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AUTRICE: Giada Scifo – Psicologa e Psicoterapeuta ANEB, in formazione continua presso la Scuola di Supervisione dell’Istituto ANEB
Un porto sicuro: l’esperienza di un Medico di Medicina Generale Giugno 2020 Le prime timide giornate di sole hanno ormai lasciato il posto ai primi veri caldi estivi e i momenti più duri della pandemia sembrano ormai essere parte di un ricordo lontano. Nell’aria c’è una grande voglia di libertà e spensieratezza anche se, intimamente, ciascuno ancora conserva uno stato di insicurezza verso il futuro. Un futuro che ha dimostrato di poter essere davvero imprevedibile. È sottile la linea tra il sentirsi ancora “dentro” e la speranza di esserne davvero “fuori”, tra la percezione di essere in pericolo e la nascita di un nuovo fragile senso di sicurezza. Non è così per Giulia, che dall’inizio della pandemia non ha mai smesso un solo giorno di sentirsi in pericolo e al tempo stesso ha dovuto essere fonte di sicurezza per chi le stava intorno. Giulia, infatti, è un medico di medicina generale di 40 anni e, come tutti i suoi colleghi, è stata per mesi il primo punto di riferimento per i pazienti, il primo porto sicuro al quale approdare, quello da cui partire quando la situazione si complicava. Non è sempre stato così. Spesso, negli anni, è stata considerata “solo un’erogatrice di ricette”, “una scribacchina”, mi dice. Negli ultimi mesi, però, quando i giornali e gli appelli politici invitavano a non recarsi in ospedale per non intasare il sistema, il ruolo di Giulia e dei suoi colleghi è cambiato, e con esso è profondamente cambiata la relazione tra medico e paziente. I medici di medicina generale, infatti, fin dai primi segnali di diffusione dell’epidemia si sono trovati a svolgere una doppia funzione: occuparsi, come di consueto, della salute fisica dei propri pazienti, e affrontare le loro paure e i loro dubbi relativi alla pandemia. Da sempre i medici di medicina generale rappresentano il primo contatto per tutti i cittadini, avendo all’interno del sistema sanitario la grande responsabilità di front office nei confronti dei loro assistiti, sia in termini
di gestione delle cronicità sia in termini di prevenzione. In occasione della pandemia, però, sono stati investiti di un carico emotivo straordinario. Per settimane si sono occupati di monitorare lo stato di salute dei loro pazienti riorganizzando la gestione delle visite in modo da tenere conto delle norme anti-contagio, limitando così i rischi per sé e per i propri pazienti e, più in generale, si sono trovati a riorganizzare completamente il proprio modo di lavorare. L’impossibilità di effettuare visite ambulatoriali e le difficoltà connesse ai consulti domiciliari hanno infatti inevitabilmente favorito la creazione di una comunicazione prevalentemente telefonica che, in breve tempo, ha trasceso i confini. Quando incontro per la prima volta Giulia, il suo sguardo stanco e sofferente mi racconta tutta la fatica e la paura dei mesi appena trascorsi. Mesi che l’incombere della stagione estiva sembra voler spazzare via, allontanare dai ricordi, proprio come quando ci si risveglia improvvisamente da un incubo e una luce accesa ci rassicura che è tutto finito, che si è trattato solo di un brutto sogno. Quell’incubo in cui Giulia vive da mesi non la lascia andare. L’estate, le ferie imminenti, il calo dei contagi non sembrano rassicurarla, ma le danno finalmente il tempo, lo spazio e la forza per rivolgersi al nostro sportello di ascolto psicologico. Ha trovato la locandina da qualche parte, non ricorda dove, e ha tentennato un po’ prima di autorizzarsi a chiamare. «Potevo ancora farcela, potevo ancora tenere duro». Sono mesi che se lo ripete. D’altronde sa di aver scelto lei questo lavoro, non se ne è mai lamentata, ed è felice di non aver seguito quell’idea di Ortopedia che è comparsa a un certo punto del suo percorso universitario. Medicina Generale le permette di avere una visione più globale dei suoi pazienti e del loro contesto sociale, un rappor-