acceso o blu elettrico, camicie in stile cowboy contornate da cravatte a stringa di pelle o di lana fermata con un medaglione, oppure magliette a dolce vita dal collo alto chiamate Mr. B35. I pantaloni erano a sigaretta, usurati, con gli orli ripiegati in modo da far vedere i calzini dai colori fosforescenti abbinati ad un tipo particolare di scarpa in pelle scamosciata dotate di una suola in gomma, perfette per muoversi nel deserto e usate dai militari, che vennero rinominate come brothel creeper. Le donne, o meglio le Teddy girls, usavano gli stessi vestiti dei ragazzi, l'unica differenza riguardava l'acconciatura, molto semplice che consisteva in una treccia fermata sulla testa. Per i ragazzi invece i capelli erano una mania, un po' come i rockabilly, e le loro sedute dal parrucchiere 33 G.P. Servino, La mala gioventu al tempo del Boom, in La Domenica di Repubblica, 6 Aprile 2008. 34 Ibidem. 35 http://le4stagioni.style.it/2011/11/09/a-caccia-di-stile-lo-stile-teddy-boy-e-teddy-girl/ : I dolce vita venivano chiamati Mr. B in onore del jazzista Billy Eckstine che era solito indossare questo tipo di maglie.
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erano interminabili. Tutto quel tempo serviva per creare un'acconciatura elaborata che risultava essere una vera e propria sfida con la forza di gravità. Allo stile duck's ass americano aggiungevano l' elephant trunk, una vera e propria proboscide di capelli, arrotolati su se stessi, che dal centro della nuca arrivava sino alla fronte. Nell'orgoglio di riaffermare la grandezza della tradizione inglese, anche se caricaturizzata, i Teddy boys odiavano tutte le persone di colore. Preoccupati di difendere la loro identità vedevano negli immigrati caraibici un nemico, parassiti, concorrenti nel mercato del lavoro. Per questi motivi dettero vita a pratiche razziste e xenofobe che culminarono negli incidenti di Notting Hill e Nottingham del 1958. La verità su quelle cinque notti di violenza si è avuta solo nel 2002, grazie ad un articolo del The Guardian, in cui sono riportate le dichiarazioni dei poliziotti che hanno realmente assistito a quei disordini. Nei primi rapporti degli alti ufficiali della polizia del Metropolitan queste risse era semplicemente scontri tra protettori bianchi e neri, per questioni di prostitute. In realtà i rapporti che furono rilasciati nel 2002, dimostrano e confermano che quella fu una vera e propria rivolta razziale, messa in atto esclusivamente della brutalità dei giovani bianchi che si erano schierati dalla parte dei fascisti attaccando la comunità nera. Furono successivamente condannati a quattro anni di reclusione nove Teddy Boys36. “Questa bravata condusse all'eclisse i neandertaliani dello street style”37.
1.4 Mod & Rocker. Lo yin e yang dello stile spettacolare giovanile. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta lo slogan era uno: “tutto alla portata di tutti”. Qualsiasi cosa all'interno della società era in crescita: cresceva il prodotto interno lodo, l'occupazione, il reddito pro capite. Soffiava aria di ottimismo. L'economia andava a gonfie vele; c'erano più operai che agricoltori; nascevano i primi supermercati e i prodotti cominciarono ad essere realizzati in serie. E Londra, per alcuni anni, si trasformò nella città più cool d'Europa. La rivista Time l'appellò con il nome di Swinging City. Questo perché raccolse in sé tutti gli elementi di tendenza conosciuti fino a quel momento. Ma il motivo della sua metamorfosi – da città cupa e sporca, che era, a capitale del lusso – è da ricercare in due fattori: i giovani e il denaro. Il baby boom infatti fece sì che il 40% della popolazione urbana, nella prima metà degli anni Sessanta, fosse al di sotto dei venticinque anni; non solo, 36 A. Travis, After 44 years secret papers reveal truth about five nights of violence in Notting Hill, in The Guardian, 24 Agosto 2002. 37 M. Guarnaccia, 2009, p. 206.
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un notevole contributo arrivò anche dall'abolizione del Servizio Nazionale per gli uomini 38. In quel periodo si svilupparono numerose boutique di moda; una in particolare riuscì a scandalizzare la società attirando a se migliaia di ragazze. Si trovava sulla King's Road, ed era il negozio di Mary Quant, la madre di tutte le minigonne. Fortemente anticonformista, con questa creazione riuscì ad esprimere a pieno la voglia di libertà e stravaganza. Un taglio drastico che metaforicamente rappresentava la rottura con il passato, con le convenzioni, che richiamava la voglia di novità. Il boom economico dette anche la possibilità ad ogni ragazzo inglese di mettere mano al proprio portafoglio senza chiedere nulla ai genitori. Essere liberi di sperperare tutto lo stipendio39 in capi di abbigliamento era una cosa unica e permetteva a questi ragazzi di essere sempre impeccabili, sempre in ordine, come per ammonire lo squallore e lo sciatto conformismo dei loro genitori. Tutto ciò può essere descritto con un unica parola: Mod. Se per i Teddy boys, l'appartenenza e la rivendicazione di classe erano gli elementi chiave della sottocultura, per i Mods la centralità della classe si basava sulla opposizione tra giovani e adulti. Già dal nome che si dettero, Mods, contrazione di modernist, si capisce come questa sottocultura incarnasse lo spirito della modernità consumistica. Nati nella zona nord di Londra, i Mods erano giovani ebrei della classe media e membri della working class, che occupavano posizioni lavorative di basso livello. È probabile che alcuni di loro lavorassero come addetti nei grandi magazzini: ecco spiegato il loro gusto per il vestire. Colin MacInnes nel suo romanzo autobiografico, Absolute Beginners40, descrive molto dettagliatamente questa generazione. Erano giovani amanti del caffè espresso, che sfrecciavano per la città con la lambretta, che amavano gli abiti italiani e i capelli tagliati alla francese. Era una generazione che amava muoversi, in un continuo viaggio immaginario, tra Italia e Francia. Per MacInnes, infatti, essere modernisti significava essere internazionali, essere cittadini del mondo. L'amore passionale per l'Italia li porta ad ammirare film come la Dolce Vita di Fellini o Vacanze romane di Wyler, da cui traggono ispirazione per il proprio look: abiti dalle linee leggere e aderenti, giacche a tre bottoni e colletto sottile, scarpe a mocassino. Un potpourri di oggetti provenienti da ogni parte del mondo, tra magliette polo della Lacoste francesi, occhiali da sole Rayban e scarpe da bowling americane, che rendevano impeccabile il loro stile. L'elemento più importante era lo scooter, quel nuovo mezzo di locomozione nato proprio nel pieno boom economico italiano e diventato simbolo di una generazione. Anche se non aveva nulla a che 38 http://www.history.co.uk/explore-history/history-of-london/swinging-london.html 39 Come riporta D. Hebdige: “Un Mod medio guadagnava circa undici sterline la settimana, sia che fosse un operaio semispecializzato oppure, caso più tipico, un impiegato. A differenza dei Teddy boys e dei Rocker svolgevano molti più impieghi.” ( op. cit., p. 65) 40 C. MacInnes, 2004.
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fare con le motociclette rombanti dei loro avversari, i Rocker, veniva personalizzato e reso più aggressivo, affinché rappresentasse sia un mezzo di offesa verso l'esterno, ma anche di solidarietà e unione verso l'interno. Per proteggere le loro mise nei viaggi in scooter, i Mods erano soliti indossare il parka verde militare, tappezzato di stemmi che riprendevano i simboli musicali del movimento. L'acconciatura era una questione a parte. Corti davanti con la divisa laterale, il taglio italiano era rivisitato nella new french line e per la prima volta nella storia delle sottoculture giovanili non veniva usata la brillantina, ma la lacca, più leggera e soprattutto invisibile. Questa ossessionante ricerca della perfezione stilistica era, agli occhi di chi li osservava, inquietante e allo stesso tempo l'accostamento di prodotti diversi disturbava la quiete quasi in modo irritante. A differenza dei Teddy Boys, che creavano una rappresentazione caricaturiale per rivendicare la propria diversità, i Mods, mimetizzandosi tra la società dei consumi, trasformavano la perfezione in distorsione e inversione. La loro faccia da bravo ragazzo, troppo attento nei dettagli e nella pulizia, rappresentava in realtà una minaccia. 41 C'era qualcosa nel loro modo di fare che sembrava un po' fuori luogo sia in classe che a lavoro. Erano troppo eleganti, troppo sfrenati. Amavano il tempo libero e lo pianificavano minuziosamente. Sulla strada di ritorno da scuola o da lavoro, si perdevano, in questo underground di mezzogiorno, come lo definì Dick Hebdige, fatto di cantine, negozi di moda, discoteche. Un mondo nascosto, sotterraneo, dove il tempo sembrava non scorrere. Il flusso temporale era infatti ampliato e dilatato grazie all'uso delle anfetamine. Con un manciata di pillole, i ragazzi sfruttavano ogni attimo del tempo libero, reggendo la fatica e la stanchezza 42. Da un punto di vista musicale i Mods erano molto affezionati alla cultura delle Indie Occidentali, da cui ripresero la musica ska, rhythm and blues, svincolandosi così dal pop britannico degli anni sessanta di cui i Beatles ne erano il simbolo. Quando il r'n'b si ibridò con la musica popolare inglese creò quel mix perfetto prodotto dai Rolling Stone, gli Who, i Kinks che diventarono icone Mod. In particolare sarà il gruppo degli Who a raccontare il mondo Mod nel disco Quadrophenia, del 1973, da cui venne tratto anche un film. Tra tutta questa frenesia, gli immigrati rappresentavano una presenza fissa con cui confrontarsi. I Mods imitavano i loro comportamenti e gli stili musicali, come detto precedentemente, rispettandoli e ammirandoli. Secondo quanto afferma Pedretti, “il nero incarna la capacità di resistere al sistema dominante attraverso la creazione di un mondo che 41 R. Pedretti, I.Vivian, 2009. 42 D. Hebdige, in S. Hall, T. Jefferson, 1976.
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scorre con norme e valori inversi e opposti a quelli dominanti, […] diventando occasione imperdibile di ispirazione stilistica. Dei neri attira il linguaggio occulto che permette di mantenere integra l'anima dei bianchi e che non a caso prende forma nella musica soul”43.
Come conseguenza, i Mods non sceglievano i loro avversari sulla base di criteri razziali o sociali, ma per pura antipatia stilistica. Non tolleravano chi, attraverso un stile sciatto, offendeva il buon gusto e la modernità, come i Rokers, dando vita a vere e proprie guerre stilistiche. Una delle più famose risse fu quella che scoppiò nel 1964 nello stabilimento balneare di Brighton, a nord-est dell'Inghilterra, che è stata descritta e rappresentata nel film, tratto dal disco degli Who, Quadrophenia diretto da Franc Roddam, del 1979. Ci troviamo di fronte a due polarità stilistiche del periodo che per molti quotidiani dell'epoca sembravano l'uno la caricatura dell'altro: l'eleganze Mod contro il grezzo e sfrontato Rocker. Quest'ultimi erano dei poveri proletari, lavoratori non specializzati ancora fedeli all'ormai fuori moda rock 'n' roll, da cui si ispirarono per il nome. Il loro abbigliamento consisteva in fantastici giubbotti di pelle borchiati, con spille ovunque. Indossavano stivaletti a punta e si pettinavano alla Elvis Presley. Il loro passatempo preferito era riunirsi in gruppo con le proprie motociclette e sfrecciare su e giù per la città raggiungendo spettrali autogrill. Il più conosciuto era l'Ace Cafè, in cui ancora oggi centinaia e centinaia di motociclisti si riuniscono per l'annuale Ace Cafè Rocker Reunion. A rappresentare queste scorribande, il famoso film, Il Selvaggio, interpretato da Marlon Brando, metteva in scena la voglia di libertà che questo gruppo concretizzava con i viaggi in moto. Il motto dei Leather boys era “ Moto e Rock'n'roll”. La moto, infatti, era una vera e propria passione e rappresentava la possibilità di distaccarsi dalla vita quotidiana che a questi ragazzi stava stretta. Se nella società dei “normali” c'era il conflitto tra colletti bianchi e colletti blu, nelle sottoculture giovanili degli anni Sessanta il conflitto era quindi tra un look ordinato e uno aggressivo; tra chi (i Mods) era collegato con la società mainstream e chi (i Rockers) la rifiutava, proclamandosi un outsider44. I Rockers, tuttavia, già vintage al momento della loro apparizione, dureranno nel tempo, diventando fonti di idee per stilisti e non solo. Il loro giubbotto in pelle è l'esempio perfetto per illustrare il fenomeno del “bubble up”. Dal basso verso l'alto, molto gradualmente, quel giubbotto nero divenne un capo di abbigliamento per tutti i giorni; un potente indicatore di come lo stile di strada, una volta trasformato in merce comune e proiettato nella cultura mainstream, perde il suo significato originale: da emblema 43 R. Pedretti, I.Vivian, 2009, p. 93. 44 T. Polhemus, 2010.
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sottoculturale ad elemento sfruttato nelle passerelle dell'alta moda. L'autore del libro Rockers!, Johnny Stuart, in un'intervista del 1994, commentò questo fenomeno, sottolineando che “È irritante vedere come il giubbotto di pelle sia diventato solo un abito di moda. Mi ricordo come fosse ieri, ai tempi in cui i Rockers erano molto piu numerosi dei Mods, che indossare il giubbotto di pelle era un vero e proprio rischio. Se non stavi attento, se non rimanevi in sella alla tua motocicletta e non ti muovevi veloce, potevi essere buttato già dalla tua moto e finire in una vera e propria rissa. La versione creativa del Perfecto, che si può vedere ovunque al giorno d'oggi, annacqua il significato dell'oggetto, allontanandolo dalla sua magia originale, castrandolo.”45
1.5 Anno 1964. Sboccia il fiore Hippie. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, l'età d'oro vissuta fino a quel momento cominciava a sgretolarsi. Anche se la modernizzazione economica andava avanti, il boom degli anni precedenti veniva così sepolto da una nuova parola: recessione. Tirava aria di crisi, i prezzi cominciavano a crescere e già si intravedevano le ombre dell'inflazione. Una crisi che non risparmiò nessuno, dalle istituzioni, ai valori fondamentali, ai sistemi, alle culture e sottoculture. Tutte le difficoltà e i disagi vissuti fino a quel momento trovarono una risposta concreta nel 1968, l'anno delle contestazioni. Alla base di queste c'era la consapevolezza di poter essere un movimento di protesta di dimensioni mondiali, che voleva mettere in discussione il sistema sociale e morale. Questi movimenti, che avevano come protagonisti giovani studenti, videro l'alba negli Stati Uniti nel 1964 con l'occupazione dell'università di Berkeley, California, da parte di alcuni di loro che contestavano il divieto di fare politica nelle università. Le lotte si polarizzarono contro la guerra del Vietnam, sfociando quasi in un conflitto antimperialista. Ad essa si combinarono le battaglie dei neri per il riconoscimento dei loro diritti civili e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro 46. Fu in questo contesto che nacque il movimento Hippie, durato fino agli anni Settanta, che aveva come scopo principale il contestare la guerra vietnamita e i tabù sessuali. Una controcultura 47 che vedeva un'analogia tra la conquista del West e la guerra: i marines erano come dei i cowboys 45 Johnny Stuart, in T. Polhemus, 2010, p.14 46 http://affaritaliani.libero.it/cronache/scuola-contestazioni221008.html 47 Il termine controcultura si riferisce a quell'amalgama di culture giovanili alternative tipiche della classe media, gli hippie, che si svilupparono tra gli anni Sessanta e raggiunsero la massima fioritura nel periodo tra il '67 e il '70. La controcultura si distingue dalle sottoculture che stiamo studiando per le forme politiche e ideologiche della sua opposizione alla cultura dominante, ed è espressa in maniera diretta. (S. Hall, T. Jefferson, 1976).
