VOLUNTARY DISCLOSURE Il parere dei professionisti

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VOLUNTARY DISCLOSURE Il parere dei professionisti

Tra società e trust in Stati esteri

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a nuova procedura fiscale della voluntary disclosure, introdotta nell’ordinamento tributario italiano dalla legge 186 del 2014, consiste in un’autodenuncia mediante la quale il contribuente, fino al 30 settembre 2015, può spontaneamente regolarizzare le violazioni tributarie commesse fino al 30 settembre 2014 (con riferimento all’anno d’imposta 2013) e in tutti i periodi d’imposta ancora passibili di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria, beneficiando di sconti sulle sanzioni amministrative pecuniarie e della non punibilità dei principali reati tributari ed in materia di riciclaggio. Nello specifico, la legge delinea due tipologie di procedure di voluntary disclosure: 1) la “voluntary disclosure internazionale”, mediante la quale i contribuenti che hanno costituito o detenuto, anche indirettamente o per interposta persona, capitali all’estero violando gli obblighi di monitoraggio fiscale, potranno sanare tale violazione, unitamente alle eventuali violazioni dichiarative ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, delle imposte sostitutive, dell’Irap e dell’Iva, non-

ché le violazioni relative alla dichiarazione dei sostituti d’imposta, anche non connesse con le attività detenute o costituite all’estero; 2) la “voluntary disclosure nazionale”, con la quale, con riferimento alle sole attività nazionali, potranno essere sanate le eventuali violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposte sui redditi e relative addizionali, di imposte sostitutive, di Irap e di Iva, nonché le violazioni relative alla dichiarazione dei sostituti d’imposta. Nella pratica è frequente trovarsi di fronte a fattispecie in cui una persona fisica fiscalmente residente in Italia abbia detenuto capitali all’estero per il tramite di strutture societarie e/o trust (sovente utilizzati come “schermi”) localizzate in stati a fiscalità privilegiata o che non permettono un adeguato scambio di informazioni con l’amministrazione finanziaria italiana. Il nostro ordinamento tributario riconosce numerose disposizioni, sia di natura sostanziale che sanzionatoria, che mirano a impedire e contrastare l’utilizzo di tali strutture nel caso in cui queste ultime siano utilizzate per ostacolare la riconducibilità delle attività patrimoniali, siano esse estere o nazionali, al loro effettivo titolare al fine di sottrarre a tassazione i redditi suscettibili di essere tassati i Italia. L’emersione e la regolarizzazione del-

le attività detenute all’estero mediante la voluntary disclosure deve, pertanto, essere attentamente valutata alla luce delle diverse disposizioni che il Legislatore fiscale ha previsto in tali fattispecie al fine di scongiurare l’ipotesi che la procedura di collaborazione volontaria non abbia efficacia o che non produca gli effetti sperati dal contribuente che decida di adottarla. Lo scopo di questo articolo è quindi illustrare sinteticamente le principali implicazioni derivanti dall’utilizzo dell’istituto della voluntary disclosure nei casi di attività detenute all’estero mediante le suddette strutture e le modalità con cui tali particolari fattispecie possono essere regolarizzate. Saranno analizzate le ipotesi di detenzione all’estero di attività mediante società estere e trust esteri. Si evidenza che alla data della stesura di questo articolo (4 marzo 2015) tutti gli operatori del settore sono in attesa che l’amministrazione finanziaria emetta un circolare che chiarisca i numerosi aspetti critici riguardanti l’applicazione della voluntary disclosure che sono emersi sin dalla entrata in vigore delle norme con le quali è stata introdotta. E’ possibile che alcune delle riflessioni riportate debbano essere riviste alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate nell’emanando documento di prassi. Detenzione di asset all’estero per il


22 Tax & Legal tramite di società localizzate in Stati esteri Le persone fisiche fiscalmente residenti in Italia che abbiano detenuto investimenti all’estero o attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, avrebbero dovuto indicarli nell’apposito quadro RW della dichiarazione dei redditi (Modello Unico). Tale obbligo, originariamente previsto soltanto per i possessori “formali” (solitamente i detentori del bene a titolo di proprietà o di altro diritto reale) dei beni esteri, a partire dall’anno d’imposta 2013, è stato esteso anche ai soggetti che ne risultino i “titolari effettivi” ai sensi delle disposizioni in materia di antiriciclaggio. Non solo, sempre a partire dall’anno d’imposta 2013, i “titolari effettivi” di quote di partecipazione in società residenti in Stati diversi da quelli che consentono un adeguato scambio di informazioni (c.d. “Paesi non collaborativi”) saranno tenuti ad adempiere all’obbligo di compilazione del quadro RW secondo il c.d. approccio look through, ossia indicando, in luogo del valore delle partecipazione, il valore degli asset detenuti all’estero dalla società non residente, nonché la percentuale di partecipazione posseduta nella società stessa. Pertanto, in linea generale, una persona fisica fiscalmente residente in Italia che abbia detenuto all’estero investimenti o attività finanziarie per il tramite di una società residente in uno Stato estero, in violazione delle norme sul monitoraggio fiscale, e che ora intenda regolarizzare tali asset mediante l’utilizzo della voluntary disclosure, dovrà, per ciascun anno d’imposta ancora accertabile, indicare il valore della partecipazione nella società non residente (o, con esclusivo riferimento all’anno 2013, degli asset detenuti dalla società se questa è residente in un Paese non collaborativo), ricoInvice Investment & Advice \ Marzo 015

