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Il terreno non coltivato del cortile era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “mama” fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un gioco, una protesta, una lamentela, la merenda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse pan, buro e sucaro e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta. A Nord-Est un muro, alto meno di due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quel cortile. Non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A Sud-Est un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e poi sparirono del tutto. Ora che eravamo più grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini (specialmente la siora Cal****) protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa. Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No******* (Ico) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di un alto palazzo affacciato su Porta Padova, passava sotto le basse case sopra i garage e al successivo muretto (mureta) affacciati su Via Legione Gallieno,