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che in sella ai loro cavalli-carrarmati distruggevano la cultura indigena-vietnamita. La parola Hippie è figlia di Herb Caen, giornalista del San Francisco Chronicle, che la usò per descrivere la generazione post-beatnik stabilita nel quartiere di San Francisco, Haight Ahsbury. A differenza di quest'ultimi, che amavano la cultura nera metropolitana e le bravate, gli Hippie si schieravano dalla parte dei nativi americani e adoravano i lama tibetani. La love generation hippie era un insieme di istanze libertarie che attraversavano la sfera pubblica e privata: dalla trasgressione delle regole sociali, il pacifismo, le comuni come alternativa alla famiglia, le prime forme di femminismo, all'esotismo verso paesi orientali e le droghe. Era un modo diverso e nuovo per esprimere la propria identità generazionale contraddistinta dall'anticonformismo, dal distacco dal mondo adulto, dal rifiuto delle convenzioni, attraverso la negazione dell'ordine costituito48. Dal 1965 al 1967, Haight Ashbury diventò un piccolo villaggio fondato sull'amore, con una propria vita culturale, fatta di concerti e spettacoli all'aperto; con proprie corporazioni; con organi di stampa, come l'Oracle e la Communication Company, e una propria stazione radio; con servizi sanitari e luoghi di culto. C'era anche un corpo di autodifesa, i diggers, che organizzavano feste gratuite e a tema nei parchi, chiamate be-in49. La più significativa che rese popolare la cultura Hippie in tutti gli Stati Uniti, fu quella tenutasi nel Golden Gate Park, nel gennaio del 1967 che vide più di ventimila persone riunite sotto lo stesso sole, avvolti da poeti, musicisti e meditatori. La versione di Scott Mckenzie, della canzone di John Phillips dei Mamas & the Papas, San Francisco, nel cui testo si incita a mettere dei fiori in testa50, convinse migliaia di giovani di tutto il mondo a recarsi a San Francisco, a volte portando fiori tra i capelli e distribuendoli ai passanti, guadagnandosi il nome di “figli dei fiori”. La rivista Time presentò una copertina intitolata Gli Hippy: La filosofia di una subcultura. L'articolo descriveva le linee guida del codice hippy, enfatizzando le loro ideologie. Tuttavia li etichettò come persone sporche. Anche Ronald Reagan, l'allora governatore della California, li definì puzzolenti. Durante un discorso del 1967 descrisse gli Hippies come persone che si vestivano come Tarzan, che avevano i capelli come Jane e che puzzavano come Cheetah. In realtà gli Hippie avevano molta cura del loro corpo, lo rispettavano, si vestivano colorati e si profumavano di patchouli, ma per sentirsi più a contatto con la natura camminavano scalzi. Tuttavia da un punto di vista stilistico erano la sintesi di molte sottoculture:
48 A. De Bernardi, M. Flores, 1998. 49 M. Guarnaccia 2009. 50 Il testo della canzone originale riporta le seguenti parole: “If you're going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair”
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“i beat-beatnik (nichilisti urbani con una spruzzata di esistenzialismo, affascinati dal mondo del jazz); i folky-beatnik (austeri viaggiatori, paladini del ritorno alla terra, alla semplicità preindustriale); i surfisti (solari edonisti incalliti, sintonizzati con la natura)”51.
La moda Hippie era un progetto estetico che non metteva freni alla creatività. Rifiutavano il concetto di eleganza, disprezzavano le boutique ma amavano i mercati delle pulci o i bazar orientali. Quando non erano nudi, la loro mise era un'esplosione di colori fluorescenti. Imponendo uno stile selvaggio, unisex, gitano, i ragazzi indossavano vecchie divise militari di epoca vittoriana, con alamari e bottoni vistosi; giacche sfrangiate abbinate a gilerini pakistani, cinture navajo e anelli afghani. Le ragazze riscoprivano il ruolo di dea madre. Indossavano, senza reggiseno, morbidi vestiti di velluto oppure abiti scollatissimi. Molto usati erano i gonnelloni ampi tempestati di specchietti da nomade afghane. Se non andavano a giro scalzi, ai piedi indossavano dei semplici zoccoli bassi o dei sandali alla schiava. I capelli erano tenuti lunghi e colorati di un rosso fuoco con l'hennè, o cotonati stile afro per sottolinearne la naturalità. Dalla fine degli anni Sessanta in poi, molti aspetti della cultura Hippie diventarono di dominio comune a causa di una sponsorizzazione attuata principalmente dai media, che provocò la dissoluzione di quel fragile villaggio. Il sistema a poco a poco si impossesò di quel movimento, influenzando la cultura e il costume degli anni a venire. Le stesse sorti toccarono anche la sottocultura Punk. 1.6 Brutti, sporchi e fuori di cresta. I Punk, l' ultima sottocultura spettacolare. “Collocata temporalmente alla metà degli anni Settanta, quella punk è l'ultima delle sottoculture giovanili spettacolari di cui interpreta la catarsi e decreta la fine. Posizionandosi nei confronti delle sottoculture precedenti come un'appendice purulenta e infetta, la sottocultura punk eredita e incorpora – per negarli – comportamenti e pratiche culturali di cui esibisce la contraddizione e annuncia la morte.”52
La parola “punk” non era certo nuova: esisteva già ai tempi di Shakespeare, che la usava per indicare la prostituta. Ma la nascita della sottocultura punk, come stile riconoscibile, si deve all'apparizione, sulla scena musicale inglese, dei Sex Pistols. Anche se la loro carriera durò solo tre anni, pubblicando quattro singoli discografici e un album in studio, il gruppo è spesso 51 M. Guarnaccia, 2009, p. 237-238. 52 R. Pedretti, I. Vivian, 2009, p. 98.
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indicato come il fondatore del movimento punk britannico53. Infatti senza l'attenzione mediatica e la prima recensione del gruppo nel “New Musical Express”, il movimento sarebbe rimasto nascosto. Oltre a ciò, i quattro ventenni in questione avevano ottimi tutori: Malcolm McLaren, ex manager dei New York Dolls e sua moglie, la stilista Vivienne Westwood. Essi gestivano la leggendaria boutique sulla King’s Road, da cui prese forma la scena punk d’Oltremanica che, insieme con quella newyorchese, determinò i canoni della nuova sottocultura54. Il negozio cambiava continuamente nome sull'insegna, registrando la mutevole passione che i due nutrivano verso la storia delle sottoculture – eccetto che per gli Hippies, odiati per il loro eccessivo pacifismo: da “Let It Rock” del 1971 – dove l'abbigliamento riprendeva lo stile Rockabilly e Teddy boys – a “SEX” del 1975, con accenni fetish e pervertiti che, non solo erano uno smacco agli standard sartoriali e al buon gusto imprenditoriali del tempo, ma anche un attacco alla cultura Hippie. Proprio grazie a quest'ultima insegna, il negozio diventò il punto di ritrovo e il centro nevralgico della sottocultura punk. Tuttavia, a fare circolare con insistenza questa parola furono l'artista John Holmstrom e l'amico Legs McNeil, che nel 1976, in America, fondarono una rivista chiamata Punk. Secondo McNeil la parola “punk” era infatti perfetta per sintetizzare ciò che i due autori amavano: il divertimento, la furbizia, l'ubriachezza e altri aspetti tipici del movimento. Rappresentava, senza dubbio, una nuova “youth revolution” ed era in forte opposizione con la precedente cultura degli anni Sessanta. Di fronte alla crisi sistemica del capitalismo e del ridimensionamento dello stato sociale, la sottocultura punk testimoniava il destino di una gioventù senza futuro, ripudiando un presente imbarazzante e paranoico, fatto di depressione e disoccupazione. Erano giovani che esponevano il proprio malessere di fronte a una società troppo indaffarata per prendere sul serio le loro voci. Volevano comunicare il loro disagio sociale, ma per fare ciò accompagnavano il silenzio ad un’estetica dissonante, stravagante; il punk è muto, non parla: il vero codice comunicativo è l’immagine shockante che creavano attraverso un “patchwork” di indumenti. Il loro stile, infatti, si appropriava di brandelli di sottoculture
precedenti,
creando
qualcosa
di
frammentario
e
piuttosto
instabile.
Riproducevano l'intera storia stilistica delle sottoculture giovanili del dopoguerra, nella forma del cut up, combinando cioè elementi appartenuti ad epoche diverse. Era una vera e propria rete aggrovigliata di stili tra cui spiccava il “Glitter rock”, il reggae, la cultura Mod e quella 53 In realtà, il movimento “Punk” e “Punk Rock” va fatto risalire ai Ramones, gruppo americano, che nel 1974 durante un esibizione al CBGB, il famoso rock club situato nel Lower East Side di Manhattan, espresse, sia nella musica sia nello stile, le tipiche caratteristiche del movimento. Ma è grazie ai Sex Pistols che questa sottocultura esplose nel mondo. 54 F. Prisco, “Nevermind the Bollocks”, la rivoluzione punk dei Sex Pistols torna 35 anni dopo, in Il Sole24ORE, 29 Agosto 2012.
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del protopunk americano. Si ebbe così un caos di ciuffi e giacche di cuoio, mocassini e stivaletti a punta, impermeabili e capelli alla Mod, pantaloni a tubo e calzini fluorescenti, il tutto tenuto a posto da spille e spilline, adesivi e cinture sadomaso. Come nota Dick Hebdige la cultura punk esprimeva in sé tutti gli elementi, ribaltati e distorti, delle più importanti sottoculture e come il ready made di Duchamp, qualsiasi oggetto – dalle grucce di plastica ai televisori – poteva essere portato nella loro non-moda 55. La classe sociale media, perbenista e bigotta era il loro bersaglio preferito, ma ovviamente il messaggio non passava attraverso la comunicazione “standard”, bensì attraverso un ribaltamento e capovolgimento di quegli abiti. Se la giacca, la camicia e la cravatta erano sempre stati indumenti che rimandavano ad un tenore di vita agiato, il punk, come protesta, irrompe in tutto ciò, stravolgendo le regole: la cravatta, sgualcita e mal stretta, viene sorretta da una spilla di sicurezza; la giacca, preferibilmente in fantasia tartan, viene ricoperta da borchie; le camicie vengono lacerate e utilizzate come manifesto delle proprie idee. Specialità della casa erano le t-shirt, già all’epoca un capo d’abbigliamento universale, che venivano dilaniate ed utilizzate come supporto per i propri messaggi 56. Ma ciò che creò maggiore scompiglio fu l'uso della svastica. Secondo Dick Hebdige, che fece un'attenta analisi sul perché venisse usata nel linguaggio punk, questa esprimeva l'interesse per la Germania che, come loro, era decadente, malvagia e senza futuro, ma non aveva niente a che fare con il nazismo. Il suo valore simbolico originale veniva annullato; l’intento, infatti, era quello di miscelare simboli ed icone completamente svuotate per confondere, farsi notare e, soprattutto, farsi odiare. In sintesi, invece che lasciarsi consumare dalla moda, i punk indossavano abiti logori a cui accostavano elementi fetish (abiti in lurex, tacchi a spillo, frustini); invece che consumare cibi delle grandi catene di distribuzione, non mangiavano oppure erano vegetariani; riciclavano ingredienti improbabili per creare cosmetici o per regalarsi evasioni dal mondo reale (sniffando colla e vernici). Si trattava di un vero e proprio boicottaggio al capitalismo, che li aveva esclusi dai meccanismi del potere e cercava di consumarli come un qualsiasi prodotto del mercato. Consapevoli, più di ogni altra sottocultura, delle logiche del capitale e del ruolo dei mass-media nell'incorporare e banalizzare le pratiche culturali giovanili, la sottocultura punk cercò, nell'espressione di stili complessi e dissonanti, di resistere a questo fenomeno57. Nel corso degli anni, però, l'atteggiamento deviante di questo gruppo divenne socialmente accettato. Quando tutti gli elementi rivoluzionari furono esauriti, il sistema industriale riuscì a impadronirsi dell’estetica punk (come per la cultura Hippie). 55 D. Hedige, 2008. 56 http://www.comuniclab.it/23753/la-sub-cultura-punk 57 R. Pedretti, I Vivian, 2009.
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L'esempio più eclatante è forse il caso dei piercing, simboli di trasgressione, che al giorno d'oggi sono diventati un modo di segnare il corpo molto diffuso e quasi chic. Ma è grazie alla già citata Vivienne Westwood che le t-shirt strappate e le spille da balia approdarono sulle passerelle. Gli stessi stilemi vennero anche inglobati dalla classe media, entrando a far parte del processo di produzione di massa, dando ragione a Simmel quando diceva che i flussi della moda non seguono solo percorsi verticali ma anche di diffusione orizzontale. Ed è in questo frangente che troviamo la vera innovazione rispetto al modello “trickle-down”: Simmel sosteneva che solo le élite erano in grado di influenzare la moda 58; tuttavia, “con la caduta delle sue istanze riottose, anche la subcultura punk si propone come una ricca fonte di idee, dalla quale il sistema industriale attinge sempre nuovi elementi.”59
In sintesi, anche la strada, può diventare un elemento indispensabile per la creatività, diventando spunto per una possibile moda da seguire, da assimilare e personalizzare a proprio piacimento. Ecco che al “trickle-down” si oppone il termine, già visto, del “bubble-up”. Le due espressioni sono sì opposte, ma in ogni caso dipendenti: così come lo stile punk ha influenzato il settore della moda, anche quest'ultima ha però dato spunti importanti per la creazione del linguaggio punk. Questa, più di ogni altra sottocultura giovanile, ci ha insegnato l'importanza e la possibilità di dar vita ad uno stile creativo e d'impatto, semplicemente mixando elementi apparentemente incombinabili. Oggi giorno, nessuno, tranne la “fashion victim”, si veste da capo a piede con abiti di un unico stilista: si uniscono capi costosi a quelli più economici, oppure abiti femminili a quelli maschili e molto altro, attivando il famoso motto “Do It Yourself” ( DIY)60. Tutto ciò serve a dimostrare che, ad oggi, siamo consumatori creativi, non più subordinati alle logiche dell'industria della moda. Concludendo, possiamo affermare che la cultura punk, “Ha eroicamente proclamato la fine delle modalità di organizzare le culture giovanili secondo schemi certi, indicando tuttavia la possibilità di esplorare percorsi alternativi e di pensare tattiche di resistenza e contrattazione nei confronti della cultura e del potere dominanti.”61 58 Secondo Georg Simmel la nuova moda appartiene esclusivamente alle classi sociali superiori e non appena le classi inferiori si impossessano di questa, l'élite ne crea una nuova. Questo fenomeno dell'imitazione dava la possibilità all'individuo di non essere solo nel suo agire. ( G. Simmel, 2011). 59 http://www.comuniclab.it/23753/la-sub-cultura-punk 60 Con questo motto, tradotto in italiano “fai da te”, il movimento punk intendeva differenziarsi dai meccanismi di controllo e negoziare spazi di indipendenza creando forme di auto-produzione. Secondo loro, infatti, lo stile non doveva essere generato da un professionista del settore, ma dalla creatività individuale. 61 R. Pedretti, I Vivian, 2009, p. 103.