struire tutti gli eventuali redditi da questa derivanti (dividendi o capital gain) e versare le corrispondenti imposte evase unitamente agli interessi e alle correlate sanzioni, ivi comprese quelle previste per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale. Sia le sanzioni in materia di imposte che quelle per le violazioni in tema di monitoraggio fiscale subiranno delle significative riduzioni per effetto dell’adesione alla procedura di collaborazione volontaria. Ciò premesso, l’adozione della voluntary disclosure finalizzata all’emersione e alla regolarizzazione degli asset detenuti mediante società residenti all’estero non può prescindere da un’attenta valutazione delle seguenti tematiche: la residenza fiscale dell’organismo societario, unitamente alla configurabilità di eventuali ipotesi di esterovestizione; l’interposizione fittizia; l’applicazione della disciplina dettata in tema di Controlled Foreign Companies (Cfc). La residenza fiscale della società e l’esterovestizione Come illustrato precedentemente, una persona fisica fiscalmente residente in Italia che detenga (o che abbia detenuto) una partecipazione in una società estera, omettendo di indicare il valore di tale partecipazione nell’apposito quadro RW del modello Unico e di dichiarare gli eventuali redditi che ne fossero scaturiti, potrà regolarizzare la propria posizione nei confronti del Fisco mediante la voluntary disclosure internazionale. In tale ipotesi, tuttavia, occorrerà porre molta attenzione riguardo alla verifica della residenza fiscale della società estera, alla luce delle specifiche disposizioni tributarie previste a riguardo. Il rischio, infatti, è quello che il socio, in occasione della voluntary disclosure, si veda riqualificare dall’Amministrazione finanziaria la Giorgio Iacobone CBA Studio Legale e Tributario

residenza della società estera ritenendo che la stessa debba essere considerata fiscalmente residente in Italia. A tale riguardo si evidenzia che, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del Tuir, si considerano fiscalmente residenti in Italia le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione (place of effective management o sede di direzione effettiva) o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Inoltre, al fine di ostacolare le condotte elusive di esterovestizione, il successivo comma 5-bis del predetto art. 73, presume, salvo prova contraria, che la sede di direzione effettiva (dove in concreto vengono prese le decisioni) della società estera sia esistente nel territorio dello Stato se la medesima controlla una un società o un ente commerciale residente in Italia e, in alternativa: è controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia; è amministrata da un consiglio di amministrazione o altro organo di gestione composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia. Al verificarsi di tali condizioni, sarà pertanto necessario attivare la procedura di voluntary disclosure nazionale per la società considerata fittiziamente residente all’estero, al fine di regolarizzare tutti gli adempimenti dichiarativi (ai fini Ires, Irap, Iva, ritenute, ecc.), omessi negli anni di imposta ancora passibili di accertamento, mediante il versamento di tutte le imposte evase e relativi interessi e delle correlate sanzioni ridotte per effetto della collaborazione volontaria. L’interposizione fittizia L’ulteriore tema che dovrà essere considerato dal socio che detiene gli asset all’estero mediante una società non residente è quello di verificare se tale società sia considerata fittiziamente interposta o meno, ovvero se la stessa possa essere considerata un mero schermo societario avente quale unico scopo l’intestazione formale del patrimonio detenuto all’estero. A tale riguardo è utile richiamare l’interpretazione fornita dall’amministrazione finanziaria in più occasioni (con riguardo ai vari scudi fiscali susseguitisi negli anni) secondo la quale, a titolo esemplificativo, deve considerarsi fittiziamente interposta una società residente in un Paese a regime fiscale privilegiato che non sia soggetta ad alcun obbligo di


Tax & Legal tenuta delle scritture contabili ed in relazione alla quale lo schermo societario appare meramente formale e, per tale ragione, ben si può sostenere che la titolarità dei beni intestati alla società spetti in realtà al socio. E’ evidente, tuttavia, che la questione relativa alla nozione di interposizione non può essere risolta in modo generalizzato essendo direttamente connessa alle caratteristiche e alle modalità organizzative di ciascun soggetto interposto. Al verificarsi della fattispecie di interposizione fittizia, pertanto, in luogo del rapporto formale, prevarrà la realtà fattuale che vede nella persona fisica l’effettivo detentore dei beni intestati alla società estera interposta. Ne consegue che, una volta eliminato lo schermo societario fittiziamente interposto, il socio residente in Italia dovrà fare emergere gli asset detenuti all’estero come se fossero stati a lui direttamente riferibili mediante la voluntary disclosure internazionale, dichiarando al Fisco sia la consistenza di tali asset sia i redditi da essi derivanti (in funzione delle differenti categorie di reddito conseguite), provvedendo al versamento di tutte le imposte evase, dei relativi interessi e delle correlate sanzioni ridotte per effetto dell’adozione della procedura, così come le sanzioni previste per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale. Si evidenzia che tale circostanza si potrà verificare anche nell’ipotesi in cui una persona fisica residente in Italia detenga una partecipazione in una società residente in Italia o altre attività esistenti in Italia (per esempio gli immobili) per il tramite di una società estera meramente interposta. Anche in tale circostanza, infatti, nonostante le attività possano essere considerate “italiane”, le stesse, per effetto del soggetto interposto devono ritenersi detenute all’estero e per tale ragione suscettibili di regolarizzazione. Le Controlled Foreign Companies Da ultimo, ove non ricorrano ipotesi di residenza fittizia o di interposizione meramente formale in capo alla società non residente, l’ulteriore aspetto che merita di essere analizzato, al fine di una buona riuscita della voluntary disclosure, attiene alla verifica circa la possibilità che si renda applicabile alla società non residente la disciplina delle Cfc.