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CAPITOLO 2 Dalle sottoculture spettacolari alle neo-tribù. Lo stile fa i conti con la globalizzazione. “Il mondo è senza confini. Siamo connessi e globali, viaggiamo in paesi lontani fra loro e ne respiriamo le diverse suggestioni. Per questo, quando si tratta di moda, lasciamo libera la fantasia. Ampliamo la geografia dell'immaginario. Mescoliamo senza paura le origini, le forme e gli stili piu disparati. Per un carosello di look transculturali. Un mix eterodosso che parla della pluralità, da sempre il vero motore della creatività.”62
2.1 L'individuo e la post-modernità. Il declino delle sottoculture spettacolari. I gruppi sottoculturali con i loro stili spettacolari, hanno fatto e fanno tutt'ora, la storia della moda. La strada, grazie a loro, è diventata una fonte indispensabile da cui trarre elementi creativi, di cui oggi sembra non se ne possa fare a meno. Ma subito dopo la sottocultura Punk, la creazione di questi gruppi iniziò a prendere la via del declino, fino a quando, a partire dagli anni Novanta, si arrestò del tutto. I loro stili, però, vivono ancora e sono costantemente riproposti dalle case di alta moda. Anno dopo anno, sulle passerelle, si alternano cappotti di pelle nera a gonne lunghe stile Hippie, oppure alle giacche lunghe dei Teddy Boys. Ogni sottocultura che nasceva aveva la capacità di stabilire nuove tendenze, generare nuovi look e nuovi sound che si trasformavano in feedback per le industrie della moda. Ma oggi, la strada che ruolo ha? Di fronte ai continui cambiamenti dell'epoca post-moderna, avendo perso la più importante tra le fonti, le sottoculture, si può ancora parlare di moda di strada? La certezza è che lo “street style” non è morto, si è solo modificato il modo in cui viene prodotto. A causa della globalizzazione si è sviluppata una “low cost society”, dove l'abbassamento della qualità dei materiali ha consentito l'accesso ai beni da parte di una grande varietà di consumatori 63. Ciò ha portato ad indirizzare lo sguardo non più verso i gruppo, ma verso stili soggettivi “di strada”. La sottocultura punk, con la sua filosofia del “Do It Yourself”, aveva già previsto in che direzione sarebbe andato il consumo giovanile, soprattutto nel campo della moda. Tuttavia è con il fenomeno della globalizzazione, estesosi con prepotenza nel mondo a partire dalla caduta del muro di Berlino64, che si ha l'effettiva realizzazione di ciò che era stato predetto. Ci troviamo di fronte ad una realtà dove, il processo informatico, il mercato globale, 62 Global Life, in Vogue Italia, Gennaio 2013. 63 V. Codeluppi, Birmingham blues, ragazzi smarriti nella (anti)città, in Il Manifesto, 23 Settembre 2011. 64 Si parla del 1989, anno in cui finisce l'era bipolare (il periodo della Guerra Fredda, dal 1945 al 1989, dove le due superpotenze, Stati Uniti e URSS, si contendevano l'egemonia mondiale). La caduta del Muro di Berlino lasciò campo libero agli Stati Uniti, che diventarono l'unica potenza egemone, inaugurando l’era unipolare.
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ma soprattutto i media elettronici hanno portato, e stanno portando, profonde trasformazioni nella vita delle nazioni e degli individui. L'emergere di una condizione post-moderna ha quindi condotto ad un radicale ripensamento del ruolo e dei comportamenti delle culture giovanili. Secondo quanto afferma Alessandro Giancola, i giovani sono stati risucchiati dal vortice dell'omologazione, che ha portato ad anteporre altri valori rispetto a quello di essere giovane come territorio dell'autenticità65. Tramonta l'epoca delle forti e marcate identità di gruppo; viviamo in una realtà liquida, destrutturata e precaria che ha reso complicato il contatto fisco e stabile con gli altri individui. Viviamo, usando le parole di McLuhan, in un “villaggio globale” che, grazie all'evoluzione dei mezzi di comunicazione, ci ha permesso di dialogare in tempo reale con chiunque nel mondo, eliminando i confini spazio-temporali e perdendo la capacità di frammentare i ruoli e assumere punti di vista specifici 66. In questo nuovo contesto, la funzione di classe nella definizione delle identità sottoculturali, viene ripensata come una “categoria zombie”67, spostando l'attenzione verso pratiche di consumo individuali, non più di gruppo. Da alcuni studi infatti si evince che i comportamenti giovanili non sono più in contrasto con la cultura dominate o con quella parentale, come accadeva in passato; oggi hanno esaurito il loro ruolo storico, perché si è affievolito quel conflitto sociale da cui nascevano, cioè quello tra la cultura puritana della classe operaia e la nuova società affluente, in quanto si è indebolito uno dei due contendenti: la classe operaia. Con la crisi del modello industriale fordista e il passaggio del capitalismo occidentale al modello postfordista, basato principalmente sul commercio e sui servizi, la classe operaia ha infatti visto ridotta la propria importanza sul piano sociale. La post-modernità ha quindi condizionato e indebolito la capacità di elaborare ed esprimere, in forma collettiva, pratiche culturali di significazione, provocando la creazione di spazi dove prevale il comportamento soggettivo legato allo stile, all'appartenenza e al piacere. Comportamenti che sono soggetti ad un constante e continuo cambiamento, come lo è la società post-moderna. Infatti, “Essere moderni venne a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di restare fermi.”68
Per questi motivi Bauman, nel suo saggio Modernità liquida, considera la fluidità o la 65 A. Giancola, 2002. 66 H. M. McLuhan, in J. Meyrowitz, 1995. 67 “Categoria zombie”, o “istituzioni zombie”, è un termine usato da Ulrich Beck in un intervista a Jonathan Rutherford, il 3 febbraio 1999, per descrivere le classi che, con la società post-moderna, “erano morte, ma ancora viventi”. 68 Z. Bauman, 2003, p. 19.
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liquidità, metafore pertinenti per rappresentare molti aspetti della nuova fase della modernità. I fluidi, infatti, hanno la caratteristica di mutare continuamente, di filtrare e di viaggiare con estrema facilità. Ecco che la disgregazione degli organismi di azione collettiva è l'imprevisto effetto collaterale della nuova leggerezza e fluidità di una società sempre più mobile e mutevole69. Con la globalizzazione, le relazioni sociali sono sempre più spesso stabilite a grande distanza. La società si è stirata su tutto il mondo e lo spazio dei luoghi, cioè di relazioni stabilizzate e ravvicinate, entra in concorrenza con lo spazio delle reti, cioè di relazioni a distanza e mutevoli. Secondo Bauman, dovremmo parlare, piuttosto che di iniziative e intraprese globali, degli effetti globali. È un processo non controllato, trainato da meccanismi automatici, che ha forti conseguenze sui modi di vita e di pensiero degli individui. Oggi giorno il valore dominante è il denaro. Prevalgono i bisogni indotti dalla pubblicità, anziché quelli reali. Allo stesso tempo, il lavoro è una variabile dipendente del mercato capitalistico globale: lavoriamo solo per consumare e soddisfare i nostri piaceri. Anche se le cose che compriamo risultano inutili, le accumuliamo sempre di nuove perché quelle che abbiamo sono fuori moda. Si può così parlare dell'aspetto monouso degli oggetti. Tutto ciò, però, porta ad una perdita di sicurezza; mantenere un percorso di vita controllato risulta difficile, mentre è più facile passare da una situazione ad un'altra. Quella che si è creata è una società del rischio e dell'incertezza, dove gli individui non possono essere più paragonati ad un pellegrino che percorre un sentiero in vista di una meta, ma piuttosto come un turista, o come un vagabondo70. Non esistono più spazi condivisi, ma ci troviamo di fronte ad una società degli individui, come la definì Elias, in cui si è innescato un processo di individualizzazione di massa, dove da una parte c'è una disperata ricerca della libertà, ma dall'altra gli individui si sono isolati sempre di più. Il processo di individualizzazione consiste quindi nel trasformare l'identità umana in una sorta di compito: diventare ciò che un altro è. L'uomo cessa di avere un identità innata e inizia a vivere in modo conforme, seguendo i modelli di comportamento emergenti71. Per tanto, il nuovo giovane non è più identificabile con uno stile di vita preciso; egli si trova ad interagire con un mondo che cambia in continuazione. Accade che, rispetto alle epoche che l’hanno preceduta, la nostra è la prima a chiedere l’omologazione di tutti gli uomini come condizione della loro esistenza. E come già accennato, l'eclisse delle sottoculture spettacolari è dovuta in parte a questo fenomeno. Si è persa l'unicità per dare spazio all'incertezza, all'instabilità, alla precarietà e al conformismo. Non a caso il termine globalizzazione non può essere compreso, nella sua incidenza 69 Z. Bauman, 2003. 70 A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, 2007. 71 Z. Bauman, (op. cit).
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interpretativa dell’età contemporanea, se non è considerato in rapporto ad altri due termini antitetici che lo caratterizzano: l'omologazione, come già detto, e la complessità. Da una parte la globalizzazione diffonde a livello mondiale stili di vita omogenei; dall'altra parte, però, grazie alla mediatizzazione della società, stili e gusti si mescolano, mettendo tutto alla portata di tutti. La direttrice di Vogue Italia, Franca Sozzani, ha voluto descrivere così questo fenomeno,
“Sono a Parigi ma, se guardo come si veste la gente, potrei essere a Londra, New York, Mosca, Milano. Non c'è niente come viaggiare da un Paese all'altro per rendersi conto che ovunque lo stile, soprattutto quello dei giovani, è uguale. Ovunque. Omologato. Passi ore negli aeroporti e poi vai in giro per la città, cammini per le strade e, sia che tu guardi le vetrine dei negozi o entri in un museo o in qualsiasi altro posto, abbassando gli occhi vedi solo un esercito di migliaia di Ugg, grigie, beige, nere. Appena sollevi un po' lo sguardo vedi leggings o jeans aderenti in qualsiasi tessuto con predominanza di pelle nera. Ti azzardi ad alzare la testa e ti accorgi che l'esercito dei seguaci della moda indossa una vera uniforme: piumini corti alla vita o chiodi di pelle o di montone. [..] Ognuno è libero di vestirsi come crede, e se la moda ti impone quel look e tu sei felice di essere un numero come tanti altri, allora, liberi tutti. Ma è veramente impressionante come ci sia mancanza di fantasia, d'inventiva. Nascono mode anche belle che si diffondono così velocemente che travalicano oceani, montagne, deserti. Sono inarrestabili. E dove colpiscono, colpiscono. Omologando il mondo intero.”72
Questa visione però può essere contestata perché una differenza c'è, magari non così evidente, ma c'è. Non a caso, recenti indagini hanno messo in evidenza che gli individui sono predisposti a reagire, cercando di accogliere l’imprevedibilità. Le nuove generazioni sembrano, dunque, mettere in conto la possibilità di cambiamenti di rotta, anche repentini e di costruire risposte in “tempo reale”. La velocità e i ritmi sociali della tarda modernità con cui i giovani convivono, permettono loro di “cogliere l’attimo” e di affrontare le occasioni del momento via via che si presentano. In tale contesto, Massimo Canevacci, nel libro Culture Extreme, studiando da vicino la società contemporanea, ha visto che l'essere giovani è una condizione che si è dilatata nel tempo; non lo si è più in modo oggettivo o collettivo, ma transitivo. Si transita lungo una condizione variabile e indeterminabile, la si attraversa secondo modalità determinate dalle momentanee individualità del soggetto, tra i suoi vari ed eterogenei multipli di sé, provocando la nascita di identità mobili e nomadiche; i giovani della nostra era risultano così “sterminati”. Con questo termine, Canevacci, non intende dire che le 72 http://www.vogue.it/magazine/blog-del-direttore/2010/12/6-dicembre
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culture giovanili sono state eliminate, ma al contrario. Significa percepire la propria condizione come non terminata o persino non terminabile 73. Le culture giovanili contemporanee sono quindi plurali, frammentarie e disgiuntive: un'estrema incertezza e labilità nel definire se stesse, le porta alla creazione di vari sé, di “multiple self”. Quello che abbiamo di fronte è uno spaesamento dell'io. Un'identità mobile, fluida, che a seconda delle circostanze si veste o si sveste. L'io ha mille volti e mille nomi. Ai giovani, quindi, non resta altro che una combinazione infinita di materiali espressivi, un'identità eclettica e ibrida. Un'identità che però si trova disorientata al momento di produrre riconoscibilità e coinvolgimento di gruppo. Per quanto riguarda la moda, oggi, appare estremamente difficile sfuggire all'egemonia esercitata sull'immaginario sociale dai linguaggi delle marche e del consumo. Certo, i giovani hanno imparato a reinterpretare i significati di questi linguaggi, ma hanno continuato a rimanere al loro interno. È evidente che si è sviluppato un territorio "vischioso", dove i linguaggi delle sottoculture e quelli delle marche si mescolano in continuazione. Una ricerca di Emanuela Mora, contenuta nel suo volume Fare moda. Esperienze di produzione e consumo, ha dimostrato che il rapporto dei giovani italiani con l'abbigliamento è fortemente dipendente dalle regole imposte dal mercato. In un'era in cui tutti - individui e gruppi sociali - devono esibirsi pubblicamente, e sono costretti a mettere “in vetrina” anche il loro corpo e il loro privato, lo stile sottoculturale vede, inevitabilmente, esaurire gran parte della sua funzione sociale 74. La recente affermazione di valori individualistici ha trasformato ciò che il vestito poteva significare: ad oggi, infatti, l'abito “ parla sempre meno del sociale e sempre piu dello stile e del gusto personale. Non consente piu di identificare un gruppo sociale o di definire uno status particolare, ma spinge piuttosto ad indovinare il carattere di un individuo.”75
In conclusione si può affermare che, oggi, gli elementi effimeri e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più grande. L'uomo contemporaneo è costantemente sottoposto a stimoli, che alla lunga diminuiscono la sua capacità di reazione: solo la differenza e la novità riescono più facilmente a destare la sua attenzione. Tuttavia, anche se si sono diffusi modelli stilistici individualistici, eterogenei e temporali, la partecipazione ai movimenti sottoculturali non è 73 M. Canevacci, 2003. 74 E. Mora, in V. Codeluppi, Birmingham blues, ragazzi smarriti nella (anti)città, in Il Manifesto, 23 Settembre 2011. 75 F. Monneyron, 2008, p. 82.
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svanita del tutto. In un contesto così liquido, la nascita di post-sottoculture, che non hanno nulla a che vedere con quelle passate, rappresenta un mezzo per esprimere la sensibilità individuale e la voglia di uscire dal guscio dell'omologazione. Maffesoli ha analizzato molto attentamente questa realtà, arrivando a paragonare i gruppi giovanili, ormai micro-gruppi, a delle tribù. Grazie ai suoi studi è stato possibile comprendere l'entità delle relazioni sociali e stilistiche delle nuove culture giovanili, di cui l'instabilità e la temporaneità sono, però, le caratteristiche principali. 2.2 Nascono le neo-tribu: microcosmi nella società dei “tutti uguali”. La storia dello “street style” non è di recente apparizione, ma va di pari passo con la storia delle sottoculture spettacolari, quindi con la storia delle tribù. Se guardiamo indietro vediamo che ognuna di queste generazione, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, ha fatto uso di certi vestiti e decorazioni per distinguersi tra il noi e loro, per opporsi alla cultura dominante e al mainstream prodotto dai mass media, visti entrambi come una minaccia alla loro autonomia, spontaneità e originalità. Tuttavia, oggi giorno, i tradizionali raggruppamenti hanno perso d'importanza, per perseguire una vita come i singoli l'hanno scelta, impegnandosi a creare e progettare microcosmi provvisori, che consumano una moda sempre più veloce e ripetitiva. Lo “street style” non è più opera della grandi ideologie, come già affermato, ma si lega alla soggettività individuale. Ted Polhemus durante un'intervista apparsa sul Corriere della Sera ha affermato che, “I ragazzi di oggi mancano di qualsiasi senso di appartenenza. Una o due generazioni fa c'era il vicinato, la parrocchia, il background sociale... Oggi al massimo si sentono parte del mondo occidentale. Cosi' per ritrovarsi tra <<gente come noi>>hanno bisogno di crearsi delle tribu' stilistiche.”76
In una società in cui regna il prêt à penser, usando le parole di Michel Maffesoli, si assiste ad una crescente segmentazione degli interessi culturali delle classi sociali, meno omogenee proprio perché frammentate in stili di vita differenti e in continua evoluzione 77. L'individuo, immerso in un presente continuo, crea e partecipa a forme estetiche di socialità provvisorie, che danno vita a lifestyle assimilabili a riti tribali. Come su di un palcoscenico, è portato ad 76 G. Borgese, Un esploratore tra i nuovi selvaggi. Ted Polhemus e i ragazzi di strada, in Corriere della Sera, 14 maggio 1994. 77 M. Maffesoli, 1988.
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indossare una maschera dietro l'altra, rappresentando più identità, più multipli di sé, che mostra a seconda delle diverse realtà sociali. Come conseguenza, in una società in cui non esistono più elementi di differenziazione e dove la globalizzazione ha provocato un'omologazione diffusa e la caduta di grandi strutture istituzionali, si sono create nuove realtà collettive, chiamate anche neo-tribu. A differenza dei loro antenati, queste non rappresentano un pericolo né scandalizzano la società, perché non provocano nessun tipo stabile di stratificazione sociale – eccetto quello basato sulla natura fluttuante di stili di vita, gusti e consumi. Le neo-tribù, paragonate alle “comunità delle emozioni”78, sono descritte da Bernard Cova, come un “insieme di individui, non necessariamente omogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive) ma interrelato da un’unica soggettività, una pulsione affettiva o un ethos in comune. Tali individui possono svolgere azioni collettive intensamente vissute, benché effimere.” 79
Sono forme di aggregazioni completamente prive di contorni definiti e presentano una doppia identità, insieme primaria e secondaria, che rende possibile agli individui di mantenere un alto livello di autonomia pur facendone parte80. Il neo tribalismo, nelle sue diverse forme, rifiuta di riconoscersi in un progetto politico, non s'iscrive in nessuna finalità e la sua unica ragion d'essere è la cura di un presente vissuto collettivamente. La preoccupazione per la conformità, conseguenza della massificazione, è il motivo per cui si sviluppano questi nuovi gruppi. E per capire come sono diffuse nella società, Maffesoli usa la metafora della Matriosca Russa: il grande oggetto-massa racchiude in sé piccoli oggetti-gruppi. Contrariamente a ciò che era accaduto con le sottoculture passate, non si tratta solo di aggregazioni a bande, a famiglie o comunità, ma di girovagare da un gruppo a un altro in un continuo flusso massa-gruppo. Ecco che, da un punto di vista stilistico, camminando per strada si assiste ad una varietà infinita di assembramenti puntuali e sparpagliati: troviamo dalla fanatica del jogging, a quella del punk o del bon ton, e molto altro, coinvolgendo chi li guarda ad un costante viaggio di stile. Perciò, quello che la post-modernità ha provocato è la sostituzione di un sociale razionalizzato, afferma Maffesoli, con una socialità a dominanza empatica:
78 Weber specifica che le “comunità delle emozioni” sono categorie mai esistite in quanto tali, ma che possono servire da rivelatori di situazioni presenti, perché hanno le stesse caratteristiche delle neo-tribù: l'aspetto effimero, la composizione mutevole e l'iscrizione locale. (M. Maffesoli, 1988) 79 http://www.ninjamarketing.it/2010/04/07/la-settimana-del-tribal-marketing-il-marketing-tribale-frapostmodernismo-e-web-2-0/ 80 Ibidem.
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“Caratteristiche del sociale: l'individuo poteva avere una funzione nella società e funzionare in un partito, in un associazione, in un gruppo stabile. Caratteristiche della socialità: la persona recita ruoli, sia all'interno della sua attività professionale, sia in seno alle diverse tribu alle quali partecipa. Cambiando costumi di scena, seguendo i suoi gusti (sessuale, culturale, religioso, amicale) ogni giorno va ad occupare il proprio posto nei diversi giochi del theatrum mundi. Non si insisterà mai abbastanza: all'autenticità drammatica del sociale, corrisponde la tragica superficialità della socialità.”81
I modi di vita contemporanei, quindi, non si organizzano e strutturano più a partire da un unico polo, ma dipendono dalle circostanze e dalle esperienze, che provocano raggruppamenti tra affini. L'energia impiegata per costruire il gruppo risulta così la più compiuta espressione di creatività odierna, essendo la vita trasformata in un processo di massa. Quanto detto fino ad ora non vale solo per l’individuo postmoderno ma, ovviamente, anche per il consumatore. Oggi, infatti, c'è una grande libertà di scelta, che comporta un'incessante ricerca dell'identità di ogni individuo, divenuto pigmalione di se stesso. Esso costruisce il senso della sua vita essenzialmente attraverso il consumo: si deve aggrappare a prodotti e servizi per forgiarsi una identità, in assenza di referenti tradizionali. Il sistema di consumo diventa così centrale per l'esistenza dell'individuo e i prodotti, che rappresentano veri ibridi sociali, quasi-soggetti, in misura sempre maggiore, sostituiscono l'altro nel processo di creazione dell'identità. Si vengono così a formare “strane galassie di consumatori che fanno squadra intorno a una passione: loro inforcano una Vespa, non vanno in scooter. Cavalcano una "rossa" di Borgo Panigale, mica una moto. Domano un cavallino rampante, che è qualcosa di piu di un bolide. Oppure accendono il loro iPad (non un banale tablet) e "photoshoppano" lo scatto digitale, che è cosa diversa dall'utilizzare un softwarino. Il prodotto si fa essenza della vita e spesso il gusto precede l'uso, la passione supera la razionalità e a volte persino il buonsenso.”82
Risulta, perciò, quasi impossibile utilizzare i tradizionali e rigidi criteri di suddivisione dei consumatori per individuare i differenti stili di vita e le conseguenti attitudini al consumo. Non a caso l'approccio edonistico ed effimero al gruppo è proprio il risultato di un consumo puramente estetico. La caduta delle istituzioni sociali tradizionali ha portato a creare forme di socialità vincolate al linguaggio dello stile, mettendo in rilievo la soggettività individuale. Si 81 M. Maffesoli, 1988, p. 109. 82 D. Lepido, Nella tribu dei “simboli” consumi a prova di crisi, in Il Sole24ORE, 11 Luglio 2010.
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perde l'aspetto politico e, quindi, i legami di comunanza e di appartenenza sono sostituiti da relazioni volubili che esprimono la confusione e contraddizione del nuovo millennio 83. Sebbene oggi ci siano ancora numerose eccezioni – i New age travellers, gli Emo, i Goths, i Raggamuffins – la grande era delle sottoculture è chiaramente tramontata e al suo posto si sono sviluppate le neo-tribù, che Polhemus descrive come dei piccoli “simulacri delle sottoculture”. Si attua un ripescaggio di stili passati, deprivati dei loro significati, solo per fare un tuffo nell'esperienza reale, senza bagnarsi84. Il sociologo Francesco Morace, osservando le mutazioni di costume sulla scena mondiale, definisce “consumi di convivenza o affinità” quelle modalità di consumo sviluppate oggi giorno, che non hanno nulla a che fare con i fenomeni di collettivismo ideologico passato, dove oltre a idee più profonde, c'era un solo simbolo preciso e schematico che sintetizzava un grande racconto. Oggi, invece, si interviene con simboli personali meno prescrittivi. Le neo-tribù appaiono dei movimenti in cui si supera il narcisismo e il solipsismo dell'individuo, aprendo una nuova dimensione del confronto tra il singolo e la massa85. Di conseguenza, si può parlare di “tribù dei consumi” alla costante ricerca di un desiderio di appartenenza che le aiuti a superare il senso di spaesamento, dovuto al mutare dei paesaggi geografici, sociali e lavorativi. In questo modo, consumando, si sentono parte di qualcosa. Tale fenomeno è legato anche alla nascita progressiva di modelli “low cost” che propongono una grande varietà di scelte di consumo, ma di livello decisamente inferiore. Siamo di fronte ad una società dei “tutti uguali, ma tutti diversi”: da una parte, infatti, la globalizzazione ha provocato omologazione e conformità, dall'altra parte però, si sono sviluppate singole personalità che, grazie alla moda, riescono ad esprimere la propria affermazione individuale. 2.3 Al passo con i tempi o con la massa? Il Fast Fashion e la moda “low cost”. “Una piovosa mattinata di novembre, entrate in uno dei tanti punti vendita di un brand low cost per dare un occhiata, e vedete un capo che vi piace. Vi dite: <<Ci penso>>. La settimana dopo tornate nello stesso negozio, andate dritte allo scaffale dove il capo era appoggiato, e… puff! Sparito!”86
Questo meccanismo ha un nome, si chiama “Fast Fashion” o economia della scarsità. Nato negli anni Novanta, è ad oggi il modello produttivo-distributivo più diffuso nel mondo. Il 83 84 85 86
R. Pedretti, I. Vivian, 2009. T. Polhemus, 2010. G. Lo Vetro, Com'è trendy la divisa, in l'Unità, 20 giugno 2002. http://www.vogue.it/encyclo/moda/
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motivo di questo grande successo è, in primis, da ricercare nel modo in cui risolve tre problemi fondamentali: riesce a gestire il rischio legato all'alta imprevidibilità della domanda; si basa su un sistema creativo che opera in modo duplice, innovando ma al tempo stesso inglobando le ultime tendenze di consumo; ed infine gestisce in maniera rapida la filiera produttiva. Uno dei primi marchi che già negli anni Ottanta anticipò questo fenomeno, è stato Benetton, con la realizzazione di prodotti che venivano colorati non dal filo, ma solo dopo che il capo era pronto. In questo modo, cambiando la modalità di tintura, Benetton riuscì ad adattare l'offerta del momento alle tendenze, risparmiando tempo 87. I marchi “low cost” contemporanei, come Zara, Topshop e H&M, invece, organizzano la propria produzione studiando attentamente le proposte in passerella, per poi riadattarle, creando capi molto simili, ma venduti a prezzi accessibili a tutti. Di conseguenza, l'accorciamento dei tempi di produzione ha dato vita, non più ad una collezione per ogni stagione, bensì a modelli di abito a ciclo continuo. Tuttavia, ad affermare questa realtà hanno contribuito altri fattori chiave, come la nascita di canali distributivi e i cambiamenti nelle modalità di consumo degli individui. Nella società odierna, infatti, basta che ai consumatori si presenti qualcosa di nuovo, spiega Vanni Codeluppi, perché venga subito la voglia di comprarlo. Abbiamo bisogno di novità e la moda può assecondare questa esigenza contemporanea. Le aziende producono sempre più prodotti a ciclo continuo e a ritmi sempre più veloci, enfatizzando quella che oggi è l'idea di oggetti usa e getta, monouso. Si sta diffondendo una vera e propria obsolescenza pianificata che comporta un cambiamento nell'idea di vestito, come di qualsiasi altro prodotto: quando sono vecchi sono da buttare88. Chiunque, con un po' d’occhio per il contenuto degli scaffali di questi negozi, può permettersi un look al passo con i tempi. Essere alla moda, oggi, è un valore e più segui le ultime tendenze, più sei di successo e hai gusto. Si sta sviluppando un nuovo processo noto come democratizzazione della moda. Il consumo dei prodotti immateriali, però, non dipende solo dal consumatore in prima persona, ma anche dal luogo in cui questi prodotti sono consumati. Per lanciare una moda l'elemento fondamentale è l'immagine che viene costruita oltre che dalle passerelle, anche dalle vetrine dei negozi, dai personaggi famosi o dai giornalisti di moda. Il negozio, in particolare, non rappresenta solo l'interfaccia tra la produzione e il consumo, ma con le sue vetrine si trasforma in un vero e proprio palcoscenico, in cui la merce diventa protagonista. Basta muoversi tra le vie principali dello shopping di Milano, New York o Parigi, per capire quanto le aziende investano per produrre queste “macchine da vendere”, come le chiama Enrico Cietta. 87 E. Cietta, 2008. 88 G. Camardo, I Meccanismi della moda, in Focus, Giugno 2005.
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I consumi voluttuari dei giorni nostri, spiega Roberta Sassatelli, sono così forzati e socialmente regolati dalla moda. “Il miglioramento delle possibilità di consumo degli strati sociali intermedi e inferiori si accompagna ad una uniformazione dei bisogni, stimolata tra l'altro dall'urbanizzazione e dallo sviluppo delle comunicazioni, e ad una forte crescita delle merci disponibili, della loro varietà e dei ritmi del loro rinnovamento. La democratizzazione dei lussi è dunque effetto e causa di quell'organizzazione capitalistica della produzione che, anche grazie al diffondersi delle dinamiche della moda, può creare mercato per i suoi prodotti disciplinando tutti i consumatori mediante dispositivi guida (la moda, lo stile, il design)”.89
Il prodotto moda, quindi, come il prodotto culturale, è causa ed effetto della società stessa. Esiste perciò una stretta relazione tra la diffusione del prodotto e la sua durata come tendenza di consumo. Per questo l'affermazione di un nuovo oggetto culturale sul mercato è uno stimolo a ricercare sempre qualcosa di nuovo; la velocità di trasmissione della tendenza è in genere inversamente rapportata alla sua durata. Ecco che la moda assolutizza il cambiamento, perché propone le novità, concepite come illimitate, e le mette continuamente in circolo. L'antropologo Grant McCracken ha sostenuto che, “Mentre nelle società tradizionali il principio guida per l'attribuzione di valore ai beni era dato dalla patina (ovvero quell'aspetto consunto che i beni acquistavano a causa dell'usura nel corso di diverse generazioni), nella modernità esso diviene la moda, intesa proprio come ricerca del nuovo.”90
Si è creato così un universo del consumo, a detta di Bauman, in cui il richiamo delle merci sembra irresistibile: consumare vuol dire avere la possibilità di tenere a bada l'ansia e l'incertezza generata dalla perdita delle istituzioni solide. L'instabilità dei desideri, la risultante predisposizione al consumo immediato e all'immediato dei suoi oggetti, ben si accorda con la liquidità del contesto, che è ostile a pianificazioni, investimenti e immagazzinamenti a lungo termine. Questo contesto viene anche descritto come un “deserto affollato”. Un paradosso che Bauman usa meticolosamente per fare capire come si sente l'individuo all'interno della società post-moderna. Infatti il sovraffollamento si associa ad un eccedenza delle nostre intenzioni, obiettivi, oggetti, mentre il deserto esprime un eccesso di spazio rispetto alle nostre capacità di assorbirlo91. L'odierno consumismo non si può più associare al soddisfacimento dei bisogni, 89 R. Sassatelli, 2004, p. 45. 90 Ivi, p. 85. 91 Z. Bauman, 2008.
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ma lo spiritus movens dell'attività del consumatore è il desiderio, un'entità più volatile ed effimera che è destinato a rimanere insaziabile. Tuttavia secondo Harvie Ferguson, questo desiderio si è trasformato in una liberazione di capricciose fantasie che, a differenza del primo, è uno stimolante più potente e versatile che permette di mantenere la domanda di consumo ad un livello adeguato all'offerta. Per questo motivo fare acquisti diventa un modo per esprimere e soddisfare un capriccio, poiché oggi fare shopping è qualcosa di casuale, imprevisto e spontaneo. Inizialmente per pochi, è diventato un'attività fruibile da una massa sempre più crescente di individui92. Organizziamo la nostra vita intorno al consumo. Una vita priva di regole, guidata esclusivamente dalla seduzione, da desideri sempre maggiori e da capricci
volubili,
che
vengono
alimentati
costantemente
anche
dal
sistema
di
commercializzazione e promozione dei beni. Il marketing e la pubblicità svolgono un ruolo fondamentale nel diffondere immagini per conquistare i consumatori. Ma devono anche sapersi adattare alle esigenze che i consumatori hanno. Il sistema moda con le sue molteplici interazioni, dalla distribuzione ai fashion leaders93, contribuisce ad orientare i consumi ma, allo stesso tempo, si nutre dalle tendenze innovative che provengono dagli stili di strada. Questo schema ci permette di capire il rapporto che c'è tra produzione e consumo 94:
Sistema della moda
Produttori
Marketing
Pubbicità
Consumatori
Sottoculture
Grafico 1.1 Interazione tra produttori e consumatori. Ecco che la vera forza del fast fashion è proprio la sua capacità di evolversi più velocemente, 92 Z. Bauman, 2008. 93 Con il termine “fashion leaders” si intende etichettare una o più persone, in genere realmente interessate alla moda, che, indossando capi o semplicemente esprimendo delle opinioni, influenzano le scelte d'acquisto dei consumatori. Questi “leaders” possono essere giornalisti di moda, star del cinema, musicisti, blogger. 94 R. Sassatelli, 2004. Grafico a pag 101.