Tale speciale normativa antielusiva, disciplinata dalle disposizioni contenute negli articoli 167 e 168 del Tuir, prevede che se un soggetto residente in Italia detiene, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, il controllo, ovvero una partecipazione non inferiore al 20% degli utili di un’impresa, di un società o di altro ente residente in uno Stato a regime fiscale privilegiato, i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati per trasparenza ai soggetti residenti, in proporzione alle partecipazioni da essi detenute e soggetti a tassazione separata all’aliquota media Irpef a questi applicabile, in ogni caso non inferiore al 27%. Eventuali successive distribuzioni di utili dalla Cfc al socio residente sono esclusi dalla tassazione nei limiti dei redditi imputati per trasparenza e a condizione che abbiano già scontato l’imposta in applicazione del regime Cfc. Le imposte pagate all’estero sugli utili che non concorrono a tassazione sono ammesse in detrazione fino a concorrenza delle imposte pagate sui redditi imputati per trasparenza. Inoltre, a decorrere dal periodo d’imposta 2010, il regime di imputazione dei redditi per trasparenza è applicabile anche nel caso di partecipazioni di controllo in società estere residenti in Stati non a regime fiscale privilegiato, purché la tassazione effettiva estera sia inferiore al 50% della tassazione italiana e i redditi dalla società derivino per oltre il 50% da passive income. Ne deriva pertanto che il socio residente in Italia che intenda fare emergere e regolarizzare mediante la voluntary disclosure la partecipazione in una società non residente per la quale si rende applicabile la disciplina delle Cfc, oltre a dichiarare il valore di tale partecipazione per sanare le violazioni riguardanti il monitoraggio fiscale e versare le relative sanzioni in misura ridotta, dovrà necessariamente dichiarare tutti i redditi prodotti all’estero dalla società che, per trasparenza, dovevano essergli imputati e provvedere al versamento di tutte le relative imposte evase, degli interessi e delle correlate sanzioni ridotte per effetto della collaborazione volontaria. Detenzione di asset all’estero per il tramite di un trust non residente In linea generale, i disponenti e i beneficiari residenti in Italia di trust esteri discrezionali e irrevocabili, non interpo-

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sti, fino al periodo d’imposta 2012, non erano interessati dagli obblighi previsti dalla disciplina sul monitoraggio fiscale. Per tali soggetti, dunque, non si renderà necessario accedere alla voluntary disclosure. Nel caso in cui, invece, i beneficiari del trust estero fossero stati individuati (trust “non discrezionale” o “fixed trust”) e fossero persone fisiche residenti in Italia, questi ultimi avrebbero dovuto indicare nel quadro RW la quota di patrimonio del trust a loro riferibile. Pertanto, in caso di omissione di tale obbligo, tali soggetti possono attivare la collaborazione volontaria per sanare la loro posizione. Inoltre, a partire dall’anno d’imposta 2013, anche con riferimento ai trust, è stata introdotta la figura del “titolare effettivo” che di fatto ha ampliato la platea dei soggetti partecipanti ai trust (sia residenti che non residenti) tenuti al rispetto delle norme sul monitoraggio, pertanto anche per tali soggetti sarà possibile regolarizzare le eventuali violazioni commesse. In particolare, ai fini della regolarizzazione delle violazioni relative al monitoraggio fiscale, anche sulla base dei chiarimenti forniti dall’amministrazione finanziaria, potranno utilizzare la voluntary disclosure i beneficiari residenti di trust trasparenti non residenti, sulla base delle due differenti modalità di seguito evidenziate: >> con riferimento al periodo d’imposta 2013, se i beneficiari dei beni del trust non residente rientrano nella categoria dei “titolari effettivi”, dovranno fare emergere, dichiarandone il valore, tutti gli investimenti e le attività estere segregati nel trust, unitamente alla quota di patrimonio del trust ad essi attribuibile; invece >> con riferimento a tutti i periodi d’imposta accertabili alla data di presentazione della domanda di collaborazione volontaria, se i beneficiari dei beni del trust non residente non rientrano nella categoria dei “titolari effettivi” (e per i periodi d’imposta precedenti a prescindere da tale qualificazione) dovranno fare emergere, dichiarandone il valore, esclusivamente la quota di patrimonio del trust ad essi attribuibile. Inoltre, affinché la procedura abbia efficacia, dovranno essere corrisposte tutte le imposte, gli interessi e le correlate Invice Investment & Advice \ Marzo 2015


24 Tax & Legal sanzioni, derivanti dagli eventuali redditi prodotti dal trust estero trasparente in Italia e non dichiarati dai beneficiari residenti, oltre alla corresponsione delle sanzioni previste per le violazioni degli obblighi in materia di monitoraggio fiscale da parte degli stessi beneficiari. A tale riguardo si ricorda che i trust non residenti sono soggetti ad imposizione in Italia, in quanto considerati soggetti passivi ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. d), del Tuir, limitatamente ai redditi prodotti nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 23 del Tuir. Tale modalità operativa, valida nella generalità dei casi, potrebbe subire modifiche sostanziali per effetto del verificarsi di alcune ipotesi, specificamente legate alla tipologia del trust estero, che devono essere attentamente valutate al fine di un buon esito della voluntary disclosure. In special modo occorrerà verificare se il trust estero possa essere considerato revocabile, interposto ovvero esterovestito. I trust non residenti revocabili e interposti Ogniqualvolta si possa considerare il trust estero come un semplice schermo formale e la disponibilità dei capitali detenuti all’estero che ne costituiscono il patrimonio sia di fatto da attribuire ad altri soggetti, siano essi i disponenti o i beneficiari del trust, lo stesso deve essere considerato come un soggetto meramente interposto ed il patrimonio, nonché i redditi da questo derivanti, devono essere ricondotti ai soggetti che ne hanno l’effettiva disponibilità. Tale circostanza si verifica nel caso in cui il trust estero si qualifichi come “revocabile” o come “fittiziamente interposto”. I trust revocabili, secondo la definizione fornita dall’Agenzia delle Entrate con la circolare del 6 agosto 2007 n. 48/E, sono quelli in cui “il disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee o vincolati nel trust (nel caso in cui il disponente sia anche trustee), diritti che, con l’esercizio della revoca, rientrano nella sua sfera patrimoniale”. Sempre secondo l’opinione fornita dall’amministrazione finanziaria, tale tipologia di trust, non attuando un trasferimento irreversibile dei diritti e non prevedendo per il disponente una permanente diminuzione patrimoniale, ai fini delle imposte sui redditi non può essere considerato un Invice Investment & Advice \ Marzo 015

autonomo soggetto passivo d’imposta, di talché i suoi redditi devono essere tassati in capo al disponente. Tali considerazioni, riguardanti il trattamento fiscale dei redditi prodotti in capo ad un trust revocabile, valgono anche con riferimento ai casi in cui il trust sia considerato uno strumento meramente interposto. Infatti, non possono essere considerati validamente operanti, sotto il profilo fiscale, i trust che sono istituiti e gestiti per realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni e dei redditi. E’ il caso dei trust nei quali l’attività del trustee risulti eterodiretta dalle istruzioni vincolanti riconducibili al disponente o ai beneficiari. In buona sostanza, ci si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui le attività facenti parte del trust fund continuano ad essere a disposizione del disponente oppure rientrano nella disponibilità dei beneficiari, precludendo al trustee il pieno esercizio dei poteri dispositivi a lui spettanti in base al regolamento del trust o alla legge. Ne deriva che il disponente o il beneficiario residenti in Italia di un trust non residente, nel cui patrimonio sono segregati investimenti o attività finanziarie estere (o anche italiane), al fine di valutare l’accesso alla procedura di voluntary disclosure, devono appurare la possibilità che il trust estero si qualifichi, ai fini fiscali, come uno strumento fittiziamente interposto. In tal caso infatti, affinché la voluntary disclosure abbia efficacia, occorrerà fare emergere tutti gli asset segregati nel trust fund come se gli stessi fossero direttamente detenuti dal disponente o dal beneficiario, dichiarandone il relativo valore e ricostruendone tutti i corrispondenti redditi, i quali dovranno essere assoggettati a tassazione in capo al disponente o al beneficiario secondo i principi generali previsti per ciascuna delle categorie reddituali di appartenenza. I trust esterovestiti Da quanto descritto precedentemente emerge che i beneficiari residenti in Italia di un trust estero non interposto, non discrezionale ed irrevocabile (e, con esclusivo riferimento all’anno d’imposta 2013, i “titolari effettivi” dei beni intestati al trust), che non abbiano adempiuto agli obblighi in tema di monitoraggio fiscale, possono regolarizzare