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di captare tendenze culturali e stili di consumo e saperli dirigere. Il “low cost” ha proposto il miraggio di uno stile di vita alto, desiderabile, ma accessibile. Lo ha fatto adottando le modalità dell'alta moda, inclusi campagne sensazionali e cataloghi che sembrano riviste. “H&M ha aperto la via già nel 2004, con una serie di collaborazioni celebri, da Karl Lagerfeld a Marni. Mango punta sulle celebrities come testimonial da Kate Moss fotografata da Terry Richardson a Penelope Cruz, Scarlett Johansson, Naomi Campbell. […] Cosa vuol dire? Semplice: viviamo nell'era della post-production, come la chiama Borriaud. Siamo tutti curatori: facciamo scelte. È il montaggio che conta, non i singoli pezzi, e il fast fashion, in questo senso, offre messe di materiali. Poco originali? Certamente. Ma infinitamente adattabili, continuamente rinnovabili. Del resto nella moda, come nell'arte, l'appropriazione è ormai diventata una forma di invenzione. È la lingua di internet: no copyright e mix impazzito”.95
La metropoli rappresenta quindi il luogo della “seducente fantasmagoria delle merci”96, per usare le parole di Francesca Bianchi, ed è attraverso il processo dell'imitazione, che l'individuo si scinde in due: l’io razionale cerca di esaltare il proprio interesse, ma poiché egli è anche acquirente e spettatore, finisce per soccombere alle apparenze. Si finisce per indossare la stessa giacca e vedere schiere di donne con la stessa identica borsa. Una moltitudine di stili e tendenze, infiniti modelli, che standardizzano i desideri. Ma cosa spinge all'omologazione? Gli psicologi parlano di senso di accettazione di noi stessi, un desiderio che induce a somigliare agli altri per non sentirsi esclusi. Cerchiamo quindi di adeguare le nostre preferenze a quello che vediamo intorno per evitare di essere additati come i “fuori dal coro”. Il termine stesso “moda” deriva dal latino modus e significa appunto maniera, norma, regola, ovvero uno stile usuale e condiviso da tutti97; si segue il “gregge”, oserei dire, solo per avere sicurezza e stabilità, in una società che è tutt'altro che stabile. L'imitazione viene fatta per liberare l'individuo dall'ansia della scelta e dalle responsabilità. Tuttavia permane in noi la voglia distinguersi, di dar vita ad un'attività personale, svincolata dal resto del gruppo. Simmel descrive la vita sociale come un campo di battaglia dove ogni palmo di terreno viene conteso: “La moda è l'imitazione di un modello dato capace di soddisfare il bisogno di appoggio sociale, di condurre il singolo sulla via percorsa da tutti, di fornire l'universale che sia capace di ridurre il 95 A. Flaccavento, Da Zara a Cos, è la velocità il segreto della rivoluzione vittoriosa del low cost, in Sole24ORE, 18 Maggio 2012. 96 F. Bianchi, 2009, p. 17. 97 F. Bianchi, 2009.
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comportamento del singolo al mero esempio. La moda soddisfa il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, alla variazione, alla distinzione. […] Dunque, la moda non è altro che una delle tante e particolari forme di vita attraverso cui la tendenza all'uguaglianza e quella alla differenziazione individuale si congiungono in un fare unitario.”98
Dunque, la moda soddisfa anche il bisogno di esprimere la pecora nera che è in noi, di uscire dagli schemi che la società consumistica ha imposto per distinguersi e differenziarsi. L'individuo lotta con la società per mantenere la sua singolarità. E giustapponendo stili differenti diamo voce all'originalità individuale. Si crea così uno stile “mix & match”: mescolando pezzi vintage a nuovi, firmati a “low cost”. Abbattendo le barriere stilistiche, l'intero sistema moda si è trasformato in un supermercato, in cui si trovano elementi di ogni genere, appartenenti ad epoche e sottoculture lontane, per esprimere l'unicità e l'insostituibilità qualitativa dell'individuo. “Per esempio, lo «street a porter» lanciato per il prossimo inverno da Extè. «Uno stile bipolare spiega Francesco Lampronti, direttore generale della griffe - per una generazione che segue la moda prêt-à-porter, rinnegandola al tempo stesso con un abbigliamento da strada». «Insomma - è l'opinione di Andrea Beretta, direttore della società di ricerche Nova - il concetto di sdoppiamento è fondamentale per cogliere il senso della società odierna. Oggi non si parla piu di "o/o". La regola del senza esclusioni è quella del "e/e". Per riconoscersi seguaci di una stessa religione anche se con il culto della differenza»”99
2.4 A conti fatti, questo il risultato: “Sampling and Mixing” le parole chiave del nuovo street style. La globalizzazione è senza dubbio sinonimo di cambiamento. Il mercato del consumo giovanile tende ad espandersi incredibilmente e gli stili che una volta identificavano le diverse generazioni, si confondono e si integrano tra di loro. Sembra che l'originalità e la differenziazione sia sparita nei meandri della moda “low cost”, che permette a tutti di indossare abiti alla moda, ma con il minimo sforzo e il minimo costo. Tuttavia, come già accennato, di fronte a questa realtà si sente anche il bisogno di separasi dalla massa per esprimere l'essere per sé. Allora in che direzione si sta muovendo lo “street style”? Un tempo c'erano le sottoculture spettacolari a fare da molla per il processo di imitazione, ora che si 98 G. Simmel, 2011, p.10-11. 99 G. Lo Vetro, Com'è trendy la divisa, in l'Unità, 20 giugno 2002.
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sono create delle neo-tribu volubili ed effimere, la tendenza è quella di campionare e mescolare – “sampling & mixing” 100 – elementi diversi ed eclettici, spesso contraddittori tra di loro, in un unica dichiarazione personale. La confusione e la diversità della nostra epoca, porta gli individui a muoversi attraverso la storia e la geografia per trovare una nuova realtà – nel mix. Unire tratti specifici di differenti sottoculture spettacolari per riadattarli in un “neostile citazionista”, è un elemento condiviso nelle scelte vestimentarie odierne 101. Secondo l'antropologo Ted Polhemus, lo “street style” vive all'ombra del suo passato e il motivo di tutto ciò è perché ora ha un passato. Con le sue molteplici decadi di stile ha giocato un ruolo importante nella rivoluzione del XX secolo, che ha visto la democratizzazione della cultura dall'essere esclusivamente prerogativa di ricco e potente a moneta comune che lega tutta la società nel suo complesso. Per questo, merita di essere venerato nel XXI secolo. Gli effetti di questa eredità stilistica, ovviamente, si notano maggiormente nei giovani d'oggi, che sono costantemente nutriti da una dieta di programmi televisivi, video musicali e siti web dove si mostrano le epoche passate e i loro stili. Basta un click e abbiamo tutto alla nostra portata. Quello che si nota è che, mentre la generazione dei “baby boomers” disprezzava il passato, criticandolo, quella di oggi è una generazione che ha sviluppato un sentimento di nostalgia, perché nella realtà odierna sembra non esserci più una storia, ma solo volatili congiunzioni di elementi già vissuti e rielaborati insieme. Cadono le narrazioni, crollano i significati, la postmodernità ha provocato una confusione tra passato, presente e futuro, dando vita a quello che Nelville Wakefiel definisce il crepuscolo del reale102. Di conseguenza si assiste ad un ripescaggio di stili sottoculturali, che vengono indossati come se si fosse a una festa di Carnevale. Non a caso Ted Polhemus, ha affermato: “Who is real? Who is a replicant? Who cares? Life is a fancy-dress party. Enjoy.”103
L'importante è stare bene con se stessi, distinguendosi dagli altri. Oggi, infatti, la grande varietà di reperti sottoculturali permette a chiunque ti consumare “outfit” semi – pronti, come se fossero delle lattine di zuppa, perfettamente allineati sugli scaffali del “supermarket dello stile”. In questo modo, si è in grado di unire tratti tipici delle sottoculture, spesso in 100“ <<Sampling & Mixing>> sono termini derivati dal rap, dal rave, dalla techno e da altre forme di musica pop contemporanea. Sampling descrive il processo per cui piccoli frammenti di vecchia musica pop sono presi a prestito dai loro contesti originali. Mixing si riferisce all'operazione di rimettere insieme un certo numero di tali campioni per generare una nuova ed unica sequenza.” (G. Ceriani, 2003, p.121) 101A. Giancola, 2002. 102 http://www.tedpolhemus.com. 103 http://www.tedpolhemus.com, in the supermarket of street style: “Chi è reale? Chi è un replicante? A chi importa? La vita è una festa in maschera, divertitevi.”, trad. mia.
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contraddizione tra di loro, al fine di creare qualcosa di unico, permettendo così di comunicare una rappresentazione straordinaria di sé. Una conseguenza della necessità, che l'individuo post-moderno ha, di esprimere le sue mille facce: Punks un giorno, Hippies quello successivo, passando da uno stile a un altro, tra decenni e ideologie, alla costante ricerca di un'identità. In questo multiforme “Style World”, per usare le parole di Polhemus, ere passate convergono in un unico momento104. Si prende in prestito pezzi di identità altrui e si riorganizzano secondo le nostre esigenze. Se ci troviamo a Londra, a New York o a Milano durante la settimana della moda, oppure semplicemente girovagando su blog di moda e siti internet, potremmo scorgere un'infinità di esempi di “Sampling & Mixing”. Per capire meglio questa attitudine dei consumatori odierni, l'atteggiamento del surfer è senza dubbio quello più adatto105. Come lui, che si muove da un'onda ad un'altra, l'individuo passa da uno stile all'altro, scegliendoli a caso, a seconda delle emozioni del momento. Ciò che si viene a creare, spiega Giulia Ceriani, è un “meta-significato”, privo di una linea coerente, proprio perché vengono accostati elementi in contrapposizione tra loro106. Queste combinazioni sono moltissime ed infinite; con un abito si può viaggiare da un mondo a un altro, da un epoca a un'altra. I nuovi consumatori, i nuovi individui dell'era globalizzata, sono quindi, “Affascinati dall'Altro, ma senza perdere le proprie radici. Pronti a cogliere suggestioni estetiche diverse dalle proprie per ricomporle in un nuovo mosaico. In cui mondi distanti si incontrano, si guardano, si condividono. E creano un universo nuovo e moderno, capaci di coniugare gli opposti, le lontananze anche geografiche; di far convivere Est e West, passato e futuro, senza dimenticare il qui e ora.[...] Amanti della tradizione e alla ricerca del futuro; ipertecnologici e nostalgici. Insomma, abitanti di un mondo assolutamente trasversale, moderno, senza confini.”107
Stiamo tutti infrangendo le regole, giustapponendo l'abbigliamento sportivo a quello da lavoro, il vecchio al nuovo, il naturale all'artificiale, mescolandole, confondendole, lanciando segnali contraddittori. E perché? Perché non vogliamo più essere classificati - per diventare solo uno stereotipo. Perché nel mondo in cui viviamo, dove regna la confusione, classificarci attraverso etichette o categorie non è più sufficiente. Ora che siamo tutti on-line, collegati al mondo, quello che può realmente esprimere chi siamo, è il nostro aspetto: sentiamo la voglia di uscire dalla massa per urlare a tutti l'io personale. Ovviamente nel corso della storia umana, 104T. Polhemus, 2011. 105È da questo atteggiamento che deriva il termine “style surfing”, usato per descrivere il nuovo consumatore, sempre in cerca di nuove emozioni, o meglio, di nuovi stili. 106 G. Ceriani, 2003. 107 L. Scala, West meets East, in Vogue Italia, Gennaio 2013.
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l'uso di certi vestiti e ornamenti servivano a scopi puramente pratici, erano funzionali per distinguere tra loro le classi, oppure semplicemente utili per la sopravvivenza. Oggi il nostro abbigliamento, il taglio dei capelli, le scarpe, il make-up e così via – tutti elementi che il sociologo Irving Goffman denomina come presentazione del sé – funzionano come un mezzo di espressione. É chiaro quindi che oggi i dettagli, il mixare elementi, insomma, lo stile personale, permette più della parola, di esprimere chi siamo realmente. Il XXI secolo ha dato la possibilità ad ognuno di noi di sviluppare una fiducia e una creatività “fai – da – te” (Do It Yourself), diffondendo nell'aria il rigetto alle regole stilistiche. Così gli individui si rifiutano di conformarsi sia alla moda dell'anno sia ad un particolare stile sottoculturale. Campionando e mescolando i vari look, siamo in grado di produrre una dichiarazione unica di stile che funziona come una sorta di pubblicità visiva, annunciando al mondo chi siamo e dove ci troviamo. Secondo Ted Polhemus, questo è la conseguenza della grande libertà di scelta che la post-modernità ha creato, dando agli individui il potere di decidere il loro aspetto 108. Analizzando il modo in cui, noi esseri umani, ci decoriamo, vestiamo e ci trasformiamo, possiamo capire, in maniera diretta, quello che accade nel reale. Nella storia dell’uomo non era mai successo che la gente potesse godere di una così ampia varietà e possibilità di scelta stilistica come quella di cui disponiamo attualmente. Il sistema moda dei secoli scorsi aveva auspicato e simbolizzato, stagione dopo stagione, una speranza verso un progresso lineare. Ma, come già analizzato, quello che il post-modernismo portò furono cambiamenti sempre più rapidi, provocando un progresso non più lineare, ma caotico ed eterogeneo, dove a fare da padrone c'era l'individualismo. Per questo, oggi, si cerca di trovare uno stile personale che enfatizzi e rifletta la diversità, l'eterogeneità, la confusione, la creatività individuale e la ricerca dell'autenticità. Fino a un paio di decenni fa, i designer della moda professionisti consideravano loro compito e responsabilità non solo creare indumenti o accessori ma anche insegnare e dettare le regole sul modo in cui questi articoli dovevano essere accoppiati in un “total look”. Allo stesso modo il giornalista professionista insegnava e decretava in che modo il consumatore dovesse coordinare tutti i vari componenti separati del proprio aspetto personale. In sintesi sembrava, per loro, che il consumatore fosse incapace e impreparato a prendere tali decisioni e che avrebbe sicuramente sbagliato e provocato una catastrofe estetica. E la cosa sorprendente è che tutti pendevamo dalle loro labbra. Ora che questa dittatura è stata abbattuta, grazie alle capacità e alla facilità del “sampling & mixing”, sembriamo tutti dei ribelli. Ognuno si veste come vuole, senza regole da seguire, senza nessuno che impone un codice vestimentario rigido con uno specifico “in” e “out”. Di fronte a 108 T. Polhemus, 2011.
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questa situazione, gli stilisti odierni devono, perciò, fare i conti con un mondo sempre più eterogeneo e complesso, in cui è difficile sviluppare il processo del “bottom up”. Cercare di catturare gli stili di strada per farli propri, di captare le tendenze della gente comune, non è più così semplice come un tempo. Il motivo è uno: le differenze tra noi sono impercettibili e sottili, legate al gusto e alla vita personale. Con grande ingegnosità, noi “gente comune” selezioniamo attentamente gli accessori dello stile e del marchio che riteniamo adatti per descrivere “dove andiamo”. Come precedentemente sottolineato, in passato, i nostri antenati usavano il vestito come segnale di appartenenza ad una specifica classe sociale e culturale. Ai giorni nostri, invece, usiamo il linguaggio dello stile per costruire reti, rapporti e comunità 109. Per valutare in modo efficace chi è “in”, oggi, c'è bisogno di altri tipi di informazioni. È difficile scovare le differenze, capire gli stili. Come si può, allora, individuare quella che sarà la prossima grande novità? Chi è in grado di catturare le ultime tendenze della strada? E perché oggi si parla così tanto di street style? La nascita del Web 2.0 e la figura del “Cool Hunter”, o cacciatore di tendenze, sono la risposta a questi interrogativi.
109 http://www.treccani.it/enciclopedia/dalla-moda-allo-stile_(XXI-Secolo)/
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CAPITOLO 3 Nuove realtà, nuove passioni. Il Coolhunting spopola in rete. "Visto che non esistono piu gli aristocratici per promuovere gusti e mode, chi decide cos'è che deve piacerci?"110
3.1 Fashion Blogs mania. Lo street style, dunque, sta vivendo una nuova primavera. Con l'arrivo del Web la notorietà di questo fenomeno ha toccato le stelle. E il motivo è, senza dubbio, la possibilità che internet ha dato di mostrare stili e look di strada, di generare e gestire contenuti, in maniera sintetica, veloce e pratica, pur non essendo dei professionisti del settore. Di fatto ci troviamo di fronte ad un processo inarrestabile. Partito nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, si è radicato nella società con l'arrivo della globalizzazione. Tuttavia, con questa ultima, lo stile si è differenziato, provocando una eterogeneità di look personali e impercettibili nelle loro differenze. E chi meglio di un ricercatore di tendenze poteva rilevare? Ecco che le case di moda hanno iniziato ad affidarsi ad una nuova figura, quella del “Coolhunter”. Ma se in passato erano esclusivamente dei professionisti del settore moda, oggi, invece, è un mestiere che può fare chiunque. Una conseguenza, questa, delle innovazioni tecnologiche dei primi anni Duemila, che hanno portato il Web ad evolversi. Quando nacquero i primi computer, creare siti personali oppure pubblicare informazioni era un'attività per pochi, perché senza certe competenze tecniche non si poteva gestire il World Wide Web. Ma alle porte del nuovo millennio, internet entra in una fase evolutiva fondamentale che Tim O'Reilly definì Web 2.0. Ridisegnando le pratiche di pubblicazione e di condivisione, questo risulta essere un mezzo a misura di individuo: non più, come la stampa, la radio o la televisione, un mezzo di comunicazione di massa, ma democratico e di facile accesso, favorisce la creatività e permette, quindi, ad ogni singola persona di sviluppare i propri interessi e di condividerli. Come spiega Sergio Maistrello, “Chiunque desideri mettere alla prova il proprio talento non ha che da scegliere il sistema di pubblicazione piu adatto e il registro che piu gli si addice. Grazie alla dotazione di base di qualsiasi personal computer recente, oggi, è possibile impratichirsi con tutte le grammatiche multimediali. […] 110 Susan Sontag, in http://www.vogue.it/encyclo/moda/
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Una alla volta oppure combinate tra loro, perché il digitale permette ai linguaggi di mescolarsi e dar vita a contaminazioni creative sempre nuove. […] Il Web contemporaneo assomiglia a una fila ininterrotta di rubinetti che gocciolano. Ogni rubinetto è una fonte di contenuti e ogni goccia ne rappresenta l'unità minima. Produciamo liquidi che talvolta vanno dispersi, ma che grazie a secchielli sempre piu sofisticati possiamo raccogliere, mescolare, filtrare, far evaporare perché tornino a farsi liquido in nuove combinazioni.”111
Il Web 2.0, quindi, è come una cascata infinita di contenuti. È un prodotto “open source”, che determina la nascita della cultura partecipativa. Per questo i suoi strumenti, dai blogs ai social network, sono chiamati social media, perché si nutrono di interazioni sociali e, attivando le due vie di comunicazione, creano valore. Tra tutti questi strumenti che la rete ci mette a disposizione, il Blog è forse al primo posto. Rappresenta una sorta di diario – da qui il nome blog, che deriva da web e log, rispettivamente rete e diario – e ci da la possibilità di fare online, quello che prima si faceva offline. In alcuni casi, però, la nascita di questi siti, che sfruttano un software112 di gestione dei contenuti base, ha rappresentato più un input a sviluppare passioni che non avremmo mai pensato di avere. Ciò nonostante rimane essere uno spazio in cui esprimere, quotidianamente, quello che ci accade nella vita, ma anche per dare opinioni su politica, arte, moda e molto altro, pur non essendo degli esperti. Un insieme di “common people” appunto, che ha la possibilità di raccontare qualsiasi cosa gli passi per la mente. Sto parlando dunque degli “user generated contents” 113, di contenuti generati dai consumatori che si mettono alla pari di quelli dei professionisti. A poco a poco, però, da semplice diario, il blog si è trasformato in un vero e proprio strumento d'informazione, affiancando i più tradizionali canali di comunicazione all'interno del nuovo ecosistema comunicativo. Il “potere contrattuale”114 dei lettori è aumentato: non sono più passivi, cioè non si limitano a ricevere le notizie, ma possono replicare in prima persona con feedback e produrre informazioni autonome semplicemente pubblicandole sul blog. Ecco spiegata la nascita del citizen journalism, di un tipo di informazione prodotta dagli utenti che, trasformati in “screttori” – scrittori/autori 115 – partecipano attivamente alla creazione di una notizia. 111 S. Maistrello, 2010, p. 34-35. 112 Come ci spiega Sergio Maistrello, “si parla di CMS (Content Management System) che automatizza e rende elementare l'inserimento, la pubblicazione e l'archiviazione di testi, immagini e inserti multimediali. L'utente compone i suoi contenuti come farebbe su un programma di elaborazione di testi, mentre la procedura di archiviazione e pubblicazione sul Web viene amministrata in modo automatico dal softwer.” (op. cit., p. 36) 113 Il termine User Generated Contents (UGC) venne introdotto per la prima volta nel 2005 proprio per indicare il gran numero di materiale dagli utenti e non da società specifiche. Le caratteristiche degli UGC sono tre. Devono avere certi requisiti per la pubblicazione, essere creati al di fuori di un'attività professionale ed esprimere creatività. 114 C. Sorrentino, 2008. 115 Derrick De Kerckhove, in C. Sorrentino, 2008.
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Come spiega Carlo Sorrentino, “il giornalismo non può piu pensare di sottovalutare questo bisogno di partecipazione di una parte ogni giorno crescente di pubblico mediale, che prescinde dalla possibilità di un qualsiasi controllo da parte dei cosiddetti (ex) <<gatekeeper>>. […] I soggetti che producono informazione professionale perdono il monopolio del controllo sull'informazione stessa; sono costretti ad accogliere le sfide di nuovi soggetti che condividono quello stesso campo giornalistico in cui prima si trovavano a operare in beata solitudine. In altre parole, dal momento in cui diventa per chiunque agevole pubblicare, non esiste piu una esclusività di pubblicazione.”116
I luoghi centrali di questo cambiamento sono appunto i blogs e di conseguenza la Blogosfera117. Il report del 2011 relativo allo stato di quest'ultima, sviluppato dal più grande motore di ricerca blog, riporta che il 68% dei bloggers del mondo sta avendo, nella società, un'influenza maggiore rispetto al passato. Ciò vuol dire che si tende ad ascoltarli di più, o meglio a leggerli, fidandoci di ciò che dicono. Questo risultato ci permette di capire come mai nel mondo della moda, le Fashion Bloggers e i Coolhunters amatoriali, stanno riscuotendo un notevole successo, risultando alla pari delle alte autorità. Tornando al sondaggio, altri due risultati sono da sottolineare. Per prima cosa è stato visto che Wordpress è il servizio di “hosting blog”, ossia servizi on line già pronti all'uso, più popolare tra tutti gli intervistati, utilizzato dal 51%, seguito da piattaforme come Blogger e Blogspot (21% e 14%). In secondo luogo è interessante notare che quasi il 90% dei bloggers posta fotografie 118. Un dato significativo per confermare l'aumento sempre maggiore di blog relativi allo street style. Di conseguenza, possiamo affermare che l'arrivo dei “Fashion e photo bloggers” è stato di grandissimo aiuto per il settore moda. Inizialmente disprezzati ed evitati, sono diventati poi fonti indispensabili per gli stessi stilisti che non solo li usano per farsi pubblicità, ma carpiscono i loro trend attraverso le foto pubblicate in rete, per riproporli sulle passerelle. Non a caso il numero di blog di moda sembra non smettere di aumentare. I primi nacquero in America già nel 2002 e ad oggi se ne contano un'infinità. La nascita continua di questi blog, “risiede probabilmente proprio nella spontaneità e nella libertà che (il blog) lascia all’autore di personalizzare il suo spazio, secondo i propri gusti e le sue ispirazioni, dettando per l’appunto 116 C. Sorrentino, 2008, p. 66-67. 117 “Con Blogosfera si intende l'insieme dei blog, spesso connotati dall'appartenenza geografica o tematica; insieme che trova una certa, spesso solo immaginaria, unitarietà attraverso e grazie un reticolato diffuso di collegamenti ipertestuali e di discussioni interrelate.” ( Ivi, p. 68) 118 http://technorati.com/social-media/article/state-of-the-blogosphere-2011-introduction/
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<<moda>>. Il web 2.0 ha così catalizzato quel processo per cui è il consumatore a determinare tendenze e a decretare il successo dei prodotti e non piu, o per lo meno non solo, gli stilisti e i grandi marchi dell’abbigliamento: si sta affermando una <<moda dal basso>>, che coglie quel che di meglio l’industria offre, mescolando stili, firme e soprattutto abiti e accessori dal diverso range di prezzo.”119
Anche la moda è quindi “user generated”. Grazie ad un click, estrose personalità, amanti dello stile, hanno la possibilità sia di esporre al pubblico, come in una mostra di arte, le migliori opere dello street style sia di esibire, attraverso la pubblicazione di foto dei vari outfit personali, svariati look “mix & match”, diffondendoli per il globo. In particolare quest'ultimi, i Fashion bloggers, partiti dal basso, sono riusciti a poco a poco a scalare la ripida montagna della moda arrivando anche a collaborare con marche famose. Nati come semplici diari di stile, che mostravano quotidianamente non solo i propri look ma commentavano anche le ultime tendenze, alla pari delle più importanti riviste di moda, si sono poi trasformati in macchine per fare soldi, in nuove fonti di informazione autorevoli, riuscendo così ad imporsi sull'intero sistema moda. Dopo essersi guadagnati una posizione di tutto rispetto, hanno gestito il loro nuovo potere anche attraverso la diffusione e l'imposizione di nuovi linguaggi, affiancando al vocabolario, più o meno conosciuto, sull'alta moda, uno dedicato esclusivamente al mondo del blogging. Sto parlando dell'ampia diffusione di un linguaggio sintetico, rapido e informale, fatto di parole comprensibili solo a chi quel mondo lo vive. Talmente imponente è la presenza di questi blog, che gli stilisti hanno infatti iniziato a “usarli” per pubblicizzare le loro collezioni. Il motivo è semplice: hanno un enorme influenza sulle scelte stilistiche dei consumatori. Un esempio eclatante? La “Brayanboy” di Marc Jacobs, borsa nata nel 2008 che porta il nome del più famoso fashion blogger filippino Brayan Boy, la quale ha avuto, non a caso, un enorme successo. In questo senso sono da monito le parole di Blumers. “Uno stile diventa moda non quando un élite lo indossa, ma quando corrisponde al gusto nascente di un pubblico che consuma moda.”120
Perciò, non potendosi tirare indietro alle logiche della società contemporanea, il settore moda ha dovuto inglobarli e accettarli come fonte indispensabile. Di conseguenza, se analizziamo il modo in cui il fashion system diffonde le sue novità, noteremo che la sola passerella e il 119 http://www.tafter.it/2010/07/29/quando-la-moda-e-questione-di-blog…/ 120 Blumers, in R. Sassatelli, 2004, p. 93.
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relativo sito internet non bastano a riprodurre la tridimensionalità dell'abito indossato; oggi è necessario affidare ai “divi” del Web, i bloggers, le tendenze e i propri marchi, per promuoverli121. Insomma questi sono cresciuti, si sono staccati dall'idea di essere solo un copia e incolla di riviste patinate e hanno iniziato a fare di quella passione un vero e proprio lavoro. Ecco spiegato perché li troviamo sempre tra le prime file delle sfilate e nei party più esclusivi del settore – al pari delle celebrites o dei giornalisti famosi. Anche i più importanti “fashion magazine”, tuttavia, hanno dovuto accettare questa nuova realtà. La rivista marie claire del mese di Aprile ha, ad esempio, dedicato un intero inserto – marie claire streestyle – alla generazione on line delle Fashion Bloggers, da Londra fino a San Paolo, Tel Aviv, Mosca e Firenze. Insomma si sta diffondendo una vera e propria mania, tanto che siti come Grazia.it, Style.it, Vogue.it hanno sviluppato un settore dedicato interamente a loro. Nel caso di Vogue.it è la stessa direttrice della rivista Franca Sozzani a gestire personalmente un blog, il blog del direttore, dove esprime pareri personali su svariati argomenti. Ci sono quindi due facce della stessa medaglia. Lo sviluppo del Web ha da una parte contribuito alla nascita dei Fashion bloggers che, da semplici amanti della moda e critici amatoriali, vengono continuamente chiamati a partecipare attivamente e senza scrupoli alla promozione di trend, ottenendo anche una enorme notorietà. Dall'altra invece ha decretato il successo di una figura assai più indispensabile e importante, quella del Coolhunter. Con loro la moda di strada ha fatto un passo avanti. Potremmo addirittura parlare di una “Street Fashion Revolution”. Oggi a decretare e a lanciare idee sono perciò persone comuni che, consapevoli o no, vengono catturate dall'obbiettivo di qualche cacciatore di stile improvvisato o professionista. Sono dei nomadi che girano il mondo per offrire al popolo del Web la loro versione dei fatti. Ed ecco che la rete inizia a popolarsi di foto di una varietà indefinita di soggetti, dall'anziana signora con i capelli tinti di rosa alla ragazza che sorseggia una tazza di tè con tacchi vertiginosi, che solo l'occhio attento degli appassionati, i Coolhunter, sono in grado di mostrarci. 3.2 A caccia di street style armati di reflex. Il CoolHunter. Scott Schuman, alias The Sartorialist, è un nome che non passa inosservato a chi di moda se ne intende. Non molto alto, ma con uno spiccato senso del gusto, lo si può incontrare tra le strade di Parigi, Londra, Firenze, New York: ovunque. Amante della fotografia, sa bene cosa cercare. Chi è? Il primo “Coolhunter” ad aprire un blog personale sullo street style. Nato nel 121 B. Blignaut, L. Ciuni, 2009.