tale violazione mediante l’utilizzo della voluntary disclosure internazionale. Anche in tal caso, tuttavia, occorrerà porre molta attenzione riguardo alla verifica della residenza fiscale del trust non residente, alla luce delle specifiche disposizioni tributarie previste a riguardo. Il rischio, infatti, è quello che il beneficiario, in occasione della voluntary disclosure, si veda riqualificare dall’Amministrazione finanziaria la residenza del trust istituito all’estero ritenendo che lo stesso debba essere considerato fiscalmente residente in Italia. A tal proposito si ricorda che, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del Tuir, così come per le società, si considerano fiscalmente residenti in Italia i trust che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede dell’amministrazione (place of effective management o sede di direzione effettiva) o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Nondimeno, si presumono fiscalmente residenti in Italia, salva la prova contraria, i trust istituiti in quei Paesi che non consentono un adeguato scambio di informazioni e in cui almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti in Italia. Si considerano, inoltre, residenti in Italia i trust istituiti in uno dei suddetti Stati non collaborativi quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente in Italia effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi. Orbene, al verificarsi di una delle suddette condizioni, sarà lo stesso trust fittiziamente istituito all’estero, nella figura del trustee (in qualità di soggetto tenuto ad assolvere tutti gli adempimenti fiscali del trust), che, una volta considerato fiscalmente residente in Italia dovrà attivare la procedura di voluntary disclosure al fine di regolarizzare le violazioni commesse sia in tema di monitoraggio fiscale si riguardo all’omessa dichiarazione dei redditi percepiti dal trust per tutti gli anni ancora accertabili. Giorgio Iacobone e Leonardo Reggio, CBA Studio Legale e Tributario


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Il parere dei professionisti Meno benefici rispetto al passato

Paradisi fiscali verso l’estinzione

La voluntary disclosure è una nuova forma di condono che si differenzia da quelle precedentemente previste dal legislatore per il fatto che le imposte dovute sull’evasione commessa negli anni pregressi vanno interamente versate. “Il beneficio, dunque, è noLORIS TOSI tevolmente inferiore a quello Studio Legale Tosi accordato in passato e opera esclusivamente sul piano della sanzioni amministrative e penali”, spiega Loris Tosi, partner dello Studio Legale Tosi. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? L’adesione alla voluntary disclosure, ovviamente, è facoltativa. Tuttavia, se il contribuente dovesse decidere di non avvalersene allora correrebbe il rischio di subire un accertamento (con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano delle sanzioni, ndr), anche sulle disponibilità detenute all’estero. E ciò per effetto degli accordi che l’Italia sta stipulando con gli altri Paesi (compresi alcuni ex “Paradisi Fiscali”, ndr) per favorire e rendere effettivo lo scambio di informazioni e, dunque, il controllo su scala internazionale. Ma la conseguenza più grave in cui può incorrere il contribuente che decide di non avvalersi della voluntary risiede, probabilmente, in una forte limitazione del potere di disporre delle proprie sostanze, poiché gli impieghi di denaro proveniente da reati (compresi quelli di natura fiscale e ancorché commessi molti anni fa e, dunque, nel frattempo prescritti, ndr) sono ora pesantemente puniti, a certe condizioni, come l’autoriciclaggio. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? L’Amministrazione, anche per effetto dei più recenti provvedimenti legislativi, dispone di un insieme di strumenti e tecniche di contrasto, anche a livello di Banche Dati, che ritengo adeguato rispetto alle esigenze di un Paese evoluto. E’ però importante che questi strumenti vengano effettivamente utilizzati e possano entrare a pieno regime. Ci sono rischi penali per chi aderisce? L’adesione, di per sé, non implica rischi penali per il contribuente. Tali rischi potrebbero però insorgere per via indiretta: o in danno di soggetti terzi che abbiano avuto rapporti economici, diciamo così, non trasparenti con il contribuente (e che quest’ultimo, per il tramite della voluntary finisce con lo “svelare” al Fisco, ndr) o per le società di cui il contribuente è socio o amministratore, nel senso che la presentazione della voluntary disclosure da parte di chi sia socio o amministratore potrebbe destare l’interesse del Fisco circa la provenienza dei soldi sottratti alla tassazione.

L’adesione alla voluntary disclosure non è di particolare interesse sotto il profilo economico se rapportato ai ridotti oneri previsti dai cosiddetti condoni varati in passato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. “Tuttavia tenuto conto della PAOLO OMODEO SALÈ evoluzione dei trattati bilateStudio Legale PosLex rali contro le doppie imposizioni, quanto allo scambio di informazioni su richiesta o in automatico in essi previsti art. 26, i cosiddetti paradisi fiscali sono ormai in estinzione e risulterà nel tempo assai difficile poter identificare delle nuove destinazioni attrattive ed oltremodo sicure sotto il profilo fiscale”, commenta Paolo Omodeo Salè, partner dello Studio Legale PosLex. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? L’opportunità offerta dalla rimodulazione delle sanzioni amministrative e della eliminazione di quelle più rilevanti di natura penale, rappresenta in modo sostanziale la quantificazione del rischio della non adesione alla voluntary disclosure con le conseguenti problematiche connesse anche all’effettivo rimpatrio delle somme esterovestite. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? Oltre ad un efficiente ed efficace scambio di informazioni finanziarie di ciascun contribuente che disponga di beni e redditi in un altro paese estero, diventerà sempre più operativa una effettiva collaborazione tra le amministrazioni finanziarie dei paesi Ocse e non solo attivando verifiche contemporanee con team misti di funzionari specializzati e preposti all’azione di contrasto dell’elusione e dell’evasione internazionale. Ci sono rischi penali per chi aderisce? L’adesione alla voluntary disclosure comporta sotto il profilo penale l’inapplicabilità di una parte significativa delle sanzioni previste dal D.Lgs. 74/2000. In particolare sono coperte dal provvedimento le seguenti fattispecie: - la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti o mediante altri artifici, di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione; - omesso versamento di ritenute certificate e di Iva; - riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita; - “autoriciclaggio”. Si ricorda, inoltre, che nel caso dei presupposti di applicazione delle norme penal-tributarie scatta il raddoppio dei termini per l’accertamento dei periodi d’imposta pregressi. Invice Investment & Advice \ Marzo 2015