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2005 dalla voglia di catturare i look più innovativi della città di New York, in poco tempo ha raggiunto la fama mondiale, influenzando quasi tutti i blog di coolhunting nel mondo. Ed ora, ciò che per lui è cool, diventa subito moda di massa. Ha un potere enorme sia sulle persone che sugli stilisti perché tutto ciò che tocca, o meglio fotografa, diventa oro. Per questo motivo farsi immortalare da lui è, per molti trend setter, un sogno. Riccardo Vannetti, lifestyler, giornalista di L'Uomo Vogue e di L'Officiel Hommes, nonché toscano doc e conduttore di Cortesie per gli ospiti, che ho avuto il piacere di intervistare, ha descritto così “Mr Schuman”, “È un uomo di un raffinatezza mentale impressionante. Tutto ciò che riesce a scattare con la sua macchina fotografica è qualcosa che lui s'immagina già nella propria mente. La sua, infatti, è una ricerca quasi scontata, perché riesce a trovarsi di fronte quello che inaspettatamente stava cercando. Ciò che nessuno di noi vedrebbe, lui lo immortala e lo sistema all'interno di un mondo moda molto alto e importante. Non a caso, le macrotendenze che vengono presentate in ogni collezione hanno un debito con chi lavora da un punto di vista creativo, attraverso le tendenze in strada.”122
Questo perciò è un lavoro/passione che consiste in una ricerca minuziosa di look di strada più formidabili e significativi, per essere poi pubblicati su internet e trasformati in macrotendenze. Visitando i loro blogs, dunque, si ha quasi l'impressione di intraprendere un vero e proprio viaggio stilistico alla scoperta di differenti usi e costumi. L'origine del termine “coolhunter” va fatta risalire al 1997, quando lo studioso di mutamenti sociali, Malcom Gladwell, pubblicò un articolo, dal titolo The Coolhunt, sulla rivista The New Yorkers, definendo questo mestiere come una semplice perlustrazione di contesti suburbani in cerca di nuovi segnali espressivi. Concetto che, tuttavia, si concretizzò nell'immaginario collettivo solo agli inizi del XXI secolo, in particolare grazie al romanzo pubblicato nel 2003, di William Gibson, L'accademia dei sogni, in cui si racconta la storia di una coolhunter free lance123. Nonostante ciò è un mestiere su cui si è detto poco. Allora non resta che chiederci chi siano e cosa facciano realmente queste figure. Nel mezzo tra un antropologo e uno studioso di marketing, i coolhunters sono individui capaci di catturare ciò che accade nella società, sfruttando un metodo di ricerca che riprende appunto alcune tecniche ispirate all'antropologia e alla sociologia, in particolare alla ricerca etnografica. Attraverso una commercial ethnography124, essi sono in grado di comprendere ed analizzare il livello d'interazione tra 122 Riccardo Vannetti, intervista del 19 Febbraio 2013. 123 M. Pedroni, 2010. 124 La commercial etnography è un tipo specifico di ricerca etnografica applicata al marketing.
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beni di consumo e individui125. In generale, l'etnografia è una branca delle scienze sociali, che attraverso l'osservazione, ma soprattutto l'integrazione del ricercatore, esamina i comportamenti dell'oggetto preso in esame (spesso sono le comunità “tradizionali” e il suo popolo) per comprenderne i riti, i rituali, le norme e i valori. Al contrario i coolhunters usano questo metodo per ricercare e anticipare le tendenze. Sono in grado quindi di scovare per le strade dei paesi più modaioli e giovanili, stili emergenti e tradurli in idee concrete. Una volta fotografate ed analizzate, loro stessi o gli stilisti selezioneranno quelle più adatte ad entrare in un “moodboard”126. Ci troviamo di fronte, quindi, ad un mestiere che richiede grande attenzione per i dettagli, passione e voglia di mettersi in gioco, perché la fase di ricerca è lo scheletro portante di qualsiasi progetto. E per svolgerla al meglio, il coolhunter “frequenta gli eventi piu diversi e piu lontani concettualmente tra loro, sperimenta shifting settoriali, conosce a menadito il mondo del web, del blogging tradizionale e soprattutto dei fenomeni di microblogging in cui regnano le immagini, come instagram, pinterest, ma anche flickr, tumblr ecc. Organizza minuziosamente il materiale che raccoglie, lo analizza, lo passa al setaccio, ne da chiavi di lettura. Prepara dossier e reportage specifici, analizza target, mercati, perception e positioning dei brand, si confronta con i settori creativi, marketing e design delle aziende.”127
Sicuramente una parte di queste competenze si acquisiscono con una formazione multidisciplinare che spesso deriva da studi di design, marketing, oppure da un apprendistato in aziende del settore. Lo stesso Scott Schuman ha alle spalle una laurea in merchandising dell’abbigliamento e collaborazioni con brand famosi, tra cui Jean Paul Gaultier. Tuttavia per comprendere meglio questo mestiere, c'è una ricerca sociologica effettuata – tra il 2000 e il 2009 – da Marco Pedroni su un campione di 43 professionisti, non tutti appartenenti al “fashion system”, che dimostra come il coolhunting non sia una professione, bensì un'attività professionale, un “mestiere multidimensionale”. “Gli agenti coinvolti a vario titolo nel coolhunting, collocati in una posizione cruciale tra i campi di produzione culturale e il campo del consumo, rappresentano una categoria emergente di intermediari culturali, i quali convertono forme di capitale culturale non scolastico (come quello trasmesso dalla 125 http://www.linkiesta.it/blogs/questioni-di-metodo/come-l-osservazione-cambia-la-ricerca-di-mercato. 126 Il moodboard è semplicemente un insieme di immagini di qualsiasi tipo e origine che permette a designer o stilisti di definire i punti chiave di un progetto (cosa voglio rappresentare; a cosa mi sono ispirato) in questo caso la sfilata di moda. 127 http://www.abitudinicreative.it/2013/01/professione-cool-hunter.html
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famiglia nella forma del buon gusto e delle maniere) e scolastico (titoli di studio nel campo del design, della moda, dell'architettura, delle scienze sociali ecc., che hanno a che fare con la capacità dell'osservare) dando vita a una nuova attività professionale […], che consiste nell'intercettare la distinzione, vale a dire osservare le pratiche esperienziali dei consumatori e i loro immaginari per coglierne gli aspetti distintivi e innovativi.”128
Un'attività che osserva il consumatore e che ad oggi si è istituzionalizzata nella società, tanto che numerose accademie della moda hanno deciso di inserire nei loro piani formativi corsi specifici di “Coolhunting”, così da creare dei veri e propri esperti. Di conseguenza, sembrerebbe che, senza un minimo di esperienza nel mondo della moda o di adeguati studi, questa sia una professione inavvicinabile, perché non si può improvvisare. Ma il Web 2.0 ci ha dimostrato che non ci sono limiti, che non ci sono barriere nella creatività. Oggi questa pratica è di dominio pubblico ed ha appassionato migliaia e migliaia di giovani utenti, e non solo, dando vita a numerosi free lance. “La moltiplicazione di blog, siti internet e newsletter dedicati al tema delle tendenze ha sottratto il monopolio del coolhunting ai professionisti del marketing e ai consulenti, affiancando agli <<insider>> dei mondi del consumo un numero consistente di <<outsider>>.”129
Basta essere intuitivi, curiosi e capire i segnali che arrivano dalla società. Sono degli appassionati di moda, ovviamente, alcuni di loro ci lavorano, ma molti hanno frequentato solo la scuola di Mr. Schuman, diplomandosi a pieni voti. Il tutto unito ad uno sfrenato amore per i viaggi e ad un corretto uso di macchine fotografiche. Sì, perché la fotografia è la parte centrale dell'attività di osservazione, è il “mattone che sorregge l'edificio del coolhuntig” per dirla come Pedroni, e può essere scattata ad oggetti e persone. Nel caso di quest'ultime il coolhunter sceglierà se fare uno scatto “frontale”, chiedendo l'autorizzazione ai soggetti, oppure “rubato”130. Ovviamente, è un mestiere che non si limita ad una ricerca iconografica, le immagini sono importanti, ma non rappresentano la parte per il tutto. Ad essa si deve unire la propria interpretazione dei fatti. Insomma una realtà amatoriale che sta prendendo sempre più campo e che non si rivolge solo alle tendenze stilistiche interne al sistema moda, “ma verso l'intero spettro dei trend di consumo che nell'abbigliamento hanno una manifestazione paradigmatica ma non esclusiva. […] L'eresia di un coolhunter si pone in ambizioso dialogo con gli 128 M. Pedroni, 2010, p.12- 13. 129 Ivi, p.89 130 M. Pedroni, 2010.
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immaginari sociali, nello sforzo di leggere i nuovi lifestyler dei consumatori.”131
Ci troviamo di fronte ad un movimento quindi che, a poco a poco, si è esteso nella società, individuando e garantendo al pubblico sempre nuovi stimoli creativi. Ma l'aumento esplosivo di questi ricercatori ha fatto si che l'appariscente spettacolo della moda si spostasse da dentro le passerelle, a fuori. Un risvolto negativo che di conseguenza ha materializzato una giungla infinita di stili e look, in cui si può assistere a vere e proprie lotte per la notorietà, o meglio per la sopravvivenza. Ecco che le Fashion weeks odierne possono essere definite come dei provini o meglio, come, “dure sessioni di lavoro, per audizioni a cielo aperto di un celebrity show trasmesso in mondovisione sulla rete.”132
La competizione è altissima. Si fa di tutto per diventare famosi e apparire su uno dei più svariati blog di coolhunting. Obbiettivi sparsi ovunque cercano di catturare le loro prede, come ai tempi della Dolce Vita di Fellini con i suoi paparazzi. Ma in questi contesti, chi si mette davanti alla macchina fotografica non sono più dei soggetti, ma dei veri e propri oggetti133. E tra questi c'è un gran numero di Fashion bloggers che si agghindano, mettendo in mostra look strutturati, sfornati spesso da brand famosi, al solo scopo di pavoneggiare. “Ah, la fama! O, piu precisamente nel mondo della moda, il celebre circo di persone che sono famose per essere famose. La loro notorietà deriva dalle pagine Facebook, dai blog e dal fatto che il fotografo Scott Schuman li ha immortalati sul suo sito web <<The Sartorialist>>. Questo fotografo di <<gente vera>> ha dato vita a legioni di imitatori, proprio come è accaduto agli editori che si vestono per l'attenzione e ora sono stati sostituiti da schiere di bloggers che si vestono per l'attenzione. […] Ma due cose hanno contribuito a trasformare le sfilate di moda in uno zoo: il mercato del bestiame di persone fuori dagli show che attendono di essere scelte o rifiutate dai fotografi, e il modo in cui i brands, nel tentativo di recuperare il controllo multimediale, hanno sfruttato quest'ultimi.”134
Questo “circo” di belve modaiole è, perciò, la chiara espressione di come la cultura dell'apparenza si sia ormai radicata nella nostra società. Lo street style si è evoluto, ed ecco, 131 Ivi, p. 19. 132 A. Flaccavento, On stage uomini di assoluta normalità, in il Sole24ORE, 18 Gennaio 2013. 133 S. Menkes, The Circus of Fashion, in The New York Times, 10 Febbraio 2013. 134 Ibidem.
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che ci troviamo di fronte due realtà: da una parte quello carnevalesco delle sfilate, in cui spiccano le già citate Fashion bloggers, e dall'altra quello che mantiene intatta l'originalità e l'individualità delle persone. Perciò a fare la differenza è la qualità degli individui: chi ha una passione, un'identità e la mostra con stili appropriati, e chi, invece, usando il proprio corpo come un manifesto pubblicitario di copia e incolla, vuole ottenere, dall'esposizione mediatica, solo notorietà. Per questo motivo, il concetto di coolness, proprietà che il coolhunter va cercando, secondo Pedroni non si identifica con l'essere alla moda, trendy, giusti, ma con certi atteggiamenti che si riflettono nei comportamenti di consumo, utili per dimostrare la capacità di sentirsi adeguato all'occasione del momento. Il temine “tendenza” infatti non è in grado di esaurire a pieno questa proprietà; per essere “cool” bisogna essere autentici; autoespressivi; ricercare la novità; avere l'empowerment (il desiderio di esprimere le proprie capacità e tirare fuori se stessi) ed essere adeguati al contesto 135. Come afferma anche Riccardo Vannetti, “La tendenza di oggi è piu quella di volere esagerare che ricercare uno stile proprio. Si ricerca, soprattutto in strada e in certi ambienti, la voglia di emergere non con stile, ma in maniera un po' urlata. Durante le fashion week ci troviamo di fronte persone che spesso, piu che abbigliati, sono conciati e a me tutto questo non piace. Va apprezzato invece chi riesce ad individuare, nel proprio abbigliamento, tendenze consone a quello che è il personaggio, l'occasione, il momento del giorno e a quella che è la fisicità della persona stessa. Trovo che una giusta misura a volte sia piu apprezzata rispetto a qualcosa che per forza si deve notare. Io voglio notare qualcosa che sia normale ma estremamente raffinato.”136
Per questo motivo si apprezzano stili semplici e personali, nonché blogger che, come Scott Schuman e molti altri, tra cui The Face Hunter137, riescono a superare quella patina dell'apparenza per catturare la vera identità di una persona, quell'essere coolness, appunto. È un mestiere che non si fa per rendere famosi trendsetter o bloggers, ma per captare i rumori della società e le innovazioni. In alcuni casi questa capacità risulta essere un talento innato; per riconoscere la coolness anche gli stessi ricercatori devono averla e, una volta formata, difficilmente si perde. Insomma ci troviamo di fronte ad una vera e propria mania per lo street style, tanto che in occasione della Fashion Week Milanese del 2013 il Naples Street Style Magazine138 ha deciso di creare i Fashion Week Street Style Award, per premiare il “Best 135 M. Pedroni, 2010. 136 Riccardo Vannetti, intervista del 19 Febbraio 2013. 137 The Face Hunter, fondato nel 2006 dal coolhunter Yvan Rodic, è tra i blog di street style più seguito, subito dopo quello di Scott Schuman. 138 http://www.nssmag.com : “portale di moda e cool hunting che si è affermato a livello internazionale attraverso reportage unici e servizi inediti facendo delle foto di street style, intese come ricerca stilistica ed
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Female”, “Best Male”, “Best Photographer” e “Best Details”. Due volte l'anno i migliori look delle fashion week internazionali verrano premiati da una giuria popolare. Sono, infatti, i lettori, attraverso i social network, a decidere il vincitore. A trionfare in questa prima edizione, nella categoria “miglior fotografo”, è stato Alessandro Coletti, di thestreetfashion5XPRO, seguito subito dopo da Adam Katz Sinding, coolhunter del blog Le-21ème, e da Mattia Arioli, de la Mouda. Il talento non mente, professionisti o meno, sanno sicuramente il fatto loro e sono in grado di catturare piccoli dettagli di tendenza da persone di ogni genere, non necessariamente appartenenti a quello strano circo. In mezzo a questa talentuosa classifica c'è però un altro personaggio, riconoscibile per la sua inconfondibile barba brizzolata, posizionatosi al settimo posto. È il pistoiese Massimiliano Meoni, aka Meoutifit, e il suo blog è la chiara espressione di cosa significhi fare coolhunting – amatoriale – al giorno d'oggi. 3.3. Un tuffo nel Virtual Coolhunting. L'esperienza di MEOUTFIT. Il Web è quindi uno spazio attivo che dà la possibilità di rendere famosi, i non famosi, professionisti dei non professionisti. È una finestra aperta sul mondo e per quanto riguarda la ricerca di tendenze-moda ha provocato la nascita di quello che Marco Pedroni chiama un virtual coolhunting139. Ma andiamo per gradi. Se in passato le mode sono sempre state imposte dall'aristocrazia, basandosi esclusivamente sulle scelte dei sarti, a partire dagli anni Sessanta, le richieste da parte dei consumatori aumentarono sempre di più e così si sentì l'esigenza di creare un apparato che potesse prevedere le tendenze di consumo. Ecco che nacque il “fashion forecasting”: prima attività professionale di ricerca interna al sistema moda. Ovviamente il tempo è passato e la società stessa si è evoluta, di conseguenza anche questa attività che, come visto, ha preso il nome di coolhunting. E oggi agisce anche al di fuori del sistema moda; si occupa di catturare stili di vita, usi e costumi di società differenti, non limitate esclusivamente all'abbigliamento. Anche se molti stilisti continuano ad effettuare da soli queste ricerche, alla pari di Coco Chanel, viaggiando e rilevando segnali dal mondo che li circonda, si stanno creando sempre più numerose agenzie di ricerca e fiere utili a leggere e captare le tendenze future. Perciò se ci si affida a dei professionisti, la ricerca può essere fatta sia all'interno delle aziende, dove ci sono specifici settori dedicati alla ricerca di tendenze, sia mediante agenzie di consulenza, che effettuano la ricerca sulla base delle richieste aziendali. Per questo è un “mestiere multidimensionale”, perché sotto il concetto di coolhunting si riunisce una più vasta varietà di professionisti che va dai Fad hunter, Trend analisi di tendenza, il suo indiscutibile marchio di fabbrica sul web.” 139M. Pedroni, 2010.