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Non c’è spazio per gli automatismi

Non tutti i reati sono salvi

Il vantaggio principale sta nel poter utilizzare i capitali risparmiati e investiti all’estero. “C’è poi il beneficio di escludere il rischio di segnalazioni a ruota libera in materia di antiriciclaggio e di procedimenti penali per reati tributari MARA PILLA – commenta Mara Pilla, parStudio DTA tner di Dta - Per ripulire una posizione fiscale non del tutto trasparente e ricominciare il rapporto con il Fisco”. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? Chiunque potrebbe elencare una sfilza di illeciti e di reati a cui si espone chi non aderisca. Il punto non è tanto aderire o non aderire, quanto piuttosto l’azzardo di aderire in modo approssimativo. Si vocifera di strutture di advisoring già sul fronte del reclutamento di risorse umane da inserire nella catena di montaggio della procedura. Eppure, la voluntary è un procedimento di accertamento con adesione, con le criticità e le insidie del contraddittorio con l’Agenzia delle entrate e degli effetti della definizione sulla sorte fiscale delle annualità interessate. Non c’è spazio per automatismi. Il rischio è che la voluntary generi verifiche e contenziosi per dettagli sottovalutati, che daranno il destro all’amministrazione per innescare nuovi controlli. Non dimentichiamo che la voluntary non è un condono e non assicura le garanzie di un condono, nessuna annualità gode di copertura tombale. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? Nei controlli incrociati i passi in avanti sono stati enormi, sotto il profilo informatico l’amministrazione non può certo dirsi smarrita nel mare magnum del big data. Quanto a cooperazione internazionale e preparazione dei verificatori, lo stesso. La questione è che l’attività accertativa negli anni è cambiata: nel solco della lotta all’evasione, l’obiettivo si è spostato sul concetto di evasione interpretativa, evoluzione da un lato e degenerazione dall’altro, delle aperture legislative all’impiego della prova presuntiva. Aumenterà l’attività di riqualificazione di posizioni contrattuali, considerate simulate ai soli fini fiscali. La strategia difensiva non potrà essere né lineare né basata su mere opportunità di calcolo numerico. Ci sono rischi penali per chi aderisce? Le Procure della Repubblica, a definizione conclusa, riceveranno dall’Agenzia un fascicolo di informativa per ciascuna procedura. Un’analisi preliminare accorta e la predisposizione da parte del professionista di un dossier ad hoc per il previo contraddittorio con l’Agenzia serviranno a veicolare le informazioni in modo corretto nei contenuti e nella forma. Scatterà l’esclusione della punibilità per la maggior parte dei reati tributari nonché per riciclaggio e impiego di utilità di provenienza illecita. Per i profili di rilevanza penale, la mancata adesione comporterà il rischio delle segnalazioni d’iniziativa dell’amministrazione, senza il contributo che assicura un colloquio costruttivo con il professionista e senza esclusioni di punibilità.

“Uno dei principali vantaggi – spiega Alessandro Grassetto, partner Bernoni Grant Thornton – è rappresentato dalla copertura dalla contestazione di alcuni reati tributari, l’esclusione della punibilità per i reati tributari dichiarativi e l’omesso versamento di ritenute certificate e di Iva. ALESSANDRO GRASSETTO Studio Bernoni Grant Thornton Sempre sul versante penale, è esclusa la punibilità per il reato di riciclaggio, il reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e per il neo-reato di autoriciclaggio. Anche dal punto di vista amministrativo sono previste riduzioni delle sanzioni. Aderendo alla collaborazione volontaria il contribuente potrà disporre delle somme detenute all’estero”. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? In caso di qualsiasi attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali da parte dell’Amministrazione finanziaria, la non adesione alla procedura di collaborazione volontaria, comporterà l’impossibilità di poter beneficiare della non punibilità penale dei reati; della non punibilità dei reati e delle riduzioni previste per le sanzioni amministrative. Inoltre, ad accertamento avviato, il contribuente non potrà più proporre la domanda di disclosure. Inutile dire poi che il trasferimento degli importi illecitamente detenuti all’estero verso altri paesi “non collaborativi” comporta un maggior “rischio-paese” e quindi il pericolo di perdere l’intero capitale. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? È cambiato il contesto internazionale di riferimento. La legge n. 186/2014 si innesta all’interno di un rinnovato scenario in tema di contrasto all’evasione fiscale. La crisi economica-finanziaria ha fatto sì che il tema della lotta all’evasione fiscale subisse una decisa accelerazione. Al fine di contrastare questo fenomeno si sono proposte e attuate diverse convenzioni internazionali e in seno all’Ocse tese a “mettere nell’angolo” quegli Stati da sempre rifugio degli evasori di tutto il mondo. La Convenzione contro le doppie imposizioni che disciplina lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali, la Convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in campo fiscale e gli accordi bilaterali Fatca, lo scambio automatico dei dati finanziari messo a punto in ambito Ocse, e l’Ecofin del 9/12/2014 costituiscono i provvedimenti che hanno “costretto” le roccaforti del segreto bancario a scambiare informazioni. La voluntary disclosure rappresenta, probabilmente, l’ultima spiaggia per chi intenda regolarizzare la propria posizione e riappacificarsi col Fisco. Ci sono rischi penali per chi aderisce? Non tutti i reati tributari sono inseriti nella protezione della collaborazione volontaria, non essendo comprese l’emissione di fatture o altri documenti falsi, l’occultamento o distruzione di scritture contabili, l’indebita compensazione e la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte del D.Lgs. 74/2000. Non sono esclusi, inoltre, tutti i reati societari e i reati comuni.

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Sanzioni ridotte per frodi e reati fiscali L’approvazione del d.l. n. 4/2014 sulla voluntary disclosure induce, senza dubbio, ad alcune riflessioni sul rapporto tra la normativa antiriciclaggio e la procedura di collaborazione volontaria. Il problema, evidentemente, è un problema concreto, stante GIOVANNI BORGNA Studio Legale Borgna il fatto che, oggi, la normativa sulle segnalazioni contiene una nozione più ampia del tradizionale reato di riciclaggio, ricomprendendo anche i profitti derivanti dal risparmio illecito di imposte. “Il professionista coinvolto in una voluntary disclosure si troverà, quindi, a dover decidere, sulla base della normativa vigente, se procedere alla segnalazione di un’operazione sospetta – spiega Giovanni Borgna, partner studio legale Borgna - Il problema evidentemente è di ben più ampia portata, essendo afferente al delicato rapporto tra gli obblighi di riciclaggio ed il diritto di difesa, costituzionalmente garantito. A mio parere, nel caso di specie, non può che prevalere il diritto di difesa, anche in forza dell’esimente prevista dall’art. 12 del d.lgs. 231/2007, che prevede l’esenzione per le informazioni ricevute da un cliente o ottenute riguardo allo stesso nel corso dell’esame della posizione giuridica o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza del medesimo in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento, compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento. Peraltro, l’esenzione non può che valere per i soli professionisti che intervengono nella fase della voluntary disclosure e non anche per quelli che hanno prestato consulenza e pianificazione fiscale in fase precedente”. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? E’ probabile che banche e fiduciarie estere avranno tutto l’interesse a suggerire ai propri clienti soluzioni alternative, anche al solo fine di mantenere i capitali presso di sé. Quanto all’effettivo rischio di denuncia penale da parte delle autorità italiane nei confronti di tali soggetti, nonché ai reati astrattamente configurabili, ritengo che le condotte riconducibili a tali soggetti potrebbero rientrare in ampio alveo di fattispecie penali, tra le quali quelle di cui all’art. 648‐bis c.p. ovvero all’art. 648ter c.p., che, invero, lungi dall’essere concettualmente e funzionalmente distinte, sembrano piuttosto essere riconducibili a un’unica più ampia condotta, consistente nel compiere operazioni volte a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di beni o denaro o altre utilità, allo scopo di consentirne, alternativamente, il consumo o l’investimento. In questi termini, pertanto, le due fattispecie rappresenterebbero due aspetti dello stesso fenomeno e potrebbero opportunamente essere ricondotte nell’ambito di un’unica fattispecie. Ancor più si potrebbe ipotizzare la configurazione del reato di favoreggiamento reale di cui all’art. 379 c.p.. Tuttavia, in concreto, ritengo difficile, quanto meno sul piano

soggettivo (trattasi di delitti, per cui è prevista la punibilità esclusivamente a titolo di dolo), provare la sussistenza di tali delitti, in capo a soggetti stranieri, comunque difficilmente perseguibili. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? Il decreto legge in oggetto ha previsto, come effetto della procedura di collaborazione volontaria, l’esclusione della punibilità per i delitti di cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74/2000, mentre le pene previste per i delitti di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo decreto legislativo sono diminuite fino alla metà. Ciò sostanzialmente significa che, nella voluntary disclosure, a differenza di quanto era stato previsto nelle ipotesi di scudo fiscale, vengono meno soltanto l’omessa e infedele dichiarazione, mentre la frode e gli altri reati fiscali restano, anche se con previsioni sanzionatorie ridotte. Ci sono rischi penali per chi aderisce alla voluntary disclosure? Purtroppo il rischio di consulenze superficiali, in un mondo che ha fatto della specializzazione il suo punto di forza, è sempre elevatissimo. L’ipertrofia normativa e la settorialità non dovrebbero lasciare spazio ad una conoscenza generica che, proprio in quanto tale, il più delle volte di dimostra essere una non conoscenza effettiva. E, evidentemente, tutte le conseguenze di ciò non possono che ricadere sul cliente.