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hunter, Trendbook hunter, Fashion consultant, Cult search e ancora molti altri, che esprimono le diverse modalità di ricerca professionale140. Ma quello che sta accadendo oggi è che, con l'esplosione di siti e blog, i coolhunters qualificati vengono sostituiti da una schiera di cacciatori amatoriali. Sono dei “photobloggers” che, grazie alle numerose immagini – rigorosamente gratuite – condivise sui blog, contribuiscono a dare informazioni e spunti agli stilisti. Ma cosa significa essere un coolhunter amatoriale? Per capire meglio questa realtà fatta di foto, contatti, amore per lo stile e la coolness, ci aiuta un personaggio molto bizzarro: Massimiliano Meoni, blogger italiano di street style. Il suo blog Meoutfit, nato nel 2007, è figlio di un primo blog, Meolandia, “egocentrico diario online ancora attivo, dove di tanto in tanto propongo outfit miei e di altri trovati in giro. La cosa inizia a prendermi la mano e ad un certo punto, nel 2007, si è reso necessario aprire un blog dedicato.”
Fu dopo aver letto riviste inglesi, quali The Face e ID, tra le prime negli anni Ottanta a catturare lo street style, che iniziò a fotografare e documentare stili di strada. Ma, come tutti i suoi colleghi, l'ispirazione di aprire un blog specifico arriva dall'America, “Vedendo i primi street style blogs, tra cui The Sartorialist e The Face Hunter, ho pensato che anche la mia visione poteva essere data in pasto al Web. In seguito stando in questa particolare nicchia di invasati per la moda ho trovato il mio spazio.”
Massimiliano Meoni, perciò, è uno dei tanti bloggers della generazione del fai-da-te, del consumatore creativo che grazie al Web è riuscito a coltivare una passione: quella di cogliere immagini di “simpatici personaggi”. Non è un professionista del settore, o meglio, fa un lavoro che parla di moda ma che non riguarda il direttamente coolhunting. Dopo essersi laureato, nel 2008, in Disegno Industriale presso la Facoltà di Architettura a Firenze, in seguito ad una lunga formazione scolastica e numerosi lavori – Dj, camonista, commesso, organizzatore di eventi – inizia a fare il vetrinista per la nota azienda del settore Fast Fashion, Zara. Un caso forse? Credo di no. Abbiamo già definito che con l'arrivo dell'era digitale tutta la società ha sviluppato ritmi sempre più veloci. E il virtual coolhunting permette di avere le ultime novità a portata di un click senza perdite di tempo. Zara è tra le tante aziende di moda fast che sfrutta questi ritmi, garantendo oggetti e abiti sempre nuovi, di settimana in settimana. 140 Ibidem.
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Ecco spiegato come cacciare stili stravaganti è stata per il blogger “una fonte di ispirazione continua per il mio vero lavoro (il vetrinista). E anche un modo faticoso, ma divertente di accrescere le conoscenze, le relazione e la cultura.”
Non è un lavoro, ma una passione, appunto, o “droga” come la definisce lui stesso. Insomma il Web 2.0 ha permesso ad un ormai quarantenne, della provincia di Pistoia che amava la moda di strada, il workwear, di ritagliarsi uno spazio in un mondo che, altrimenti, non gli avrebbe mai permesso di farne parte. Ha avuto la possibilità di fare foto, pur non essendo un fotografo, di scrivere e dare opinioni sul mondo circostante pur non essendo un giornalista. Non ci vuole una specializzazione per fare tutto ciò. Non ci vogliono licenze, ne autorizzazioni specifiche. Basta un pc e la connessione ad internet. Al resto ci pensano i cosiddetti “followers”, che sono alla base del successo di tutti i più famosi bloggers. Ognuno infatti è filtro di ciò che consulta. Siamo immersi in una rete che collega tra loro aziende, persone, oggetti sparsi per il mondo. E al suo interno possiamo condividere tutto ciò che ci interessa, facendo circolare la conoscenza ad una velocità incredibile. Dagli amici, agli amici degli amici, dai colleghi, ai datori di lavoro e verso individui a noi sconosciuti. È attraverso questo meccanismo che un free lance accresce la sua notorietà, arrivando ad instaurare rapporti anche con i professionisti, che spesso si affidano a quest'esercito di coolhunters amatoriali per trovare l'ispirazione giusta. Ma cosa distingue un blog di street style da un fashion blog? Entrambi sono figli del Web, ma la differenza c'è ed è molto chiara a chi vive la rete. Per il “photoblogger” Meoni “I Fashion Bloggers sono soltanto una massa enorme di persone, piu o meno famose che con l'avvento del Web 2.0 si sono messi su un mercato fino a poco tempo prima chiuso ai non addetti ai lavori, arrivando a contare di piu delle riviste ufficiali. Gli stilisti e le grandi firme si affidano a loro per le loro collezioni. Il mio lavoro, invece, si distingue semplicemente nel fatto che non mi baso solo sul Fashion, ma su la gente della strada, dal barbone al fotografo, dallo stilista al meccanico di biciclette, pubblico quello che ritengo interessante senza regole tranne le mie”.
Meoutfit ha infatti come scopo principale la pubblicazione di immagini di personaggi di strada, interessanti e stilosi, ma soprattutto “meonisti”. L'attività di photoblogging è completamente opposta a chi, invece, gestisce dei Fashion blogs.
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E per catturare l'attenzione di Massimiliano Meoni, i soggetti “devono essere interessanti (dal suo punto di vista), devono essere stilosi (dal suo punto di vista) e Meonisti, un requisito che loro hanno, ma non sanno di avere, perché dipende dal mio punto di vista. Meoutfit risponde solo al mio modo di vedere, senza nessuna influenza esterna. Io sono una specie di documentarista, che per una serie di cose ha scelto di documentare gli esseri umani, focalizzandomi su quelli che attraverso il loro vestiario mi comunicano qualcosa. I motivi per cui una persona si veste in un determinato modo o in un altro son infiniti, alcuni lo fanno per appartenenza ad una cerchia, altri per dissociarsi da un certo stato sociale, altri ancora perché non hanno altro da mettersi e così via. Io mi limito a carpire e immortalare il messaggio che colgo in quel momento, in quel contesto.”
Insomma, ci troviamo di fronte ad una visione personale che si ha, grazie alla coolnees, sullo stile e sui costumi di una società e che permette ad ognuno di questi coolhunters di cogliere cosa sarà di tendenza, individuando chi/che cosa può essere immortalato sulla propria macchina fotografica. Dunque, i coolhunters sono cacciatori di consumatori sia “creativi”, ossia di quegli individui che creano trend partendo da prodotti già presenti nella società mixandoli e reinventandoli, sia “proattivi”, che invece riescono ad anticipare quali saranno i bisogni futuri, in questo caso del mondo della moda 141. Di conseguenza, cambiando le tecnologie e il modo di fare moda, è cambiato anche lo street style. Ci troviamo di fronte ad una Moda 2.0. Per il blogger Meoni, come per tutti gli altri, “Lo Street Style è semplicemente un enorme contenitore piu realistico della moda da passerella o da riviste patinate, che permette a chi sa osservare di trovare quello che cerca: nel mio caso outfit da proporre al popolo del Web. Io penso che il coolhunter sia utile, non necessario. Tutto influenza la moda, e la moda influenza tutto”
3.4 Come il Web ha cambiato la moda. Detto tutto ciò, non ci resta che tirare le somme di questo lungo percorso che, dallo studio dei primi street styles, ci ha portati all'analisi di un fenomeno emergente, contemporaneo, quello del coolhunting fai-da-te. Al centro di questa trattazione c'è quindi la moda di strada che ha sempre suscitato interesse, non solo per gli stilisti. Siamo partiti descrivendo le sottoculture spettacolari, che nate negli anni Cinquanta del Novecento, si sono evolute sino agli anni Settanta, con l'ultima sottocultura Punk. Grazie a questo excursus abbiamo compreso che lo 141 http://studiotrevisani.wordpress.com/2009/09/04/
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stile di tali raggruppamenti serviva esclusivamente ad esprimere la ribellione nei confronti della società, la diversità, urlando a tutti, attraverso gli abiti, la propria identità. Uno stile giovane, quindi, ma agguerrito e significativo. E bastava entrare in uno dei tanti club underground di Londra o frequentare l'Ace Cafè dei Rocker per capire l'entità di quelle sottoculture. Tuttavia, anche se per decenni la moda è stata imposta dall'alto, con la nascita di questi gruppi, e di conseguenza con i primi cambiamenti sociali e la caduta della divisione tra classi, quel modello – l'ormai noto Trickle down – iniziò a vacillare e al suo posto si sviluppò il processo del Bubble up, secondo cui i veri innovatori sarebbero coloro che vivono la strada, gente comune, i giovani142. La strada quindi ha avuto e sta avendo una grande importanza per la moda, ma non è l'unico elemento di influenza. L'alta moda continua ad essere presente nelle scelte del pubblico. Per questo motivo le innovazioni si muovono in una direzione biunivoca, dall'alto vero il basso e viceversa. Entrambi i modelli convivono ancora nel mondo del fashion: l'affermarsi di uno non esclude sistematicamente l'altro. Ciononostante il consumatore è una figura fondamentale da controllare perché decreta il successo di un abito o di un trend, oltre ad essere tra le prime fonti di ispirazione per gli stilisti. Secondo il sociologo americano Blumer, “la moda è un processo di selezione collettiva che, nella vasta proposta di capi, presentata ogni stagione, decreta il successo di alcuni e non di altri.”143
Detto questo non resta che definire il grado di influenza che la società ha sulla moda. Già nel 1930 era stato ipotizzato che la nascita di una moda giovane avrebbe simboleggiato questa relazione: quando la società cambiava anche la moda si evolveva e si modificava144. Ipotesi, dunque, che risultò veritiera. Ed ecco che, prima con le sottoculture spettacolari poi con l'arrivo della globalizzazione, l'intero sistema moda è cambiato. La società si è estesa, diventando “densa”145 e globale. Così anche la moda ha iniziato a diffondere modelli standard, uguali per tutto il mondo. L'arrivo di internet ha poi sviluppato una società mediatizzata in cui i ritmi individuali si sono velocizzati. Per questo dalla moda “aristocratica” siamo passati alla moda Fast, o meglio al Fast Fashion, passando da quella low cost. Si sono create mode sempre più veloci; non esiste più quel gap temporale tra la produzione e il consumo, che 142 Come analizzato nel primo capitolo questo processo ha provocato la perdita dei significati intrinsechi allo stile sottoculturale, privandoli della loro originalità e trasformandoli in semplici oggetti di consumo. 143 Hebert Blumer, in M. Pedroni, 2010, p. 63 144 M. Pedroni, 2010. 145 Il termine “società densa” è stato coniato da Carlo Sorrentino, professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze.
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durava circa una semestre. Tutto si concretizza in pochissimo tempo. Non appena nasce una tendenza, si deve immediatamente renderla pubblica, inserendola nel sistema e rendendola globale e tutto ciò avviene in un lasso di tempo limitato; questi gruppi creano collezioni che durano, si e no, due o tre settimane. Risultato: ci troviamo di fronte ad una società e ad una moda che, con i suoi individui, è sempre in cerca di innovazione. Sembra quasi “un cane che si morde la coda”: non appena nasce una tendenza se ne deve ricercare subito un'altra per competere con le richieste dei consumatori. Questo meccanismo si concretizza e diventa più efficace con l'arrivo dei primi blog di coolhunting e street style, creati da professionisti o da appassionati di fotografia e stile. Ma perché questi blogs per la “caccia organizzata agli stili di strada”146 stanno avendo un così grande successo? Per prima cosa, l'esplosione di questi blogs deriva dalla possibilità che la rete offre di svolgere attività professionali pur non essendo dei professionisti. Nella società della carta stampata gli esperti e gli specialisti erano molto importanti a causa della complessità dei dati e dall'audience parcellizzata. “In una società elettronica (invece) i messaggi provenienti da tutti i campi del sapere sono piu accessibili a tutti allo stesso modo. Benché questi messaggi, sopratutto se vengono presentati alla radio o alla televisione, spesso si limitino a mettere al corrente anziché a far capire, il nuovo modello comunicativo compromette lo status delle autorità, le cui capacità dipendono esclusivamente dalle reti comunicative isolate. Le conoscenze di esperti e specialisti continuano ad essere superiori rispetto all'individuo medio, ma la nuova arena condivisa creata dai media elettronici ha influito sul nostro modo di valutare il sapere specialistico. […] Con il computer, si può rintracciare qualunque citazione di un argomento. Questa enorme quantità di dati disponibile può creare una nuova specializzazione: la capacità di individuare modelli e interrelazioni tra vari dati, a prescindere dal campo di provenienza.147
Ed ecco che le nuove fonti di fiducia e informazione risultano essere proprio i bloggers. Nel caso dei coolhunter tuttavia non rappresentano l'unico motore creativo e informativo del sistema moda. Lo stilista è indispensabile e mantiene sempre una sua autorità, ma l'uso e la consultazione di blog di coolhunting è un modo utile e veloce per ricevere le ultime tendenze in tempo reale. Per questo motivo, il trionfo di blog come The Sartorialist, Meoutfit e molti altri sia a livello locale sia internazionale, sta, in secondo luogo, proprio nell'aver capito che i ritmi della moda sono molto più veloci e mutevoli di un tempo. La rete, che lo è ancora di più, 146 Significato della parola coolhunting, usato da Gladwell, nel 1997, in sostituzione al concetto di fashion forecasting – vedi terzo paragrafo. 147 J. Meyrowitz, 1995, p. 540-541.
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permette una continua ricerca di novità e un'esposizione diretta di queste, perché garantisce la possibilità di avere foto di nuovi trend in tempo reale. Questi blog risultano essere quindi fattori indispensabili per tutti gli addetti del settore moda, e non solo, in quanto attivano un'accelerazione nei cicli di produzione, essendo sempre on line sulla creatività dei consumatori. La loro popolarità è quindi la chiara espressione di una Moda 2.0, in cui le foto delle ultime collezioni passano prima attraverso i social network e poi nei negozi e sulle riviste, dove le sfilate possono essere viste in diretta streaming e le foto delle passerelle essere già in circolo ancor prima che inizi lo show. Si può avere una visione globale di quali sono le abitudini e gli stili di un paese e quali quelle di un altro, semplicemente con un click. Tuttavia sono immagini che hanno vita breve; si aggiornano costantemente e tra una foto e l'altra può passare al massimo un giorno. Ma come in una catena di montaggio, ecco che le tendenze prendono forma costruite pezzo dopo pezzo – o meglio, foto dopo foto. In conclusione lo street style odierno si compone sia di consumatori creativi che, mescolando e sovrapponendo abiti vintage a low cost, di marca ad usati, selezionati nel supermercato di idee stilistiche proposto in rete, creano stili unici e personali; sia da altri che, attraverso look eccentrici e carnevaleschi vogliono solo apparire. Nonostante alcune eccezioni, lo street style è però un grande contenitore di idee e novità – anche se con accenni a look passati – per la moda odierna. La società è così mutevole e veloce che ha bisogno di capire ciò che piacerà. Per usare le parole di Riccardo Vannetti, “La strada è come un pozzo dei desideri da cui escono macrotendenze che investiranno poi il mondo intero.”
Per questo grazie al Web e in particolare ai blog di coolhunting si può sempre essere sulla cresta dell'onda e cogliere così ogni minimo movimento e cambiamento stilistico nella società.
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