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Obiettivo: ridurre l’evasione fiscale

Richiesta di veridicità assoluta

Con la voluntary disclosure è possibile regolarizzare le attività patrimoniali o finanziarie illegittimamente detenute all’estero o in Italia, perché non dichiarate al Fisco. “In questo modo è possibile beneficiare di consistenti abANDREA ORABONA battimenti delle sanzioni fiMondini Rusconi Studio Legale scali dovute all’erario e l’esenzione dalla punibilità in sede penale per la commissione di determinati reati tributari, unitamente ai delitti di riciclaggio ed auto/riciclaggio”, commenta Andrea Orabona di Mondini Rusconi Studio Legale. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? In ipotesi di contestazioni mosse dalle Autorità, finanziaria o giudiziaria, il contribuente non potrà trarre beneficio dalla complessiva sanatoria sottesa alla voluntary disclosure, con il rischio di subire un procedimento giudiziario in sede penale per la commissione di eventuali reati strettamente connessi alla costituzione dei patrimoni o beni illecitamente detenuti all’estero o in Italia. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? È sempre auspicabile la predisposizione nel nostro ordinamento di maggiori mezzi di contrasto nella lotta alla criminalità economica, apparendo fortemente riduttiva la consueta introduzione di strumenti premiali per il contribuente, quali la voluntary disclosure o gli anteatti scudi fiscali, per ridurre o disincentivare il sempre più dilagante fenomeno dell’evasione fiscale. Ci sono rischi penali per chi aderisce? Pur aderendo all’istituto della voluntary disclosure, il contribuente potrà egualmente essere chiamato a rispondere per la commissione di determinate ipotesi di reato (esorbitanti dalla copertura della clausola di esclusione della punibilità prevista dalla L. 2014/186) tra cui, le assai gravi fattispecie di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D. Lvo 2000/74), occultamento e distruzione di documenti contabili (art. 10 D. Lvo 2000/74) e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 10 D. Lvo 2000/74).

La voluntary disclosure si inserisce, in un mutato quadro internazionale di maggiore collaborazione da parte dei paesi e istituzioni finanziarie, tradizionalmente rifugio di capitali, e l’amministrazione finanziaria italiana. “Viene in sostanza a cadere lo MARINELLA BALDI schermo fiduciario tra il sogForo di Milano getto fiscale italiano e il detentore del patrimonio all’estero – spiega Marinella Baldi, avvocato del Foro di Milano - Da qui l’utilità di definire le pendenze fiscali correlate alla formazione di provvista estera, con riduzioni nelle sanzioni amministrative e con la possibilità di esclusione di quelle penali”. Quali sono i rischi per chi decide di non aderire? Se viene accertata la violazione di norme tributarie in relazione ad investimenti e in genere ad attività finanziarie detenute all’estero e non dichiarate attraverso la procedura di voluntary disclosure non vi è più la possibilità di usufruire del regime di riduzione delle sanzioni e della non punibilità, in ipotesi di condotte che integrano gli estremi dei reati fiscali. Inoltre, nell’ipotesi in cui il contribuente utilizza in qualsiasi modo (“impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”) tali beni e denari, pone in essere la condotta del reato di autoriciclaggio che prevede la pena della reclusione da due a otto anni. L’azione di contrasto dell’amministrazione può trovare nuovi strumenti in futuro? Potremmo ritenere che, da un lato a possibilità di accedere alle informazioni sui movimenti dei capitali sia in Italia (attraverso il sistema di monitoraggio automatico dei conti correnti bancari, ndr) sia all’estero, attraverso la collaborazione tra istituzioni finanziarie e Fisco italiano e, dall’altro, l’introduzione del reato di autoriciclaggio nel nostro sistema penale, che, come visto, punisce il reimpiego dei denari frutto dell’illecito fiscale che assurge a reato, offrono all’Amministrazione finanziaria adeguati e sufficienti strumenti di indagine e contrasto al fenomeno. Soprattutto laddove si consideri che le Procure, sempre nell’ipotesi in cui viene contestato un reato fiscale, si avvalgono della misura cautelare del sequestro per equivalente dei beni del contribuente. Ci sono rischi penali per chi aderisce? La collaborazione volontaria prevede ed impone al contribuente un onere di veridicità assoluta sull’entità dei beni e denari detenuti all’estero, prevedendo anche una specifica condotta di reato laddove sia violato tale onere. Prevede, altresì, un onere di veridicità in merito alle modalità di formazione del patrimonio detenuto all’estero. Tali oneri di veridicità, laddove sussiste una obiettiva incertezza sull’effettiva area dello “scudo” offerto dalla collaborazione, portano a ritenere che sarà necessaria una attenta e delicata analisi giuridica di ogni singola fattispecie di progettata collaborazione. Profili problematici si individuano in particolare, nella mancata esclusione generalizzata di tutti i reati di matrice fiscale.

Invice Investment & Advice \ Marzo 015


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